Vol. 10, n. 2, ottobre 2024

TEORIE PEDAGOGICHE

Alberto Manzi: Un maestro di pedagogia militante

Maria-Chiara Michelini1

Sommario

Il presente saggio nasce con l’intento di ricordare e riscoprire la lezione di Alberto Manzi, di cui nell’anno 2024 ricorre il centenario dalla nascita. Scopo del contributo è quello di riflettere su una figura esemplare, che viene interpretata come depositaria di un messaggio ancora attuale e significativo. Gli scritti di Alberto Manzi, tutt’uno con le sue numerose esperienze, da quella come maestro volontario nelle regioni andine a quella delle note trasmissioni televisive, testimoniano una coerente e nitida concezione pedagogica, fondata sull’inscindibile intreccio tra teoria e prassi. La sua idea di scuola, in particolare, suggerisce il carattere militante della sua pedagogia, che si esprime sia sul piano teorico che nelle scelte operative. Una visione pedagogica rivoluzionaria e autenticamente politica, che considera compito dell’educare quello di formare cittadini capaci di pensiero e, quindi, liberi rispetto alle logiche dominanti e omologanti. In questo senso, egli ritiene che la vera trasformazione necessaria alla scuola sia quella di divenire scuola di pensiero. Il progetto di Manzi è, dunque, attuale e rivoluzionario, in quanto si configura come progetto di liberazione dell’uomo, come promozione di una cultura e di una scuola capaci di una formazione profonda e democratica, da realizzarsi, innanzitutto, attraverso l’educare al pensiero.

Parole chiave

Alberto Manzi, Maestro, Pedagogia, Scuola, Educare a pensare.

PEDAGOGICAL THEORIES

Alberto Manzi: A teacher of militant pedagogy

Maria-Chiara Michelini2

Abstract

This essay aims to remember and rediscover the lesson of Alberto Manzi, whose birth centenary falls in 2024. The purpose of the contribution is to reflect on an exemplary figure who is interpreted as the depository of a message that is still topical and significant. Alberto Manzi’s writings, in unity with his numerous experiences, from that as a volunteer teacher in the Andean regions to that of the well-known television programs, testify to a coherent and clear pedagogical conception, founded on the inseparable intertwining of theory and praxis. His idea of school suggests the militant character of his pedagogy, expressed both theoretically and in his operational choices. A revolutionary and authentically political pedagogical vision that considers education’s task to be that of forming citizens capable of thought and, therefore, free from the dominant and homologizing logic. In this sense, he believes that the real transformation necessary for the school is to become a school of thought. Manzi’s project is, therefore, current and revolutionary, in that it is configured as a project for the liberation of human beings, as the promotion of a culture and a school capable of a profound and democratic formation, to be achieved, first and foremost, through educating to think.

Keywords

Alberto Manzi, Teacher, Pedagogy, School, Educating to think.

Introduzione

Il 2024 è l’anno del Centenario dalla nascita di Alberto Manzi. L’occasione è stata colta in moltissime sedi per ricordare e riscoprire la sua figura di maestro e scrittore innovativo, infaticabile, fortemente caratterizzato in senso pedagogico, oltre che molto noto a tutto il pubblico principalmente per la trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi con la quale, a partire da un’idea dell’allora direttore generale della Pubblica Istruzione Nazareno Padellaro, grazie al carisma originalissimo di Manzi, prese vita un’esperienza importante che contribuì non poco a superare l’analfabetismo di tantissimi adulti. L’intendimento di questo contributo non è quello di presentare la sua figura in maniera esaustiva, né, ancor meno, di celebrarne retoricamente il profilo. Lo scopo è invece quello di portare un contributo di riflessione attiva e critica su una figura esemplare che, riteniamo, sia opportuno ripensare e reinterpretare, come depositaria di un messaggio ancora vivo e significativo per l’educazione oggi. In tal senso Alberto Manzi, come altri maestri, può essere considerato una guida, un interlocutore attivo, che può sostenerci nella ricerca di attribuzione di significato all’agire pedagogico nel presente e in vista del futuro, suggerendo piste di ricerca attuali e valide.

