Vol. 19, n. 4, novembre 2020

MONOGRAFIA

Dal prendersi cura all’aver cura dei pazienti in condizione di disabilità1

Maura Striano2 e Valentina Paola Cesarano3

Sommario

Nei contesti della salute e della cura è diventato urgente ripensare la differenza sul significato del prendersi cura (in senso tecnico) e dell’aver cura, poiché nelle istituzioni e nei servizi il curare in senso medico, ma anche in senso educativo e sociale, perde di vista l’aver cura dell’Altro, quella sollecitudine autentica che si fonda sulla relazione. La situazione di emergenza prodotta dal Covid-19 ha accentuato ancor di più tale necessità. Negli ultimi anni la cronaca ha riportato numerosi episodi di violenza verso pazienti in condizione di disabilità da parte di coloro che dovrebbero aver cura di loro. Tuttavia, non va ignorata la presenza di servizi e operatori che offrono, invece, risposte di qualità eccellente, di alta professionalità e attenzione alle relazioni. Cosa fa la differenza? È evidente la necessità di una selezione accurata, di un controllo costante sulle attività degli operatori, di una formazione continua per favorire la crescita professionale e la rimotivazione iniziale affinché non sbiadisca nel tempo. Alla luce di ciò si è scelto di articolare una riflessione focalizzata sul ripensamento della formazione delle professionalità sanitarie, una formazione che fornisca gli strumenti per promuovere una visione biopsicosociale dei pazienti in condizione di disabilità, avendo cura del loro progetto di vita e della loro qualità della vita, rendendoli così protagonisti del processo di cura.

Parole chiave

Avere cura, condizione di disabilità, formazione, qualità di vita, modello biopsicosociale.

MONOGRAPHY

From taking care of to caring for people with disabilities

Maura Striano4 and Valentina Paola Cesarano5

Abstract

In the contexts of health and care, we urgently need to re-examine the difference between the meaning of taking care of (in a technical sense) and caring for patients. This is because in institutions and services taking care of a patient in the medical sense, but also in educational and social senses, has lost sight of caring for others, which can be described as authentic concern, based on relationships. The emergency situation provoked by COVID-19 has accentuated this need even more. In recent years, the news has reported on numerous episodes of violence against patients with disabilities, perpetrated by those who should be taking care of them. However, the existence of services and operators offering high quality responses, elevated professionalism and attention to relationships nevertheless should not be ignored. What makes the difference? There is a clear need for careful selection, constant control over operators’ activities, continuous training to encourage professional growth and initial re-motivation to prevent it fading over time. In light of this, we decided to formulate a study focused on redesigning the training of health professionals, into a kind of training that provides the tools to promote a biopsychosocial vision of patients with a disability, tending to their life plan and their quality of life, thus making them the key players of the treatment process.

Keywords

Caring, disability, training, quality of life, biopsychosocial model.

Introduzione

Negli ultimi anni la cronaca ha riportato numerosi episodi di noncuranza o di negligenza verso pazienti in condizione di disabilità da parte di coloro che dovrebbero aver cura di loro.

A ciò si aggiunge la registrazione di veri e propri atti di violenza verso donne in condizione di disabilità da parte dei professionisti della cura: si tratta di un dato allarmante, che richiama a uno scenario di violazione dei diritti umani.

In questo scenario, il caso di una paziente, residente in una casa famiglia, con gravi difficoltà di comunicazione che, una volta ricoverata in ospedale per una forma influenzale, finisce per morire di polmonite a causa della sua incapacità di esprimersi e della incomprensione da parte dei sanitari, ha rappresentato un punto di svolta emblematico.

