Vol. 8, n. 1, aprile 2022

APPROCCI INTERCULTURALI ALL’EDUCAZIONE

La lingua dell’accoglienza1

Riflessioni sull’insegnamento dell’italiano L2 per adulti stranieri

Marta Salinaro2 e Federica Cini3

Sommario

L’articolo affronta il tema dello sviluppo dell’autonomia nell’educazione del migrante adulto, focalizzandosi in particolar modo sui processi di insegnamento dell’italiano come lingua seconda. L’obiettivo principale è quello di ricercare possibili strategie per orientare l’azione formativa verso la costruzione di un percorso politico-pedagogico trasformativo. Questo permette al migrante di acquisire competenze e capacità critiche per superare l’emarginazione e avviare da protagonista il proprio processo di integrazione nella società d’accoglienza. In tale direzione, si è tentato di attivare connessioni tra ambiti disciplinari diversi, facendo dialogare il lessico glottodidattico con le teorie pedagogiche di stampo critico e il problematicismo pedagogico, provando a tradurre in prassi le istanze prodotte da tale colloquio. Oggi occorre ripensare le metodologie di insegnamento di italiano L2, ponendo lo studente al centro del processo di apprendimento, favorendo lo sviluppo di pensiero critico e di competenze relazionali per incentivare una reale autonomia e un arricchimento esistenziale reciproco.

Parole chiave

Italiano L2, Migranti adulti, Glottodidattica, Problematicismo pedagogico, Pedagogia critica.

INTERCULTURAL APPROACH IN EDUCATION

Hosting language

Ideas on teaching Italian L2 to adult migrants

Marta Salinaro4 and Federica Cini5

Abstract

The article investigates the issue of the development of autonomy in the education of the adult migrant focusing on the processes of teaching Italian as a second language. The main objective is to search for possible strategies to direct the training action towards the construction of a transformative political-pedagogical path. This allows the migrant to acquire critical skills and abilities to overcome marginalization and start as a protagonist his own integration process in the host society. In this direction, it is attempted to enable connections between different disciplines, developing a dialogue between the language-teaching lexicon, critical pedagogical theories and Pedagogical problematicism, trying to translate into practice the instances produced by this interaction. Today it is necessary to rethink the methods of teaching Italian L2, placing the student at the center of the learning process, favoring the development of critical thinking and relational skills to encourage real autonomy and mutual existential enrichment.

Keywords

Italian L2, Adult migrants, Language teaching, Pedagogical problematicism, Critical pedagogy.

Apprendimento linguistico in contesti migratori: adulti in cerca di possibilità

I flussi migratori che dagli anni Ottanta dello scorso secolo continuano ancora oggi a interessare l’Europa hanno messo gli studiosi di fronte alla necessità di affrontare la complessa problematica della formazione linguistica degli adulti immigrati.

La riflessione di tipo glottodidattico sul tema dell’analfabetismo o della debole alfabetizzazione dei migranti oggi non può più trascurare i principi fondamentali della pedagogia di stampo critico che, di fronte ai rischi cui è sottoposto il processo di umanizzazione della persona, si pone come obiettivo formativo principale lo sviluppo autentico e armonioso del Soggetto-Persona contro l’impoverimento della dimensione esistenziale e l’avvento del Soggetto-Massa (Frabboni, 2012).

Le difficoltà legate al senso d’identità conosciute dal migrante sono indice del processo di spersonalizzazione che si trova inesorabilmente a subire: la sua identità si costituisce sempre per privazione, diviene una non-identità, egli è un non-europeo, è un non-cittadino e finisce col diventare una non-persona (Dal Lago, 2004). Da dove può partire il migrante per riappropriarsi degli strumenti essenziali per la propria esistenza e autosufficienza, per riuscire a cogliere e sfruttare le possibilità che il nuovo ambiente di vita gli offre senza lasciarsi bloccare dalla paura dell’ignoto? Il primo atto di protagonismo che i migranti possono compiere per iniziare a costruire un piano di riscatto sociale e ri-progettare il proprio destino è apprendere la lingua del Paese ospitante. L’apprendimento della lingua seconda è una delle dimensioni centrali per l’integrazione della persona nella società d’arrivo, per la promozione di un cambiamento della sua vita in direzione di autonomia e quindi per la realizzazione del suo progetto migratorio. In quest’ottica alle scuole di italiano per stranieri va riconosciuto un ruolo molto più complesso che quello di mera trasmissione di competenze linguistiche, queste sono chiamate a sostenere gli apprendenti nel loro divenire agenti critici, nel guidarli lungo un percorso di emancipazione e di possibilitazione (Bruscaglioni, 2009; Tolomelli, 2015) inteso come apertura di nuove possibilità e costruzione di alternative.

Quando si parla di seconda lingua (L2) lo si fa in riferimento a quella appresa dopo la lingua madre (L1) nel Paese in cui è lingua ufficiale. La L2 si differenzia dalla lingua straniera (LS) che è quella non materna appresa nel proprio Paese tramite sequenze programmate d’insegnamento (Diadori, Palermo e Troncarelli, 2009).