Un chiaro progetto rivoluzionario

Nella cornice introduttiva sopra descritta, il titolo stesso del contributo, Un maestro di pedagogia militante, intende partire dal tentativo di risposta a una domanda apparentemente ingenua, se non retorica, circa l’essere stato Alberto Manzi un maestro o un pedagogista. Secondo Farnè (2021, p. 184), intenzionalmente Manzi non ha lasciato alcun volume relativo al suo metodo didattico, in quanto non voleva essere un modello, ma è stato riconosciuto come maestro. Certamente, Manzi è stato anzitutto un maestro elementare, che ha svolto il suo lavoro per oltre trent’anni in varie realtà. Quella da lui considerata più difficile e formativa si è svolta nel carcere minorile «Aristide Gabelli» di Roma, dove venne mandato e dove riuscì a coinvolgere ragazzi molto difficili, se non oppositivi, a creare un giornale, utilizzando espedienti e provocazioni di varia natura, dalla scazzottata iniziale con il capetto, alle matite introdotte nel penitenziario nascondendole nei calzini.3

Quella che lo ha reso più famoso è stata la trasmissione già menzionata, in cui ha saputo creativamente inventare l’uso di un mezzo come la televisione dei primi anni, per l’alfabetizzazione di moltissimi adulti che si ritrovavano appositamente e spontaneamente nei bar, nei circoli, nelle parrocchie, dove c’era un televisore (non ancora presente in tutte le case). Invenzione fatta di disegni con gessetti neri (che rovinavano le camicie, per cui, come unico compenso, Manzi riceveva un’indennità camicie di 2.000 lire al giorno), di valorizzazione di una grande capacità comunicativa, di attivazione di quello che era il suo metodo di lavoro nelle «normali» aule scolastiche, basato sulla circolarità e reciprocità fra esperienza, pensiero e linguaggio. Invenzione che creò un movimento per il quale si formarono spontaneamente moltissimi gruppi di persone che, sollecitate dal suo metodo di lavoro, si ritrovavano e imparavano insieme a leggere e a scrivere. Maestro volontario in Sudamerica, dove si recò spesso, d’estate, a insegnare a leggere e scrivere a contadini analfabeti nelle regioni andine, manifestando una passione educativa di grandissimo spessore, tanto più in considerazione delle situazioni difficili e rischiose che condivise con loro.4

È altrettanto chiaro che una figura così netta e coerente induce a considerare l’appellativo maestro in un’accezione alta per indicare il conoscitore profondo del sapere dell’educazione, posseduto integralmente, così da poterlo insegnare agli altri nella maniera più proficua, ma estesa alle accezioni che esulano dalle aule scolastiche e hanno a che fare con l’arte, con la capacità di innovare certe pratiche in maniera esemplare, tracciando sentieri originali e inediti. Magister, nel senso etimologico, come colui che è capace di dare di più (magis), tre volte (ter), vale a dire più profondamente.

Alberto Manzi è stato certamente un maestro, un grande maestro, ma lo è stato in virtù di una concezione pedagogica altrettanto alta e chiara che egli ha saputo tradurre in maniera unica ed esemplare nel suo ampio e variegato esercizio dell’attività educativa. Nei suoi scritti pedagogici (pochi), nei testi dattiloscritti delle conferenze tenute in varie sedi, nell’ultima, nota intervista a Roberto Farnè del 13 giugno 1997, è palpabile la concezione pedagogica profonda e chiara che lo ha ispirato e che egli ha tradotto in ogni azione educativa.5

Tale concezione esprime costantemente un intreccio esemplare e inscindibile tra teoria e prassi, su cui torneremo e che rappresenta già di per sé il modello teorico fondamentale di riferimento. Il titolo del contributo suggerisce l’accezione in cui intendere la magistralità di Manzi, che è un maestro di pedagogia militante. È, al presente e non al passato, in quanto la visione pedagogica, espressa sia sul piano teorico che nelle scelte pratiche, sollecita alla militanza, spingendo fortemente nel senso dell’impegno instancabile e pieno chi voglia ancora operare in campo educativo, da qualsiasi versante egli si ponga, più squisitamente teorico o operativo.

