Vol. 20, n. 2, maggio 2021
PROGETTI E BUONE PRASSI
L’arte come motore di cambiamento
Dina Giuseppetti1
Sommario
Raggiungiamo chi è ai margini, lì dove si trova e nelle passioni che vive. Progettiamo esperienze inclusive, cercando di non creare un ghetto dorato. Le arti possono aiutare a rispondere a domande: per tutti o per pochi? Qualità o inclusione? La Pedagogia del desiderio per immaginarsi diversi, imparare, crescere. La cultura come diritto dell’arte e della bellezza come bisogni primari. Una dedica a chi non c’è più.
Parole chiave
Marginali, Passioni, Budget e progetto, Fallimenti e rinascite, Arti, Bellezza, Desiderio, Cambiamento.
Projects and best practices
Art as agent of change
Dina Giuseppetti2
Abstract
Through the art, we reach those who live on the margins. We design inclusive experiences, trying not to create a golden ghetto. The arts can help answer questions: for everyone or for a few? Quality or inclusion? The Pedagogy of desire to imagine oneself different, learn, grow. Culture as a right, art and beauty as primary needs. A dedication to those who are no longer there.
Keywords
Marginal, Passions, Budget and project, Failures and rebirths, Arts, Beauty, Desire, Change.
Premessa
La nascita di MaTeMù
MaTeMù apre il 25 marzo 2010, come Centro di Aggregazione Giovanile, quando l’era d’oro dei CAG3 a Roma si è chiusa già da qualche anno.
Apre nei locali messi a disposizione dal Municipio Roma I, ed è ideato e gestito da una Onlus4 con 30 anni di storia, il CIES,5 dove io vengo chiamata a lavorare per aprire e coordinare questo spazio, insieme a uno staff già esistente, impegnato in un fitto lavoro di educativa di strada nella zona. MaTeMù parte con un nucleo di adolescenti che ballano la break dance nei pressi della Stazione Termini e si avvia proprio dalle discipline dell’hip hop (breaking, rap, djing, writing), che hanno il potere di costituire un linguaggio comune per giovani provenienti da tutto il mondo.
Si propone sul panorama cittadino con caratteristiche abbastanza diverse da quelle degli altri CAG:
- prende solo un piccolo budget della L 285/97 e solo per un paio di anni. Per il resto si sostiene con fondi europei, fondazioni, donazioni;
- si trova al centro di Roma, anziché in una periferia, vicino una fermata della metro A. È quindi facilmente raggiungibile da buona parte della città, e si trova nella zona più interculturale, l’Esquilino: un luogo che rappresenta, dal punto di vista socio-ambientale, una sorta di periferia in centro;
- conta su uno spazio molto grande e bello, su due piani, con un piccolo giardino e con un accurato lavoro del CIES dedicato alla ristrutturazione e all’acquisto di arredi e materiali. Ha tuttavia lo svantaggio di non essere su strada e di insistere su un complesso di vie residenziali molto poco vissute e non inserite nella vita di quartiere.
Vengono realizzate una saletta musicale insonorizzata con tutta la strumentazione, una sala video con schermo e proiettore, spazi con biliardino, ping-pong e altri giochi, spazi per stare insieme, riunirsi, studiare. MaTeMù si propone come CAG con una particolare attenzione all’intercultura e ai giovani migranti, sia per vocazione della Onlus, sia per il territorio di riferimento.
Nel primo periodo il CIES mette in campo una buona campagna comunicativa e promozionale e di questa apertura si parla sui maggiori quotidiani nazionali, in tv e in alcune radio e siti.
Nei primi giorni di apertura raggiunge i 120 ingressi al giorno; nei mesi la frequenza si assesta su una media di 60 ragazze/i al giorno: numeri altissimi se paragonati agli spazi simili.
Le potenzialità sono alte, l’équipe viene subito coinvolta in un corso di formazione e inizia un’avventura che dura ancora oggi, di cui vorrei qui raccontare soprattutto un aspetto, che si snoda per tentativi ed errori e che trasforma nel tempo il volto e la mission del Centro.