L’apprendimento dell’italiano da parte di stranieri in Italia era, nei secoli passati, essenzialmente riferito a persone alfabetizzate, colte, che disponevano di mezzi economici necessari. Dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso molti altri stranieri si sono trasferiti in Italia alla ricerca di una vita migliore, lontana da guerre e povertà, per i quali l’apprendimento della lingua italiana non è un lusso, ma una necessità (Vedovelli, 2010). In Italia il profilo di apprendente di italiano L2 che oggi incontriamo più frequentemente è quello di «giovane adulto impegnato in attività di lavoro temporaneo in Italia o con un progetto di inserimento lavorativo stabile» (Diadori, Palermo e Troncarelli, 2009, p. 55) la cui presenza è esplosa in seguito alle prime ondate migratorie. A partire da quel momento l’insegnamento dell’Italiano L2 a adulti, in particolar modo migranti, si è andato a costituire come campo specializzato. La categoria di studenti in questione costituisce nel complesso una popolazione così eterogenea che la pianificazione della proposta glottodidattica richiede di essere valutata e progettata molto più attentamente che non per altre categorie. Le trasformazioni che hanno interessato la nostra società a partire dalla fine del Novecento hanno imposto una diversificazione delle pratiche, dei destinatari e dei luoghi dell’educazione (Cambi, 2005) per produrre un’azione didattica capace di rispondere a pieno ai bisogni specifici degli apprendenti. Recenti sono in ambito scientifico gli studi, i contributi teorici e gli approfondimenti sulla formazione dell’adulto orientati a individuare le caratteristiche proprie di tale apprendimento, ossia le dinamiche e le strategie attuate, i bisogni e le motivazioni sottostanti (Balboni, 2012). Molto note sono le «teorie andragogiche» dello studioso Malcolm Knowels (2008) che hanno reso l’adulto un nuovo target di profondo interesse per il sapere pedagogico e che individuano le seguenti dimensioni come quelle determinanti per il suo processo di apprendimento: il concetto di sé del discente; la motivazione; il bisogno di conoscere; la disponibilità ad apprendere; l’orientamento verso l’apprendimento; l’influenza dell’esperienza di apprendimento pregressa (Begotti, 2006).

Quanto affermato rispetto alle caratteristiche e alla formazione dell’adulto è valido altresì per l’insegnamento delle lingue a stranieri, con alcune specificità derivanti da fattori propri dei contesti migratori: la presenza di soggetti socialmente vulnerabili, scarsamente attrezzati allo studio delle lingue in contesti formali, il cui obiettivo principale è ottenere quel minimo di risorse linguistico-lessicali sufficienti a consentirgli di muoversi nel nuovo ambiente di vita senza troppi ostacoli (Borri, Minuz, Rocca e Sola, 2014). Le scuole di italiano per migranti, in linea con i bisogni dei loro apprendenti, si trovano oggi a dover interpretare un nuovo ruolo: quello di laboratori di progettualità; ossia luoghi educativi in cui l’articolazione fra educazione come pratica sociale trasformatrice e dimensione sociale, culturale e politica della realtà deve divenire presupposto fondamentale, affinché la didattica abbia come obiettivo la promozione dell’umanizzazione e il miglioramento della vita delle persone in direzione di autonomia. Perché questi istituti di formazione si configurino come luoghi di ricostruzione identitaria, spazi in cui il migrante viene messo nelle condizioni di sviluppare un’attitudine all’azione che gli consenta di divenire protagonista del proprio destino, è necessario scommettere sulla produzione di un’inedita e sistematica riflessione sugli approcci, sui metodi e sulle tecniche da utilizzare in fase di pianificazione e attuazione dell’intervento formativo. L’attività di progettazione è una componente essenziale dell’insegnamento: per presentare percorsi formativi efficaci è necessario che ogni attività o materiale proposto sia selezionato secondo criteri metodologicamente fondati, condivisi e non costituisca il frutto dell’improvvisazione o dell’intuizione individuale del docente. Ida Ninni sostiene infatti come la progettazione sia strumento e pratica di cambiamento generativo, dove sia gli insegnanti sia gli studenti possano essere coinvolti in un apprendimento continuo, creativo e dialogico, nell’ottica di promuovere e valorizzare nuovi percorsi formativi (2013).

Cenni di glottodidattica

Per molto tempo in glottodidattica si è considerato l’insegnamento come unico fattore determinante per l’apprendimento. Con il diffondersi della concezione della lingua come mezzo di interazione sociale si è assistito a uno spostamento dell’attenzione dalle scelte di natura linguistica alla base della didattica, connesse a una visione strettamente trasmissiva dell’insegnamento, verso i soggetti dell’evento educativo. L’interesse si è focalizzato in particolar modo sull’apprendente, sui fattori interni, emotivi e mentali, che condizionano la riuscita dell’acquisizione linguistica, e sulle sue motivazioni e i suoi bisogni che vengono assunti come indicatori per la pianificazione dell’azione didattica (Diadori, Palermo e Troncarelli, 2015).