L’attualità risiede proprio nel carattere militante della sua pedagogia, proiettata, in tal senso, oltre la contingenza del suo tempo. Non a caso la parola rivoluzionario è molto presente nella sua visione personale della scuola. La sua è un’autentica concezione di lotta, che invoca la trasformazione, intesa in senso totale, ben lontana da logiche di semplici ritocchi, come dirà lui stesso. La rivoluzione come evento normale, continuo, e al tempo stesso radicale, che trasforma le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo, la compiacenza, l’idolizzazione di sé.

Voglio far sorgere nei giovani la coscienza dei problemi (coscienza, non solo conoscenza), far sapere loro che esistono certi problemi e che ognuno di noi è chiamato a risolverli. In fondo scrivo perché sono un rivoluzionario, inteso nel senso profondo della parola. Per cambiare, per migliorare, per vivere pensando sempre che l’altro sono io e agendo di conseguenza, occorre essere continuamente in lotta, continuamente in rivolta contro le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo. La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, dell’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare. Gli altri sono io. Agire per realizzare questo principio… (Manzi, 2014b, pp. 208-209).

Come si evince da questo breve testo, che trova riscontro in tanti altri passaggi, il profilo rivoluzionario è imprescindibile dal suo pensiero e dal suo fare. Per Manzi, educare significa lottare contro l’ordine costituito, contro tutti i condizionamenti e le facili idolizzazioni, ben sapendo che tendiamo ad abituarci, anzi a incrostarci e fossilizzarci nel già noto, rischiando la facile compiacenza e, soprattutto, di non riuscire a formare persone libere capaci di pensare, di partecipare attivamente al destino umano, di essere se stesse.

La necessità della rivoluzione percorre essenzialmente due strade. La prima investe direttamente la scuola, la seconda riguarda l’educazione del pensiero. Per quanto concerne il primo aspetto, Manzi, nel documento dattiloscritto Perché della necessità di una trasformazione, reso disponibile dalla fondazione a lui intitolata, si esprime espressamente sulle ragioni che rendono necessaria una trasformazione, a partire dall’interrogativo circa la capacità della scuola di rispondere alle esigenze della società del suo tempo e, conseguentemente, si domanda che cosa ci sia di valido e che cosa non abbia funzionato nella scuola.

La risposta parte dalla considerazione degli effetti negativi di quella che egli chiama espressamente cultura di massa, che non ha favorito la libertà degli individui, il senso di consapevolezza del proprio impegno, di responsabilità collettiva, di spirito d’iniziativa, di libertà. Al contrario, egli dice che la massa è caduta in una trappola dove gli individui sono costretti a rimanere per difendere certe situazioni di potere. Ciò è avvenuto perché istruzione e informazione sono state dispensate come oggetti da possedere, da consumare, non come stimoli che aiutano e sollecitano lo sviluppo delle capacità personali. In questo modo le persone, prive degli strumenti necessari, sono costrette a conformarsi a una cultura prestabilita. Questo stato di cose è reso possibile dalla mancanza di preparazione psicopedagogica da parte degli insegnanti e dall’apertura dei medesimi ai campi pratici in cui l’oggetto dell’insegnamento viene esercitato da esperti.

In questa serie di considerazioni, sinteticamente riportate, Manzi manifesta l’idea di scuola che lo anima, una scuola che forma persone capaci di libertà rispetto alle logiche dominanti e, per fare ciò, attrezzate dalla scuola in senso non meramente strumentale, ma autenticamente formativo. In tal senso la scuola deve farsi rivoluzionaria, perché volta a formare persone originali, che sanno sfuggire alle trappole che vorrebbero determinarne il destino e le capacità. Una visione pedagogica rivoluzionaria e autenticamente politica, in cui la funzione dell’educare viene interpretata nella sua dimensione alta e non meramente funzionale al sistema dominante, esige pertanto una competenza elevata da parte dei docenti e la loro apertura alle esperienze che si svolgono nei settori in cui il sapere vive, cresce, si traduce in operatività.

