Vol. 19, n. 4, novembre 2020

CANTIERE APERTO

L’educational match/mismatch nei laureati con disabilità e DSA dell’Ateneo di Torino

Un approfondimento quantitativo e qualitativo

Rosa Bellacicco1

Sommario

Questo contributo si concentra sui laureati con disabilità e DSA dell’Ateneo di Torino (UniTo), con il fine di esplorare il fenomeno del (dis)allineamento (match/mismatch) fra il livello di istruzione acquisito e quello richiesto per svolgere la professione, nonché i fattori, concernenti il percorso accademico, predittori di un buon match. Lo studio utilizza sia dati amministrativi relativi alle carriere accademiche e professionali dei laureati di UniTo tra il 2012 e il 2016 (n=301), sia dati qualitativi, esito delle interviste a 10 di essi, occupati in un lavoro coerente. Sul piano quantitativo, si osserva la presenza di disallineamento per quasi metà della popolazione con disabilità/DSA indagata; il voto finale più alto, la laurea di II livello e il settore disciplinare scientifico-sanitario sono associati ad un match migliore. Dalle interviste si evince che quest’ultimo sottende anche una scelta ponderata e consapevole del corso di studi, un forte investimento in esperienze lavorative durante l’iter e nel tirocinio, un uso proattivo dei servizi accademici e la partecipazione ad attività — universitarie e non — per rafforzare le soft skill.

Parole chiave

(dis)Allineamento tra istruzione e lavoro, laureati con disabilità e DSA, predittori, esperienza accademica.

OPEN PROJECT

Educational match/mismatch on graduates with disabilities and learning disorders from the University of Turin

A quantitative and qualitative study

Rosa Bellacicco2

Abstract

This paper focuses on graduates with disabilities and learning disorders from the University of Turin (UniTo), with the aim of exploring the phenomenon of match/mismatch between the level of education acquired and that one required to get the current job, as well as the determinants relating to schooling which are predictors of a good match. The study uses both administrative data, referred to the academic and professional careers of UniTo graduates between 2012 and 2016 (n=301), and qualitative data resulting from interviews with 10 of them employed in a coherent job. On a quantitative level the presence of a mismatch is observed among almost half of the examined population with disabilities/learning disabilities; a higher final grade, a Master’s Degree and scientific/health fields are associated to a better match. The interviews also show that this implies a thought-out and fully aware choice of the course of study, a strong investment in work experiences during one’s studies and in practicum placements, a proactive use of university services and the participation in activities — academic and not — to strengthen soft skills.

Keywords

Educational match/mismatch, graduates with disabilities and learning disabilities, predictors, academic experience.

Introduzione

Per le persone con disabilità e disturbi specifici dell’apprendimento (DSA)3 è documentata una sovra-rappresentazione nelle posizioni lavorative entry-level: anche a parità di titolo di studio, esse figurano poco nelle professioni che richiedono abilità «in informazione, comunicazione e capacità di supervisione, le qualità stesse che offrono guadagni più alti e una migliore sicurezza del posto di lavoro»4 (Kaye, 2009, p. 121).

La ricerca spiega questo diffuso disconoscimento delle loro competenze con l’esistenza di atteggiamenti discriminatori da parte dei datori di lavoro (Schur, Kruse e Blanck, 2013; de Beer et al., 2014; Graham et al., 2018), da cui deriva il relegamento a mansioni meno prestigiose e/o l’offerta di una limitata serie di accomodamenti ragionevoli, che rende difficile lo svolgimento di impieghi più qualificati. Lo stigma nei confronti delle persone con disabilità/DSA limiterebbe, inoltre, a monte le opportunità occupazionali a disposizione, aumentando il rischio che esse accettino posizioni inferiori (Kaye, 2009).

D’altro canto, l’accesso a professioni che comportano meno ore di lavoro e responsabilità può essere legato alle basse aspettative degli individui stessi o essere una condizione per loro desiderabile, in quanto maggiormente compatibile con le condizioni di salute (Jones, Latreille e Sloane, 2006; Segon e Le Roux, 2015). A queste motivazioni va aggiunta la cosiddetta «trappola dei benefici specifici», per cui le persone con disabilità, in particolare, potrebbero scegliere posizioni meno prestigiose e, quindi, meno retribuite per non perdere i sussidi statali (Pratt et al., 2014).

A fronte di questo quadro generale, nonché della costante qualificazione della loro formazione, fino al livello universitario (DZHW, 2018), diviene fondamentale indagare quale sia la situazione per i laureati con disabilità e DSA e l’eventuale diffusione del fenomeno di (dis)allineamento tra il titolo di studio posseduto e quello richiesto per svolgere la mansione (ovvero l’educational match/mismatch, così come viene indicato dalla letteratura internazionale).

Soprattutto nel nostro paese, il quadro è poco esaustivo in merito. Le statistiche dell’ISTAT, riportate dall’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (2016), evidenziano tra tali individui una bassa quota di dirigenti, imprenditori e liberi professionisti (11,0%) e una loro maggior concentrazione nel livello intermedio (36,9% di impiegati, direttivi, quadri, etc.; dato attinente a tutte le classi di età). Ma è forse utile ricordare che, in Italia, non sono rilevate stime relative alle persone con DSA e che, in ogni caso, nei dati esistenti le informazioni sulle qualifiche professionali non si incrociano con quelle indicanti il possesso di un titolo di studio universitario. Non disponiamo, quindi, di statistiche nazionali che permettano di tracciare una eventuale situazione di disallineamento per tale popolazione.

Obiettivo di questo lavoro è analizzare l’educational match/mismatch tra gli studenti con disabilità e DSA laureatisi all’Ateneo di Torino.

Il contributo ha come sfondo due filoni di letteratura: il primo approfondisce il disallineamento tra titolo e posizione lavorativa nei laureati in generale ed esplora le teorie di riferimento e le variabili che possono incidere; il secondo analizza la questione orientandosi sulla forza lavoro con disabilità/DSA.

