Vol. 10, n. 1, maggio 2024

TEORIA DELLA FORMAZIONE: CONTESTI SCOLASTICI

La clinica della formazione per riflettere sull’intercultura nei servizi per l’infanzia

Farnaz Farahi1

Sommario

Assumere una prospettiva interculturale significa abbracciare la sfera delle conoscenze e della ricostruzione civica e, dunque, assumersi la responsabilità nei confronti della società. Questa assunzione di responsabilità diviene sempre più necessaria al giorno d’oggi, in cui all’aumentare del fenomeno migratorio corrisponde un crescente disinteresse per i valori e le culture provenienti da altri Paesi e, citando Ricoeur, una percezione di minaccia per la propria identità. È necessario spostare il discorso interculturale dalla pancia alla testa per favorire una maggiore riflessività sulle pratiche educative poste in essere. All’interno del presente contributo si propone di utilizzare il dispositivo metodologico della clinica della formazione per pensare e ripensare l’intercultura all’interno dei servizi educativi.

Parole chiave

Intercultura, Clinica della formazione, Scuola, Integrazione.

THEORY OF TRAINING: SCHOOL CONTEXTS

The training clinic to reflect on interculturality in early childhood services

Farnaz Farahi2

Abstract

Taking an intercultural perspective means embracing the sphere of knowledge and civic reconstruction and therefore assuming responsibility towards society. This assumption of responsibility becomes increasingly necessary nowadays, in which the increase in the migration phenomenon corresponds to a growing disinterest in the values and cultures coming from other countries and, quoting Ricoeur, a perception of threat to one’s own identity. It is necessary to move the intercultural discussion from the belly to the head to encourage greater reflexivity on the educational practices implemented. Within this contribution it is proposed to use the methodological device of the training clinic to think and rethink interculture within educational services.

Keywords

Interculture, Training clinic, School, Integration.

L’intercultura dalla pancia alla testa

Assumere una prospettiva interculturale significa abbracciare la sfera delle conoscenze e della ricostruzione civica e, dunque, assumersi la responsabilità nei confronti della società. Questa assunzione di responsabilità diviene sempre più necessaria al giorno d’oggi, in cui all’aumentare del fenomeno migratorio corrisponde un crescente disinteresse per i valori e le culture provenienti da altri Paesi e, citando Ricoeur, una percezione di minaccia per la propria identità (Giusti, 2017). Quando l’estraneo, l’altro, lo straniero, diventa l’incarnazione del male, il suo annientamento non viene vissuto con rimorso, ma con esaltazione e orgoglio. Si tratta essenzialmente di un modo per esorcizzare il diverso. È la paura di ritrovarsi con un’identità in frantumi che porta ad aumentare e irrigidire i confini delle nostre appartenenze, rifuggendo, relegando all’esterno e distruggendo ciò che ci spaventa.

L’accettazione del «diverso da me» passa da una logica interculturale che deve attraversare linguaggi e mentalità, pensiero e azione. Si tratta di promuovere e sostenere un cambiamento che investe atteggiamenti, modi di pensare e mentalità, abitudini e credenze e che deve essere pensato in un’ottica temporale a lungo termine, poiché va a toccare quelle corde così fragili e stabili al tempo stesso delle nostre strutture identitarie personali e sociali. Ciò comporta altresì agevolare e sviluppare un formarsi del soggetto all’accoglienza che significa abbandonare certezze e accogliere l’imprevedibilità della relazione, con la «volontà di interagire a partire dalle intersezioni piuttosto che dalle polarizzazioni […] per meglio comprendere e accogliere ciò che è fuori di noi, una visione che privilegia il movimento e lo scambio continuo, la rinegoziazione continua dell’identità» (Ancora e Tumino, 2022, p. 7).