L’arte come motore di cambiamento: MaTeMù da CAG a scuola d’arti
Un ghetto, per quanto dorato, è pur sempre un ghetto
La prima scelta di indirizzo segnerà la storia dello spazio e ne detterà i percorsi successivi: si decide che (come era nell’idea originaria dei CAG, non sempre del tutto riuscita nella pratica) deve essere uno spazio per tutte le ragazze e tutti i ragazzi, non riservato quindi ai giovani in condizione di disagio, ma che accolga un mix di estrazioni sociali e culturali, dove gli adolescenti di provenienze geografiche e sociali diverse possano incontrarsi e fare insieme. In qualunque altro caso sarebbe comunque stato un ghetto: così decidiamo che a MaTeMù devono venire ragazzi stranieri, italiani di seconda generazione, ragazzi dalle strade residenziali dei dintorni e dalle case-famiglia; con l’idea di fondo che da quel mix sarebbero nati circoli virtuosi di reciproca conoscenza e solidarietà (la comunità).
Questa prima scelta di indirizzo è una delle più difficili da realizzare e quella perseguita con maggiore ostinazione; non è stato facile neanche per il CIES, che fino ad allora lavorava soprattutto con i migranti, anche perché i bandi di gara che finanziano le azioni educative sono tutti orientati a destinatari in condizione di disagio e povertà estrema.
A distanza di dieci anni ritengo che sia stata una scelta giusta e innovativa, soprattutto perché abbiamo potuto sperimentare che la presenza di target diversi, come anche la convivenza interculturale, non è automatica né naturale, ma avviene in seguito a strategie monitorate e condivise con uno staff interdisciplinare: strategie che investono la gestione dei conflitti, la comunicazione e la promozione, le attività proposte, l’estetica degli spazi.
Uno staff di artisti e educatori
Dopo alcuni mesi, grazie alla Fondazione Vodafone, si aggiungono alle attività di partenza i laboratori di chitarra e di batteria. Non sono corsi usuali nei CAG, perché richiedono un impegno e una costanza molto forte da parte dei ragazzi e perché si configurano quasi sempre con lezioni a uno a uno.
Insieme a quelli di teatro e di hip hop, i due corsi diventano i più frequentati e si decide di allestire uno spettacolo finale, esperienza che ci permette di condividere e pensare una strategia educativa che unisce le esperienze dello staff educativo e di quello artistico.
Lo staff di MaTeMù si è andato costruendo nel tempo ed è di per sé una sperimentazione in quanto fortemente interprofessionale: unisce infatti artisti (insegnanti delle diverse discipline) e educatori, nella stessa équipe. Il gruppo completo, cui si arriverà al quinto anno di apertura, è così composto:
- due coordinatori (coordinatrice e vice-coordinatore);
- una psicologa psicoterapeuta;
- due educatrici (di cui una mediatrice interculturale), due peer educator, due operatori sociali; un operatore che si occupa anche della comunicazione rapportandosi al relativo settore CIES;
- due insegnanti di italiano per stranieri;
- otto artisti (due registi insegnanti di teatro, un insegnante di chitarra, uno di batteria, uno di sax, una di canto, uno di rap, una di break dance).6
Anche la selezione degli artisti è guidata da scelte precise, che hanno influito sul lavoro successivo: non sono stati assunti educatori/operatori che avessero anche competenza artistiche, ma musicisti, registi e danzatori professionisti, che esercitassero il proprio mestiere compreso l’aspetto performativo, delle esibizioni. Questi lavorano in sinergia con gli operatori e le educatrici e svolgono con loro programmazione, supervisione, riflessione sul lavoro e sui casi, stesura del diario di bordo a fine giornata.
La componente artistica delle attività acquisisce nel tempo sempre più spazio, ma è molto difficile coinvolgere i ragazzi nell’impegno costante e duraturo che è necessario per produrre uno spettacolo finale di qualità.
Questa impasse si risolve, almeno in parte, nei primi anni, con la realizzazione del Rock campus: un campo intensivo di quattro giorni condotto dagli artisti e dagli operatori con tutti i giovani performer dello spettacolo. La possibilità di stare insieme fuori dalle dinamiche consuete crea una bolla educativa in cui i ragazzi si immergono, separandosi dalle proprie abitudini e dal ruolo che sono abituati a svolgere nelle dinamiche in cui sono normalmente inseriti.