Il match/mismatch nei laureati

Framework teorico

L’istruzione è un investimento costoso, sia per gli individui sia per la società. Secondo alcuni esperti, il massimo ritorno per entrambi si ottiene quando le competenze acquisite attraverso la formazione vengono utilizzate in modo ottimale nel mercato del lavoro (Levin et al., 2007).5 Al contrario, discrepanze tra le prime e l’occupazione raggiunta possono determinare penalità salariali (Chevalier, 2003; Bender e Roche, 2013), minore soddisfazione professionale (Bender e Heywood, 2006), nonché più frequenti cambi di mansione (Allen e Van der Velden, 2001; Wolbers, 2003).

Esistono diversi modelli teorici cui attingere possibili letture del fenomeno; per ragioni di spazio, ne citiamo brevemente solo due.6 La teoria del capitale umano dipinge un rapporto positivo tra mondo del lavoro e istruzione superiore: quest’ultima permetterebbe alle persone di accumulare capitale umano (conoscenze, competenze, etc.), rendendole più produttive e così assicurando loro i posti di lavoro migliori (Allen e De Weert, 2007). In questo quadro, il mismatch sarebbe trascurabile e, anche qualora dovesse verificarsi, sarebbe temporaneo e corretto naturalmente dal mercato (Becker, 1980).

D’altra parte, la teoria credenzialista sostiene che i titoli di studio costituiscono, appunto, solo delle credenziali — indicatori delle abilità e delle motivazioni delle persone — per presentarsi sul mercato occupazionale (mentre la produttività dipende dal posto di lavoro e non tanto dal capitale umano acquisito). In ogni caso, i datori di lavoro utilizzerebbero il livello di istruzione come un meccanismo di filtro per regolare l’accesso al mercato di candidati troppo formati (Thurow, 1975). In un quadro in cui ognuno tenterà di competere per le posizioni disponibili accumulando istruzione, l’inevitabile effetto collaterale è la perdita di valore del titolo di studio. Il fenomeno del mismatch, in questa teoria, diventa quindi uno scenario realistico.

Tra le variabili che possono influire positivamente, l’aver conseguito una laurea in discipline tecniche/scientifiche ma, soprattutto, sanitarie ha un certo peso (Robst 2007; Boudarbat e Chernoff, 2009; Luciano e Romanò, 2017). Questo è ascrivibile al fatto che tali curricula enfatizzano l’acquisizione di competenze specifiche per una determinata occupazione (teoria del capitale umano). Trattandosi di corsi altamente selettivi, inoltre, una laurea in tali ambiti costituirebbe un indicatore, per i datori di lavoro, di più alti livelli di abilità e di motivazione dei candidati (teoria credenzialista; Barone e Ortiz, 2011).

La probabilità di ottenere un lavoro coerente è anche determinata dal livello di istruzione raggiunto (Wolbers, 2003; Robst, 2007; Bender e Roche, 2013). Gli individui con un livello di laurea superiore dovrebbero — a seconda nuovamente che il riferimento sia la teoria del capitale umano o quella credenzialista — esser più produttivi o possedere abilità/motivazioni maggiori e quindi godere di più qualificate prospettive sul mercato del lavoro. Anche voti alti generano in alcune indagini un buon match (Garcia-Espejo e Ibanez 2006; Boudarbat e Chernoff, 2009), mentre il completamento degli studi oltre i tempi previsti dall’ordinamento e ad un’età più avanzata sembra avere delle ricadute negative (Aina e Pastore, 2012; Luciano e Romanò, 2017). Per quanto riguarda i fattori demografici, le donne sono più a rischio di disallineamento (Wolbers, 2003; Robst, 2007), ma non tutti gli studi concordano (Cutillo e Di Pietro, 2006).

Analisi aggiuntive mostrano, infine, una serie di altri fattori in grado di incidere sul match/mismatch, tra cui: l’origine sociale, i requisiti dell’occupazione raggiunta (tipo di azienda, tipo di contratto, settore) e le caratteristiche stesse del mercato del lavoro (Boudarbat e Chernoff, 2009).

Misure dell’educational match/mismatch

In letteratura si riscontrano diverse modalità empiriche di rilevazione del disallineamento tra istruzione e lavoro (McGuinness, 2006).

Il cosiddetto mismatch verticale viene misurato confrontando il livello di istruzione conseguito dai laureati con quello richiesto per svolgere la mansione. I lavoratori che possiedono un livello superiore rispetto a quello implicato nel lavoro effettuato sono considerati sovra-istruiti (e viceversa).

Un’altra forma di mismatch — definito orizzontale o skill mismatch — considera invece la corrispondenza tra il campo di studio e il set di competenze richieste dalla professione. Laddove le competenze conseguite non siano impiegate nella mansione si parla di overskilling.

La letteratura distingue ancora tra definizioni «soggettive» e «oggettive». L’approccio soggettivo è basato sul self-report degli intervistati, cui viene domandato di valutare se il livello o il tipo di istruzione acquisiti sono utilizzati nell’attività lavorativa (Bender e Roche, 2013). Al contrario, il metodo oggettivo determina i requisiti formativi di una professione facendo ricorso a misure «statistiche» o «normative». Nel primo caso, i gradi di istruzione dei soggetti coinvolti vengono messi a confronto con la media (o la moda) della popolazione occupata nello stesso gruppo professionale di cui essi fanno parte (Jauhiainen, 2011). Nel secondo caso si fa riferimento ai sistemi ufficiali di classificazione delle occupazioni (es. ISCO-08),7 in cui ciascuna professione è convenzionalmente associata ad un determinato livello formativo (Chevalier, 2003).

Si noti che tutte queste misure comportano alcuni bias. Ad esempio, risulta difficile distinguere, nel metodo soggettivo, la sovra-istruzione genuina da quella spuria, connessa alla insoddisfazione lavorativa dell’intervistato (Caroleo e Pastore, 2013). Il punto poi fondamentale è che l’utilizzo di una determinata misura, piuttosto che di un’altra, può condurre a stime anche molto diverse del fenomeno (Giret e Hatot, 2001).

Match/mismatch e disabilità: precedenti indagini

Tra le poche indagini che hanno intercettato il tema del match/mismatch per la popolazione con disabilità/DSA, l’indagine di Robst (2007), condotta con misure soggettive su laureati di I livello statunitensi, riscontra che la probabilità di skill mismatch aumenta in presenza di una disabilità, in modo simile tra uomini e donne. Un altro studio nordamericano, svolto utilizzando come informatori i lavoratori con dottorato di ricerca in una disciplina scientifica/ingegneria, evidenzia invece maggiori probabilità di disallineamento orizzontale in coloro che acquisiscono una disabilità verso la fine della carriera, mentre nota pochi effetti per coloro che hanno già delle difficoltà nel momento dell’ingresso nel mercato occupazionale (Bender e Heywood, 2011).