Da questa vicenda ha infatti preso spunto il progetto della Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale, promosso dall’associazione Spes Contra Spem, che ha consentito di sancire i diritti inalienabili di cui devono poter godere le persone in condizione di disabilità nei contesti della salute e della cura: il diritto a misure preventive; il diritto all’accesso; il diritto alla informazione; il diritto al consenso; il dritto alla libera scelta; il diritto alla privacy e alla confidenzialità; il diritto al rispetto del tempo dei pazienti; il diritto al rispetto di standard di qualità; il diritto alla sicurezza; il diritto alla innovazione; il diritto a evitare le sofferenze e il dolore non necessari; il diritto a un trattamento personalizzato; il diritto al reclamo; il diritto al risarcimento. La Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale è un riferimento importante, la cui disseminazione ha attivato un significativo processo di riflessione su questi temi, ma esistono ancora notevoli criticità. L’odierna emergenza prodotta dal Covid- 19 ha amplificato a dismisura i disagi già esistenti vissuti dalle persone in condizione di disabilità. E anche se in questi tempi difficilissimi la maggior parte delle attività di assistenza domiciliare e dei progetti di sostegno personale sono ufficialmente operativi, ancora troppe donne e uomini disabili, insieme ai loro caregiver, sono privi di aiuti idonei come, ad esempio, i dispositivi di protezione individuali (DPI). Critiche sono inoltre le condizioni in cui vivono molti pazienti nei Centri diurni per disabili (Cdd) e nelle Residenze sanitarie assistenziali (RSA) diventate temutissime «zone rosse». Sentimenti di sconforto e solitudine, inoltre, vengono ampliati dall’isolamento sociale che queste persone stanno affrontando, una quarantena che non è uguale per tutti, risultando doppiamente invisibili. Con il trascorrere delle settimane è emersa sempre più chiaramente la delicatissima condizione dei soggetti più deboli ma anche la resistenza delle loro famiglie che lottano ogni giorno per dare un’esistenza dignitosa ai loro cari. Il blocco legato al Sars-Cov-2, in aggiunta, ha evidenziato criticità strutturali, calpestando molti diritti di donne e uomini, giovani e meno giovani, in condizioni di estrema fragilità. Tuttavia, non va ignorata la presenza di servizi e operatori che offrono, invece, risposte di qualità eccellente, di alta professionalità e attenzione alle relazioni di cura. Tenendo conto dell’urgenza di far sì che le istituzioni permettano, con strategie lungimiranti e misure concrete, che gli invisibili finalmente escano dalla quella zona grigia dove troppo spesso, a loro danno, la politica sia nazionale sia locale li ha relegati, tale scenario suscita una riflessione sul cambiamento del ruolo delle professioni sanitarie e socio-sanitarie ( e di conseguenza degli operatori) che da figure centrali diventano attori tra gli altri. Ne consegue un cambiamento di paradigma, dalla cura sanitaria alla cura educativa, dal prendersi cura all’aver cura delle persone in condizione di disabilità.

Ripensare la pratica sanitaria come pratica educativa: la prospettiva della cura

Un interessante contributo in chiave pedagogica all’esplorazione del concetto di cura ci è offerto da Mortari, che attinge all’esistenzialismo heideggeriano e in particolare alle riflessioni affidate ad Essere e tempo.

Utilizzando il pensiero di Heidegger, Mortari puntualizza che la cura rappresenta un a-priori esistenziale, viene prima perché è insita nella struttura esistenziale dell’uomo. In questa prospettiva essa si configura come il fenomeno a partire dal quale si declinano le diverse maniere di abitare il mondo e la categoria fondante di ogni discorso sull’uomo (Mortari, 2006). L’uomo ha due possibilità: vivere nell’anonimia senza percorrere la possibilità di scegliere e senza diventare il suo poter essere autentico; oppure «scegliere di scegliere» di poter essere autenticamente sé stesso secondo la chiamata della coscienza ad aver cura del proprio divenire, in funzione del proprio poter essere. Dal punto di vista pedagogico, come sottolinea Palmieri, la prospettiva heideggeriana ci fa capire che la cura, apertura esistenziale all’essere dell’uomo, rappresenta il modo di pro-gettarsi, di essere davanti a sé, e allo stesso tempo è la forma del proprio essere nel mondo in maniera non anonima (Palmieri, 2003). La vita non appare come compimento diacronico in quel dato tempo, ma come un insieme di occasioni di formazione, come indeterminabile possibilità opposta alla morte, orizzonte strutturale dell’esistenza e che è impossibilità di decidere come esistere. La cura diventa per Heidegger l’esistenziale degli esistenziali, la struttura ontologica fondamentale, che indica l’originaria apertura dell’esserci. La cura è il mio stesso esserci. L’Esserci si mette alla ricerca del suo essere più proprio inteso come quell’essere del quale per lui ne va. Questo modo fondamentale d’essere Heidegger lo indica come «cura». All’interno di questa apertura, poi, Heidegger distingue il prendersi-cura dall’aver cura, così come aveva in precedenza distinto la relazione che abbiamo con gli enti intramondani dalla relazione che abbiamo con gli altri esserci. Degli altri non ci prendiamo cura non ci prendiamo-cura così come ci prendiamo cura di una cosa del mondo circostante. Questo perché il modo d’essere dell’Esserci da cui parte la comunicazione con l’altro non è un essere-presso ma un essere-con. Perciò la cura, in relazione agli altri, diventa una «cura condivisa», più esattamente una «cura-per», «un aver cura». È nell’aver cura che, propriamente, l’esserci fa esperienza del con-esserci. Il modo dell’aver cura subentrante si cura dell’altro in quanto gli pro-cura dei successi, mettendosi al suo posto; questo aver cura diviene una sottile modalità di possesso in cui l’altro è trattato come un «nulla» d’Esserci. Si tratta, dunque, di una modalità di aver cura inautentico. L’altro Esserci in questa modalità difettiva della cura viene privato del suo diritto e dovere di prendersi cura di Se-Stesso (Heidegger, 1976).