Il compito di prima alfabetizzazione degli adulti da lui raggiunti con il mezzo televisivo, e in diversa maniera per quanto riguarda le popolazioni andine, viene autenticamente inteso come percorso necessario all’esercizio della cittadinanza, non limitandosi alla mera dimensione strumentale. In questa visione, coerentemente espressa in tanti passaggi e in tante differenti esperienze, intercettiamo l’assunzione consapevole della migliore tradizione pedagogica democratica, a cui Manzi non ha mancato di fare esplicito riferimento. Dichiarerà di averle provate tutte per cercare di trasformare questa benedetta scuola, nel rispetto del bambino, perché questo è il punto fondamentale. E si domanda per quale motivo la scuola ignori gli studi di Piaget, di Vygotskij e di altri sulla formazione del concetto. Si sente considerato strano da tutti i suoi colleghi se dichiara di dovere agire in un certo modo per sollecitare la formazione di un concetto scientifico nel bambino.

Le seconda strada percorsa per la rivoluzione, con estrema determinazione e con grande chiarezza, è quella che porta la militanza al cuore dell’educazione: l’educazione a pensare (che sarà anche il titolo di un ciclo di tredici trasmissioni televisive di formazione didattica rivolte agli insegnanti).

In molti modi Manzi sfugge le etichette, le scorciatoie, le mode, nonostante la sua enorme modernità (si pensi all’uso della TV come mezzo educativo), non perché non ne riconosca la validità, ma perché non cede di un passo all’imperativo categorico kantiano dell’imparare (e insegnare) a pensare. Solo trasformando la scuola in scuola di pensiero si realizzerà la rivoluzione da lui invocata assumendo il compito autentico dell’educare. Sempre nel documento dattiloscritto Perché della necessità di una trasformazione troviamo un passaggio particolarmente incisivo: «per trasformare questo stato di cose occorre che si attivizzi l’intelligenza (corsivo nostro), pertanto occorre realizzare un nuovo umanesimo culturale e questo può scaturire solo da una solida base scientifica che fa da supporto e al tempo stesso si amalgama alla formazione umanistica».

La precisione dell’obiettivo (l’educazione al pensiero) si fa tutt’uno con l’idea di scuola di chiarissima impronta deweyana. Negli appunti dattiloscritti per la conferenza del 29 marzo 1996 a Genova-Ulivo, sul tema: È utile mandare un bambino alla scuola materna o no?, nell’esprimere una forte critica all’eccessiva sollecitazione informativa dei bambini, perché più ricettivi degli adulti, Manzi afferma testualmente: «Allora occorre che la scuola diventi scuola di pensiero, non scuola per educare a pensare, ma scuola dove si pensa. Questa è la vera rivoluzione che occorre perseguire, rivoluzione intesa come trasformazione totale, non ritocchi».

Il richiamo spontaneo va a Il mio credo pedagogico di Dewey, precisamente all’art. 2 Cos’è la scuola: «l’educazione è, perciò, un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro». L’eco di una scuola non preparatoria alla vita, ma luogo di vita stessa, si avverte in tutta la sua forza e, come sappiamo, si tradurrà metodologicamente in un corredo articolato e coerente di strategie volte, appunto, a rendere l’attività didattica occasione di esercizio del pensiero da parte dell’allievo. Gli esempi rintracciabili nei documenti e nelle interviste sono molteplici e ci mostrano un maestro la cui originalità e inventiva scaturiscono non già dall’esercizio fantasioso di tecniche, quanto dalla determinata intenzione in vista dell’obiettivo di formazione del pensiero delle giovani generazioni, attraverso le strategie di volta in volta più idonee.

Queste devono essere mirate a creare, dentro la scuola, tensione cognitiva, una curiosità che spinge i bambini a voler sapere, cercando e trovando risposte ai quesiti. Molte risposte sorgono in esperienze spontanee e il bambino se le dà da solo, sulla base di libere interpretazioni o di fantasie o cercando nella propria «enciclopedia» personale di conoscenze. La competenza didattica dell’insegnante sta nel «fare vivere» ai bambini un problema, mettendolo in crisi, creando una condizione di difficoltà a cui reagire con il bisogno di trovare una soluzione o una risposta adeguata. L’insoddisfazione induce il bambino a riesaminare le sue conoscenze sull’argomento e a correlarle al problema in modo da comprendere in maniera più analitica quello che conosceva in modo sommario. Si tratta di insegnare a «vivere un problema», invertendo la tendenza contemporanea a proteggere il bambino, evitandogli di trovarsi in difficoltà, anticipando soluzioni e risposte, prevenendo esperienze che possono generare qualche «disagio».