Una indagine che, sulla base sempre di misure soggettive, approfondisce maggiormente la questione è quella di Jones e Sloane (2009). Essa analizza, in Gran Bretagna, i determinanti dello skill mismatch nelle persone con problemi di salute — implicanti limitazioni in ambito lavorativo o meno —,8 nonché le sue ripercussioni in termini di retribuzioni e soddisfazione. I risultati mettono in luce che gli individui con problemi di salute, di entrambi i gruppi, hanno una probabilità maggiore di essere sovra-istruiti rispetto ai pari senza difficoltà. Essi soffrono poi di una penalizzazione salariale connessa alla disabilità (significativa solo per coloro che hanno anche limitazioni sul lavoro) e mostrano una soddisfazione inferiore rispetto alla popolazione complessiva, ulteriormente ridimensionata dalla situazione di mismatch. Quest’ultimo risultato sembra in contrasto, tuttavia, con quanto rilevato da Pagán e Malo (2009), secondo i quali la sovra-istruzione non mina la soddisfazione in ambito professionale delle persone con disabilità. Queste ultime risultano, nello studio, più appagate dei pari senza difficoltà, anche se gli autori suggeriscono che ciò sia attribuibile alle loro basse aspettative lavorative.

I dati di una indagine canadese, espressamente concentrata sull’esperienza occupazionale di laureati con DSA in diverse università dell’Ontario, fa ulteriormente riflettere: ben sei partecipanti su dieci (62,8%) si ritengono infatti in possesso del giusto livello di istruzione richiesto per l’occupazione svolta. Tuttavia, la principale motivazione (45,7%) dei loro periodi di disoccupazione è connessa al non esser riusciti a intraprendere una carriera in un settore affine al campo degli studi (Holmes, Silvestri e Harrison, 2011). Inoltre, una seconda ricerca canadese, condotta sempre su laureati, non rileva sostanzialmente differenze tra quelli con e senza disabilità osservando la coerenza delle posizioni occupazionali raggiunte. Una sola differenza significativa si ottiene, nell’area tecnico/scientifica, analizzando coloro che lavorano in un settore «strettamente» correlato all’ambito della formazione acquisita: in questo caso, le persone con disabilità risultano penalizzate (Fichten et al., 2012).

In assonanza a questa indagine, in Italia, Boccuzzo, Fabbris e Nicolucci (2011), mediante un questionario somministrato ai laureati dell’Università di Padova tra il 2004 e il 2008, sottolineano esiti lavorativi sovrapponibili per gli individui con disabilità e non quanto a coerenza della mansione con il campo degli studi svolti (64,9% per i primi vs. 64,0% per i secondi). Anche con riferimento al conseguimento di una posizione professionale elevata, i risultati osservati nelle due popolazioni sono equiparabili (24,3% vs. 25,1%), anche se bassi per entrambe.

In uno studio successivo, condotto su laureati con disabilità provenienti da diverse università del nostro paese, il 27% degli occupati esprime un giudizio di perfetto allineamento tra istruzione ed occupazione contro il 24% che dichiara, invece, un totale mismatch. La quota dei coerenti palesa anche un maggior livello di soddisfazione lavorativa (Borgonovi, 2016). Parallelamente, Formiconi (2018) rileva che in circa il 32% dei laureati interpellati nel suo studio si ritrova un match totale tra le competenze acquisite e quanto richiesto dalla mansione, mentre il 20% è allocabile tra i sovra-istruiti. Un dato certo è che, nella ricerca italiana, il tema è solo considerato in senso orizzontale, stimato sempre con indicatori self-report e l’analisi sui determinanti non è portata avanti.

Obiettivi della ricerca e metodo

Questo contributo esplora, tramite una misura oggettiva, il fenomeno del match/mismatch verticale nelle persone con disabilità e DSA laureatesi tra il 2012 e il 2016 all’Università di Torino (UniTo). Inoltre, analizza alcune variabili/processi, connessi al percorso accademico, associati ad esso (voto finale, settore disciplinare, ma anche la scelta del corso di studi, la fruizione delle attività di tirocinio, etc.).

L’approfondimento del tema rientra nell’ambito di uno studio più ampio, mixed-methods, volto ad indagare gli esiti occupazionali (da 1 a 5 anni dal titolo) dei laureati con disabilità e DSA di UniTo ed i fattori che hanno favorito la transizione.

La fase quantitativa ha previsto la costruzione di un dataset che unisce due diverse fonti informative: i dati amministrativi sulle carriere universitarie provenienti dalla piattaforma ESSE3 di Ateneo e le esperienze professionali, di tipo subordinato o parasubordinato, registrate nell’archivio SILP — Sistema Informativo Lavoro Piemonte. Il dataset considera tutti i contratti che risultano attivati dai laureati (di I e di II livello) fino alla fine del 2017,9 in modo da poter rilevare gli esiti occupazionali (ad 1 anno dal titolo) anche della coorte del 2016. La misura del match/mismatch è resa possibile dalla presenza nella matrice dell’informazione relativa alla qualifica professionale con cui gli individui sono stati assunti, basata sulla Classificazione delle professioni dell’ISTAT (CP-2011). In tale Classificazione, il lavoratore con titolo universitario è considerato coerente se l’occupazione svolta occupa il segmento più alto delle attività lavorative (gruppi 1 e 2: Dirigenti e Professioni intellettuali) o, nel caso dei percorsi di I livello, quello tecnico-intermedio (gruppo 3).