Diviene dunque fondamentale l’incontro con l’Altro, le cui connotazioni esistenziali sono esplorate in profondità da Lévinas, in particolare in La traccia dell’altro (1979).

Nel pensiero di Lévinas, infatti, il tema dell’incontro con l’Altro riveste una importanza centrale (1979) e la dimensione etica di relazione con la singolarità degli altri ha un’importanza fondamentale. Lasciarsi interpellare dal volto dell’altro/i consente di esprimere il rispetto, direzione etica da applicare alle pratiche di cura educativa, nella concretezza dei singoli incontri. Gli altri si incontrano faccia a faccia, e l’io singolare è interpellato per dare risposte senza poterli né dominare né controllare, né potendo prevedere le loro risposte che risultano sempre differenti.

Rifacendosi al pensiero di Lévinas, Mortari spiega che ogni pratica di cura si indirizza verso l’Altro nella sua singolarità; per questo è necessario occorre accogliere e incontrare l’altro nella sua infinitezza di valore, nel rispetto per la sua vulnerabilità, imperativo alla sua inviolabilità; per questo chi ha cura, senza annullare la propria soggettività, risponde all’altro con un atteggiamento di accoglienza e di rispetto e in maniera di farsi garante del fatto che il bisogno di affidarsi dell’altro non si tramuti mai in possesso e/o potere su di lui (Mortari, 2006). Si delinea così una relazione di cura etica non piegata dall’obbligo, libera e responsabile, preoccupata di salvaguardare la singolarità dell’altro, e che si esplica nella sollecitudine, nell’attenzione e nel dono, definita da azioni e decisioni orientate all’apertura e all’incontro rispettoso con il volto che ci parla. La cura che sostiene la vita, priva di qualsiasi ottica mercantile, si delinea così di essenziale valore vitale (Mortari, 2006). L’esplorazione della relazione di cura è affrontata in modo illuminante da Noddings, la quale ne evidenzia le implicazioni etiche e morali e le radici esperienziali: si tratta di un particolare modo di essere in relazione, caratterizzato da «ricettività, relazionalità e concentrazione» che implica da un lato attenzione, impegno, motivazione, dall’altro il riconoscimento che qualcuno si sta prendendo cura di noi (Noddings, 2002). La Noddings distingue inoltre tra due modalità in cui si articola la relazione di cura: «aver cura per» (caring for) e «prendersi cura di» (caring about). Nel primo caso si tratta di una relazione interindividuale, nel secondo invece di un impegno pubblico, che si indirizza verso cose o persone «neglette»; si tratta di una dimensione in cui vengono a stabilirsi le condizioni in cui può fiorire la capacità individuale e collettiva di «prendersi cura di» e si può costantemente alimentare quella di «aver cura per» attraverso la coltivazione di peculiari relazioni di cura (Noddings, 2002). I costrutti precedentemente esplorati possono essere utilmente applicati alla formazione delle professionalità sanitarie nell’ambito della cura in generale e nello specifico della cura delle persone in condizione di disabilità. L’attenzione per i bisogni di cura delle persone in condizione di disabilità si inscrive in una cornice pubblica in cui si definisce la necessità di «prendersi cura» (nel senso descritto dalla Noddings) di coloro che spesso, come notato in precedenza, sono invisibili, ma per poter concretizzarsi in un agire eticamente connotato questa attenzione deve tradursi in concrete relazioni di cura. È necessario, tuttavia, muoversi in una prospettiva in cui la cura va ad alimentare