Vol. 19, n. 4, novembre 2020

FORUM

(Il rischio di) antipedagogicità dell’ICF

Raffaele Ciambrone1

Sommario

Questo contributo si prefigge di illustrare i rischi che un’adozione acritica della «prospettiva» ICF, da parte dei docenti, potrebbe comportare a livello pedagogico.

L’ICF è anzitutto un sistema di classificazione, poi un linguaggio condiviso e, infine, un modello concettuale, che apre a una prospettiva bio-psico-sociale. Ne sono stati analizzati i pro e i contra, considerando il rischio di antipedagogicità per la relazione educativa, trattandosi di un approccio che contempla soltanto ciò che è manifesto, l’aspetto fenomenologico, eliminando dalle proprie considerazioni l’aspetto eziologico, oltre ad essere carente sotto il profilo antropologico, in quanto elude dimensioni fondamentali della persona (tra i domini, manca ad esempio l’area «affettivo-relazionale»).

Nella letteratura scientifica internazionale che studia ICF, le perplessità sulla coerenza dell’impianto teorico sono molto elevate, soprattutto in quanto la componente dei Fattori personali, in assenza di codici formali, manca della legittimità che dovrebbe fornire un modello concettuale con tassonomia scientifica. Certamente, la prospettiva ICF può contribuire a migliorare la qualità dell’inclusione scolastica, soprattutto nella fase di progettazione educativo-didattica, laddove lo sguardo dei docenti si apre alla considerazione di un orizzonte più vasto, globale e complesso, che contempla in maniera dinamica e sistemica le persone e la loro interazione con il contesto. Tuttavia, va chiarito che il contesto, per molti aspetti, si caratterizza soltanto se un soggetto vi si può, per così dire, immergere, qualificandolo; altrimenti rimane neutro, mentre il soggetto è sempre attivo.

Se l’attenzione al contesto diventa predominante, schematica e astratta, persino riduttiva dell’esperienza concreta, vi è allora il rischio di perdere il contatto con la realtà e di infilarsi in un tunnel di parole vuote.

Parole chiave

ICF, prospettiva bio-psico-sociale, contesto, Fattori personali.

FORUM

(The risk of) ICF educational inefficacy

Raffaele Ciambrone2

Abstract

The aim of the present contribution is to outline the risks entailed in an «acritical» use of the ICF perspective in the pedagogical practices.

ICF is primarily a classification system, then a common language and, eventually, a conceptual model based on a biopsychosocial perspective, of which pros and cons, along with the risk of being unpedagogical within the educational relationship, are being investigated.

Such approach envisages only the phenomenological aspects — what is manifest — disregarding the causes (for instance, no domains are foreseen, in relation to the emotional and relational areas).

International studies already highlight some lack of coherence within the ICF theoretical framework, given that «personal factors» are neither defined nor categorised.

The ICF perspective can definitely contribute to improving the quality of school inclusion, particularly in the educational and didactic planning stage, whereas the teachers are ready to widen the gaze on a broader and complex perspective, which contemplates human interaction dynamically and systemically.

At the same time, it should be made clear that the overall context, as environmental factor, remains neutral per se, if its features don’t interact with the person’s features («personal factors»). So, the mere focus on the context, regarded rather schematically and theoretically, should be avoided.

Keywords

Classification, ICF, bio-psycho-social perspective, environment, personal factors.

È dal 20 marzo 2008 — data in cui viene sancita Intesa in Conferenza Unificata3 tra Governo, Regioni, Provincie e Comuni sulle nuove modalità e criteri per l’accoglienza scolastica e la presa in carico dell’alunno con disabilità— che l’ICF, dopo essere stato ospitato su libri e riviste scientifiche, fa il suo ingresso anche nel settore legislativo.4

La previsione contenuta in quell’atto del 2008 è molto all’avanguardia, rispetto ai tempi, tanto da prefigurare un nuovo iter di valutazione che solo dodici anni dopo si ripresenta in forme pressoché immutate, ma questa volta in una norma di legge. Infatti, nel 2017, tra i decreti delegati della «Buona scuola» (la legge di riforma n. 107/2015) compare il decreto legislativo n. 66 — cosiddetto «decreto sull’inclusione» — dove l’ICF assume rilevanza primaria nella nuova procedura di individuazione e valutazione della disabilità, e non solo. La prospettiva bio-psico-sociale dell’ICF diviene infatti denominatore comune del Verbale di accertamento, del Profilo di Funzionamento e del PEI, il Piano Educativo Individualizzato, acquisendo così una valenza più strettamente pedagogica per i riflessi che l’assunzione di tale prospettiva comporta nella progettazione educativa e didattica. L’ICF entra dunque in una legge dello Stato, che detta disposizioni in materia di sanità e di istruzione.

I passaggi che vanno dall’introduzione della classificazione ICF e della correlata prospettiva bio-psico-sociale, nel testo di legge, all’attuazione delle previsioni normative, sono di rilevante interesse per la comunità scientifica, atteso che i provvedimenti attuativi — regolamenti, decreti, linee guida —, atti a tradurre in prassi l’intenzione del legislatore, incidono, come vedremo, profondamente negli orientamenti e nell’azione educativo-didattica degli insegnanti, sia curricolari che di sostegno.

Un aspetto interessante da approfondire — e che non sembra sia stato finora sollevato — attiene alla legittimità di tale intervento. Se è vero che la «libertà di insegnamento» è costituzionalmente tutelata («L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento», art. 33 Cost.) è corretto introdurre e imporre una «prospettiva» ossia un «approccio», un «metodo», per valutare gli alunni (con disabilità) e orientare la progettazione educativa e didattica?

Già nei programmi del 1955 era scritto: «Le indicazioni attinenti al[…]la via o metodo da seguire per il raggiungimento degli scopi dell’istruzione primaria […] non hanno il medesimo carattere normativo delle precedenti; poiché lo Stato, se ha il diritto e il dovere di richiedere l’istruzione obbligatoria, non ha una propria metodologia educativa».5

Essi distinguevano dunque correttamente l’ambito di intervento legislativo dalle prerogative dei docenti, che non potevano e non possono essere intaccate con «interventi dall’alto» di natura metodologica, lasciando al legislatore — e al ministro pro tempore — di intervenire solo con indicazioni programmatiche: su cosa è da fare, non sul come.

Anni dopo, le Indicazioni nazionali per il curricolo,6 rivisitando il costrutto concernente i «contenuti» — sostituiti con abilità, conoscenze e competenze — estendevano il principio dell’autonomia didattica anche alle istituzioni scolastiche, ampliando la sfera soggettiva di intervento propria del docente e riconoscendo alle scuole stesse un loro margine di autonomia «programmatica» o, come più correttamente dovrebbe dirsi oggi, «progettuale». Le Indicazioni nazionali non contengono pertanto indicazioni metodologiche, ma obiettivi e traguardi educativi. Sono un caso emblematico — così come tanti altri atti del Ministero dell’Istruzione — esemplari nel rispetto del principio costituzionale della libertà d’insegnamento.

Emerge invece che l’introduzione dell’ICF, e la prescrizione di adottare il correlato approccio, possa (o avrebbe potuto, come vedremo) prefigurare un’intromissione indebita nell’ambito della libertà d’insegnamento e di scelta metodologica da parte del docente, nella misura in cui imporrebbe (o avrebbe potuto imporre) l’adozione di particolari approcci e metodi nella progettazione educativo-didattica e nella valutazione.

Pur rivestendo notevole interesse tale questione — che richiede peraltro approfondimenti di natura giuridica — non è tuttavia nostra intenzione affrontarla compiutamente nel presente contributo, il cui scopo è invece quello di entrare nel merito dell’approccio ICF e della prospettiva bio-psico-sociale, cercando di comprendere se lo sviluppo di una siffatta modalità di intervento sia coerente con i principi della pedagogia o se non costituisca invece essa stessa un ostacolo alla relazione educativa, alla comprensione dell’alunno nell’ottica della personalizzazione e nell’azione educativo-didattica del docente volto a promuovere l’inclusione.

Il tema della libertà d’insegnamento e del possibile impatto che l’adozione di una prospettiva ICF potrebbe avere sulle libere scelte metodologiche di un docente rimarrà tuttavia sullo sfondo delle nostre argomentazioni, ritenendo di averne indicato concettualmente i tratti essenziali.