L’indagine qualitativa ha rivestito un ruolo complementare a quella quantitativa e si è sviluppata mediante la raccolta di dati con interviste semistrutturate. Sono stati invitati a partecipare alla ricerca, tramite una call promossa dall’Ufficio Studenti con Disabilità e DSA (SDDA), tutti coloro che avevano conseguito il titolo accademico tra il 2012 e il 2016. Un altro requisito essenziale era che fossero occupati al momento dell’indagine o che avessero avuto, post lauream, almeno una esperienza di lavoro (con una qualsiasi forma contrattuale). Dei 22 laureati che hanno aderito all’indagine, 10 hanno dichiarato che la loro qualifica professionale era coerente con il livello di istruzione. Ai fini di questo articolo, considereremo solo le riflessioni di questi 10 laureati; ci si focalizzerà, inoltre, sulla prima parte del canovaccio d’intervista, volto ad esplorare i processi all’opera durante il percorso universitario che depongono a favore del raggiungimento di una occupazione coerente.10

Partecipanti

Sul piano quantitativo, la popolazione di riferimento è costituita da 301 laureati, di cui 241 con disabilità (ovvero in possesso di certificazione di invalidità con una percentuale pari o superiore al 50% o di certificazione di disabilità ai sensi della Legge n. 104/92) e 60 con DSA. 201 hanno conseguito un titolo di I livello e 100 di II.11 Le donne rappresentano il 54,8% del totale. Un po’ meno della metà (43,2%) ha effettuato gli studi in area umanistica, il 27,2% in area sociale, il 18,3% in area scientifica e il restante 11,3% in area sanitaria.

Rispetto ai 10 laureati intervistati — 5 con disabilità e 5 con DSA —, la maggioranza è di genere maschile (7) e ha conseguito un titolo di II livello (7). Rispetto alle discipline degli studi svolti, 3 hanno acquisito un titolo in area sociale; tra i rimanenti, 2 lo hanno ottenuto in ambito umanistico, 2 nel settore sanitario e 2 in quello scientifico.

Analisi dei dati

I dati quantitativi sono stati analizzati mediante SPSS 25.0.

Per inquadrare il fenomeno alla luce di alcune possibili variabili incidenti, è stata impostata una Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM) e poi condotta una Cluster Analysis gerarchica.

Per quanto riguarda l’indagine di stampo qualitativo, le interviste sono state audioregistrate previo consenso, trascritte (rimuovendo eventuali informazioni identificative) e codificate tematicamente (Elo e Kyngas, 2008). Le categorie sono in parte emerse dai dati raccolti, coerentemente con un approccio analitico induttivo, ed in parte identificate deduttivamente e modellate dalle domande dell’intervista (Schreier, 2012).

Risultati

Fase quantitativa

Solo 107 laureati su 301 (35,5%) hanno sottoscritto almeno un contratto dopo la laurea o lo avevano in piedi al momento del titolo.12 Di questi, 49 (45,8%) non hanno svolto alcuna giornata di lavoro con qualifiche professionali in linea con il livello universitario,13 mentre 21 (19,6%) hanno lavorato solo in parte coerentemente (fino al 75% di giornate coerenti). 37 laureati (34,6%), infine, hanno raggiunto una situazione di match totale (più del 75% dei giorni di lavoro svolti con una qualifica professionale allineata).

Come anticipato, allo scopo di studiare la relazione tra i percorsi lavorativi, coerenti o meno, dei laureati e le loro scelte formative/performance negli studi, è stata condotta un’Analisi delle Corrispondenze Multiple, attraverso cui sono state sintetizzate in una unica variabile le caratteristiche distintive dei 301 laureati relative alla carriera universitaria. Tra le variabili attive sono state considerate: il livello di laurea (I vs. II); il voto finale di laurea (> o < al voto mediano, pari a 102); la regolarità del percorso (regolare vs. non regolare, ovvero 1 anno fuori corso e oltre); l’età alla laurea (> o < all’età mediana, pari a 26 anni). La figura 1 mette in luce come le caratteristiche dell’iter degli individui si snodino lungo un continuum latente, che va dal successo formativo, caratterizzato tuttavia da percorsi più lunghi, all’insuccesso (in termini di voto di laurea), associato a percorsi più brevi.14

Figura 1

Caratteristiche dei percorsi di studio dei laureati (N=301) Fonte: nostre elaborazioni su dati ESSE3 (periodo 01/01/2012 — 13/11/2016) e SILP (ultima estrazione 13/11/2017)

I punteggi degli oggetti ottenuti con l’ACM sono stati poi utilizzati per condurre una Cluster Analysis gerarchica (metodo Ward). L’ispezione del programma di agglomerazione ha permesso di individuare due gruppi tipologici. Il primo cluster, costituito da 142 casi, è caratterizzato da laureati perlopiù di II livello (63%) e con voto superiore al mediano (67%), con percorsi un po’ meno regolari (49%) e con un’età alla laurea prevalentemente alta (25% con età inferiore a 26 anni). Per questi motivi, è stato denominato «laureati con performance di successo, ma meno giovani e regolari». Nel secondo cluster sono confluiti 159 casi; prevalgono quelli con laurea di I livello (94%) e con voto inferiore al mediano (79%), perlopiù con percorso regolare (91%) e nettamente giovani (85% con età alla laurea inferiore ai 26 anni). Questo gruppo è stato invece definito «laureati giovani e regolari, ma con performance di successo inferiori».

Si è quindi osservato come le giornate di lavoro, allineate o meno con il livello degli studi, si sono distribuite nei due cluster di laureati così qualificati, disaggregando anche per macroarea disciplinare.

Come si evince dalla tabella 1, la quota più consistente di coloro che hanno lavorato in modo quasi totalmente coerente (> del 75% dei giorni) appartiene al gruppo 1 (ovvero individui con performance di successo, ma meno giovani e regolari) e all’ambito scientifico-sanitario (25,0%). Nel medesimo settore di studi, infatti, si nota nel gruppo 2 (ovvero nei soggetti giovani e regolari, ma con performance di successo inferiori) una minore concentrazione di laureati ben allineati (8,8%); in generale, in tale cluster prevalgono i soggetti totalmente incoerenti (14,0%).15 Anche nell’area umanistico-sociale si osserva una più alta presenza di laureati ben allineati nel cluster 1 rispetto al cluster 2 (12,7% vs. 9,8%). Tuttavia, in entrambi questi gruppi e diversamente da quanto si verifica nell’ambito scientifico-sanitario, le percentuali più elevate tra i laureati occupati si ritrovano nella situazione di mismatch (ben il 16,4% di incorenti per il cluster 1 e il 20,6% di incoerenti per il cluster 2).