un processo di crescita personale e ciò si realizza promuovendo il passaggio dalla cura inautentica, che si configura in prendersi cura dell’altro come oggetto, all’aver cura dell’altro, sostenendolo ad assumersi la responsabilità di aver cura di sé, e quindi a essere liberi di realizzare il proprio essere. Vi deve essere dunque una formazione alla cura in senso heideggeriano, quale struttura dell’essere dell’Esserci che esprime la condizione di un essere che progetta, come «essere-avanti-a-sé», le sue possibilità, le quali lo riducono alla sua situazione originaria, cioè al suo essere-gettato. Non è possibile continuare ad arrendersi ad una visione della pratica sanitaria rivolta alle persone in condizione di disabilità come mero trattamento farmacologico e di controllo o puramente ortopedico — correttivo, permanendo nello specialismo e nello stigma, allontanando i professionisti della cura dalle dinamiche interpersonali e sociali che determinano la vita di ogni persona nella propria comunità, ignorando il ricco tessuto di desideri inespressi, relazioni interpersonali, reti sociali, potenzialità in nuce. La cura sanitaria non può non essere cura educativa, non può non avere a che fare con la possibilità di cambiamento dell’uomo come individualità. La relazione di cura, promuovendo la soggettività, vuole favorire un processo di autonormatività in modo che ognuno divenga se stesso nella fondamentale e ineliminabile relazione col suo mondo e le sue regole, che sono la condizione per formarsi nella propria singolarità e nel tempo. Come avverte la Boffo, la relazione non è solo un modo di stare nell’esistenza, ma è una struttura originaria dell’uomo, modella coloro che sono legati al suo interno ed è veicolo di educazione, è passaggio di apprendimenti e di acquisizioni (Boffo, 2011). Il senso dell’aver cura sta nella costitutiva edificabilità dell’uomo; essa insieme alla normatività, è la condizione essenziale della cura educativa. L’edificabilità rappresenta la dimensione della possibilità e della scelta. La normatività evidenzia la necessità delle cure di altri e la potenzialità di aver cura di sé e di altri. L’esistenza umana si forma ogni giorno, e l’aver cura si vive ogni giorno per tutti i giorni della vita, nell’ottica di un’educazione permanente. La cura non va riferita solo alla crescita o alla situazione di bisogno, va oltre le dimensioni riduzionistiche; essa non è né diacronica né funzionalistica. La cura non interviene nell’ambito circoscritto delle mancanze, ma nell’arco intero della vita aiutando a vivere la condizione di curabilità, di edificabilità e, ippocraticamente, la cura si dà anche, come avverte Palmieri, a chi ha limitate o minime possibilità di crescita o di miglioramento: si può aver cura per l’intera esistenza umana (Palmieri,2003). Anzi, come notano Potestio e Togni, si può aver cura dell’esistenza umana in qualsiasi forma si dia. L’uomo in quanto antropos (co-appartenenza dell’io con l’alterità (Potestio, Togni, 2011) può aver cura di sé e degli altri uomini con oblatività (intesa come fedeltà alla natura umana), cioè scevro da interessi mercantili o da posture sacrificali. La cura è vedere oltre eventuali difficoltà o disabilità che possono abbacinare al primo sguardo, col fine che nessuna possibilità esistentiva e di autonomia vada perduta, stimando, ogni aspetto di potenzialità con attenzione, sollecitudine e sollecitazione. Alla somma dei conti la cura appare condizione della formazione e insieme modo di formazione individuale.