Convincimento di Manzi, con esplicito riferimento ad autori come Vygotskij e Bruner, è che sia necessario creare e dosare esperienze protette, caratterizzate da qualche rischio o difficoltà, dalla necessità di fare ricorso a un certo sforzo o dalla ricerca di qualche soluzione imprevista. Anche in questo caso sembra fare eco alle parole di Dewey dell’art. II de Il mio credo pedagogico: «Compito dell’insegnante è semplicemente quello di determinare, sulla scorta di un’esperienza più grande e di una più matura saggezza, come la disciplina della vita dovrà giungere al ragazzo».

La sua concezione unitaria e coerente intitolata alla tensione cognitiva lo porta a individuare la discussione come strumento cardine, se utilizzato sistematicamente a partire dall’affermazione di un ragazzo, ascoltando la quale gli altri esprimono ognuno la propria ipotesi su un certo fenomeno, procedendo a discutere i punti di vista e le loro evoluzioni. Questo discutere insieme, che non durava in genere più di venti minuti, portava i ragazzi a rivedere quello che loro sapevano, o credevano di sapere, obbligandoli in un certo senso a parlare e ad ascoltare gli altri esprimere le proprie opinioni (su non è mai troppo tardi).

Punto di partenza è costituito da un’idea di allievo come essere pensante, da ascoltare per capire ciò che egli sa già, per avere punti di riferimento attendibili nell’agire didattico. Un’idea che sposta l’asse metodologico dalla ripetizione e trasmissione meccanica di concetti alla centralità dell’allievo nei processi di apprendimento, per realizzare una cultura che sia formazione totale dell’individuo. Nel dattiloscritto Appunti scuola, problemi dei bambini ci sono passaggi, in questo senso, estremamente significativi: «Si è perso tempo a inventare modi nuovi per dire cose vecchie. La vera trasformazione della scuola è di trasformarla in scuola del pensiero. Questo va fatto in difesa del bambino. […]

Il problema vero è di realizzare una scuola che aiuti lo sviluppo del pensiero. Detto in parole più semplici: che aiuti a pensare (anche se uno pensa già: diciamo aiutarlo a un pensiero più profondo)».

Educare alla miglior forma di pensiero, potremmo dire con Dewey, il pensare come un’arte, quello che ci consente di estrarre l’elemento intelligente dalla nostra esperienza (Dewey, 1933).

Se non avremo aiutato i bambini di oggi a saper pensare in modo più profondo, ad aver sempre desto il proprio senso critico, se non avremo insegnato loro a parlare e ad ascoltare, ma ad ascoltare veramente, il che significa mettere a confronto le proprie idee con quelle degli altri, per ampliare, modificare, annullare senza pregiudizio, allora saranno, come oggi, in balia di coloro che delle parole fanno fumo per non far vedere e non far capire: allora saranno, come molti oggi sono, fantocci di chi con qualsiasi mezzo, parola, immagine, tenta di manovrarli per avere potere. La trasformazione della scuola deve dare la possibilità all’uomo di vivere da uomo, dobbiamo ridare al bambino ciò che gli è stato tolto: il rispetto. Dargli la possibilità di capire che quel che conta non è l’avere, ma l’essere. Essere veramente uomo (Dal dattiloscritto Conferenza di Genova È utile mandare un bambino alla materna o no?).

Nell’ultima intervista a Farnè, parlando dell’esperienza che lo vide coinvolto nella commissione Falcucci incaricata di elaborare i nuovi programmi della scuola elementare, affermò che le premesse pedagogiche andavano bene, ma non era coerente il passaggio delle indicazioni didattiche fornite, per cui, secondo Manzi, ne venne fuori fu un’idea della scuola che accontentava un po’ tutti: sia il maestro che vuole fare della scuola la scuola del pensiero, sia quello che facendo vedere ai bambini una serie di cartoline illustrate è convinto di spiegare la geografia. Manzi dimostra una visione chiara del peso della coerenza tra i piani pedagogico e didattico per la reale possibilità di cambiamento. In questo senso il suo contributo è davvero significativo e attuale. Molte volte nella storia della scuola i grandi pronunciamenti di principio, non coerentemente tradotti sul piano operativo, sono rimasti lettera morta e tante mode didattiche, enfatizzando tecniche innovative, si sono rivelate sterili, incapaci di incidere davvero sulla formazione delle giovani generazioni.