A giugno 2012 MaTeMù va in scena al teatro Ambra Jovinelli, dove convergono, per vedere uno spettacolo teatrale e musicale intitolato Altrove, ottocento spettatori. Sono in scena più di quaranta ragazze/i tra attori, musicisti e cantanti, rapper, breaker.
Mentre il concetto stesso di CAG inizia a essere messo in discussione, lo staff di MaTeMù progetta «una scuola d’arti gratuita e popolare».
I problemi, i tentativi, i fallimenti
Per tutti o per pochi?
Quello che succede è che l’utenza finisce per dividersi a metà: i giovani con più difficoltà (e anche i minori stranieri non accompagnati e i giovani migranti) frequentano il Centro per incontrarsi, giocare, parlare con gli educatori. Non partecipano alle attività artistiche strutturate, che diventano appannaggio dei ragazze/i provenienti dalle scuole e dalla zona limitrofa.
Questa divisione non rispecchia l’obiettivo sociale di MaTeMù e del CIES, e inizia un periodo di riflessione e confronto all’interno dell’équipe per trovare delle strategie operative di risposta.
Si organizzano giornate comuni di escursioni e visite guidate a scopo di team building, e si chiede ai maestri di uscire dalle aule dei laboratori e trascorrere i pomeriggi anche nelle aree destinate alla socializzazione, al gioco e al relax.
Inoltre, lo staff socio-educativo insiste per rendere più semplice e abbordabile l’insegnamento delle diverse discipline artistiche e soprattutto per non escludere i ragazzi e le ragazze meno costanti e che dimostrano meno impegno. Il punto di vista che il gruppo educativo porta in supervisione è che MaTeMù esiste proprio per quei ragazzi e che non ha senso trovarsi a estrometterli dalle attività per le loro stesse caratteristiche di adolescenti problematici. Gli artisti, a loro volta, sostengono che non è giusto selezionare sulla base del talento o delle capacità, ma che costanza e impegno vanno invece premiati e che i ragazzi discontinui e svogliati, che non studiano a casa e spesso non si presentano alle lezioni senza avvisare, tolgono tempo e spazi agli altri.
Si discute a lungo sul fatto che sia la gratuità a favorire il non rispetto degli impegni presi e la poca affidabilità dei partecipanti, a fronte delle proteste degli educatori basate sulla necessità di tenere in considerazione le storie di vita di ognuno.
C’è una complessità, probabilmente, che ha a che fare con la difficoltà degli artisti e degli educatori di capire fino in fondo il reciproco lavoro. La sponda adulta si divide a sua volta, come i giovani frequentatori di MaTeMù.
Qualità o inclusione: un dilemma irrisolvibile. Alla ricerca di una pedagogia di riferimento
Un’altra discussione alimenta le lunghe riunioni e supervisioni: l’obiettivo è che la qualità del prodotto artistico che si va a costruire sia alta, che gli spettacoli teatrali e i concerti realizzati siano apprezzabili non perché realizzati da ragazze/i in difficoltà, ma per la qualità artistica del lavoro svolto. Questa richiesta è appoggiata anche dalla Fondazione Alta Mane, che in quel periodo finanzia le attività, e risuona fortemente nel mio background formativo: l’applauso del pubblico non deve essere dettato dalla pena o dalla tenerezza, ma dal reale interesse dell’opera realizzata, altrimenti anche lo scopo educativo e di aumento del senso di autoefficacia e autostima fallisce.
Questo si scontra con due altre esigenze del CAG:
- avere un numero di destinatari abbastanza alto (il che rende necessario fare lezioni più corte e meno frequenti per ognuno, così da lasciare spazio a più ragazze/i);
- l’esigenza primaria e fondante dell’inclusione, e cioè la possibilità che i laboratori siano aperti a tutte e tutti, anche ai ragazzi che difficilmente sarebbero in grado di portare in scena un prodotto di alto livello, per difficoltà relazionali, tecniche, cognitive o di adesione al compito.
Come si tengono insieme qualità e inclusione?