La realizzazione di una società multiculturale, solidale e dinamica passa dalla capacità di divenire maestri di pluralità e appartenenze che è sempre più necessario possedere e saper gestire per fare fronte al nuovo scenario socio-culturale. Le seconde generazioni sono un esempio tipico di questa «maestria di pluralità» e forse è proprio a partire dalla loro capacità di essere agenti di cambiamento che ognuno di noi potrebbe imparare qualcosa in merito al dialogo interculturale (Farahi, 2021). Si tratta di assumere, nonché insegnare ad assumere, un atteggiamento partecipante che «equivale non solo a identificare te, ma a identificarmi con te, ossia vederti come un mio simile. L’adozione dell’atteggiamento oggettivante esclude invece l’altro dalle relazioni partecipative; l’altro viene percepito come un oggetto» (Sparti, 2003, p. 90).

Sono, pertanto, necessari nuovi modelli, contenuti e dispositivi per co-costruire e generare nuove soggettività e linguaggi. Emerge sempre più forte l’esigenza di una nuova alfabetizzazione sulla costruzione di senso e significato, sull’accoglienza del diverso, sulla coesistenza civile e sull’integrazione culturale, sullo sviluppo di una nuova idea di cittadinanza che miri a decostruire gli stereotipi e gli etnocentrismi, a investire su una nuova cultura, a promuovere nuove forme di partecipazione in una prospettiva educativa interculturale che si sviluppi su un pluralismo universalista (Silva, 2015; Cambi, 2001). Le strategie interculturali devono contrastare la separazione degli individui in mondi culturali autonomi e impermeabili, promuovendo invece il confronto, l’incontro, il dialogo e la reciproca trasformazione, per rendere possibile e pensabile la convivenza e affrontare, grazie all’agire pedagogico, i conflitti che ne possono derivare (Fiorucci, Pinto Minerva e Portera, 2017).

Per entrare e stare nello spazio dell’incontro interculturale sono necessari alcuni dispositivi in stretta relazione tra di loro: lo sguardo da lontano, ovvero il superamento dell’assolutezza e la decostruzione della propria cultura di appartenenza e del proprio sé per avvicinarci alle altre culture; l’ottica dell’alterità fondata sul riconoscere il valore della differenza; la decostruzione intesa come aprire l’identità alla differenza; l’ascolto/dialogo/conversazione e l’etica della comunicazione come presupposti per riconoscere un’umanità comune al di là della diversità culturale (Cambi, 2006a). Si rileva sempre più la necessità di considerare i diritti umani come un principio, un compito, una sfida, un valore da coltivare non solo nel politico, ma anche nella società civile. È un’operazione pedagogica di interiorizzazione e socializzazione dei diritti per arrivare a una pedagogia dei diritti umani.

Affinché l’intercultura venga assunta come dispositivo pedagogico e, dunque, venga valorizzata e agita nello spazio dell’incontro, sembra inevitabile il contributo di quella pedagogia che si ponga come obiettivo primario quello di proporre cambiamenti nella collettività e nei singoli, che rifugga ottiche funzionaliste o tecniciste, che sappia progettare il futuro proponendo l’idea della migranza come paradigma pedagogico, che sappia educare a una cittadinanza complessa e valorizzare la possibilità di «meticciamento».

Per fare questo bisogna, però, seguendo il pensiero di Luca Agostinetto (2022), spostare il discorso interculturale dalla retorica di pancia alla testa, assumendo la piena consapevolezza della responsabilità e del ruolo politico del fare educazione. Alla proposta di Agostinetto si potrebbe aggiungere che sarebbe utile spostare l’intercultura dalla pancia a una testa ben fatta. Come afferma Edgar Morin (2000, p. 18):

Una testa ben fatta è una testa atta a organizzare le conoscenze così da evitare la loro sterile accumulazione. Ogni conoscenza è una traduzione e nello stesso tempo una ricostruzione […] sotto forma di rappresentazioni, idee, teorie, discorsi. L’organizzazione delle conoscenze […] comporta operazioni di interconnessione (congiunzione, inclusione, implicazione) e di separazione (differenziazione, opposizione, selezione, esclusione). Il processo è circolare.

L’espressione «testa ben fatta» utilizzata da Morin rimanda a quella formulata da Montaigne (1580), secondo la quale è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena: una testa ben fatta non accumula in modo sterile il sapere ma è in grado di collegare criticamente i saperi e di dare loro senso. In questo senso, è necessario tenere nella mente una visione interculturale che eviti riduzionismi e semplici accumulazioni di saperi.

