Vol. 20, n. 1, febbraio 2021 — pp. 226-227

Rubrica

Recensione

Tim Ingold (2019), Antropologia come educazione, Bologna, Edizioni La Linea.

«I risultati definitivi sanciscono la morte dell’antropologia, e anche quella dell’educazione» (p. 148). Lo afferma un antropologo inglese, che, in nome di Dewey, fa incontrare antropologia e educazione. Testimone italiana dell’incontro è Roberta Bonetti — docente di Antropologia dell’Educazione e di Antropologia Museale all’Università di Bologna —, che, appunto, firma la prefazione dell’edizione italiana del saggio. Che ci permette di segnalare la grande differenza fra chi si propone come persona di cultura e chi si pone come persona nella cultura (cfr. p. 58). L’insegnante «non è un custode dei fini, ma un catalizzatore di inizi, il cui compito è reintrodurre la memoria e l’immaginazione nella distensione temporale della vita» (p. 116).

È un libro denso, appassionato e appassionante. Riprende e rende attuali due elementi cari a Dewey: le abitudini e il tempo di attesa. È bene ricordare che Dewey ritiene che la scuola debba essere laboratorio. Riteniamo che un laboratorio permetta «l’agire nel subire tipico dell’abitudine» (p. 112). Sembra un paradosso: mi riconosco agente nelle abitudini che ho preso. «Siamo nel contempo liberi e moralmente obbligati di rispondere agli altri: è in questo modo […] che li rendiamo presenti e ci prendiamo cura di loro. Non può esserci libertà, in questo senso, senza responsabilità e cura. Ecco, alla fine, cosa significa stabilirsi nella libertà dell’abitudine» (p. 115).

La ricerca è «cerca ancora» (p. 162). È in contrasto con attività di ricerca improntate soprattutto sull’impostazione di sviluppi di carriere tali da confermare e riprodurre il già consolidato. Ma i circoli chiusi ed esclusivi non reggono. «Anche gli studiosi, che prima avevano bollato i saperi locali come soggettivi, qualitativi e troppo aneddotici per attribuirgli qualche valore, sono alla fine diventati consapevoli della loro potenziale importanza» (pp. 56-57). «Organizzando i modi di lavorare in base a una logica procedurale indifferente all’esperienza e alla sensibilità comune, la metodologia considera la presenza dell’osservatore sul campo di ricerca non un prerequisito essenziale per imparare da ciò che il mondo ha da offrire, ma una fonte di distorsione che deve essere ridotta a ogni costo. Una scienza che non riesca in questo proposito viene considerata “molle”, in un’accezione in genere negativa, e l’antropologia, in base a tale criterio, è estremamente “molle”, ma in senso positivo» (pp. 156-157). Dovremmo dire lo stesso per l’educazione. Il libro ci autorizza a dirlo.

Il libro di Ingold è di 191 pagine. Non quindi un librone. Ciononostante, ha un andamento carsico: scorre sotterraneo e nelle ultime pagine emerge illustrando temi e aspetti di grande importanza. Questo modo di procedere va considerato elemento di coerenza dell’autore. Non parte dai grandi enunciati, da cui fare discendere riflessioni e punti di appoggio. Se l’avesse fatto avrebbe inevitabilmente proclamato una sua verità imponendola a sé stesso e agli altri, lettori compresi. Chi legge, invece, segue il percorso carsico. Viene alla luce un tema di fondo: la libertà. «[…] la libertà viene definita […] in contrapposizione alla predeterminazione. [Questa porta a ritenere che] la libertà è accessibile per alcuni solo a partire dalla prigionia di altro. È la libertà della volizione» (pp. 174-175). «[…] dobbiamo smettere di definire l’universale nei termini di attribuzione originaria di un’essenza comune a ogni individuo. […] queste differenze sono il suo [del mondo] principio di esistenza» (p. 177).

Viviamo tutte e tutti, studiosi e ricercatori compresi, un unico mondo, fatto di differenze. «Questo unico mondo è il nostro multiverso» (p. 178). L’universo diventa multiverso. Parola che il computer non accetterebbe come vocabolo, dividendolo in due: multi verso. No, caro computer: il tuo automatismo non va bene. Il testo di Tim Ingold può fare riflettere sui tanti automatismi che l’estensione di un modo di vivere a tutto il mondo — universalismo — ha indotto in ognuno di noi.

Ciascuno chiama barbarie ciò che non è nelle sue usanze. Lo diceva, qualche secolo fa, Montaigne.

Uscire dagli automatismi del mondo/universo per accorgerci che la realtà è un mondo multiverso, può essere difficile. Questo libro fornisce buone ragioni per affrontare questa fatica, e in questo modo, senza semplificarla, la rende possibile.

Andrea Canevaro

 

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