Anche su questo punto l’équipe di MaTeMù fa diversi tentativi, come quello di dividere ogni corso in due livelli: un livello da principianti e un livello avanzato (esperti). Il primo livello porta in scena una sorta di saggio, il secondo livello il vero e proprio spettacolo in importanti teatri cittadini, lanciato comunicativamente dal CIES.
Questa scelta si infrange però sui numerosi casi di destinatari che, pur facendo l’attività per più di uno o due anni, e rientrando quindi a pieno titolo nei corsi «avanzati», non sono in grado di sviluppare le competenze richieste e spesso esprimono disagi psichici che generano dinamiche espulsive nel gruppo dei ragazzi «esperti».
Con il tempo queste difficoltà, che si ripropongono ciclicamente, rischiano di incancrenirsi e diventano molto disgreganti all’interno dello staff di lavoro, tanto da generare conflitti logoranti che coinvolgono anche il mio ruolo di coordinamento.
Decidiamo di condividere parte dei nostri dubbi con la fondazione finanziatrice: scopriamo così di condividere una parte di questo spaesamento anche con altri progetti e la nostra referente decide di organizzare un «interscambio», che si concretizza, tra le altre cose, in un viaggio formativo in Brasile, per scoprire uno dei più riusciti e potenti progetti di inclusione attraverso l’arte: il Projeto Axé.7
La pedagogia del desiderio
Sin dalla sua apertura, MaTeMù ha fatto riferimento alla pluriennale esperienza del CIES in merito al lavoro con i migranti e in ambito interculturale. Sul piano pedagogico e operativo si è inoltre rifatto, attraverso diverse formazioni:
- al lavoro di Cesare Moreno e dei Maestri di Strada di Napoli;
- alla pedagogia degli oppressi di Freire;
- al lavoro del professor Scaramuzzo sulla pedagogia dell’espressione.
La pedagogia del desiderio e l’arteducazione, mutuate dal Projeto Axé, sono state, però, la cornice teorica di riferimento in grado di riunire l’aspetto educativo e quello artistico del Centro, i due punti di vista dello staff multidisciplinare.
Dall’incontro con Axé è partita una riflessione lunga e comune, che ha portato a concordare su alcuni punti programmatici in merito alle questioni poste sopra.
La pratica nasce dall’unione di arte e educazione e lavora per l’attivazione di processi di cambiamento che coinvolgono l’intero tessuto sociale (scuola, famiglia, società civile) nella direzione della costruzione di una comunità politico-pedagogica.
L’arteducazione è una espressione che deriva dall’idea che sia impossibile educare senza l’arte e la bellezza. Dunque, per Axé l’arte non è un mezzo per educare, ma è essa stessa educazione.
Questa convinzione nasce dall’incontro di Cesare de Florio La Rocca e Paulo Freire e dalla loro osservazione dei meninos de rua. I due educatori si chiedevano come innescare un processo educativo che doveva essere primariamente desiderato dai bambini. Al contrario di quel che si può pensare i ragazzi di strada non hanno bisogno di cibo o posti per dormire, che sono perfettamente in grado di procurarsi autonomamente, ma di innescare un processo di cambiamento, solo che non lo sanno immaginare né desiderare. I ragazzi che vivono in strada non riescono a immaginarsi altrove, a pensarsi diversi; si sentono condannati da un destino incoercibile.
Secondo Axé solo l’arte conserva la potenza esplosiva e trasformatrice capace di accendere la miccia del desiderio: «essa suscita nel bambino una duplice esplosione, perché egli si scopre ammiratore e fruitore meravigliato di bellezza ma anche artefice e produttore in prima persona dell’opera d’arte» (cit. di Cesare de Florio La Rocca).
Ricorda Cesare: «Quando abbiamo visto in strada i bambini danzare la Capoeira, abbiamo visto i bambini fare percussioni sui banchi di legno delle piazze di Salvador, abbiamo visto i bambini canticchiare le musiche brasiliane, abbiamo capito che l’arte è indispensabile perché questi bambini sentano il piacere dell’educazione, e insieme al coordinamento pedagogico abbiamo messo anche il coordinamento di arte. Abbiamo continuato a camminare, a percorrere questa strada dell’educazione da un lato e dell’arte dall’altro, ma a un certo momento abbiamo cominciato a pensare: perché arte e educazione? Tutt’e due hanno la stessa missione, che è la trasformazione dell’essere umano. E allora abbiamo fuso i due coordinamenti, abbiamo tirato via il trattino e abbiamo scritto arteducazione con un’unica parola».