Il focus è rivolto all’impianto generale dell’ICF, che, come accennato, è anzitutto un sistema di classificazione — e, in quanto tale, di marcata competenza clinica — ma vi è associata anche una prospettiva bio-psico-sociale, con riflessi importanti nell’ambito delle scienze dell’educazione.

Siamo consapevoli di andare controtendenza, considerato che c’è molta aspettativa sull’ICF, come un qualcosa che potrebbe ampliare le capacità di intervento dei docenti e migliorare la qualità dell’inclusione scolastica. Ma è davvero così?

Questo contributo si prefigge di illustrare i rischi che un’adozione acritica della prospettiva ICF potrebbe comportare a livello pedagogico e si pone anche come obiettivo di mostrare la fondatezza e la bontà delle scelte e degli orientamenti (del Ministero) presi nella direzione di un’equilibrata innovazione degli strumenti di progettazione educativo-didattici che contemperi e tenga insieme gli aspetti positivi dell’ICF con gli elementi migliori della tradizione inclusiva della scuola italiana.

Breve excursus

Il 21 maggio 2001, nel corso della 54ª Assemblea Mondiale della Sanità, 191 Paesi accettano la nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) come standard di valutazione e classificazione di salute e disabilità.

Si tratta di un lavoro iniziato nel 1993 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), come revisione del ICIDH del 1980 (International Classification of Impariment, Disability and Handicap).

L’Italia è tra i 65 Paesi che hanno attivamente partecipato alla validazione dell’ICF, anche mediante la Rete DIN (Disability Italian Network) coordinata dall’Agenzia Regionale Sanitaria del Friuli-Venezia Giulia.

Nel 2002 viene pubblicato in Italia il manuale generale per le persone adulte e nel 2007 la versione CY («for children and youth»), dedicata a bambini e adolescenti, per merito della casa editrice Erickson. Non si tratta tuttavia di versioni ufficiali che, a rigore, dovrebbero invece venire tradotte e pubblicate dal Ministero della Salute, quali strumenti di lavoro per medici e operatori del settore.

Immediatamente dopo — già a partire dal 2003 — vengono elaborati modelli di Diagnosi funzionali e di PEI in chiave ICF, che sono sperimentati da alcune ASL e scuole.

Seguono diversi accordi, a livello locale, di natura interistituzionale tra Aziende Sanitarie e scuole per la validazione dei modelli ICF (diagnosi e PEI), specialmente in alcune regioni del Nord-Italia (Piemonte e Veneto,7 soprattutto, ma anche in alcune province delle Marche e della Liguria).

Nel 2005 viene «definita e sperimentata presso l’Università di Bolzano e decine di scuole italiane un’altra applicazione di ICF: uno strumento informatico (software gestionale) che consente ai docenti di effettuare un profilo di funzionamento dei vari alunni, individuando quelli che presentano un qualche Bisogno Educativo Speciale (inteso come funzionamento problematico nei vari intrecci di fattori ICF) e di progettare su queste basi le risorse necessarie per una didattica inclusiva» (Ianes e Demo, 2011, p. 118).

Anche il Ministero dell’Istruzione si rende parte attiva nella diffusione del modello ICF, promuovendo nel 2007 il progetto I CARE che, tra le azioni principali proposte alle scuole come piste di lavoro, propone proprio l’applicazione della prospettiva ICF nell’elaborazione del PEI e del Progetto di vita, attraverso un’interessante modalità formativa che si estrinseca in attività di ricerca-azione. Partecipano al progetto I CARE circa 700 scuole.

Nel 2008, come accennato, l’ICF entra in un testo normativo, divenendo il fulcro di un’Intesa tra Stato e Regioni volta ad introdurre la nuova modalità di certificazione della disabilità.

Le Regioni non recepiscono le indicazioni contenute nell’Intesa, che mirava a far evolvere l’iter di certificazione verso un modello bio-psico-sociale di matrice comune, ispirato agli standard dell’OMS.

Solo il Piemonte intraprende questa strada, avviando una sperimentazione biennale condotta dal Servizio di neuropsichiatria infantile di Biella, sotto la guida del dott. Guido Fusaro.8 L’esperimento ha successo, grazie soprattutto alla grande esperienza e al pragmatismo di Fusaro che riesce a coniugare il tradizionale approccio della neuropsichiatria infantile con gli elementi di novità portati da ICF. Dopo circa due anni dall’avvio della sperimentazione biellese, con delibera regionale del febbraio 2010, il Piemonte adotta nelle proprie ASL la certificazione ICF.9

Nell’agosto 2009 il MIUR pubblica le Linee guida per l’integrazione degli alunni con disabilità, dove, tenuto conto della diffusione del modello bio-psico-sociale di ICF nelle pratiche di diagnosi condotte dalle AA.SS.LL., suggerisce «che il personale scolastico coinvolto nel processo di integrazione sia a conoscenza del modello in questione e che si diffonda sempre più un approccio culturale all’integrazione che tenga conto del nuovo orientamento volto a considerare la disabilità interconnessa ai fattori contestuali».10

Nello stesso anno, si tiene il primo convegno nazionale su ICF state of the art, organizzato dal Centro collaboratore OMS della Regione Friuli-Venezia Giulia e da Disability Italian Network, a Riva del Garda, per fare sintesi delle attività condotte nei precedenti sette anni in Italia dal mondo della sanità e dalle scuole.

I tempi sono maturi per avviare un’esperienza strutturata nelle scuole.

Nasce così, nel 2010, il progetto del MIUR Dal modello ICF dell’OMS alla progettazione per l’inclusione che ha «l’obiettivo di sperimentare, in un campione di istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e distribuite a livello nazionale, l’applicazione nella scuola del modello ICF (International Classification of Fuctioning, Health and Desease) dell’OMS, al fine di diffondere un approccio focalizzato sul ruolo determinante che l’ambiente scolastico, nei suoi molteplici aspetti, svolge nell’effettiva integrazione degli alunni con disabilità»11 ed è «rivolto all’analisi dei fattori contestuali, con particolare riguardo agli elementi costitutivi del contesto scolastico, ai facilitatori e alle barriere che determinano le performances degli alunni con disabilità nelle pratiche di integrazione scolastica».12

Sono oltre 560 le scuole che presentano la propria candidatura e 91 quelle selezionate per una sperimentazione biennale. Nel febbraio 2014, a Roma e Orvieto, al fine di creare un’occasione di confronto tra i rappresentanti delle 91 scuole che hanno preso parte al percorso sperimentale e il Comitato Tecnico Nazionale, la Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione del MIUR organizza il seminario nazionale di studio e approfondimento: L’inclusione scolastica nella prospettiva ICF, con la partecipazione di esperti europei, provenienti da Paesi (Portogallo e Svezia) nei quali si stavano pure conducendo sperimentazioni. Nel pubblicizzare il seminario, il MIUR parla di «discussione e dibattito circa le criticità riscontrate, la promozione di buone pratiche nonché l’individuazione di linee di sviluppo future, con l’obiettivo di giungere all’elaborazione di un documento finale recante le linee guida per inclusione scolastica in chiave ICF, anche in relazione alle problematiche rientranti nei Bisogni Educativi Speciali».13

Il progetto italiano viene anche illustrato nel corso del WHO: Family of International Classifications Annual Network Meeting tenutosi a Brasilia nel mese di ottobre 2012 (Frattura, Ciambrone e Simoneschi, 2012).

L’esperienza condotta dalle 91 scuole italiane, monitorata e valutata da un comitato tecnico scientifico con docenti dell’Università della Valle d’Aosta e dell’Università LUMSA di Roma, ha rilievo dal punto di vista scientifico per l’analisi d’impatto che il modello ICF ha prodotto nelle istituzioni scolastiche e nelle dinamiche interne al corpo docente, con l’intento di orientare la progettazione educativo-didattica nella prospettiva bio-psico-sociale. Tuttavia, come si poteva rilevare nello stesso comunicato del MIUR, il modello presentava diverse criticità in ordine ad una serie di rischi connessi con la burocraticità e astrattezza dello strumento: i codici sono difficilmente utilizzabili dalle scuole (e, in verità, anche dai clinici); l’introduzione di tabelle schematiche con gli indicatori ICF, lunghe e complesse, non giova all’osservazione sistematica ma produce un ulteriore carico di lavoro volto alla ricerca di improbabili corrispondenze tra l’item e la realtà; l’astrattezza degli schemi e la farraginosità delle piste di lavoro distolgono dall’impegno educativo-didattico nello sforzo di classificare e incasellare la complessità del reale in tabelle predefinite.