In ordine cronologico, la prima teoria che tenta di spiegare l’apprendimento di una lingua non materna è quella del comportamentismo, a cui la glottodidattica farà riferimento fino a metà degli anni Sessanta. Tale approccio, d’impronta strutturalista, viene introdotto dal linguista Leonard Bloomfield che attorno al 1945 elabora un metodo chiamato audio-orale proprio per enfatizzare il distacco rispetto all’aspetto grafico-visivo che fino ad allora aveva dominato i metodi di insegnamento delle lingue seconde (Diadori, Palermo e Troncarelli, 2009). Nella prospettiva comportamentista l’apprendimento è visto come strettamente connesso all’acquisizione di abitudini senso-motorie derivate dall’associazione di una particolare risposta a uno stimolo proveniente dall’ambiente. Stimolo, risposta, rinforzo è la sequenza dell’apprendimento linguistico che nella pratica didattica si va a configurare come batteria di input e output che gli studenti devono esercitare e memorizzare tralasciando ogni aspetto creativo a favore dello svolgimento di esercizi meccanici di trasformazione, manipolazione o espansione tramite cui si interiorizzano i patterns della lingua da apprendere. Nell’impostazione strutturalista-comportamentista l’insegnante non gode di autonomia didattica, il suo unico compito è quello di guidare l’apprendente lungo un cammino costituito da tappe precise; allo stesso tempo la ripetitività di esercizi meccanici propria di questo approccio rende demotivante l’apprendimento e non modifica il ruolo passivo del discente impedendogli di sviluppare strategie che lo rendono autonomo nello studio della lingua.

Negli anni Sessanta il diffondersi di teorie linguistiche di stampo generativista porta a mettere a critica alcuni dei presupposti alla base della prospettiva comportamentista. In particolare, va al linguista Chomsky il merito di aver ridisegnato il panorama glottodidattico degli anni Settanta, attraverso l’elaborazione di un modello alternativo alla teoria strutturalista-comportamentista, criticata poiché capace di offrire una descrizione solo parziale del complesso processo di apprendimento di conoscenze che non può essere ridotto a una mera formazione di abitudini; piuttosto esso consiste in un processo di formazione di regole che avviene tramite la formulazione di ipotesi e la verifica sui dati in entrata. Tale capacità degli esseri umani è dovuta alla loro predisposizione a imparare una lingua, cioè all’esistenza di un meccanismo innato di acquisizione che Chomsky definisce LAD (Language Acquisition Device) (Diadori, Palermo e Troncarelli, 2009). Tale dispositivo contiene due meccanismi innati: i principi, elementi astratti comuni a tutte le lingue del mondo, e i parametri, tratti determinanti la variabilità strutturale delle lingue, che insieme costituiscono il corpo della Grammatica Universale (GU), struttura con cui il discente durante il processo di apprendimento mette in relazione i dati linguistici. Secondo la prospettiva chomskiana si può dire che apprendere una lingua consiste nell’imparare il modo in cui i principi della GU si applicano a una lingua specifica.

Dalla seconda metà degli anni Sessanta fino agli anni Novanta del secolo scorso si è imposto l’approccio comunicativo in contrasto alle forme di insegnamento basate sul metodo grammaticale-traduttivo e su quello audio-orale. La spinta propulsiva alla diffusione di questo approccio è venuta dall’antropologo Dell Hymes a partire dalla contrapposizione tra la nozione di competenza comunicativa, intesa come capacità di usare una lingua in modo appropriato a uno scopo linguistico e a una data situazione, e quella di competenza linguistica chomskiana, ossia la capacità del parlante di riconoscere e produrre enunciati grammaticalmente corretti (Diadori, Palermo e Troncarelli, 2009). Secondo l’antropologo, infatti, le conoscenze formali di una lingua non sono sufficienti perché uno scambio comunicativo avvenga con successo, esistono alcune regole d’uso senza la conoscenza delle quali la grammatica risulta inutile. Inoltre, la mancanza di vocaboli o un fraintendimento lessicale possono compromettere più facilmente la comunicazione rispetto a un errore puramente grammaticale (De Renzo, 2011).