La pedagogia del desiderio considera il bambino soggetto di diritto, di conoscenza e di desiderio:
- la prima è una connotazione politica, che affonda le sue radici nella pedagogia della libertà di Paulo Freire;8
- la seconda è una connotazione pedagogica, che si rifà invece a Piaget, quando sottolinea che il bambino è un soggetto attivo e cosciente che si forma cominciando dall’azione;
- la terza è una connotazione psicanalitica e riprende da Freud e Lacan l’idea che il desiderio ha il compito di dare energia all’azione.
Essendo l’educando soggetto competente, la pratica del bello lo muove verso la ricerca del cambiamento interrogandolo e mettendolo in ascolto della propria interiorità.
I meninos de rua sono, per Cesare de Florio La Rocca, portatori innanzitutto di una convinzione: «Non ho niente da perdere». È questa l’idea radicata nel profondo che guida il loro agire e l’unico modo per smentirla è far rinascere il desiderio: l’arte eccita il desiderio, non soddisfacendo mai chi la produce.
Il desiderio è collegato a una mancanza, a un’angoscia. Se il bisogno prevede un appagamento concreto, il desiderio rimanda invece a una relazione con qualcosa che è fuori da sé e di cui si sente la mancanza, qualcosa a cui si tende ma che non si riesce a raggiungere, come spiega bene l’etimologia del termine, dal latino de-, che indica una privazione, e sidera, stelle: qualcosa di lontano che non si riesce a toccare. Questa perenne tensione verso qualcosa che è sempre aldilà e non può essere appagato è all’origine dell’agire.
«Che cosa vuoi?» chiede Cesare, più o meno metaforicamente, ai bambini delle strade di Salvador. Gli ho visto porre questa domanda con i miei occhi e riservare un tempo lungo e individuale di ascolto alla risposta.
Il motto di Axé è «la migliore educazione per i più poveri». I migliori insegnanti, le migliori esperienze artistiche, i luoghi più belli e raffinati, non quel che c’è e di cui il ragazzo dovrebbe accontentarsi perché è gratuito.
È lo stesso concetto che avevamo appreso nel libro di Carla Melazzini che sosteneva che insegnare nella scuola di seconda opportunità del progetto Chance era come insegnare al Principe di Danimarca, al più potente, al più esigente, al più noto (Melazzini, 2012).
Da qui siamo partiti, al ritorno a Roma, per cercare insieme di usare e rendere proficue le cose imparate in Brasile, ben sapendo che la rivoluzione non è esportabile, e che il diverso contesto cambia completamente le carte in tavola.
L’arte di immaginarsi diversi da quello che si è
È stata mantenuta salda la scelta di focalizzarsi su un target variegato, che comprenda anche giovani che non si trovavano in condizione di disagio.
A questo fine risulta necessario mantenere alto il livello di qualità dell’insegnamento e dei maestri, poiché è questo ad attirare i ragazzi/e che verrebbero a MaTeMù anche se fosse a pagamento («Vado lì perché c’è quell’insegnante di sax, che è uno dei più bravi di Roma»).
Si lavora però per aumentare la sinergia, il confronto e la reciproca comprensione tra staff artistico e staff socio-educativo.
In merito alla divisione del target, che rischia di distribuirsi per estrazione sociale (poiché, pur essendo gratuite, le attività artistiche non riescono a incuriosire i giovani provenienti da condizioni sociali difficili), capiamo a Salvador de Bahia che non basta la gratuità, perché il punto è che un ragazzo migrante senza documenti o una ragazzina della periferia romana non riesce a immaginarsi in un corso di sax, non riesce a sognarsi batterista, non pensa che possa interessarle uno spettacolo teatrale. Pensa: «Non è per me».
Si decide allora di affiancare a questi corsi dei servizi di supporto considerati «beni primari»: un corso di italiano per stranieri, l’orientamento alla formazione e al lavoro, il supporto e l’invio ai servizi per le pratiche per i documenti, oltre al supporto scolastico e psicologico che già esistono ma vengono ora posizionati in orari contemporanei ai laboratori artistici.