Genesi e significato dell’ICF

Secondo gli intenti dei proponenti, l’ICF è un modello che permette di valutare la globalità dell’alunno con disabilità all’interno del contesto in cui vive, tenendo conto di tutte le relazioni in cui è coinvolto.

L’ispirazione di matrice sociologica e filosofica dell’ICF è stata ben caratterizzata da Dario Ianes, secondo cui: «L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha da tempo concettualizzato che la salute non può essere vista come semplice assenza di malattia, ma va concepita e soprattutto perseguita come benessere bio-psico-sociale e cioè piena realizzazione del proprio potenziale nei vari contesti di vita. Questa concezione dinamica e legata all’influenza dei contesti è molto in sintonia con le più recenti elaborazioni di filosofia politica sui temi della giustizia e dell’equità sostenute da Amartya Sen (2010) e da Martha Nussbaum (2008), oltre che con la definizione di disabilità della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006. Nella sua riformulazione dei concetti di funzionamento umano/salute e disabilità, l’OMS introduce, dopo un’amplissima ed approfondita elaborazione a livello mondiale tra esperti e persone con disabilità, il modello ICF […], che rappresenta oggi il modello antropologico ed il linguaggio descrittivo standard più evoluti» (Ianes e Demo, 2011, p. 113).

Ma è Andrea Canevaro (2020) a cogliere argutamente un tratto di fondo peculiare: «L’Italia… ha sottoscritto l’impegno ad osservare ed utilizzare l’ICF, ovvero una classificazione internazionale, proposta, nel 2001, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, o OMS, e che riguarda il funzionamento, le disabilità e la salute. Notiamo che il primo punto è il funzionamento. L’OMS ha sede in Svizzera ed ha forse assorbito, con l’aria che respira, una certa precisione da orologiai…».

Tale precisione definitoria e classificatoria — che tuttavia, come vedremo, presenta voluminose falle — ben si addice a sistemi chiusi e non ad ambiti di intervento quale quello umano dove la rigidità di uno schema rischia di perdere l’infinita molteplicità degli aspetti essenziali, tanto della persona che del contesto, e delle altrettanto essenziali sfumature che lo caratterizzano e individuano.

Lo sforzo di voler definire un modello concettuale che interpreti non solo la disabilità, ma più in generale le condizioni di salute di tutti gli esseri umani, risale indietro nel tempo alla mission originaria dell’OMS, sin dalla sua fondazione nel 1948. Quello della disabilità rimane comunque uno dei nodi da risolvere in tale percorso, tanto da attirare la maggior attenzione nel quadro tassonomico, come si rivela dalla molteplicità dei significati e dei termini concettualmente correlati (disorder, disease, injury, trauma). La soluzione trovata dall’OMS è indubitabilmente geniale.

La definizione del termine disabilità — nel linguaggio scientifico, a livello internazionale — si modifica velocemente nell’arco degli ultimi quarant’anni, assumendo di volta in volta accezioni diverse. Ricordiamo che anche in Italia si è assistito ad un cambiamento delle parole e dei significati relativi al mondo della disabilità, con il passaggio dal termine «handicap» ed «handicappato» a quello di «diversamente abile», poi di «persona disabile» e, infine, di «persona con disabilità» (Canevaro, 2007), a indicare che vi è un nucleo essenziale e indefettibile della persona, cui può associarsi una disabilità, ma che questa non si identifica con la persona stessa.

Nel 1980, l’ICIDH definisce la disabilità come «qualsiasi restrizione o carenza (conseguente ad una menomazione) della capacità di svolgere una attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un essere umano» (WHO, 1980).

Nel 2002, secondo la terminologia dell’ICF, la disabilità è intesa come «termine ombrello per le menomazioni, limitazioni dell’attività e restrizioni della (alla) partecipazione. Esso indica gli aspetti negativi dell’interazione tra un individuo (con una particolare condizione di salute) ed i fattori contestuali di quell’individuo (Fattori ambientali e personali)» (ICF-CY, 2007).

Nel 2006, l’articolo 1 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità esplicita la definizione di persone con disabilità, ossia «quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri» (CRPD, 2006).

In questo flusso di definizioni, l’OMS si inserisce per creare non soltanto una definizione, ma un modello e un linguaggio che siano transculturali e multilinguistici — questo almeno è l’intento dichiarato — che possano essere utilizzati per raccogliere informazioni valide e affidabili.

In effetti, l’ICF compare in diverse locuzioni, sia nei testi di legge che in quelli scientifici: come «classificazione» e come «prospettiva bio-psico-sociale».

Più precisamente, l’ICF ambisce ad essere:

  1. un modello concettuale;
  2. un linguaggio condiviso;
  3. un sistema di classificazione.

Quale modello del funzionamento e della disabilità ritiene di essere fedele alla complessità dei fenomeni; quale sistema di classificazione si autodefinisce operazionale, transculturale e multilinguistico. Nel primo caso, opera quale guida teorica e struttura per la raccolta dei dati; nel secondo fornisce i vocaboli per individuare le componenti del funzionamento (Funzioni e Strutture corporee/Attività e Partecipazione/Fattori ambientali); fornisce inoltre le regole grammaticali per descrivere gli aspetti positivi e gli aspetti negativi dell’interazione: usare ICF significa quindi usare vocaboli e regole grammaticali.

Per comprendere la genesi del modello concettuale, entro il quadro di riferimento che si associa al sistema di classificazione, possiamo evidenziare una serie di passaggi chiave che vanno: a) dalla definizione della condizione di salute, b) all’analisi degli aspetti fisiologici e anatomici dei sistemi corporei, c) al funzionamento della persona, d) all’influenza dell’ambiente.

a) Come definire/classificare una «condizione di salute»

Le condizioni di salute in quanto tali (malattie, disturbi, lesioni, ecc.) vengono classificate principalmente nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD).14

A tal punto, la Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD) e la Classificazione Internazionale sul Funzionamento, sulla Disabilità e sulla Salute (ICF) vanno considerate come complementari e l’OMS riesce a far coesistere due sistemi classificatori, attribuendo modalità e finalità diverse.

Infatti, mentre l’ICD si basa sulla sequenza eziologia/patologia/manifestazione clinica, per fornire una diagnosi delle malattie, l’ICF classifica il funzionamento e la disabilità associati alle condizioni di salute di quella persona che vive nel suo contesto.

L’obiettivo è quello di orientare verso un modello bio-psico-sociale, che mira: al superamento dell’approccio specialistico di tipo segregante; al superamento del modello medico-riabilitativo; al superamento della categorizzazione dei Bisogni Educativi Speciali in termini esclusivamente di malattia e disabilità; alla responsabilizzazione della comunità scientifica (e degli insegnanti); all’adozione di un approccio ecologico-sistemico che connetta i vari contesti di vita.

Il linguaggio ICF offre oltre 1500 items per definire un profilo. L’OMS prevede che se ne possano aggiungere altri e permette tramite il sito ufficiale di proporre suggerimenti e contributi.

b) Analisi dei sistemi corporei

Una volta classificate/definite le condizioni di salute, occorrerà analizzare il funzionamento dei sistemi corporei (aspetto fisiologico) e la loro integrità (aspetto anatomico). A questo punto entrano in gioco due fondamentali componenti dell’ICF: Funzioni e Strutture corporee. Per Funzioni corporee si intendono le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, incluse le funzioni psicologiche; per Strutture corporee, le parti strutturali o anatomiche del corpo (organi, arti e loro componenti) classificati secondo i sistemi corporei. Nel primo caso, nell’ambito delle disabilità, si fa ad esempio riferimento ai deficit visivi, ai deficit motori, ai deficit attentivi, di memoria, ecc.; nel secondo ci si riferisce, ad esempio, alla mancanza di un arto, di una parte della corteccia cerebrale, ecc.

Il terzo punto è quello cruciale, attorno a cui gira tutta la prospettiva bio-psico-sociale, incentrata sui costrutti/qualificatori di «capacità» e «performance». Il significato di funzionamento secondo i costrutti fondamentali di ICF, potremmo esprimerlo con questa domanda:

c) Il funzionamento: che cosa sarebbe in grado di fare e cosa fa realmente una persona?