A partire dagli anni Settanta, sotto la spinta della psicologia umanistica, nascono una serie di metodi che rientrano nell’approccio denominato umanistico-affettivo che si contraddistingue per la valorizzazione dei meccanismi cognitivi inconsci che sottostanno ai processi di apprendimento e per la centralità che in essa assumono gli aspetti affettivi e relazionali. Fino a qualche tempo fa si riteneva che tale approccio fosse destinato unicamente a discenti bambini e che quello più consono a un pubblico adulto fosse di tipo formalistico-deduttivo, ad esempio il classico metodo grammaticale-traduttivo. Oggi questa affermazione è stata invalidata; infatti, se è vero che nell’esperienza formativa in generale l’elemento affettivo ha una forte influenza, ancor più ciò ha valore nei processi di apprendimento degli adulti in cui le passioni, le aspettative e i vissuti sono dimensioni totalizzanti e se non prese in considerazione possono ostacolare la riuscita del processo. All’inizio dagli anni Novanta si è assistito a una svolta culturale della glottodidattica che ha portato alla nascita del filone di studi, dagli sviluppi molto recenti, denominato «educazione linguistica interculturale» (Borghetti, 2016). Si tratta di un campo di ricerca che indaga i legami che intercorrono fra apprendimento linguistico e dimensione identitaria dei soggetti. I numerosi e interessanti elementi di novità che questo campo introduce — pur non interrompendo la continuità logica con gli approcci glottodidattici classici — derivano dal dialogo instaurato con alcune correnti del sapere pedagogico. La pedagogia in questa occasione ha offerto alla glottodidattica l’opportunità di produrre una riflessione più profonda sulle finalità educative dell’insegnamento linguistico. Alcuni studi multidisciplinari (Norton e Toohey, 2011; Norton, 1995; Barkhuizen et al., 2012) dimostrano infatti l’importanza di considerare l’esistenza di intenti educativi interculturali oltre a quelli di carattere meramente strumentale. Borghetti (2016) interpreta questi cambiamenti come una nuova fase della glottodidattica definita «interculturale» e caratterizzata da una inedita apertura della disciplina al discorso sulle identità multiple. L’educazione linguistica interculturale vede come meta da perseguire tramite l’insegnamento di una lingua lo sviluppo della competenza comunicativa interculturale (CCI) ovvero quel fattore che consente di aprirsi alle differenze, di mediare tra membri di gruppi sociali diversi e di mettere in discussione le presupposizioni e ciò che viene dato per scontato nel proprio gruppo e ambiente culturale (Borghetti, 2018).

Sembra quindi che negli ultimi anni la didattica delle lingue, grazie al contributo della pedagogia, stia scommettendo sulla realizzazione di un proprio intervento orientato a promuovere benefici nel delicato terreno delle dinamiche identitarie dei soggetti in formazione, cercando una soluzione capace di rispondere in modo adeguato alla necessità di recupero di identità che le vite frantumate dei migranti richiedono incessantemente.

Quale offerta formativa per i migranti adulti?

L’importanza della conoscenza della lingua del Paese d’immigrazione è riconosciuta anche dall’Unione Europea, che, in applicazione dei Principi fondamentali comuni per la politica di integrazione degli immigrati negli Stati membri (Commissione Europea, 2005), identifica la formazione linguistica dei cittadini stranieri come ambito d’investimento imperativo per tutte le nazioni. In Italia, la conoscenza della lingua italiana è uno dei criteri che regola la permanenza del migrante all’interno dei confini nazionali. Come disciplinato dall’articolo 9 del Testo Unico sull’immigrazione, gli stranieri che vivono nel Paese da più di cinque anni e che intendono richiedere il permesso di soggiorno di lungo periodo devono superare un test che certifichi il raggiungimento di un livello di conoscenza della lingua italiana non inferiore al livello A2 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (Vedovelli, 2010). Chi fa ingresso in Italia per la prima volta e richiede un permesso di soggiorno non inferiore alla durata di un anno è tenuto a sottoscrivere l’Accordo d’integrazione tra lo straniero e lo stato. L’accordo ha durata di due anni ed è costruito su un sistema di crediti che il migrante dovrà conseguire impegnandosi ad acquisire un livello (minimo A1) di conoscenza della lingua italiana, una sufficiente conoscenza dei principi fondamentali della cultura civica e della vita civile in Italia, pena la perdita del permesso di soggiorno (Ministero dell’Interno, 2012).

Il test per certificare il raggiungimento dei livelli di conoscenza dell’italiano richiesti è sostenuto nei Centri Provinciali di Istruzione per gli Adulti (CPIA). Queste strutture, ex Centri Territoriali Permanenti, sono incaricate di realizzare percorsi di alfabetizzazione linguistica propedeutici al superamento degli esami. Qui i corsi di lingua sono affidati a insegnanti selezionati tramite bando di gara, dove i requisiti richiesti per parteciparvi sono la laurea in una determinata classe di insegnamento e il possesso di una delle certificazioni che abilitano all’insegnamento dell’italiano a stranieri. Le competenze acquisite dagli insegnanti di italiano L2 nel conseguire questi titoli non sempre sono adeguate e sufficienti a consentire al docente di muoversi efficacemente in un contesto classe così complesso ed eterogeneo. Le classi sono spesso costituite da uomini e donne di diversa provenienza ed età, che possiedono differenti livelli di scolarizzazione e che non sempre frequentano le lezioni su spinta volontaria o mossi dal desiderio di apprendere l’italiano, bensì sono obbligati a questa scelta, pena l’esclusione dall’accordo di integrazione. Oltre ai CPIA esistono altre strutture certificate e enti riconosciuti6 dal Ministero dell’Istruzione che offrono corsi di italiano L2 e che possono rilasciare attestati validi per il permesso di soggiorno di lunga permanenza. Diffuse sono anche le soluzioni previste da enti di formazione e dal terzo settore, che offrono corsi di apprendimento della lingua italiana e attività laboratoriali, spesso attivando percorsi finanziati dal Fondo Asilo Migrazione e Integrazione (FAMI). Infine, un’altra possibilità per chi deve studiare la lingua italiana è quella di rivolgersi alle associazioni di volontariato che operano sul territorio d’interesse, che erogano lezioni gratuitamente e pertanto sono attraversate da un gran numero di studenti. Tuttavia, la maggior parte di queste scuole sono costituite in maniera informale e dispongono di pochi fondi per procurarsi materiali e strumenti per una buona programmazione didattica e un efficace lavoro in classe, non riuscendo sempre a prevedere momenti di formazione per i volontari. Coloro che si trovano a ricoprire il ruolo di insegnanti per migranti senza aver sviluppato una vera e propria competenza didattica tendono a predisporre l’azione educativa sulla base dell’emergenza e dell’aiuto immediato privando così la progettazione di una prospettiva di lungo periodo, di una riflessione approfondita sui metodi di insegnamento/apprendimento adottati e sul tipo di relazione da ricercare fra docente e apprendente, incidendo negativamente sulla qualità del progetto formativo offerto agli studenti.