Il ruolo politico dei servizi per l’infanzia e dell’insegnante nel favorire l’intercultura

Il contesto socio-culturale attuale presenta sfide uniche e complesse, rendendo cruciale il ruolo dei servizi per l’infanzia, degli educatori e degli insegnanti nell’agevolare un ambiente interculturale all’interno delle istituzioni educative. In questo contesto, emerge un approccio pedagogico che va oltre la mera trasmissione delle conoscenze, abbracciando la differenza culturale come risorsa e promuovendo una cittadinanza globale consapevole. Gli insegnanti, gli educatori, in quanto mediatori culturali, sono i principali attori nell’implementazione di politiche interculturali. La sensibilità culturale delle figure educative risulta essenziale per creare un ambiente di apprendimento che rispecchi la diversità della società contemporanea, diventando così un agente di cambiamento sociale, contribuendo a formare cittadini consapevoli, aperti al dialogo interculturale e pronti a sfidare stereotipi e pregiudizi.

Se è vero che l’attenzione della scuola ai problemi della migrazione oggi è maggiore, è anche vero che non si è ancora diffusa appieno quella sensibilità per la pedagogia interculturale che non significa soltanto arricchire i sistemi formativi tradizionali mostrando attenzione ai problemi dell’inserimento e dell’integrazione dei bambini immigrati nella scuola e nella società. Sin dai primi studi sulla pedagogia interculturale si affermava che essa, si occupa, in prima istanza, di organizzare le condizioni più favorevoli non all’integrazione assimilativa, che riempie svuotando, bensì all’interazione fra mondi di diversa origine e tradizione etnica, dove interazione vuol dire riempirsi rimescolandosi (Demetrio e Favaro, 1992). Si tratta di abbandonare le letture semplificate di integrazione assimilativa e incoraggiare a ripartire dai punti di forza per tracciare progettualità collettive e corresponsabili (Zoletto, 2019).

Fare entrare le differenze nella scuola non significa solo parlare di culture altre o di problematiche sociali, ma preoccuparsi di cercare di vivere nel concreto le differenze. Questo significherebbe trasmettere messaggi assolutamente contraddittori; a livello culturale affrontiamo il problema del diverso, ma con il comportamento rifiutiamo di accettare le differenze tra bambini, cercando di farle rientrare in un concetto pericoloso di normalità. La nostra azione educativa, in questo modo, parlerebbe solo all’intelletto del bambino, ma non inciderebbe di fatto sulla formazione di una personalità che sa vivere e accettare le differenze. Questi atteggiamenti e comportamenti si costruiscono prima di tutto nel microcosmo della vita quotidiana del bambino, per poi estendersi ad altre figure e popoli. Perché, quindi, la differenza non generi timore e ansia, è necessario sviluppare un meccanismo che permetta alla persona di poter riconoscere l’altro, oltre che come diverso da noi, anche come simile a noi, con le nostre stesse emozioni, timori, speranze, contraddizioni e bisogni. La disponibilità a confrontarsi con la differenza comporta, quindi, «la capacità di problematizzare la propria posizione e relativizzare il proprio pensiero» (Pinto Minerva, 2007, p. 12).

È grazie alla scuola che si può e si deve «far leva soprattutto sull’educazione e sull’insegnamento a bambini e giovani che hanno il diritto e il dovere di essere preparati adeguatamente a vivere come cittadini a pieno titolo» (Portera, 2022, p. 146). Per gli anni futuri la sfida che hanno di fronte i nuovi insegnanti e i nuovi educatori è costruire un sapere non settoriale ma unificato, pluridimensionale, che contribuisca alla formazione dei futuri adulti e dei futuri cittadini con punti di riferimento culturali e identitari locali e globali al tempo stesso; radicati nella geostoria locale e proiettati in una dimensione antropologica che riguarda il mondo.