Il qualificatore «Capacità» indica che cosa farebbe o sarebbe in grado di fare una persona e, allo stesso tempo, il grado di limitazione nell’attività (intesa come componente di ICF) descrivendo la sua abilità ad eseguire un compito o una azione. Secondo il modello concettuale, «Capacità» indica le limitazioni intrinseche alla persona stessa ossia come agirebbe senza interventi tesi ad abbattere eventuali barriere dell’ambiente e a potenziare facilitatori, quindi «senza assistenza» alcuna. Si intende, insomma, ciò che una persona fa escludendo l’influenza di tutti i fattori ambientali che potrebbero incidere in una certa situazione.

Il qualificatore «Performance» indica quello che la persona fa realmente nel suo contesto e, allo stesso tempo, il grado di «restrizione nella partecipazione» in un compito o in un’azione. Secondo il modello concettuale, «Performance» misura quindi la difficoltà che la persona incontra nel fare le cose ossia ciò che una persona fa, considerata l’influenza di tutti i fattori ambientali, compreso l’aiuto personale.

Siamo qui nell’ambito della componente Attività e Partecipazione, che è il cuore dell’ICF, atteso che il «funzionamento» è qualificato come l’interazione (i.e. l’attività e la partecipazione) di una persona in un determinato contesto.

A tal punto, a ciascuna delle due componenti (Attività e Partecipazione) sono associate difficoltà e problemi che ne qualificano gli impedimenti. Se «Attività» è l’esecuzione di un compito o di una azione di un individuo — e rappresenta in tal senso la prospettiva individuale del funzionamento — «Limitazione delle attività» sono le difficoltà che un individuo può incontrare nell’eseguire delle attività (con deviazione da lieve a grave, in termini quantitativi e qualitativi). Modulando i due concetti di Attività e Partecipazione è possibile così sostituire il termine disabilità.

Se «Partecipazione» riferisce al coinvolgimento in una situazione di vita — rappresentando in tal senso la prospettiva sociale del funzionamento — «Restrizioni della partecipazione» sono i problemi che un individuo può sperimentare nel coinvolgimento in situazioni di vita (sostituendo così il termine handicap).

Di seguito l’ormai noto diagramma che illustra il passaggio da «Capacità» a «Performance», dove «Performance» è ciò che un individuo fa nel suo ambiente attuale e «Capacità» l’abilità di un individuo ad eseguire un compito o un’azione.

Figura 1

Diagramma che illustra il passaggio da «Capacità» a «Performance»

Definite le condizioni di salute, analizzati i sistemi corporei, descritto il funzionamento, resta da considerare l’influenza dell’ambiente.

d) Come e in quale misura l’ambiente influisce su quello che una persona fa?

A tale questione, l’ICF risponde con i Fattori ambientali, individuando barriere e facilitatori nel contesto reale in cui si realizza l’interazione.

Secondo il modello concettuale, i «Facilitatori» migliorano il funzionamento e riducono la disabilità, mentre le «Barriere» limitano il funzionamento e creano disabilità.

ICF distingue al momento i seguenti Fattori ambientali:

  • i prodotti e le tecnologie (ad esempio: farmaci, protesi, ascensori, ecc.);
  • aspetti geografici e territoriali (ad esempio: clima, luce, densità, ecc.);
  • le relazioni di sostegno (ad esempio: familiari, operatori sanitari, amici, ecc.);
  • gli atteggiamenti (stigma, svalorizzazione, credenze, convinzioni, ecc.);
  • i sistemi, i servizi e le politiche (sanitari, sociali, del lavoro, dell’istruzione, dei trasporti, ecc.).

L’ultima domanda — forse la più importante, ma che non è possibile porre — è la seguente.

Quali sono le caratteristiche individuali significative?

Si tratta di una questione non risolvibile. Infatti, il modello descrittivo del funzionamento ricomprende, quale indicazione definitoria, i Fattori personali contestuali correlati all’individuo. Essi, tuttavia, non sono classificati da ICF (né sono classificabili), ma fanno parte del modello concettuale. Naturalmente non è possibile codificare i Fattori personali, che però è fondamentale descrivere (sic!).

Riepilogando schematicamente, questa è la struttura del modello concettuale dell’ICF.

Figura 2

Modello concettuale dell’ICF

Nella tabella che segue, Componenti, Domini e Costrutti sono messi in relazione ai rispettivi impatti e correlati agli aspetti negativi e positivi, mostrando le corrispondenze interne alle varie parti del modello concettuale (come si vede, sotto Fattori personali compaiono delle caselle vuote).

Tabella 1

Modello ICF nel dettaglio

Funzionamento e disabilità

Fattori contestuali

Componenti

Funzioni e strutture corporee

Attività e partecipazione

Fattori Ambientali

Fattori Personali

Domini

Funzioni corporee

Strutture corporee

Aree di vita

(compiti, azioni)

Influenze esterne su funzionamento e disabilità

Influenze interne su funzionamento e disabilità

Costrutti

Cambiamento nelle funzioni corporee

(fisiologiche)

Cambiamento nelle strutture corporee

(anatomico)

Capacità

Eseguire compiti in un ambiente standard

Performance

Eseguire compiti nell’ambiente attuale

Impatto facilitante o ostacolante delle caratteristiche del mondo fisico, sociale e degli atteggiamenti

Impatto delle caratteristiche della persona

Aspetto positivo

Integrità funzionale

e strutturale

Attività

Partecipazione

Facilitatori

Funzionamento

Aspetto negativo

Menomazione

Limitazione dell’attività

Restrizione della

partecipazione

Barriere/ostacoli

Disabilità

Elementi qualificanti

Il guadagno a livello terminologico e semantico portato dalle concettualizzazioni dell’ICF è notevole.

Pur dopo il superamento (non del tutto attuato) del termine «handicap», una serie di parole quali «invalido», «non-autosufficiente», «inabile», «disabile» rimangono in uso nel linguaggio comune e persino in quello specialistico, determinando isolamento e stigma nella misura in cui pongono l’enfasi sulla situazione problematica, sulla menomazione e sul deficit corporeo della persona indicata.

È evidente che la qualificazione di «disabile sensoriale» pone l’accento non sulle potenzialità della persona ma sul deficit, restringendo l’orizzonte delle opportunità di quella persona e subordinandole alla menomazione fisica.

Invece, la nuova nozione di disabilità secondo la Convenzione ONU, intesa quale interazione tra persona e ambiente, apre il varco a nuove metodologie per la valutazione della disabilità coerenti con questa nozione.

Le «sostituzioni» migliorative sono evidenziate nello schema seguente.

Figura 3

Le «sostituzioni» migliorative

Il secondo aspetto di forte innovazione e miglioramento è la descrizione dei fattori contestuali.

Se è vero che il contesto — composto di Fattori personali e Fattori ambientali — può agire come facilitatore o come barriera, un’analisi attenta della tipologia, del numero e dell’impatto di tali fattori consente di valutare gli effetti negativi dell’interazione, introducendo così una nuova metodologia per la valutazione della disabilità e la progettazione per l'inclusione.

Un terzo aspetto positivo è infine costituito dall’utilizzo del nuovo modello concettuale nella redazione del Profilo di Funzionamento, che — secondo le più recenti disposizioni normative — diviene propedeutico alla elaborazione del Piano Educativo individualizzato.

Vediamo, a tal fine, un esempio di Profilo di Funzionamento (Fusaro, 2012).

Riprendiamo la parte centrale del Profilo: «Nell’ambito della gestione della routine quotidiana fatica molto a tollerare le piccole frustrazioni e a contenere l’ansia che ne deriva. È necessario prepararlo prima, da parte di una figura di mediazione, ad eventuali cambiamenti (spostamenti di banco, assenze di insegnanti, feste scolastiche, visite a parenti, ecc.); a tal riguardo si è rivelato utile l’utilizzo di agende “visive”».

Un occhio attento e allenato all’ICF può comprendere che in questo, come in altri passaggi, sono messe a fuoco «barriere» (piccole frustrazioni, ansia, derivanti dai cambiamenti) e «facilitatori» (figura di mediazione, agende «visive»). Vengono così poste in evidenza, in prosa, quasi in una narrazione del soggetto, tutta una serie di caratteristiche e di correlati ostacoli, con l’indicazione delle soluzioni da percorrere in caso di difficoltà. Tale costrutto può rivelarsi di estrema importanza per la professione docente e per i compiti connessi al sostegno didattico in quanto frutto dell’osservazione sistematica e della riflessione congiunta di clinici, referenti scolastici e famiglie, che contribuiscono a restituire alla scuola un profilo a tutto tondo, utilissimo soprattutto quando la valutazione del fabbisogno di risorse professionali viene operata in assenza dell’alunno, che — dopo la prima iscrizione — solo nel settembre venturo si presenterà a scuola.