Tabella 1

Laureati, distribuiti nei due cluster, per giornate di contratto coerenti e macroarea disciplinare (N=301)

Cluster 1

Cluster 2

Totale

Area umanistico-sociale

Non occupati dopo titolo

62,7%

61,8%

62,3%

Incoerenti

16,4%

20,6%

18,4%

Max 75% giorni coerenti

8,2%

7,8%

8,0%

>75% giorni coerenti

12,7%

9,8%

11,3%

Totale

100,0%

100,0%

100,0%

Area scientifico-sanitaria

Non occupati dopo titolo

68,8%

70,2%

69,7%

Incoerenti

6,2%

14,0%

11,2%

Max 75% giorni coerenti

-

7,0%

4,5%

>75% giorni coerenti

25,0%

8,8%

14,6%

Totale

100,0%

100,0%

100,0%

Fonte: nostre elaborazioni su dati ESSE3 (periodo 01/01/2012 — 13/11/2016) e SILP (ultima estrazione 13 novembre 2017)

Fase qualitativa

Alla luce delle risultanze della prima parte dell’analisi, la fase qualitativa ha cercato di ricostruire retrospettivamente quegli aspetti delle esperienze accademiche, non indagabili a livello quantitativo, che possono aver favorito il conseguimento di un’occupazione coerente da parte dei laureati. Le categorie finali emerse sono 4: scelta ponderata e consapevole del corso di studio; uso non assistenzialistico dei servizi del SDDA e rapporto proattivo con i docenti in merito alla definizione degli accomodamenti ragionevoli; investimento in esperienze lavorative già durante gli studi e nelle attività di tirocinio; partecipazione alla vita universitaria o ad altri momenti formativi per la maturazione di soft skill.

Scelta ponderata e consapevole del corso di studio

Facendo luce sugli elementi che hanno determinato la scelta del corso di studi, un fattore che si ritrova in tutti i laureati è una sua selezione ponderata e consapevole.

I parametri che li hanno condotti a preferire un certo indirizzo, oltre all’inclinazione soggettiva per alcune materie, richiamano sia l’acquisizione di informazioni precise sugli sbocchi lavorativi, sia la valutazione delle possibilità di svolgimento delle professioni associate al corso, in rapporto alle potenzialità e difficoltà esistenti. Le scelte compiute dagli intervistati acquisiscono dunque significato all’interno di una progettualità più a lungo termine e, al contempo, prevedono una programmazione delle azioni da intraprendere (Pavone, 2014).

Oltre a selezionare un corso che mi piaceva, ho già ragionato sul dopo e sulla professione che potesse far risaltare al meglio le mie capacità. Il DSA deve infatti ragionare per capacità e non solo per impossibilità, per cui ho fatto un bilancio di competenze per capire se il lavoro connesso ai miei studi avrebbe effettivamente fatto fruttare il mio potenziale (int. 7).

Ho scelto quella laurea specialistica perché mi offriva maggiori opportunità lavorative, da quanto deducevo dalle statistiche di AlmaLaurea, che ho seguito negli anni. Poi ho cercato di capire se esistessero dei non vedenti che svolgevano quella professione. Ho scelto quindi ciò che mi avrebbe permesso di coprire una posizione che più rispondeva alle caratteristiche di una persona non vedente (int. 2).

La testimonianza di uno studente con DSA esemplifica un’ulteriore sfaccettatura del processo. Nel caso specifico, l’iscrizione al corso connesso ai suoi interessi vocazionali è stata preceduta da un intervento di rinforzo in alcune aree di difficoltà (lingue straniere). Questo già nell’ottica di prevenire eventuali ostacoli connessi allo svolgimento futuro della professione.

Viaggiando molto, sono diventato amante delle tematiche europee. Mi sono reso conto che avevo però dei limiti obiettivi, perché per la carriera diplomatica le lingue sono fondamentali. Allora subito dopo la maturità ho deciso di rafforzare il mio inglese e poi sono stato in estate in Québec per una full-immersion di francese. La determinazione rispetto al voler fare in futuro questo lavoro mi ha sostenuto in queste fatiche (int. 10).

Uso non assistenzialistico dei servizi del SDDA e rapporto proattivo con i docenti

Un altro elemento che domina le testimonianze è la peculiarità con cui sono stati richiesti e utilizzati i servizi del SDDA. Pur avendo tutti beneficiato dei supporti, prevale la chiara intenzionalità a non volersi servire di questi aiuti in maniera costante o oltre le reali esigenze o, ancora, sviluppando legami di dipendenza con il tutor.16

Secondo me lo studente con DSA, nel momento in cui gli vengono forniti gli strumenti compensativi e dispensativi, non ha bisogno del tutor. Io l’ho usato poco, solo quando c’erano da capire gli argomenti centrali di un capitolo e la sintesi vocale in questo non aiuta perché devi leggere per forza tutta la pappardella. In altri casi il tutor può essere addirittura dannoso (int. 8).

Io ho richiesto i supporti e il tutor durante la triennale. Nella specialistica, avendo già imparato a muovermi, ho preferito non richiedere quasi nulla e provare a farcela con l’aiuto dei compagni (int. 4).

Anche nei confronti dei docenti si osservano meccanismi simili. Si tratta di laureati perfettamente in grado di comunicare ai professori le proprie difficoltà ed esigenze, con un approccio che coniuga una appropriata self-advocacy con la richiesta solo delle misure connesse ai bisogni effettivi. I partecipanti evidenziano anzi il rischio di fruire di accomodamenti ragionevoli «aggiuntivi» (ad esempio una riduzione del programma d’esame, talvolta prospettata dai docenti), in quanto ciò potrebbe compromettere l’acquisizione di conoscenze essenziali per la futura professione.

Quando il compito era scritto chiedevo solo del tempo aggiuntivo, che era l’unica cosa che mi serviva realmente. Io so che a livello legislativo avrei potuto chiedere di più, ma che senso avrebbe avuto? Se non sei preparato, il mondo del lavoro poi non perdona (int. 5).

Addirittura, il professore mi chiedeva se togliermi parti del programma. Io avevo chiaro il mio problema e la legge e sapevo che, chiedendo il tempo aggiuntivo e la trasformazione da scritto a orale, non avrei avuto altre difficoltà. Saltare un argomento non sarebbe stato a mio vantaggio. Un domani, infatti, se avessi partecipato ad un concorso pubblico per diplomatico e fosse uscita una domanda su quel tema, avrei fallito (int. 10).