Questo intreccio tra senso politico dell’educazione al pensare in modo più profondo, autentica considerazione della centralità del ruolo dell’allievo nel processo di apprendimento, ruolo e ripensamento della scuola come scuola di pensiero, consapevolezza delle sfide culturali all’orizzonte, strategie metodologiche coerenti caratterizzano, nel loro insieme, il progetto rivoluzionario di Manzi. Sarebbe, quindi, del tutto riduttivo estrapolarne un singolo aspetto e assumerlo come unica chiave di lettura. Il progetto di Manzi è rivoluzionario per il suo essere a tutto tondo progetto di liberazione dell’uomo come realizzazione di una cultura e di una scuola capaci della sua formazione totale, attraverso quella del pensiero profondo di ciascuno. In tal senso anche il suo stile di lavoro, il suo metodo, intendendo tale espressione in senso lato, non può essere estrapolato dalla concezione globale che lo ha ispirato, evidenziando grande coerenza di stile in tutto il suo operato, che si tratti della sua esperienza nel carcere, o in quella nelle classi di scuola elementare o in quella televisiva, intreccio solidissimo tra teoria e prassi, dentro una visione alta dell’uomo, dell’educare, del partecipare alla vicenda umana.

Libero pensatore, produttore di cultura

Questa concezione chiarisce e definisce il profilo di Manzi, maestro, pedagogista, ma, essenzialmente, libero pensatore, cane sciolto come lo definì l’allora ministra Falcucci, che cercava di scoprirne l’appartenenza in seno alla commissione incaricata di definire i nuovi programmi per la scuola elementare.6

Negli appunti dattiloscritti per una conferenza a Orbetello (6 giugno 1997), dal titolo Una metodologia didattica per l’educazione interculturale, Manzi si domanda: ma cosa è cultura? E cosa è intercultura?

La sua risposta si articola tra gli oggetti, i modi di fare e le esperienze delle popolazioni andine, tra la raccolta delle piante, i giocattoli contesi tra due bambini, lo sguardo dell’adulto che dice no. Tutto ciò per dire che cultura è il contrario di pre-giudizio, giudizio che viene prima di conoscere, di apprendere nel senso profondo della parola, del capire veramente, formandosi un concetto chiaro su un determinato problema, a partire da una profonda conoscenza diretta o indiretta. In tal senso la cultura è offrire occasioni per crescere insieme, discutere insieme, eliminare pregiudizi, appunto, e la scuola non può che essere il luogo privilegiato in cui ciò si realizza quotidianamente.

Un libero pensatore, dicevamo, ma con le sue parole del dattiloscritto Appunti scuola, problemi dei bambini: «Libertà non è solo dire e fare quel che ci piace, ma anche assumersi le responsabilità del bene comune. È esercitare il diritto di non sopportare la violenza che ci opprime sotto qualunque forma. Libertà e rispetto della dignità umana». I molti episodi che lo vedono protagonista libero di scelte, che spesso gli procurarono provvedimenti disciplinari, confermano questo tratto inequivocabile e insopprimibile. Manzi rispondeva a un altissimo senso dell’idea di bene comune e di libertà da ogni limitazione del rispetto che si deve alla dignità e alla pienezza dell’essere umano. Un episodio significativo riguarda la programmazione settimanale della trasmissione televisiva a cui stava lavorando, concordata con la direttrice e la regista, le quali ascoltavano gli argomenti proposti da Manzi e proponevano le loro idee che Manzi accettava o meno, in tutta libertà. In quel contesto non venne mai obbligato a fare una scelta che non condividesse, unica eccezione fu quando uccisero Kennedy. In quel caso lo obbligarono a non parlarne per non dare fastidio a qualcuno, sul piano diplomatico…; nel raccontare la cosa, il suo commento è emblematico: «E io, obbediente, ne parlai subito la sera stessa. Il fatto era accaduto poco prima della trasmissione e io ho sempre pensato che a scuola si deve parlare di quello che sta accadendo nel mondo» (Farnè, 2024, p. 167).