Aspetti critici

Dagli appunti di lavoro conservati dalla commissione tecnico-scientifica di valutazione del progetto ICF del MIUR riportiamo alcune annotazioni relative agli aspetti critici riscontrati:

«Se non supportato da un’autorevole formazione sia in ambito scolastico che sanitario rischia di diventare mera routine amministrativa (compilazione di «carte»)

A causa del generale disinvestimento di risorse nel settore socio-sanitario (e della diffusa stanchezza degli operatori) rischia oggi di lasciare sola la scuola sulle barricate dell’integrazione»

Sul rischio di «burocratizzazione» insito nell’ICF abbiamo già detto. C’è qui da aggiungere il potenziale di implosione che una mancata, adeguata e prolungata formazione degli operatori della sanità potrebbe produrre. Nel modello, infatti, vi sono una serie di aspetti, di non secondaria importanza, che non risultano tuttora definiti e chiariti, rispetto ai quali il personale medico e gli operatori specializzati dovranno compensare il vacuum esistente con robuste azioni intuitive, sulla base della loro esperienza, nella prospettiva di un adattamento di assunti teorici con la realtà concreta.

Kostanjsek (2004) ha evidenziato una serie di criticità che riguardano precipuamente gli operatori del settore clinico, a dire che il sistema mostra falle sotto diversi punti di vista. La non classificazione dei Fattori personali costituisce certamente un problema, anzitutto per il personale medico, cui si aggiunge l’estrema povertà del vocabolario (1500 termini), la mancata associazione dei qualificatori a valori normativi standard verificati, ecc.

In ogni caso, sotto il profilo pedagogico ed antropologico, l’aspetto più preoccupante, con il suo riduzionismo, è quello relativo all’approccio di fondo ed alla tassonomia che ne deriva.

Tutte le funzioni superiori della coscienza sembrano essere escluse, anzi: la coscienza non è indagata, ma dedotta per «reazione».

Esaminiamo questo «Esempio» tratto da Franchini (Traverso e Franchini, 2011).

Tabella 2

Funzioni della coscienza

1

Funzioni della coscienza (B110)

La persona è vigile lucida, in grado di reagire agli stimoli

  1. è sempre lucida, vigile e reaglisce agli stimoli comunicativi
  2. Reagisce agli stimoli comunicativi in modo discontinuo o rallentato
  3. Reagisce solo a stimoli in presenza di stimoli intensi (ad es., un forte dolore o rumore)
  4. Reagisce in modo rallentato e discontinuo solo a intensi stimoli (ad es., un forte dolore o rumore
  5. Non reagisce ad alcun tipo di stimolo in modo volontario, neppure al dolore

L’item si intitola infatti «Funzioni della coscienza», ma nella colonna a fianco non è descritta alcuna funzione, bensì è riportato solo se e come la coscienza (il soggetto) reagisce agli stimoli, fisici ed esterni. La lucidità e lo stato di vigilanza sono dunque dedotti dalle reazioni che si possono registrare.

Nel Manuale ICF-CY del 2007, le Global mental functions (b110-b139) sono così descritte:

Funzioni mentali globali (b110-b139)

b 110 Funzioni coscienti

Funzioni mentali generali dello stato di consapevolezza e vigilanza, compresa la lucidità e continuità dello stato di veglia.

Inclusioni: funzioni dello stato, continuità e qualità della coscienza; perdita di coscienza, coma, stati vegetativi, fughe, stati di trance, stati di possessione, coscienza alterata farmacologicamente (farmaco), delirio, stupore.

Esclusioni: funzioni di orientamento (b114); funzioni di energia e di azionamento (b130); funzioni del dormire (b134).

b 1100 Stato di coscienza

Funzioni mentali che, se alterate, producono stati, come l’annebbiamento coscienza, stupore o coma.

b 1101 Continuità della coscienza

Funzioni mentali che producono veglia, vigilanza e consapevolezza e, se interrotta, può produrre fuga, trance o altri stati simili.

b 1102 Qualità della coscienza

Funzioni mentali che, se modificate, cambiano il carattere di senzienza vigile, vigile e consapevole, come stati alterati indotti dalla droga o delirio.

b 1103 Regolazione degli stati di veglia

Funzioni mentali che regolano l’organizzazione di stati stabili di veglia e consapevolezza.

b 1108 Funzioni della coscienza, altro specificato

b 1109 Funzioni della coscienza, non specificate (WHO, 2007, p. 46).

Dal che si vede chiaramente che la descrizione si concentra su aspetti fenomenologici della coscienza (perdita di coscienza, coma, stati di trance, stupore, stati alterati indotti da droghe o delirio, ecc.) relativi più che altro alla presenza, assenza o alterazione della stessa coscienza, come riscontrabile da manifestazioni fisiche, nulla a che fare con aspetti psicologici dell’Io.

Anche nel Capitolo 1, Apprendimento e applicazione delle conoscenze, nell’ambito delle componenti Attività e Partecipazione (ICF short version, 2001, p. 123), troviamo una descrizione ed elencazione che evidenzia la modalità di approccio e la tassonomia di riferimento.

Il capitolo prende in considerazione esperienze sensoriali intenzionali (d110-d129) quali «guardare, ascoltare o altre percezioni sensoriali intenzionali». Per apprendimento di base (d130-d159) si intendono attività quali «copiare, ripetere, imparare a leggere, scrivere, calcolare, acquisizione di abilità»; per applicazione delle conoscenze si prendono in considerazione attività quali «focalizzare l’attenzione, pensiero, lettura, scrittura, calcolo, risoluzione di problemi, prendere decisioni».

Si vede che l’apprendimento non è collegato a funzioni cognitive ma si estrinseca sempre in attività concrete, visibili ed effettuali, quali il copiare, il ripetere, ecc. Allo stesso tempo, il pensiero, è inserito nell’elenco delle «applicazioni delle conoscenze» ed è riportato tra il «focalizzare l’attenzione» — momento percettivamente riscontrabile nella fenomenologia del concentrare lo sguardo — e la «lettura», a indicare che esso è elemento ponte tra un certo meccanismo cerebrale (imperscrutabile) e un’attività fisica quale il leggere, ma sempre nella proiezione di applicazione della conoscenza, cioè in termini positivi di funzionamento, allo stesso modo che la coscienza è qualificata solo nell’esserci e nel funzionare producendo veglia, viceversa qualificandosi come stato di incoscienza o assenza.

Pro e contra: il rischio di antipedagogicità

Un esempio che può dar senso degli aspetti positivi del modello ICF — valorizzando gli elementi di contesto, laddove un approccio unicamente centrato sul soggetto rischia di tralasciare aspetti importanti che devono invece entrare nello sguardo valutativo dell’insegnante — è il seguente.

Immaginiamo un bambino paraplegico, in quinta primaria, che venga accompagnato dal genitore per la prima volta in una nuova scuola.

Ipotizziamo che la classe si trovi al primo piano; l’ascensore sia fuori uso; il dirigente scolastico non abbia avviato e concluso la contrattazione a livello di istituto per le mansioni dei collaboratori scolastici; l’insegnante prevalente abbia un contratto a tempo determinato e non possegga competenze in tema di disabilità; la classe sia tutt’altro che resiliente anzi con elementi di bullismo; gli arredi vecchi e inadeguati tanto che il nostro alunno non riesce neppure ad avvicinarsi al banco perché troppo basso…

Pensiamo adesso ad un’altra scuola (nella quale comprensibilmente i genitori potrebbero aver trasferito il loro figlio a seguito delle difficoltà riscontrate), dove la classe si trovi al piano terra e sia raggiungibile senza alcuna barriera architettonica; dove i collaboratori scolastici abbiano seguito un apposito corso di formazione sulla «presa in carico» degli alunni con disabilità e che quindi accolgano nel migliore dei modi l’alunno e i suoi familiari all’ingresso della scuola; dove l’insegnante curricolare (non di sostegno), in previsione dell’arrivo del suo allievo, abbia seguito uno specifico corso di formazione sulle disabilità motorie; dove la classe sia particolarmente accogliente, grazie al lavoro di tutto il team di docenti svolto nei quattro anni precedenti di corso; dove l’Ente locale abbia acquistato un banco «domotico», regolabile in altezza e inclinabile, in grado di adattarsi alle esigenze dell’alunno in carrozzella; dove il CTS abbia fornito attrezzature tecniche e, in particolare, un mouse adattato per rispondere alla capacità di ridotta prensione del bambino…

Nel primo e nel secondo caso l’alunno è lo stesso, ma è molto diverso il contesto e, di conseguenza, l’interazione con esso — da parte del bambino e di tutti i soggetti coinvolti — è assai differente: se nel primo caso le barriere si presentano con tutta la loro negatività e forza ostacolante, nel secondo sono quasi del tutto azzerate, mentre gli elementi facilitatori sono portati al massimo grado.