Investimento in esperienze lavorative durante gli studi e nelle attività di tirocinio

Anche lo svolgimento di esperienze lavorative durante gli studi sembra esser collegato in modo piuttosto stretto agli esiti occupazionali successivi. Gli intervistati discutono i vantaggi dell’aver effettuato, in precedenza, mansioni anche poco qualificate: ciò ha permesso loro di «scoprirsi» come professionisti e di comprendere anticipatamente il funzionamento e le sfide reali del mondo del lavoro; di conseguenza, ha avuto una valenza rilevante per l’adempimento dell’attuale mansione.

Ti fai già una idea del mondo del lavoro se inizi a lavorare prima…anche se io ho avuto sempre situazioni molto precarie, come la ristorazione, ho imparato a rapportarmi con le persone in modo adulto e ho compreso certe dinamiche. Credo questo sia emerso quando poi ho fatto il colloquio per l’attuale lavoro (int. 3).

Andavo a pulire le spiagge e facevo il cameriere. Svolgere questi lavori e fare quello che faccio adesso sono due strade molto diverse, ma per me è stata una gavetta fondamentale…ho sviluppato anche una certa sensibilità per alcuni reparti e questo, di fatto, mi ha preparato a svolgere la professione di oggi (int. 9).

Nella stessa direzione, gli intervistati accordano una importanza peculiare al tirocinio, grazie al quale hanno accumulato un più ricco repertorio di esperienze e strumenti.

Secondo me l’esperienza del tirocinio nel settore è stata fondamentale per la ricerca, dopo la laurea, di un lavoro coerente con il titolo…All’epoca, nel mio corso di studi, c’era un tirocinio non obbligatorio e c’erano dei crediti liberi che ognuno poteva utilizzare come voleva. Io ho fatto dei giochi di prestigio in modo tale da averne il più possibile da dedicare al tirocinio; ho imparato molto (int. 8).

Svolgere un tirocinio in azienda penso sia stato in assoluto l’aspetto più utile, perché mi ha permesso di vedere la dimensione concreta di quello che studiavo. È un’esperienza che poi diventa, praticamente, la tua esperienza lavorativa successiva; io ho fatto quello che più o meno faccio adesso (int. 3).

Partecipazione alla vita universitaria o ad altri momenti formativi per rinforzare le soft skill

La partecipazione alle attività accademiche — in termini di frequenza sia dei momenti formativi/di socializzazione sia di progettualità specifiche — viene invocata, infine, tra i temi chiave da una buona parte dei laureati.

Essi descrivono il ruolo giocato dall’inclusione nella vita universitaria per lo sviluppo delle soft skill e per la preparazione alla transizione. Spunti di analisi stimolanti giungono anche dalla adesione delle persone con disabilità ad iniziative specifiche, come il progetto Enjoy the difference (programma di sostegno alla coabitazione tra studenti con difficoltà e non), che ha garantito loro la possibilità di non rimanere «intrappolati»nel contesto familiare e di acquisire maggiore fiducia in se stessi.

Le competenze sviluppate in università, durante la frequenza delle lezioni, lo studio o le riunioni delle associazioni studentesche, sono quelle che mi hanno permesso di essere tenuto in considerazione dalla mia azienda. Ad esempio, penso alla capacità di problem solving…durante gli studi, ho dovuto risolvere piccoli e grandi problemi e imparare a pensare diversamente. Anche durate gli esami, il docente ti permette di dividere la prova in tre parti, ma poi sei tu che devi scegliere come organizzarle, come organizzarti il lavoro, etc. Sei obbligato a sviluppare queste capacità e, secondo me, nel percorso lavorativo ti aiutano ad esser assunto con un buon livello (int. 7).

Il progetto Enjoy the Difference è stato fondamentale. Sono stata obbligata a confrontarmi con altre persone non disabili e ho imparato anche un pochino a impormi. Sicuramente ha portato via molta della insicurezza che mi avrebbe caratterizzata sul lavoro e che non mi avrebbe fatta arrivare dove sono adesso (int. 2).

Ben 8 intervistati su 10 hanno anche svolto un periodo di studio all’estero. Questa esperienza è letta, a posteriori, come positiva sia per i ritorni strumentali (ad esempio miglioramento delle competenze linguistiche) sia per la maturazione personale, in termini di sviluppo di autonomie e di aspirazioni lavorative.

Il semestre fuori mi ha aiutato tantissimo, ho acquisito molta più consapevolezza del ruolo professionale. Non c’era il tutor, non c’era l’Università degli Studi di Torino. Ero sola, me la cavavo e ho capito che avrei potuto farcela allo stesso modo anche nel mondo del lavoro (int. 6).

Durante l’Erasmus ho migliorato l’inglese, ma ho anche dovuto imparare a cavarmela da sola nella quotidianità, cosa che non ero incentivata a fare perché obiettivamente il rapporto costi-beneficio per una persona disabile è svantaggioso. Io impiego ad esempio un’ora a preparare il più semplice dei piatti. Eppure, è stato fondamentale per maturare e prendere confidenza con l’ambiente circostante, aspetti che mi hanno resa molto più a mio agio nel mondo del lavoro (int. 1).

Un elemento di discontinuità è costituito da un sottogruppo di intervistati più critico nei confronti dell’esperienza universitaria e del suo ruolo di regia nello sviluppo delle soft skill. Essi segnalano di aver dovuto ricercare, al di fuori del percorso accademico, altri spazi formativi per conseguire competenze trasversali e strategie di coping.

La formazione universitaria dovrebbe essere un trampolino di lancio per il mondo del lavoro, in realtà io non penso mi abbia aiutato al 100% su questo argomento, tranne che per il tirocinio e l’Erasmus. Mi spiego meglio: a livello teorico ti preparano, ma a livello pratico e di soft skill, pensando a quello che mi serve adesso nella professione che ricopro, è troppo poco…io ho imparato altrove (int. 8).

Le capacità organizzative io le ho apprese nelle esperienze di viaggio, come negli interrail, dove devi organizzarti da solo […] Competenze che in realtà non ho appreso sui libri (int. 10).