Promuovere l’intercultura già a partire dai servizi per la prima infanzia è fondamentale per sviluppare un ambiente di apprendimento inclusivo, diversificato e arricchente per i bambini. La sua importanza si estende ben oltre, contribuendo a creare cittadini del mondo più tolleranti, aperti e preparati per affrontare le sfide del futuro. Il nido e la scuola dell’infanzia sono infatti ambienti che già a partire dalle proprie configurazioni spaziali e pedagogiche prefigurano semantiche e prossemiche che rivelano, anche nei loro impliciti, nei non detti, chi sia il bambino, cosa ci si aspetti da lui e quali siano i canoni pedagogici della sua educabilità. Tali servizi rappresentano la prima tappa di un processo formativo che accompagna il bambino nell’età evolutiva e oltre, attraverso alcune esperienze fondamentali in grado di determinare la qualità di un primo contatto con il mondo e della costruzione iniziale della propria identità. Essi rappresentano dei veri e propri luoghi di apprendimento e come tali possono incidere, attraverso la cultura che li permea, sullo sviluppo di una visione interculturale.

Come ricorda Baldacci (2013), la scuola, in ultima analisi, la fanno gli insegnanti che, nel quotidiano, agiscono e riflettono un’intercultura confusa e disorientata. È innanzitutto a loro che spetta il gravoso compito di spostare il discorso interculturale dalla pancia alla testa grazie a una continua riflessione sul proprio operato educativo. È quindi necessario dedicare preliminarmente uno spazio e un tempo di ascolto e formazione a insegnanti e educatori. L’obiettivo è quello di creare una forma mentis interculturale: «tutti gli insegnamenti oggi necessitano di formazione che abiliti — gli studenti, così come i docenti — a saper leggere in maniera preparata la sfida della complessità e dell’interdipendenza planetaria, al fine di cogliere sia i rischi sia le molteplici opportunità» (Portera, 2022, p. 124).

Quale formazione per gli insegnanti e gli educatori?

Sono, di conseguenza, necessarie azioni formative rivolte ai professionisti dei servizi dell’infanzia che abbiano l’obiettivo di reperire la struttura simbolica e il materiale dell’accadere educativo, di acquisire una maggiore consapevolezza e criticità rispetto ai concetti di intercultura, di esplicitare i significati che restano latenti, di creare un innovativo approccio metodologico e culturale rispetto ai problemi pedagogici presenti. Si tratta di una vera e propria opera di decostruzione delle rappresentazioni mentali e dei vissuti di esperienze formative, individuando le strutture invarianti dei sistemi di azione per progettarne di nuove.

Da qui la necessità di ripensare/ricostruire la professionalità di educatori e insegnanti nei servizi in vista di una vera e propria educazione interculturale. Intervenire in un’ottica decostruzionista significa riprendere ed esplicitare quei dispositivi fondamentali come l’apertura all’altro, la decentralizzazione culturale, il meticciamento delle culture, la convergenza tra etnie differenti, l’intreccio dei linguaggi, l’apertura nei confronti del nomadismo. L’obiettivo è quello di favorire uno scambio dialettico, caratterizzato da un reciproco e costante ascolto, da un’interazione autentica con l’altro. La pedagogia interculturale, da questo punto di vista, può dare un contributo rilevante alla decostruzione di un’identità culturale unica, monolitica e autoreferenziale.

Il gruppo diviene allora il dispositivo fondamentale nel lavoro poiché sostiene l’elaborazione individuale degli educatori, tramite i processi di risonanza reciproci e la moltiplicazione dei significati attivati nello stesso campo gruppale. Inoltre, crea al contempo nuovi significati condivisi che possano incidere e modificare le pratiche pedagogiche adottate.

L’obiettivo della formazione dovrebbe essere quello di esplicitare le teorie e le prassi che sottendono all’agire pedagogico del servizio. Troppo spesso nei servizi si assiste a un vero e proprio cortocircuito tra i principi enunciati e le pratiche realizzate, tra i significati condivisi e le azioni effettivamente prodotte: «Irrimediabilmente, le teorie […] non si traducono fedelmente nelle disparate rappresentazioni della vita reale, ma rimangono scritte in intriganti e stimolanti sceneggiature che solo rari, abili e illuminati attori riescono a mettere in scena, abitandole con nitida cognizione di causa» (Agostinetto e Bugno, 2016, p. 137). È allora necessario recuperare un pensiero sulle pratiche in essere e recuperare il significato degli interventi che mirano a favorire un pensiero interculturale.