Evidentemente nel contesto «barrierante» la disabilità — quale «limitazione o perdita della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano» (WHO, 1980) — sarà molto pronunciata, così come pure sarà molto forte lo stato di handicap (inteso quale «condizione di svantaggio»); nel secondo caso, la disabilità, in quanto interazione negativa, è pressoché annullata: il progetto personalizzato di intervento garantisce il mantenimento delle interazioni efficaci e il miglioramento di quelle problematiche agendo sulla tipologia, l’entità e l’effetto dei fattori ambientali coinvolti.

Vista sotto questa luce, la prospettiva ICF può contribuire a migliorare sensibilmente la qualità dell’inclusione scolastica, soprattutto nella fase di progettazione educativo-didattica, laddove lo sguardo dei docenti si apre alla considerazione di un orizzonte più vasto, globale e complesso, che contempla in maniera dinamica e sistemica la persona (le persone) e la loro interazione reale nel e con il contesto.

È importante, tuttavia, che lo sguardo rimanga focato sul soggetto — bambino, alunno o studente che sia — per cogliere poi gli aspetti essenziali dell’ambiente ed osservare l’interazione reciproca.

L’interazione è uno scambio dinamico tra due parti che devono essere entrambe conosciute e osservate per notare cause ed effetti della reciproca azione dell’uno con l’altra. Tuttavia, il contesto, per molti aspetti, si individua e caratterizza soltanto se un soggetto vi si può, per così dire, immergere, qualificandolo; altrimenti potrebbe restare neutro, mentre il soggetto è sempre attivo.

Se l’attenzione al contesto diventa predominante, schematica e astratta, persino riduttiva dell’esperienza concreta, vi è allora il rischio di perdere il contatto con la realtà e di infilarsi in un tunnel di parole vuote.

Prendiamo ad esempio un caso che viene illustrato nello stesso testo ICF dell’OMS, in uno degli allegati finali.

Si tratta di una persona con il diabete, che presenta dunque una menomazione funzionale (difetto di funzionalità o produzione di insulina da parte del pancreas). Tale menomazione può essere tuttavia compensata dalla somministrazione di insulina, che consente al soggetto di svolgere ad un livello di normalità le attività personali. Immaginiamo ora un bambino diabetico che partecipi a un pranzo o a una festa con i suoi amici dove non si tiene conto del suo problema di salute. Nonostante l’intervento farmacologico possa riequilibrare il difetto funzionale e consentire un’attività normalizzata, cioè che non vengano limitate le capacità personali, la performance — ossia ciò che descrive la difficoltà con cui viene realizzata un’attività tenendo in considerazione i fattori ambientali che influenzano tale svolgimento — è ostacolata creando momenti di disagio durante il pasto, ad esempio un «funzionamento» problematico.15

L’esempio appena presentato — che, come detto, compare nel manuale ICF-CY — desta una serie di interrogativi.

  • Siamo certi che senza i costrutti dell’ICF non saremmo stati in grado di intercettare e percepire il disagio del bambino diabetico in una situazione dove non era stato predisposto un menù adatto?
  • Non potrebbe invece accadere che l’irrigidimento in schemi prefissati (ICF individua una serie di Fattori ambientali) finisca per limitare la visione e la conseguente intuizione di chi sta esaminando la situazione, frapponendo una batteria di «pseudocategorie kantiane» alla visione della realtà che tende a rendere artefatta la percezione del fenomeno?
  • Pur concedendo alla richiesta di sistematicità — ma non alla rigidità dello schema e all’impoverimento degli elementi componenti la realtà — la riduzione del fenomeno ai soli aspetti esteriori ovvero alle reazioni emotive manifeste, non rischia di oscurare la percezione degli effetti interiori e dell’intero quadro psicologico del soggetto?
  • In altri termini, con riferimento a quest’ultimo interrogativo, possiamo supporre che tutti i soggetti reagiscano allo stesso modo? Non potrebbe darsi che una difficoltà esteriore porti la persona che si trova in tale situazione a sviluppare addirittura elementi di comprensione verso l’altro, superando l'impulso ad agire con un sentimento e un pensiero fondati sulla reazione egoica?

È questo, a ben guardare, l’aspetto più preoccupante di ICF: si tratta di un approccio che contempla soltanto ciò che è manifesto, l’aspetto fenomenologico, eliminando dalle proprie considerazioni l’aspetto eziologico.

Nell’ICF-CY, al capitolo Two-level classification. List of chapter headings and first branching level in the classification sono riportate, in elenco, la lista delle classificazioni, articolate in capitoli e con un primo livello di ramificazione in ciascuna classificazione.

Quanto alla Parte 1 (Funzionamento e Disabilità) vengono classificate Funzioni e Strutture corporee, in otto distinti capitoli e Attività e Partecipazione, in nove distinti capitoli.

Il diagramma ad albero vede in alto i Componenti, poi i Costrutti/qualificatori e, a seguire, Domini e Categorie.

Scorrendo la lista dei capitoli e delle sottostanti classificazioni, troviamo in cima quello dedicato all’Apprendimento e all’applicazione delle conoscenze. Osservando con attenzione, rileviamo che non sono presenti indicatori riferibili all’area neuropsicologica e cognitiva, che sono fondamentali in questo ambito, quali ad esempio:

  • funzioni dell’orientamento
  • funzioni cognitive di base
  • funzioni dell’attenzione
  • memoria
  • funzioni del pensiero
  • funzioni cognitive di livello superiore
  • percezione visiva, uditiva e visuospaziale
  • immaginare, speculare, ipotizzare.

Vi compare soltanto «Focalizzare l’attenzione».

Mentre, nell’ambito dell’applicazione delle conoscenze, non compare la funzione «immaginare, speculare, ipotizzare».

Nel Capitolo 3, dedicato alla comunicazione, è assente l’area del linguaggio e della voce (funzioni mentali del linguaggio, funzioni della voce, funzioni di vocalizzazione alternativa, acquisire il linguaggio).

Tra i vari domini, è inoltre completamente assente l’area «affettivo-relazionale», con le correlate funzioni e attitudini personali ed emozionali, nonché la funzione dell’esperienza del sé e del tempo.

Un’analisi dei vuoti e dei pieni, ossia dei termini mancanti e di quelli invece presenti, porta a intravvedere un filo logico che lega tra loro tutti i capitoli e le sottostanti classificazioni: sono inseriti in ICF soltanto le funzioni «visibili», che possono essere ricomprese sotto le componenti di Attività e Partecipazione, cioè aspetti esteriormente qualificabili dell’esperienza umana, poiché per «attività» si intende «attività fisica» attinente il funzionamento positivo (visibile), così come la «partecipazione» è l’estrinsecazione di un funzionamento positivo in un contesto, sempre visibile e osservabile.

Le funzioni «interne» perciò stesso non compaiono.

Ed è utile precisare che non si tratta di aspetti interiori, bensì di quegli aspetti interni che sono oggetto della psicologia scientifica e della neuropsichiatria infantile. A tal punto verrebbe smantellato l’intero impianto, codificato dal DPR 24 febbraio 1994, sul quale hanno lavorato per 25 anni le ultime generazioni di insegnanti.

Il DPR del 1994, attuativo della Legge 104/92, infatti, individuava — nella Diagnosi funzionale — sette «Assi»:

  1. cognitivo
  2. affettivo-relazionale
  3. linguistico
  4. sensoriale
  5. motorio-prassico
  6. neuropsicologico
  7. dell’autonomia personale e sociale.

A questi si aggiungevano — nel Profilo Dinamico Funzionale — ulteriori due «Assi»:

  1. comunicazionale
  2. dell’apprendimento.