Oggi, di fronte alle nuove emergenze educative disegnate dai grandi cambiamenti nelle società complesse, diviene necessario promuovere un cambiamento teorico, pratico ma anche culturale rispetto alle modalità organizzative, agli approcci e agli strumenti didattici utilizzati nella maggior parte delle scuole di italiano L2, che spesso riportano un’immagine dello straniero come soggetto da assistere in quanto portatore di bisogni primari di sopravvivenza (Susi, 1991). Susi ritiene che il superamento dei limiti dell’intervento assistenziale possa avere inizio solo nel momento in cui sono riconosciuti anche i bisogni di tipo formativo e culturale di questi soggetti: il bisogno di inserimento nella nuova società, di accesso ai servizi e ai corsi di formazione professionale, di sentirsi soggetti attivi della vita economica e sociale, di conoscere la lingua del nuovo Paese ma anche di conservare la propria cultura (1991). Tutto ciò impone agli enti e alle organizzazioni che a diverso titolo si occupano di stranieri di riflettere sull’assunzione di nuove forme di impegno e di responsabilità sociale. Nel caso specifico delle scuole di italiano L2 per migranti è opportuno un cambiamento di prospettiva che non risponda più a un atto di natura assistenziale, ma consenta di guardare ai corsi di lingua come strumenti per promuovere lo sviluppo della persona umana, per consentire la narrazione dell’identità del soggetto, per permettergli di relazionarsi col mondo esterno imparando a operare su di esso attraverso un’azione trasformatrice.

Impegno educativo e trasformazioni nelle pratiche pedagogico-didattiche delle scuole di italiano L2 per adulti stranieri

Indagando attraverso una prospettiva glottodidattica la dimensione dei bisogni linguistico-comunicativi dell’apprendente migrante adulto è evidente che la competenza lessicale rappresenti per questo, più che per altri profili, la risorsa principale per il successo del progetto migratorio. In fase di progettazione dell’intervento didattico è necessario dare spazio a una profonda riflessione sul tipo di lessico che si intende presentare agli studenti. La necessità di portare in aula una «lingua viva» si ritrova anche espressa nel pensiero pedagogico di Paulo Freire, educatore brasiliano a cui si riconosce il merito di aver elaborato un originale metodo di alfabetizzazione per adulti (1974). I libri di testo per l’insegnamento delle lingue cui si ricorre nella maggior parte delle scuole istituzionali presentano molti esempi poco significativi che tendono a riflettere una rappresentazione essenzialista della lingua-cultura, offrendo una rappresentazione stereotipata della società straniera che contribuisce a irrigidire la percezione di disuguaglianza fra gruppi culturali. Le scuole invece si devono porre come luoghi di de-condizionamento culturale agendo una de-costruzione delle modalità di individuazione identitaria basate sulla distinzione netta di appartenenza ingroup-outgroup (Frabboni e Pinto Minerva, 2013). È opinione condivisa che nel caso di percorsi formativi per migranti adulti non sia possibile affidarsi esclusivamente alla proposta lessicale offerta dai manuali ed è necessario che gli insegnanti attingano continuamente alla propria esperienza pregressa d’insegnamento per riuscire a riadattare i materiali didattici in modo appropriato al contesto della classe. Non stupisce che sia sempre più frequente la scelta di ricorrere ai così detti «materiali grigi», creati ad hoc dal docente attraverso collage di attività ed esercizi già esistenti, per rispondere a specifiche richieste formative che le lezioni confezionate nelle unità dei manuali non riescono a soddisfare. Come sostenuto da La Grassa «esiste una scarsa corrispondenza tra le aree semantiche trattate nei manuali e le aree di comunicazione di maggior interesse per gli immigrati; questa asimmetria tra il lessico dei materiali e quello prevalentemente utile al gruppo di apprendenti preso in esame è senza dubbio una delle cause che determina la scelta dei docenti di non seguire pedissequamente la proposta avanzata dai manuali» (La Grassa, 2014, p. 229).