Si stabilisce che parte dei laboratori debbano essere «a porte aperte» e, ove possibile, si realizzano delle porte trasparenti (nelle due sale musica) per far sì che i giovani che vengono per accedere ai servizi a bassa soglia si trovino a contatto naturalmente, per prossimità spaziale e temporale, con chi segue i corsi di musica e teatro. Gli insegnanti di rap, break dance e batteria iniziano a collaborare con la scuola di italiano e a partecipare con frequenza cadenzata alle lezioni. Gli educatori diventano primari mediatori di questi «passaggi».
L’idea dell’arte non come mezzo, ma essa stessa educazione, costituisce un punto di incontro dello staff che individua uno scopo comune nell’idea di riaccendere il desiderio.
Parallelamente viene incentivato il servizio di supporto scolastico (MaTeMù entra infatti nella Rete delle Scuole Popolari), perché si conviene che le «ripetizioni» a pagamento, e la possibilità o meno di avere i genitori vicini nel momento dello studio a casa, siano uno dei fattori più discriminanti, alla base di molte differenze sociali.
L’importanza riservata all’estetica, alla cura e alla bellezza dei luoghi dove si svolgono le attività, che abbiamo visto a Salvador, ci porta a dare ancora più importanza a questi aspetti, che avevano sempre caratterizzato anche gli spazi e la strumentazione di MaTeMù. I luoghi parlano e non è possibile educare alla bellezza in un posto brutto o non curato.
In merito alla difficile convivenza di qualità e inclusione è stato lo stesso lavoro di équipe e di analisi della pratica a condurci a una convinzione che ci ha poi accompagnati in tante svolte del nostro percorso: non è possibile decidere una regola generale nell’agire educativo, pur se sarebbe più facile e rassicurante. Bisogna lavorare e confrontarsi caso per caso, accettare di stare nel conflitto e nello scambio, di sentirsi un po’ in balìa dell’indeterminatezza.
Conclusioni e nuove sfide
Le rose
L’esperienza educativa di MaTeMù approda all’idea della cultura come diritto, dell’arte e della bellezza come bisogni primari, la cui accessibilità va quindi perseguita con ogni mezzo. Perché è fonte di conoscenza: ci dà la possibilità di avere dei riferimenti che ci aiutano a interpretare il mondo e gli avvenimenti collettivi e personali. Ci fa fare esperienza della bellezza e della risonanza che spesso l’opera d’arte porta con sé permettendoci di dare senso, conoscerci e anche ri-conoscerci negli altri.
Uno degli slogan che ha accompagnato MaTeMù in questi anni è mutuato dalle richieste delle operaie delle industrie tessili degli anni Settanta: «Vogliamo il pane e anche le rose».
L’idea è che la cultura e l’arte non siano un lusso, un bene superfluo, ma un diritto, che è reso reale solo se si creano le condizioni perché sia possibile accedervi per tutte/i, e queste condizioni non sono «date». Dipendono certamente in parte da attitudini e peculiarità personali, ma in grande misura anche dagli stimoli ricevuti in famiglia o a scuola, dall’aver soddisfatto o no i bisogni primari e dalla serenità che ne consegue, che rende possibili l’apprendimento e la possibilità di immaginarsi diversi da quello che si è (la possibilità di desiderare).
Da queste opportunità discendono poi anche le competenze di cittadinanza e di partecipazione civica, nonché, a mio parere, la tanto cercata sicurezza.
Interpretando questo slogan, l’anno scorso F., una delle cantanti di MaTeMù, disse, dopo un concerto: «Noi siamo le rose». Penso avesse ragione.
Base e motore di questa ricerca di equità è la creazione di comunità, che consente l’avviarsi di relazioni di aiuto e sostegno reciproco e la cura dei beni comuni. Ogni anno a MaTeMù si fa un grande pranzo di Natale con tutti i ragazzi/e, gli amici, le associazioni del territorio… Si mettono i tavoli per tutto il Centro e tutto lo staff cucina dal giorno precedente. La prima volta che abbiamo guardato quei tavoli apparecchiati e quell’atmosfera ci siamo detti: «Eccola. Questa è la famiglia tradizionale».