Nel Profilo Dinamico Funzionale compariva già una certa qual definizione di funzionamento che comprendeva:

  1. la descrizione funzionale in relazione alle difficoltà che l’alunno dimostra di incontrare in settori di attività;
  2. l’analisi dello sviluppo potenziale dell’alunno a breve e medio termine, desunto dall’esame di nove parametri (nel gergo scolastico definiti poi «assi»).

In definitiva, la classificazione ICF porterebbe ad una estrema essenzializzazione (o impoverimento) dell’articolazione funzionale, riconducibile a tre assi: dell’apprendimento, della comunicazione e dell’autonomia.

A fronte di ciò, il decreto sull’inclusione (DLgs 66/2017) individua un numero maggiore di «dimensioni» che sono quelle «della relazione, della socializzazione, della comunicazione, dell’interazione, dell’orientamento e delle autonomie», cui si aggiunge l’apprendimento, inteso in senso trasversale, in quanto interessa e coinvolge tutte le altre dimensioni, non solo quella cognitiva, e che viene citato anche come ambiente di apprendimento ossia come luogo di realizzazione dell’intera attività pedagogica che dia modo di soddisfare i «bisogni educativi individuati».

Qual è, dunque, questo filo logico — o meglio questo impianto culturale — che lega tutte le definizioni di ICF riconducendole ad Attività e Partecipazione, nella proiezione esteriore dell’operatività di un soggetto?

Tirando le somme di quanto esposto, la radice culturale ed epistemologica dell’ICF sembra trovare le sue origini nella corrente del Comportamentismo statunitense. Così come Watson, nel 1913, sfrondava l’albero della conoscenza psicologica dalle pretese di indagare l’interiorità umana, riconducendo ad input e output i moti riconoscibili e da studiare nell’essere umano (Watson, 1913), analogamente l’ICF elimina dal campo degli oggetti da indagare tutti i moti interni del soggetto, concentrando l’attenzione sul mero fenomeno esteriore. Una fenomenologia, appunto, senza alcuna estensione in campo eziologico.

C’è una linea di continuità, nel pensiero di matrice culturale anglofona, con successive elaborazioni, dopo Watson, che presentano la stessa impostazione di fondo. È Jerry Fodor, con la sua Modularity of mind (Fodor, 1983), che riprende la prospettiva comportamentista applicandola però alla teoria della mente. Le «Black box» di Fodor (Hamlyn, 1990) sono i moduli mentali cui possono riferirsi determinate funzioni, rispetto alle quali è solo indagabile l’input e l’output, essendo precluso alla conoscenza scientifica l’aspetto interno delle «scatole nere».

L’approccio, qui appena richiamato, sembra essere molto simile a quello del modello ICF: è possibile classificare soltanto manifestazioni esteriori del soggetto che, anche nelle funzioni mentali e nel processo di apprendimento, sono traducibili in termini di attività: apprendere = leggere, scrivere, calcolare, imparare attraverso azioni con oggetti, esercitarsi (ripetere per imparare), imitare (per imparare), ecc.

Sono queste perplessità e i rischi correlati che hanno portato — nell’interlocuzione avviata per la stesura delle Linee guida ministeriali — ad una lettera di chiarimenti per far luce sugli aspetti essenziali del nuovo modello da adottare, nel Profilo di Funzionamento, che ha uno stretto legame con il PEI.

Ecco un estratto dalla nota MIUR del 16 luglio 2019:

Il DLgs 66/2017 non prevede […] direttamente, né indirettamente, l’integrale o parziale modificazione delle metodologie di lavoro per la redazione del PEI su base ICF.

È infatti il Profilo di funzionamento che, con riferimento all’ICF, ha il compito di fornire una descrizione significativa, esauriente, facilmente comunicabile e comprensibile delle caratteristiche dell’alunno, per tutte le persone coinvolte nella futura redazione del PEI. Al suo interno si troveranno, sinteticamente declinati e tradotti in prosa, i riferimenti alle componenti contemplate dall’ICF, in ordine a Funzioni e Strutture corporee, Attività e Partecipazione, Fattori ambientali.

L’ICF, in quanto modello di classificazione, procede per definizione a mezzo di indicatori e quantificatori e trova la sua naturale collocazione, come strumento di riferimento e di orientamento per il lavoro clinico, all’interno del Profilo di funzionamento. Quando dovesse trasformarsi in approccio valutativo di riferimento diretto per la redazione del PEI, esso concentrerebbe logicamente il proprio campo di osservazione su aspetti esteriori (attività e partecipazione), restringendo l’orizzonte da considerare al funzionamento esteriore, non contemperando, di fatto, tutta la valutazione del profilo psicologico della persona.

Il PEI sarà necessariamente coerente con il Profilo di Funzionamento quando ancora, nella sua predisposizione, i docenti potranno contare sugli assi di riferimento previsti nell’attuale modello culturale in uso, desunto dal DPR 24 febbraio 1994, a rischio — altrimenti — di un incolmabile impoverimento di approccio.

Ai docenti — il cui operato si estrinseca nell’ambito della componente psicopedagogica — occorrerà accedere agli elementi della storia clinica, familiare e personale dell’alunno/studente (desunta dal PF), al fine di poter tradurre le osservazioni di carattere clinico e socio-ambientale, che definiscono il quadro globale della persona, in un progetto educativo che abbia, come si è detto, le caratteristiche della concretezza e della immediata spendibilità didattica, il tutto fondato, come si ribadisce, sulla dimensione completa della persona e non soltanto sugli aspetti del funzionamento esteriore.

In sintesi, le risultanti delle osservazioni e delle conseguenti determinazioni cliniche, effettuate dall’Unità di valutazione multidisciplinare di cui all’art. 5 del DLgs 66/2017, dovranno essere esposte in un documento in prosa (PF) che costituirà la base scientifica per la costruzione della proposta didattica individualizzata presente nel PEI. È necessario, dunque, che il docente conservi a livello strumentale, anche nel rinnovato contesto normativo internazionale (con il riferimento al modello ICF) sempre la possibilità di fondare la sua programmazione su un modello snello e costantemente aggiornabile, flessibile, in cui siano contemplati come riferimenti i parametri precedentemente previsti nel DPR 24 febbraio 1994, all’art. 4, confluiti nelle dimensioni (relazione, socializzazione, comunicazione, interazione, orientamento, autonomie) indicate dal legislatore all’art. 7, c. 2, lettera c) del DLgs 66/2017…

Conclusioni

Dividere in modo manicheo il mondo in due metà — da una parte i proponenti di ICF, con sguardo «globale», «multiassiale», «dinamico» e «sistemico», e dall’altra i «non-ICF», che osservano il mondo e le persone secondo aspetti parziali, unilaterali, confusi, con terminologie e semantiche inadeguate — è cosa troppo banale che non dà senso della complessità del reale.

È da notare, infatti, che le descrizioni del modello ICF mettono quasi sempre in comparazione la «nuova» prospettiva con modi e atteggiamenti che si pongono all’opposto di essa, naturalmente svalutando l’approccio tradizionale o attuale ed enfatizzando l’estrema positività del nuovo modello.

In questo sforzo di voler tutto classificare e incasellare in diagrammi, la sistemazione che si ottiene risulta sempre molto lontana dalla realtà, appunto confinata in uno schema.

Se l’obiettivo era quello di uscire da schemi rigidi di valutazione e da approcci osservativi carenti di una visione d’insieme perché troppo focalizzati sul soggetto, l’effetto prodotto è quello di una visuale che ha acquisito sì maggiore ampiezza, laddove ha guadagnato prospettive di contesto precedentemente poco curate, ma ha perso in profondità, diluendo l’essenzialità dei Fattori personali nel mare magnum dell’interazione ambientale.

Peraltro, in condizioni normali di discussione e valutazione scientifica, la constatazione di una parte essenziale dell’impianto classificatorio, quale è quella dei Fattori personali, che non viene però definita, farebbe crollare tutto l’impianto, trattandosi di uno dei quattro pilastri su cui si regge il modello. Eppure, nonostante tale vistosa carenza strutturale nell’impianto teoretico (in realtà non risolvibile, per i fondamenti stessi su cui si poggia la teoria, volta a valutare solo l’aspetto esteriore delle cose), il modello rimane in piedi e guadagna anzi consensi… segno evidentemente di scarsa consapevolezza della sua inconsistenza, a livello epistemico, oltre che di mancanza di coerenza logica dell’intero sistema.