È di fondamentale importanza che in classe si lavori e si focalizzi l’attenzione su temi e oggetti d’interesse personale e/o di vita degli studenti così da stimolare il loro coinvolgimento e facilitare l’apprendimento. Nel caso dell’apprendente immigrato adulto il lessico del dominio lavorativo e quello della regolarizzazione, generalmente collocati negli strati più periferici della lingua (De Renzo, 2011) sono invece ai primi posti nella loro scala dei bisogni perché fondamentali per l’inserimento nella nuova società (Vedovelli, 2013). È essenziale che l’insegnante sin dai primi incontri presenti agli studenti, accanto al vocabolario di base anche il lessico di uso tecnico specialistico, più complesso di quanto consentirebbe la naturale sequenza acquisizionale delle parole ma fondamentale a fini comunicativi e strumentali.

La classe di italiano L2 oltre a richiedere un grande sforzo di cura nella preparazione dei materiali didattici è il luogo in cui il docente deve guidare l’apprendente a percepirsi come soggetto attivo dell’azione educativa. Come già Freire sosteneva nelle sue opere (1974) è difficile che i processi di alfabetizzazione assolvano una funzione di tipo emancipatorio se la relazione che si instaura fra i due poli dell’interazione educativa è di tipo verticale. Durante una lezione di lingua il docente più che depositare conoscenze nella mente dell’apprendente, orienta lo sviluppo dell’attività didattica e seleziona l’input linguistico affinché sia volto all’acquisizione di abilità comunicative mirate ad agevolare l’uso della lingua in contesti legati alla vita quotidiana del soggetto. Un vantaggio della ridefinizione dei ruoli docente-apprendente è l’azione che produce contro il filtro affettivo, dispositivo che, attivato dai traumi dell’esperienza migratoria, tende a innalzarsi nelle situazioni di difficoltà, producendo resistenze psicologiche all’apprendimento (Begotti, 2006). L’impostazione dialogica e orizzontale della lezione facilita la partecipazione attiva degli studenti, soprattutto se adulti, ai quali è importante far apparire la scuola non come luogo freddo e asettico ma come uno spazio accogliente in cui è possibile sperimentare benessere realizzando il desiderio di incontro e riconoscimento con l’altro.

Per superare la marginalizzazione del migrante e investire sulla costruzione di relazioni significative fra coloro che attraversano la scuola in un’ottica di vera e propria interazione, risulta utile il ricorso a metodologie didattiche critiche e partecipative, messe in atto per realizzare un’educazione interculturale che favorisca momenti di confronto e di scambio sostenendo processi di aggregazione (Minuz, 2014). Quindi, una didattica problematica, che si oppone all’utilizzo di modelli già dati, per garantire una progettazione aderente ai problemi socioculturali di uno specifico contesto. Secondo Frabboni esiste una terza via per la formazione, che si dà come soluzione intermedia tra «la didattica passiva, eterocentrica e performalizzata che interpreta l’istruzione come padronanza di uniformi standard cognitivi, che enfatizza un’istruzione erogata dall’insegnante, dal libro di testo, e la didattica attiva, puerocentrica, spontaneistica che enfatizza le conoscenze casuali e asistematiche» (Frabboni e Pinto Minerva, 2013, p. 218).

Tale proposta si concretizza nella teoria del problematicismo didattico, capace di inibire l’autoreferenzialità dei metodi normativi che rivendicano una fondatezza assoluta, e soprattutto di rispondere in modo innovativo alle sfide educative che la pedagogia si trova oggi a dover affrontare. Assumendo il disorientamento esistenziale del migrante come una condizione transitoria in cui è possibile creare uno spazio di apertura a un futuro diverso, l’approccio frabboniano — volto a restituire vitalità e centralità a tutte le dimensioni della vita del soggetto in formazione — sembra configurarsi come una valida proposta educativa in grado di generare cambiamento, consegnando o restituendo al migrante gli strumenti necessari per la lettura della realtà e per la conoscenza di se stesso, indispensabili ai fini di una progettualità completa della persona.

Anche gli studi di Minuz riconoscono l’importanza di dare centralità all’apprendente nel processo di formazione. Tale necessità, secondo la studiosa, si traduce nella pratica della trasparenza del processo didattico (2014): con più chiarezza e cura il docente espone le finalità educative delle attività presentate, più gli studenti sono messi nella condizione di comprendere ciò che stanno facendo e di trarre vantaggio dall’insegnamento (Jafrancesco, 2005). Tale accortezza è fondamentale soprattutto con apprendenti adulti i quali potrebbero percepire alcuni esercizi come infantili e demotivanti, una chiara spiegazione degli obiettivi formativi permetterà a questi di mettersi in gioco senza produrre valutazioni errate.