La clinica della formazione per riflettere sull’intercultura

Per favorire l’acquisizione di una forma mentis interculturale da parte di insegnanti e educatori che lavorano nei servizi dell’infanzia si possono usare vari congegni metodologici. Quello che in questa sede proponiamo è il dispositivo della clinica della formazione. Il fine ultimo della clinica della formazione è infatti quello di esplicitare i significati che restano latenti, di creare un innovativo approccio metodologico e culturale rispetto ai problemi pedagogici presenti: «praticare la Clinica della Formazione significa perciò metaforicamente chinarsi — da qui appunto la scelta del termine “clinica” — sulla materialità dell’educazione (ossia sul groviglio di corpi, spazi, tempi, artefatti, tecnologie, affetti, discorsi, ecc.) per osservarla attentamente e in profondità, cercando di intercettarne, nominarne, elaborarne gli aspetti coscienti, evidenti e manifesti, così come quelli inconsci, sommersi e impensati» (Ferrante, 2018, p. 228).

La clinica della formazione (Massa, 1992) è stata utilizzata in svariati ambiti e approcci, come, ad esempio, nelle professionalità mediche (Bertolini e Massa, 2003), nel contesto della pedagogia dell’adolescenza (Barone, 2009), declinata nella pratica dell’avere cura (Palmieri, 2011) e nell’abuso educativo (Riva, 1993), nel contesto delle valutazioni scolastiche (Rezzara, 2000) e della formazione dei giovani (Massa e Demetrio, 1991) e attraverso una riflessione più ampia sui miti del fare educazione oggi (Mottana, 2000).

La consulenza pedagogica attraverso la clinica della formazione viene utilizzata da anni in Italia per fornire a insegnanti, educatori e formatori un supporto nella gestione dell’operatività educativa quotidiana (Palma, 2017). Perché allora non continuare a utilizzare la clinica della formazione come vero e proprio dispositivo educativo (Palma, 2016a), al servizio di chi si occupa di educazione all’interno dei servizi per l’infanzia, con lo scopo di aiutare a pensare e agire in modo interculturale? A tal proposito afferma Bruni (2019, p. 36):

L’intercultura, prima di configurarsi come oggetto e compito di una teoria/pratica sociale e educativa, è la voce che interroga criticamente e problematicamente il sapere pedagogico nella sua struttura così da poter interpretare, comprendere, mettere a confronto, attivare prassi, governare le forme del rapporto fra culture diverse in vista di un agire comune forte di reciproco dialogo e di conseguente valorizzazione delle differenze.

Questo sembra essere il campo applicativo più interessante: una clinica della formazione strutturata in cicli laboratoriali (e pensata a tutti gli effetti come dispositivo pedagogico), che permetta agli educatori di interrogarsi criticamente, di ripensare alle teorie e prassi pedagogiche adottate nel proprio servizio che incidono anche sulla creazione di una visione interculturale. L’obiettivo è proprio quello di decostruirle e contribuire alla creazione di un agire professionale maggiormente in linea con l’idea della differenza come risorsa, focalizzata sull’emersione del punto di vista del bambino attraverso la relazione educativa, ma che possa al contempo fare leva sulla partecipazione attiva di insegnanti e famiglie in un processo di co-costruzione.

L’utilizzo di questo dispositivo metodologico, oltre a migliorare l’agire pedagogico posto in essere nei servizi, potrebbe favorire una maggiore capacità di insegnanti e educatori di leggere il proprio operato, andando a influenzare e anche a ripensare alcune prassi adottate nel favorire un’educazione interculturale.

Riflettere sulla tecnica attraverso un processo democratico consente di rendere conto di quelle avventure del soggetto disposte tra io e altro, tra gli educatori, le famiglie e i bambini.