Discussione e conclusioni

Il fenomeno del mismatch appare affatto marginale per i laureati con disabilità e DSA di UniTo, considerando che solo un terzo ha lavorato in modo totalmente coerente (34,6%) e quasi la metà risulta sovra-istruito (45,8%).

La comparazione con altri studi è resa difficile dall’utilizzo di misure e definizioni di mismatch differenti. Qualche metro di confronto può essere in ogni caso d’aiuto. I dati AlmaLaurea relativi ai laureati 2017 di UniTo rilevano che circa il 30% degli intervistati svolge una professione in cui il possesso della laurea è richiesto per legge, ad 1 anno dal titolo; la quota sale al 41% a 5 anni dal titolo.17 Al contempo, considerando alcune delle indagini italiane precedentemente citate, svolte solo su soggetti con disabilità, ricordiamo che i lavoratori coerenti si attestano intorno al 30% (27% e 32% nelle analisi di Borgonovi, 2016 e di Formiconi, 2018), mentre la quota dei totalmente incoerenti intorno al 20% (20% e 24%, rispettivamente). Il dato registrato in questo studio, riferito agli occupati allineati, non sembra quindi così dissimile da quello stimato sia nella popolazione dei laureati di UniTo sia nella forza lavoro con disabilità di altri Atenei. Al contrario, risulta marcatamente distante la percentuale dei lavoratori totalmente incoerenti, la cui presenza appare più consistente tra le persone con disabilità e DSA indagate in questo contributo. A fronte dei bias già citati, questi numeri possono spiegare poco le motivazioni sottese agli andamenti rilevati,18 ma rafforzano la necessità di orientare la ricerca sul fenomeno a favore di dati maggiormente comparabili.

L’analisi sembra confermare anche l’associazione tra alcuni fattori relativi al percorso accademico e la coerenza degli sbocchi professionali: l’ambito scientifico-sanitario, il voto finale più elevato e il titolo di II livello costituiscono un vantaggio, mentre non sembrano esserlo il rispetto dei tempi previsti dall’ordinamento o la giovane età alla laurea. Questi risultati, almeno per i primi tre aspetti, sono in linea con quanto rilevato negli studi precedenti per tutti i laureati (Robst, 2007; Boudarbat e Chernoff, 2009) e supportano la rilevanza del successo formativo in vista della qualità della carriera lavorativa. Con riferimento alle persone con disabilità/DSA, questo aspetto, tuttavia, non appare scontato: la ricerca constata infatti, pur con delle eccezioni (Knight, Wessel e Markle, 2018), performance accademiche generalmente basse e in ogni caso inferiori a quelle della popolazione senza difficoltà (Wasielewski, 2016; Kilpatrick et al., 2017). Ciò avvalora la necessità di monitorare regolarmente e attentamente il loro iter formativo, al fine di profilare gli studenti a rischio e di implementare eventuali azioni di supporto il prima possibile.

I dati qualitativi riaccendono i riflettori sulla centralità di altri processi per un buon match, a partire dalla scelta ponderata e attenta del corso di laurea. La lettura di questo delicato passaggio è chiara ed evoca il ruolo cruciale dell’impostazione di un progetto di vita sia «caldo» sia «freddo», pilastro sostanziale della riflessione pedagogica (Ianes, 2009; Pavone, 2014). Questo significa che è essenziale iniziare, fin da subito, a ragionare con gli studenti sulle loro progettualità future e, allo stesso tempo, programmare, identificando percorsi lavorativi possibili, ambiti da rafforzare e bilanciamenti tra potenzialità e difficoltà.

Altri elementi che appaiono premiali sono l’utilizzo dei servizi universitari e degli accomodamenti ragionevoli in un’ottica proattiva e l’investimento in esperienze lavorative durante l’iter e nel tirocinio. Concentrandoci su questi ultimi, studi precedenti hanno già trattato il tema, evidenziando, in linea generale, il contributo dello svolgimento di tali attività per l’ingresso nel mondo occupazionale delle persone con disabilità (Martz 2003; Nolan e Gleeson, 2017).19 Anche le ricerche specifiche sul mismatch rivolte a tutti i laureati confermano che la frequenza del tirocinio (se finalizzato all’iscrizione a un albo) offre una «garanzia» contro la probabilità di sovra-istruzione (Caroleo e Pastore, 2013; Luciano e Romanò, 2017). Tuttavia, non può esser tralasciato che combinare l’attività di studio con quella lavorativa può creare sfide uniche e aggiuntive per alcuni individui con disabilità/DSA (Fichten et al., 2014): è necessario approfondire le modalità con cui queste esperienze possono essere affrontate e gestite da tutti gli studenti, affinché producano gli effetti sperati nel mondo del lavoro e non diventino controproducenti (in termini, ad esempio, di eccessivo affaticamento o prolungamento del percorso).

Inoltre, se una parte dei laureati ha messo in discussione il ruolo di rinforzo alle soft skill svolto dall’università, è altrettanto vero che tutti gli intervistati hanno maturato queste competenze — mediante la partecipazione alle attività formative o ad altri momenti/spazi —, in vista della transizione. 8 intervistati su 10 con lavoro coerente hanno poi intrapreso il programma Erasmus. Anche in questo caso, elementi simili si riscontrano nell’ambito della ricerca internazionale. La già citata indagine di Nolan e Gleeson (2017) è emblematica, a questo proposito, nel descrivere il valore dell’accumulare esperienze e network sociali durante l’iter accademico, nonché del partecipare a programmi di studio all’estero per i destini lavorativi dei soggetti con disabilità.

Non si tratta in generale di risultati sorprendenti; tuttavia, ciò che è rende assolutamente peculiare il percorso degli occupati con disabilità/DSA in lavori coerenti, coinvolti in questo studio, è il fatto che tutti questi fattori convergono nei loro iter formativi. Il conseguimento di una occupazione di qualità sembra quindi essere favorito da un’attenta e consapevole progettazione/programmazione, sin dagli esordi, di ciascun passaggio, con il baricentro sempre spostato in avanti sul futuro professionale. Inoltre, un’altra chiave di lettura mette in risalto che il nodo sotteso alle esperienze di questi laureati è la loro capacità di autodeterminazione. Quest’ultima — spesso richiamata dalla letteratura di settore in associazione al successo accademico (Yssel, Pak e Beilke, 2016; Fleming, Plotner e Oertle, 2017) — si palesa infatti quale proxy dell’attivazione di tutti i processi enucleati nelle interviste, dalla richiesta ad esempio dei servizi in un’ottica non assistenzialistica (Getzel, 2008) all’investimento nelle attività lavorative o nell’Erasmus durante gli studi, a loro volta connessi al conseguimento di un’occupazione di qualità.