L’impossibilità del sax per le classi deboli
Il corso che è stato più difficile far partire a MaTeMù è stato il corso di sassofono. Io non ci credevo proprio, e secondo me non ci credevano neanche gli altri; stavamo già tutti pensando a come sostituirlo con un corso più abbordabile: l’idea strisciante e sottesa era evidentemente che una ragazza della periferia romana o un minore straniero non accompagnato non potessero mai imparare uno strumento così difficile e raffinato, o non potessero proprio desiderare di impararlo.
A insegnare sax a MaTeMù è arrivato uno dei più bravi sassofonisti romani, che si chiamava Carlo Conti.
Dopo qualche anno, la MaTeMusik band & crew, gruppo musicale e coreutico del Centro, aveva una sezione fiati che suonava anche autonomamente e anche nei locali del jazz, chiamata non per la provenienza da MaTeMù, ma per la musica.
Da giugno scorso Carlo non è più qui; questi miei pensieri su MaTeMù sono dedicati a lui.
Ogni giorno di MaTeMù è dedicato a lui.
Bibliografia
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Sitografia
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Matteo Lancini, www.matteolancini.it/ (consultato il 19 aprile 2021).
MimesisLab, http://host.uniroma3.it/laboratori/mimesislab/ (consultato il 19 aprile 2021).
Rete CAG, https://retecag.oasisociale.it/ (consultato il 19 aprile 2021).
1 Coordinatrice dello Spazio Giovani Scuola d’Arte MaTeMù del CIES Onlus, dal 2010. Educatrice e counselor dell’età evolutiva, lavora da circa 20 anni con adolescenti e giovani in percorsi di contrasto della dispersione scolastica e della povertà educativa. Si occupa di formazione degli adulti su temi socio-educativi, su comunicazione e gestione dei conflitti. Organizza e gestisce eventi culturali.
2 Educator.
3 I CAG (Centri di Aggregazione Giovanile o Centri Aggregativi Giovani) nascono, a Roma, in seguito alla legge Nazionale 285/97, a partire dal 1999 (nel nord Italia esistono invece molte esperienze precedenti). Pur con alcune significative differenze, possiamo rintracciare delle linee comuni in tutti i CAG romani, almeno per i primi dieci anni di attività, quando iniziano in parte a evolversi e differenziarsi e in parte a disgregarsi e chiudere. Si tratta di servizi aperti al territorio e hanno lo scopo di accogliere e promuovere la crescita di preadolescenti e adolescenti dell’area territoriale di riferimento, creando uno spaio di aggregazione, predisponendo attività sociali con funzioni educative e formative e funzionando come punto di riferimento in cui i giovani possono socializzare, confrontarsi e acquisire conoscenze e competenze. Tutte le attività proposte sono completamente gratuite e si finanziano con bandi di gara; i Centri si rivolgono generalmente a ragazze/i dagli 11 ai 21 anni.
4 La Onlus è una Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale. Si tratta di organismi di carattere privato che perseguono finalità solidaristiche e di rilevanza sociale, senza fini di lucro, in base al proprio Statuto e Atto Costitutivo.
5 MaTeMù è un progetto del CIES Onlus (Centro Informazione e Educazione allo Sviluppo), in collaborazione con il Municipio Roma I. Tutte le informazioni sono sul sito www.cies.it
6 Periodicamente si sono aggiunti altri workshop o laboratori, come negli ultimi due anni quello di fumetto e arti visive, e per il 2021 quello di pianoforte finanziato dalla Yamaha.
7 «Axé è “l’energia che fa muovere tutte le cose”. In questa parola Yorubà non c’è solo l’omaggio alla cultura afrobrasiliana, ma la convinzione che i bambini e gli adolescenti siano l’energia più preziosa di ogni nazione». Projeto Axé — Centro di Difesa e Protezione per bambini e adolescenti è un’organizzazione no-profit fondata nel 1990 a Salvador Bahia, da Cesare de Florio La Rocca. In Brasile tutti la chiamano semplicemente Axé. Anzi: «O Axé».
8 Cesare de Florio La Rocca ci ripete continuamente che «Ogni atto educativo è un atto politico».
Vol. 20, Issue 2, May 2021