Nella letteratura scientifica internazionale che studia ICF le perplessità sulla coerenza dell’impianto teorico sono ben più elevate rispetto a quelle che una certa acritica accoglienza riserva al modello bio-psico-sociale in Italia.

Rune J. Simeonsson, uno dei maggiori studiosi dell’ICF, così si esprime sul problema della non definizione dei Fattori personali:

La componente «fattori personali» nell’ICF / ICF-CY non è definita, non esiste una tassonomia dei codici, non c’è uno scopo esplicito dichiarato per il suo utilizzo e non sono fornite linee guida per la sua applicazione. Nonostante questi vincoli, la componente «fattori personali» viene applicata come parte delle classificazioni. Tali applicazioni non controllate costituiscono rischi significativi per lo stato di ICF/ICF-CY come classificazione di riferimento dell’OMS in quanto: (a) il componente è accettato per impostazione predefinita semplicemente applicandolo; (b) il contenuto dei componenti è espanso con esempi idiosincratici dagli utenti; e (c) esiste un potenziale uso improprio di «fattori personali» nel documentare gli attributi personali.

Conclusione: In assenza di codici formali, qualsiasi applicazione della componente di «fattori personali» manca della legittimità che dovrebbe fornire una documentazione con tassonomia scientifica. Dato il crescente utilizzo dell’ICF/ICF-CY a livello globale, una priorità per il processo di revisione dovrebbe essere quella di determinare se c’è effettivamente bisogno di fattori «personali» o di qualsiasi altro fattore nell’ICF/ICF-CY (Simeonsson et al., 2014, p. 2187).

Insomma, in un sistema teorico che manca di una componente fondamentale per avere completezza e che, secondo i canoni della filosofia della scienza e del pensiero logico, dovrebbe essere già stato «falsificato», per dirla in termini popperiani, accade invece che lo stesso sistema non solo sopravviva alle contraddizioni interne ma che, secondo una pretesa assurda e irrazionale, vengano messi in discussione altri sistemi teorici e operazionali efficaci per essere sostituiti da quello.

È nostro convincimento che ai proponenti dell’ICF siano ben chiari le falle e i limiti del sistema, con l’indefinibilità — sulla base degli assunti concettuali messi a caposaldo dell’impianto teorico — dei Fattori personali.

Nondimeno, riteniamo che, sfrondato dalla pretesa di dover assumere il ruolo di modello concettuale predominante e di linguaggio transculturale e multilinguistico, l’ICF potrebbe contribuire, nei termini sopra illustrati (come nell’esempio del ragazzo paraplegico a confronto con diversi contesti) a instaurare una modalità condivisa di analisi ambientale, che coinvolga sulla base di un comune denominatore concettuale e operazionale, i diversi attori istituzionali e operatori competenti in materia.

Il modus operandi non dovrebbe essere quello di distruggere e sostituire ciò che funziona, ma di integrare un sistema collaudato con elementi di miglioramento che contribuiscano a qualificarlo ulteriormente, ampliando la visuale laddove si verificano dei restringimenti di campo.

In tal senso, l’ICF potrà essere veramente di aiuto al miglioramento della qualità dell’inclusione se verrà utilizzato entro il perimetro delle sue migliori acquisizioni: accezione positiva di funzionamento e superamento del concetto di disabilità come menomazione, analisi del contesto e dell’interazione del soggetto con esso attraverso l’individuazione di barriere e facilitatori… senza perdere di vista la persona, nelle sue dimensioni fondamentali.

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1 Dirigente Tecnico del Ministero dell'Istruzione.

2 Education Inspector – Italian Ministry of Education. Representative Board member of the European Agency for Special Needs and Inclusive Education.

3 Intesa del 20 marzo 2008 tra il Governo, le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano, le Province, i Comuni e le Comunità Montane in merito alle modalità e i criteri per l’accoglienza scolastica e la presa in carico dell’alunno con disabilità sancita, ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n.131, dalla Conferenza Unificata (Rep. Atti n.39/CU).

4 Nell’Intesa del 2008 è così scritto: «La Diagnosi Funzionale è redatta secondo i criteri del modello bio-psico-sociale alla base dell’ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, […] In questa nuova versione, la Diagnosi Funzionale include anche il Profilo Dinamico Funzionale e corrisponde, in coerenza con i principi dell’ICF, al Profilo di funzionamento della persona».

5 Decreto Presidente della Repubblica 14 giugno 1955, n. 503 (Abrogato e sostituito dal DPR 12 febbraio 1985, n. 104), «Programmi didattici per la scuola primaria», art. unico.

6 Cfr. Regolamento recante Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, a norma dell’articolo 1, comma 4, del Decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89.

7 Si veda, ad esempio, l’Accordo di Programma della Provincia di Treviso, ove la scuola «Si impegna all’introduzione progressiva dei parametri dell’ICF nella programmazione e gestione del progetto di integrazione, anche ai fini della documentazione» (2007).

8 L’Assessorato alla Sanità del Piemonte ha promosso nel 2007 in 7 ASL, con capofila l’ASL di Biella, «in affiancamento alle attuali modalità di certificazione, la sperimentazione dell’utilizzo dell’ICF per l’individuazione dell’alunno con disabilità per meglio evidenziare le capacità e le potenzialità del soggetto interessato» Deliberazione della Giunta Regionale del Piemonte 9 febbraio 2009, n. 18-10723.

9 Deliberazione della Giunta Regionale 1° febbraio 2010, n. 34-13176: «Linee di indirizzo integrate per ASL, Enti gestori delle funzioni socio-assistenziali, Istituzioni scolastiche ed Enti di formazione professionale circa il diritto all’educazione, istruzione e formazione professionale degli alunni con disabilità o con Esigenze Educative Speciali». Anche su http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2010/06/attach/dgr_13176_830_01022010.pdf (consultato il 18 ottobre 2020) modificata e integrata dalla Deliberazione della Giunta Regionale 29 luglio 2013, n. 15-6181: «Tutela del diritto allo studio degli alunni e studenti con disabilità: indicazioni per l’individuazione dell’alunno/studente come soggetto in situazione di handicap. Linee di indirizzo in merito all’accoglienza e presa in carico dell’alunno/studente con disabilità: modifiche e integrazioni alla D.G.R. 34-13176 del 1° febbraio 2010», http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2013/35/siste/00000154.htm (consultato il 18 ottobre 2020). Cfr. inoltre D.G.R. 26-13680 del 29/03/2010: «Approvazione delle linee guida sul funzionamento delle Unità Multidisciplinari di Valutazione della Disabilità (UMVD)».

10 MIUR, Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, allegate alla Nota 4 agosto 2009.

11 Portale italiano delle classificazioni sanitarie, https://www.reteclassificazioni.it/portal_main.php?portal_view=news_dettaglio&id=34 (consultato il 18 ottobre 2020).

12 Integrazione scolastica, http://www.integrazionescolastica.it/article/1013 (consultato il 18 ottobre 2020).

13 Già pubblicato su www.istruzione.it (area «Integrazione scolastica») ora visibile su https://www.reteclassificazioni.it/portal_main.php?portal_view=news_dettaglio&id=34 (consultato il 18 ottobre 2020).

14 International Classification of Diseases; in particolare, International Statistical Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death è la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS-WHO), giunta oggi alla decima edizione (ICD-10), come approvata dalla 43ª Assemblea Mondiale della Sanità e utilizzata a partire dal 1994. In Italia, non è stata ancora ufficialmente adottata la decima edizione, quindi permane attualmente in uso l’ICD-9.

15 Funzionamento problematico: compromissione che porta a nessuna limitazione nella capacità ma a problemi nella performance. Ad esempio, un bambino diabetico ha una compromissione funzionale: il pancreas non funziona adeguatamente per produrre insulina. Il diabete può essere controllato con farmaci, vale a dire l’insulina. Quando le funzioni del corpo (livelli di insulina) sono sotto controllo, non ci sono limitazioni di capacità associati alla menomazione. Tuttavia, è probabile che il bambino con diabete sperimenti un problema di performance nel socializzare con amici o coetanei quando è coinvolto nel mangiare, poiché il bambino è tenuto a limitare l’assunzione di zucchero. La mancanza di cibo appropriato può creare una barriera. Pertanto, per quel bambino potrebbe verificarsi una restrizione della partecipazione in tale contesto a meno che non siano prese misure per garantire cibo appropriato, per quanto ciò non limiti le sue capacità (ICF-CY, pag. 52).

Vol. 19, Issue 4, November 2020

 

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