Per rispondere a questo obiettivo è necessario proporre spazi e tempi per dissotterrare i significati che si addensano intorno al fare educazione e promuovere un discorso critico sulle proposte pedagogiche e sulle pratiche educative stesse (Palma, 2016b).

La finalità diviene allora quella di creare all’interno dei servizi delle sponde, caratterizzate da continue mescolanze fra tutti gli elementi che su di esse approdano e che lì si dipanano (Fabbri, 2003).

Non si tratta di fare una clinica degli operatori, ma di interpretare il nesso che lega il portato esistenziale al portato formativo (Cappa e Orsenigo, 2020), di porre l’accento su quel reticolo delle pratiche (Merriam, 2002) che riguarda modelli di azione e al contempo dimensioni affettive correlate.

Riprendendo le parole di Angelo Franza, è attraverso questi presupposti epistemologici che la clinica della formazione può darsi il compito di sciogliere e decostruire le rappresentazioni mentali e i vissuti affettivi di esperienze formative circostanziate, di idee o modelli particolari della formazione e sulla base di questo procedere all’individuazione delle strutture invarianti dei sistemi d’azione cui danno luogo (Franza, 1992; 2018).

Il presupposto che sta alla base dell’utilizzo del dispositivo è che, per cambiare o migliorare la pratica educativa e formativa, è necessario recuperare «un rapporto critico e autoriflessivo con il proprio modo di essere e di educare e di insegnare e, in particolare, di formare a essere e ad apprendere» (Cappa e Orsenigo, 2020, p. 44).

Attraverso questo dispositivo sarà possibile aprire delle riflessioni sulle teorie e prassi che guidano gli interventi e che creano una visione interculturale. Si potranno, ad esempio, esplorare i riferimenti che guidano le prassi del servizio nel dialogo con le famiglie, nella costruzione dei programmi educativi, nelle pratiche di inclusione, ecc.

Si tratta di un processo che mira a coinvolgere e mettere in dialogo chi si occupa di pedagogia e educazione attraverso un coinvolgimento non solo cognitivo, ma anche affettivo: l’apprendimento autentico nasce solo dall’esperienza ed è attraverso il recupero del vissuto sia cognitivo che affettivo che è possibile instaurare una riflessione sul fare educazione e sulle rappresentazioni mentali e implicite ad esso associate (Farahi, 2022). Potrebbero allora essere istituiti percorsi di clinica della formazione on the job, percorsi cioè che permettano ai soggetti di indagare le proprie rappresentazioni, assunti e credenze di ordine contestuale, cognitivo, affettivo e procedurale connessi alla propria realtà lavorativa, così da ampliare la consapevolezza degli effetti che la partecipazione all’esperienza lavorativa produce nel soggetto in termini di «professionalità tacita», da riconoscere e valorizzare (Palma, 2018).

In questo senso, la clinica della formazione potrebbe portare a spostare il discorso interculturale dalla pancia alla testa. Rendere educatori e insegnanti più consapevoli del proprio agire educativo potrebbe aiutare i servizi a disegnare una «policromia dell’infanzia» (Pescarmona, 2021). Sono i principi del pluralismo, del dubbio, del confronto, dell’ascolto, del riconoscimento e dell’intesa che animano e alimentano la democrazia del dialogo e ne diffondono il valore (Cambi, 2006b).

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  1. 1 Dottore di Ricerca in Scienze della Formazione e Psicologia. Svolge attività di ricerca e formazione presso diverse istituzioni universitarie ed è impegnata nelle attività di formazione, supervisione e mediazione in collaborazione con enti pubblici e privati di livello nazionale, regionale e locale su tematiche inerenti all’infanzia, all’adolescenza e alle famiglie.

  1. 2 PhD in Educational Sciences and Psychology. She carries out research and training activities at various university institutions and is engaged in training, supervision and mediation activities in collaboration with public and private bodies at a national, regional and local level on issues relating to childhood, adolescence and families.

Vol. 10, Issue 1, May 2024

 

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