La libertà di pensiero rappresenta per Manzi un imperativo categorico, in quanto coincide perfettamente con l’idea di uomo e con l’obiettivo che egli assegna all’educazione di ogni persona, obiettivo da difendere, da militante, consapevole delle derive in atto. Manzi, infatti, negli stessi Appunti scuola, problemi dei bambini afferma: «[…] L’uomo sta diventando un osservatore passivo della sua cultura, anziché un produttore di essa». In molti passaggi dei suoi scritti si delinea la sua visione critica del clima culturale in cui vive e del fatto che il medesimo vada arginato in maniera massiccia e consapevole. Da questo punto di vista la sua è una concezione politica dell’educare, come processo che, in quanto tale, esige esercizio della libertà, per educare alla libertà.

Militante in quanto disobbediente

La disobbedienza di Manzi ai sistemi da lui considerati ingiusti è un elemento estremamente noto. La famosa vicenda del rifiuto reiterato ad attribuire valutazioni agli studenti compilando in tal senso le pagelle lo ha portato al consiglio di disciplina, con l’accusa di omissione di atti d’ufficio. Agli ispettori incaricati del suo caso, motivava che c’era stato qualcuno che aveva detto che non è l’uomo fatto per la legge, ma è la legge fatta per l’uomo. In tal senso si dichiarava al servizio dei ragazzi e non al servizio della scheda, considerando il suo lavoro quello di aiutare il bambino e non di aiutare lo Stato a fare gli atti d’ufficio.

Alla loro obiezione circa il dovere di fare l’uno e l’altro ribadiva il principio da cui partiva, ovvero che il suo aiuto allo Stato consisteva nell’aiutare il bambino. Per ben otto volte finì sotto il consiglio di disciplina, gli venne sottratto lo stipendio per quattro mesi, perché il suo ricorso non era giuridicamente esatto, fino al famoso timbro con cui tentò di aggirare l’ostacolo, rimanendo fedele ai propri principi: «Fa quel che può. Quel che non può, non fa», giustificandolo come scientificamente esatto, preciso e inconfutabile. Di qui la denuncia alla Procura della Repubblica, il cui giudice gli consigliò di scrivere lo stesso giudizio a mano, anziché con il timbro, per evitare una percezione di presa in giro. Potremmo dire uno spirito indomito, troppo forte era in lui la chiarezza del senso dell’educare e dell’agire educativo, che mai può scollarsi, anche in misura minima, dal piano delle finalità e dei valori ispiratori. In tal senso, davvero, il suo essere maestro di pedagogia militante conserva intatta tutta la sua forza di esempio e di passione educativa, tanto più in tempi in cui, con una certa facilità, si indulge all’allineamento con le esigenze del mercato, con la prevalente cultura neoliberista che piega alla logica della performance anche le scelte strategiche e didattiche.

Un senso civico della disobbedienza che lo vede apertamente critico nei confronti del potere. Si pensi, in particolare, alla Lettera al signor Gonella, Ministro della Pubblica Istruzione sulla condizione degli insegnanti, anch’essa dattiloscritta, con anche correzioni manuali:

M’ascolti onorevole e non mi stia in cagnesco. […] Lei dà a questi uomini dai quali dipende il destino e la fortuna delle Nazioni uno stipendio di fame. […] Ci pensi, onorevole, ma ci pensi veramente. E durante il Suo faticosissimo lavoro si rammenti ogni tanto di quei ragazzi di Piazza S. Cosimato e di quella mamma. […]. Ed allora a nulla varrà esser gli eredi di una civiltà millenaria: a nulla varranno i ritardatari argini da erigere dopo lo straripar dei fiumi e lei dovrà con tutta contrizione battersi il petto ed esclamare: «Mea culpa!».

Ci pensi onorevole prima che sia troppo tardi; ci pensi prima che questi modesti uomini — ma quanto grandi! — che donano tutto di se stessi alla scuola si stanchino e l’abbandonino!