La ricerca apre anche ad interessanti interventi di policy. A livello macro, è evidente che l’università deve riappropriarsi di un dialogo più proficuo con il territorio, in vista della transizione al mondo del lavoro degli individui con disabilità/DSA (Visentin e Canevaro, 2019). A livello micro, essa potrebbe agire sostenendo maggiormente alcuni momenti della carriera degli studenti. Ad esempio, durante l’orientamento in entrata, occorrerebbe assegnare maggiore spazio alla riflessione sulle aspirazioni lavorative connesse alla selezione dell’indirizzo e, laddove possibile, evitare scelte eccessivamente «prudenti» e valutare anche l’offerta dei corsi di studio scientifico-sanitari. Inoltre, durante l’iter, potrebbe essere utile valorizzare il coinvolgimento in esperienze lavorative, nel tirocinio, nel programma Erasmus e nelle altre progettualità universitarie, incentivando i giovani con disabilità/DSA a parteciparvi ed individuando linee di supporto specifiche (ad esempio nei confronti degli studenti-lavoratori). Ricordiamo infine che, soprattutto a livello internazionale, sono stati testati anche brevi interventi di rinforzo alla capacità di autodeterminazione degli individui con disabilità/DSA (es. White et al., 2014), che potrebbero essere sondati dagli Atenei italiani.

L’indagine presenta alcuni limiti, tra i quali, sul piano qualitativo, le dimensioni ristrette del campione. Sul piano quantitativo, oltre all’impossibilità di generalizzare i risultati, essendo focalizzati su dati provenienti da un solo Ateneo italiano, occorre mettere in luce che molti altri fattori (ad esempio il capitale sociale e culturale o il tipo di disabilità dei partecipanti) potrebbero aver mediato il raggiungimento di una situazione di allineamento tra titolo e occupazione. Lo studio poggia poi sull’assunzione che tutti i laureati aspirino ad un lavoro coerente, anche se, soprattutto nel caso delle persone con disabilità, si è visto che esse potrebbero aspirare, per differenti ragioni, ad occupazioni caratterizzate da qualifiche inferiori e meno pagate (Segon e Le Roux, 2015). Infine, va esplicitato che le condizioni del mercato occupazionale incidono per via diretta e indiretta sul fenomeno. I risultati dell’indagine vanno infatti contestualizzati nell’alveo della letteratura che sottolinea la presenza di atteggiamenti discriminatori nei confronti di tali laureati, che potrebbero limitare, al di là del titolo di studio e del successo formativo conseguiti, l’offerta stessa di lavori di qualità.

Considerate le ripercussioni del mismatch sulle retribuzioni, sulla soddisfazione e in generale sul benessere lavorativo, esso pone un problema di equità che deve essere affrontato se davvero si punta a garantire, anche nell’ambito della partecipazione al mercato occupazionale, pari opportunità alle persone con disabilità/DSA.

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1 Ricercatrice a tempo determinato presso la Libera Università di Bolzano.

2 Libera Università di Bolzano.

3 È noto che, nel nostro paese, le persone con disabilità e DSA fanno riferimento a legislazioni differenti sul versante formativo (Legge n. 104/92 e Legge n. 170/2010), nonché sono sostenute diversamente per quanto riguarda l’accesso al mondo del lavoro (la Legge n. 68/99 tutela solo i soggetti con invalidità superiore al 45%). Tuttavia, in questo articolo verranno considerate congiuntamente, così come spesso avviene anche nella ricerca a livello internazionale, che utilizza categorie più ampie e generali (Chiappetta Cajola, 2014).

4 Traduzione dell’autrice.

5 Ricordiamo che la questione della professionalizzazione dell’istruzione superiore è un tema controverso e che altri esperti mettono in discussione questo legame stretto tra formazione universitaria e mercato del lavoro, che contribuirebbe a riprodurre le disuguaglianze sociali anziché a contrastarle (Charles, 2015).

6 Fra gli altri modelli esplicativi, qui non descritti, si può segnalare quello dell’assegnazione dei posti di lavoro o la teoria della mobilità lavorativa a fini di carriera. Per un approfondimento, si rimanda a Caroleo e Pastore (2013).

7 International Standard Classification of Occupations.

8 Nello studio i due gruppi sono analizzati in modo distinto.

9 Data di estrazione: 13 novembre 2017.

10 Ricordiamo che la seconda parte dell’intervista indaga, invece, i canali utilizzati per entrare nel mondo occupazionale e gli ostacoli incontrati sul posto di lavoro.

11 Comprende le Lauree Magistrali, Vecchio Ordinamento o a ciclo unico.

12 In analogia con altri studi (Lucisano et al., 2016), per i contratti iniziati prima ma vigenti al momento dell’acquisizione del titolo, la data d’inizio contratto è stata «normalizzata» al giorno successivo alla data di laurea.

13 La variabile «coerenza» è stata costruita calcolando il numero di giorni svolti con una qualifica professionale coerente al titolo universitario sul totale dei giorni di lavoro effettuati dal laureato.

14 Normalizzazione simmetrica; 1 sola dimensione che spiega il 39% della varianza totale.

15 Al netto dei non occupati.

16 Come spesso invece è noto che accada; si veda, al proposito, Bellacicco, 2018.

17 Il dato a 5 anni dal titolo è riferito solo alle lauree magistrali a ciclo unico o biennali.

18 A riprova delle difficoltà di comparazione, ricordiamo anche che Boccuzzo, Fabbris e Nicolucci (2011) rilevano più del 60% di laureati occupati in modo coerente, dato che si discosta molto da quello messo in evidenza in tutte le altre indagini.

19 Si vedano anche i dati di AlmaLaurea nella XXI Indagine sulla condizione occupazionale dei laureati (Rapporto 2019).

Vol. 19, Issue 4, November 2020

 

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