Un altro fattore che contribuisce a favorire il processo di apprendimento è la cura dell’ambiente in cui si svolgono le lezioni. Un ambiente caldo e accogliente è condizione essenziale affinché l’ingresso nella scuola di italiano non sia percepito dagli adulti come un ritorno ai banchi della scuola dell’obbligo, ma piuttosto come un’esperienza d’incontro attraverso cui socializzare e costruire relazioni. Avere a disposizione un’aula adibita esclusivamente alla didattica consente di isolare il momento della lezione da altri input e informazioni, possibile motivo di distrazione, e permette di personalizzarne le pareti con i materiali prodotti durante il corso, testimonianza visibile dello svolgimento del processo di crescita degli studenti. Sebbene la classe sia il contesto formativo privilegiato, esiste un altro luogo che offre numerose opportunità di apprendimento: l’ambiente in cui viviamo. Fare rete, trovare punti di contatto tra i diversi luoghi — formali, informali e non formali — dell’educazione è fondamentale affinché i percorsi didattici attivati nelle scuole non si configurino più esclusivamente come mere lezioni di lingua ma vadano ad assolvere funzioni più complesse garantendo ai soggetti l’acquisizione delle competenze necessarie ad affrontare le sfide dell’era della complessità, assicurando loro una dilatazione delle possibilità esistenziali fondata sul principio etico «realizza te stesso realizzando l’altro» (Bertin, 1995). La realizzazione di percorsi didattici di tipo trasmissivo-depositario, consumati esclusivamente nelle classi, si muove in direzione opposta alla vocazione del sapere pedagogico di intervenire contro ogni forma di cristallizzazione e impoverimento della sfera esistenziale dei soggetti in formazione. Freire (1974) e Milani (2007) avevano già colto l’elevato fattore di improduttività di processi formativi resistenti e chiusi all’ambiente, per entrambi infatti le esperienze di vita quotidiana servivano da appiglio primario nella costruzione delle lezioni e per stimolare la motivazione degli studenti. Secondo Frabboni e Pinto Minerva «l’ambiente urbano e paesaggistico è disseminato di luoghi culturali e naturali dagli elevati coefficienti interdisciplinari [...] l’ambiente quale aula didattica decentrata si propone da laboratorio dotato di copiose cifre linguistiche e logico-formali: vero e proprio alfabetiere lessicale e semantico. Parliamo di una macro-enciclopedia lessicalmente preziosa per l’interiorizzazione e l’arricchimento della cultura» (2013, p. 337).

L’apertura delle scuole al territorio comporta la rinuncia delle tradizionali e rassicuranti pratiche educative per volgere lo sguardo a nuove metodologie che consentano un’armonizzazione della teoria e della prassi educativa con le esigenze dettate da una realtà esterna complessa ed eterogenea.

L’integrazione tra le opportunità formative implicite nel territorio e quelle dell’istruzione formale è necessaria per promuovere una re-interpretazione della natura umana che orienta l’uomo a una rilettura di sé stesso e a riconoscersi come parte integrante dell’ambiente e della sua esistenza, abbandonando la posizione di passivo spettatore a-progettuale per valorizzare la dimensione del protagonismo del sé.

Queste sono solo alcune delle tante indicazioni operative per un’esperienza didattica di successo che si possono immaginare a partire dal confronto e dallo scambio tra saperi didattici e pedagogici e dall’interpretazione dell’educazione come pratica tenuta a relazionarsi quotidianamente con la problematicità del mondo e la materialità della vita. Avviare un discorso di questo tipo richiede la disponibilità a mettersi in gioco e ad abbandonare i tradizionali e rassicuranti riferimenti cognitivi che orientano l’azione educativa, per spingersi oltre e reinventare le forme attraverso cui si concepiscono i processi di insegnamento-apprendimento. Nel caso specifico delle scuole di italiano L2 per migranti si tratta di riorganizzare l’accoglienza dello studente attraverso una prospettiva globale e di guardare ai suoi problemi attraverso un approccio trasversale. Le difficoltà linguistiche, quelle di socializzazione, la precarietà abitativa, sono tutti fattori che devono essere tenuti in considerazione nel percorso didattico così che l’intervento formativo possa rispondere al bisogno di orientamento del migrante piuttosto che a quello di assistenza. Un progetto, quindi, che sia al contempo pedagogico e politico, capace di guardare alla dimensione operativa sulla glottodidattica in ottica rinnovata, con l’obiettivo di mettere il migrante nella condizione di misurarsi con nuove possibilità esistenziali e di rendere generativo e progettuale il proprio rapporto col mondo.

Bibliografia

Balboni P. (2012), Fare educazione linguistica. Insegnare italiano, lingue straniere e lingue classiche, Torino, UTET.

Barkhuizen G., Benson P., Bodycutt P. e Brown J. (2012), Study abroad and the development of second language identities, «Applied linguistics review», vol. 3-1, pp. 173-193.

Begotti P. (2006), L’insegnamento dell’italiano ad adulti stranieri, Foligno, Guerra Edizioni.

Begotti P. (2011), Imparare da adulti stranieri, insegnare a adulti le lingue, «Italica», vol. 88, pp. 74-99.

Benucci A. (2016), Italiano L2: linee per la definizione di un portfolio linguistico-professionale, «Rassegna italiana di linguistica applicata», vol. 2-3, pp. 157-171.

Bertin G. M. (1995), Educazione alla ragione. Lezioni di pedagogia generale, Roma, Armando Editore.

Biagioli R. e Giudizi G. (2019), Orizzonti linguistici e pedagogici per l’insegnamento. Il bilinguismo a scuola, Parma, Junior.

Borghetti C. (2016), Educazione linguistica interculturale. Origini, modelli, sviluppi recenti, Bologna, Caissa Italia.