Considerazioni conclusive

Complessivamente intesa la lezione del maestro Manzi è davvero una consegna di lavoro: per educatori, pedagogisti, politici. Consegna quanto mai attuale di militanza, di lotta, di lungimiranza, di autenticità per la libertà e per l’educazione alla libertà. Una consegna che trova nella scuola come spazio di esercizio del pensiero per l’educazione al pensiero il suo perno. La consegna, dunque, a Fare Comunità di Pensiero (Michelini, 2016) rappresenta la risposta pedagogica e educativa alle spinte sociali che, oggi come negli anni di Manzi, muovono nella direzione del condizionamento, dell’omologazione, dell’appiattimento. L’invocazione ai politici che evitino l’abbandono delle migliori menti in campo educativo e pedagogico profila un grave rischio per il futuro, anche per il nostro futuro. L’auspicio è che questa lezione risuoni nel suo significato e venga ascoltata ancora oggi.

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Manzi A. (1997), Una metodologia didattica per l’educazione interculturale, Appunti dattiloscritti per la conferenza a Orbetello del 6 giugno 1997, https://www.centroalbertomanzi.it/wp-content/uploads/2019/03/CentroAlbertoManzi-educazione-interculturale.pdf. (consultato il 13 giugno 2024).

Manzi A. (2005), E venne il sabato, Iesa (SI), Gorée.

Manzi A. (2011), Grogh, storia di un castoro, Milano, RCS.

Manzi A. (2014a), Tensione cognitiva. Un’antologia di scritti di Alberto Manzi sull’educazione scientifica. Introduzione di R. Farné, Centro Alberto Manzi.

Manzi A. (2014b), Questo mi mette in imbarazzo. In G. Manzi. (a cura di), Il tempo non basta mai. Alberto Manzi: una vita tante vite, Torino, Add Editore, pp. 207-210.

Maraini D. (2021), La scuola ci salverà, Milano, Solferino.

Michelini M.C. (2013), Educare il pensiero. Per la formazione dell’insegnante riflessivo, Milano, FrancoAngeli.

Michelini M.C. (2016), Fare Comunità di pensiero. Insegnamento come pratica riflessiva, Milano, FrancoAngeli.

Sani R. (2003), Maestri e istruzione popolare in Italia tra Otto e Novecento, Milano, Vita e Pensiero.


  1. 1 Professore Associato in Pedagogia Generale e Sociale M-PED/01, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo.

  1. 2 Associate Professor in General and Social Pedagogy M-PED/01, University of Urbino Carlo Bo.

  1. 3 «Per un intero mese io entravo e loro non mi rivolgevano la parola, non mi guardavano, mettevano la faccia contro il muro e io parlavo, parlavo, raccontavo, portavo il giornale, leggevo… geografia, scienze, storia… niente. Poi pensai che dovevo trovare il modo di rompere quel muro e così cominciai a raccontare, inventandomela, una storia di castori che cercavano la libertà. Vedevo che loro mi seguivano e così sono andato avanti per un po’ di giorni e poi ho detto: “Se la volete questa storia, allora scriviamola, perché io altrimenti non me la ricordo più”» (Farnè e Manzi, 2017).

  1. 4 Questa esperienza educativa è stata trasposta da Manzi sul piano narrativo in tre romanzi di ambientazione sudamericana: La luna nelle baracche (1974), El Loco (1979), E venne il sabato (2005, pubblicato postumo).

  1. 5 I riferimenti presenti in questo contributo ai documenti dattiloscritti, menzionati in bibliografia, oltre ai materiali vari dell’archivio di Manzi donati dalla sua famiglia, dopo la sua morte, all’Università di Bologna, si trovano nel Centro Alberto Manzi, consultabile in: www.centroalbertomanzi.it (consultato il 30 settembre 2024).

  1. 6 Quando dissi le mie opinioni al ministro Falcucci, mi rispose: «Ma lei con chi sta mescolato insieme?». «A me non mi hanno mescolato mai, io sono solo». Lei risposte: «Ah! Ma lei è un cane sciolto! Allora può abbaiare quanto vuole» (tratto dall’Ultima intervista a Farnè del 13 giugno 1997).

Vol. 10, Issue 2, October 2024

 

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