Borghetti C. (2018), Studiare l’apprendimento linguistico interculturale come pratica discorsiva e interazionale, «Studi e Ricerche», vol. 13, pp 413-428.

Borri A., Minuz F., Rocca L. e Sola C. (2014), Italiano L2 in contesti migratori, Torino, Loescher.

Bruscaglioni M. (2009), «Possibilitazione», Un nuovo concetto (in italiano) che apre molte strade, «FOR – Rivista per la formazione», vol. 81, pp. 107-108.

Byram M. (1989), Intercultural Education and Foreign Language Teaching, «World Studies Journal», vol. 7, n. 2, pp. 4-7.

Cambi F. (2005), Le pedagogie del Novecento, Roma-Bari, Laterza.

Commissione Europea (2005), Un’agenda comune per l’integrazione: Quadro per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM%3Al14502 (consultato il 15 marzo 2022).

Dal Lago A. (2004), Non persone, Milano, Feltrinelli.

De Renzo F. (2011), Lessico di base e indici di leggibilità per l’analisi e la produzione di testi per la didattica dell’italiano L2. In P. Diadori, C. Genna e S. Semplici (a cura di), Apprendimento e insegnamento dell’italiano L2 in età adulta, Atene, Edilingua.

Diadori P., Palermo M. e Troncarelli D. (2009), Manuale di didattica dell’Italiano L2, Perugia, Guerra Edizioni.

Diadori P., Palermo M. e Troncarelli D. (2015), Insegnare l’italiano come lingua seconda, Roma, Carocci.

Frabboni F. (2012), Il problematicismo pedagogico in pedagogia e didattica, Trento, Erickson.

Frabboni F. e Pinto Minerva F. (2013), Manuale di pedagogia e didattica, Roma-Bari, Laterza.

Freire P. (1974), L’educazione come pratica della libertà, Milano, Mondadori.

Fustes M. (2012), Apprendenti e insegnanti davanti alla lingua. Spunti teorici per ritrovare una parità ineliminabile, «Rassegna di linguistica applicata», vol. 2-3, pp. 335-351.

Jafrancesco E. (2005), L’acquisizione dell’italiano L2 da parte di immigrati adulti, Roma, Edilingua.

Knowles M. (2008), Quando l’adulto impara. Andragogia e sviluppo della persona, Milano, FrancoAngeli.

La Grassa M. (2014), Verso l’elaborazione di un sillabo lessicale nei manuali di italiano L2 per adulti immigrati, «Rassegna di linguistica applicata», vol. 1-2, pp. 225-244.

Milani L. (2007), Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria editrice.

Ministero dell’Interno (2012), Regolamento concernente la disciplina dell’accordo di integrazione tra lo straniero e lo Stato, https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2011/11/11/011G0221/sg (consultato il 15 marzo 2022).

Minuz F. (2014), Italiano L2 e alfabetizzazione in età adulta, Roma, Carocci.

Nigris E. (a cura di) (2015), Pedagogia e didattica interculturale, Piacenza, Pearson.

Ninni I. (2013), Verso una scuola ecocentrica, «MeTis – Mondi educativi. Temi, immagini, suggestioni», vol. 3, n. 2.

Norton B. (1995), Social Identity, Investment, and Language Learning, «TESOL Quarterly», vol. 29, pp. 9-31.

Norton B. e Toohey K. (2011), Identity, language learning, and social change, «Language Teaching», vol. 44, pp. 412-446.

Susi F. (1991), I bisogni formativi e culturali degli immigrati stranieri. La ricerca azione come metodologia educativa, Milano, FrancoAngeli.

Tizzi L. (2015), Scuola, giustizia sociale, democrazia: Henry A. Giroux e il movimento della Critical Pedagogy negli Stati Uniti, «Educazione Democratica», vol. 10, pp. 117-141.

Tolomelli A. (2015), Homo eligens. L’empowerment come paradigma della formazione, Milano, Junior.

Vedovelli M. (2010), Guida all’italiano per stranieri, Roma, Carocci.

Vedovelli M. (2013), Introduzione: lingue e migrazioni, «Studi Emigrazione/ Migration Studies», vol. 91.


1 L’articolo è frutto di comune elaborazione e condivisione di impostazioni e contenuto. In particolare, può essere così attribuito: Federica Cini ha elaborato il secondo e il terzo paragrafo; Marta Salinaro ha elaborato il primo e il quarto paragrafo.

2 Ricercatrice TD-a in Pedagogia generale e sociale, Università di Bologna. Affiliata al CeMIS (Centre for Migration and Intercultural Studies), University of Antwerp, Belgium.

3 Laureata in Progettazione e gestione dell’intervento educativo nel disagio sociale all’Università di Bologna e insegnante qualificata di italiano L2 per adulti stranieri.

4 Università di Bologna.

5 Italian teacher (L2).

6 Il Centro CILS dell’Università per Stranieri di Siena, il CELI dell’Università di Perugia, l’IT dell’Università di Roma Tre, la Società Dante Alighieri.

Vol. 8, Issue 1, April 2022

 

Indietro