Promuovere il dialogo tra la Medicina e la Pedagogia speciale per una formazione all’avere cura dell’Altro

La Pedagogia Speciale si occupa di persone con bisogni specifici, di esse intravede la possibilità di educabilità e, su questa, appronta risposte speciali in contesti ampi. Si muove in ambiti di frontiera per rilevare possibilità, cogliere potenzialità residuali o latenti, accreditando prima la persona e poi la condizione di disabilità. Svolge una funzione utopica e trasgressiva ed effettua un percorso euristico: riflette e trova elementi per poter agire evitando di chiudere la persona in un contesto segregante. Gli operatori (imperfetti) «speciali», osservando come la persona si rapporta col territorio, interessandosi ai suoi hobby, o a chi era prima, nel caso di persone con disabilità acquisite, o, compensando nell’accettazione la condizione di disabilità che la persona vive nel suo incontro col contesto, costruiscono relazioni di aiuto con tali persone. La Pedagogia speciale quindi si relaziona al «diverso» non come a un malato da curare, né come a una personalità in riparazione: vuole cogliere il nucleo più sensibile e attento alle peculiarità di ogni persona nelle sue caratteristiche di unicità e irripetibilità in un’ottica inclusiva. Lo considera come partner nella relazione di cura e di aiuto, e non vuole creare situazioni di dipendenza e di assistenzialismo; ritiene educabili tutte le categorie di persone, senza darsi per vinta, qualunque sia la gravità del disturbo e della condizione individuale. L’approccio considera l’Altro come una persona, un sistema tenere viva la comunicazione, capace di modificarsi e di condividere le tappe del cammino di autorealizzazione (Pavone, 2014). I vincoli rafforzano la necessità della progettualità educativa che mette in luce le opportunità individuabili tra la realtà e la possibilità. Anche per soggetti con difficoltà severe è sempre possibile proporre un percorso orientato verso la meta più alta consentita dalla storicità esistenziale. È necessaria la disposizione personale del soggetto cui è rivolto per conseguire nuovi traguardi verso l’autonomia personale e sociale. Il cammino, costellato dai rischi di eventuali regressioni o stagnazioni, è costituito da un divenire simbiotico di incapacità, competenze, stati d’animo diversi, cambiamenti piccoli e lenti; frattanto compito degli operatori che a vario titolo compartecipano al progetto di vita della persona, è accompagnare e sostenere il soggetto stimandolo più capace di quanto il passato lasci supporre (Pavone, 2014). Sua responsabilità è saper mantenere aperta la relazione, la ricerca, il dialogo, la possibilità di narrare diversamente l’esperienza, per trovare nuove soluzioni ed evolvere. Se non si verifica alcun cambiamento occorre che lui cambi. Può interpretare e dar significato alla relazione adottando punti di vista diversi, aumentando le possibili letture, ampliando gli orizzonti o cambiando i modi di narrare a sé la propria esperienza all’interno della relazione. In essa non vanno trascurate le parole, il non verbale, il rispetto, la curiosità, la sospensione del giudizio, l’osservazione puntuale e sistematica, il linguaggio metaforico e l’esperienza del, e nel, gruppo e infine i condizionamenti biologici, sociali, culturali e ambientali (Potestio e Togni, 2011). L’approccio della Pedagogia speciale si prefigge una migliore conoscenza dei soggetti con disabilità, delle loro condizioni di vita, anche attraverso l’uso dei più raffinati strumenti diagnostici, la promozione di senso comunitario e di valori inclusivi, una migliore offerta formativa, una presa in carico globale della persona con un progetto di vita longitudinale e una relazione di lunga durata; inoltre chiede la disponibilità di sussidi, protesi, sostegni, strumenti, strutture educative diurne e anche abitative. L’approccio è multidimensionale, poiché c’è multicausalità nelle condizioni di coloro che hanno esigenze speciali. C’è una molteplicità di modi per rispondere ai bisogni particolari di educazione, in quanto ogni singolo caso è diverso da tutti gli altri; perciò, attraverso l’individualizzazione si devono implementare tanti processi originali di vita quanti sono i destinatari/costruttori delle relazioni di aiuto (Pavone, 2014). Inoltre, come sostiene Canevaro, la Pedagogia Speciale vive negli incontri con discipline e con soggetti che hanno punti di vista diversi (Canevaro, 2013). Un importante e possibile incontro avviene con la Medicina. Prendiamo in considerazione, per esempio, la letteratura scientifica che ha messo al centro della riflessione la ricostruzione dello statuto epistemologico della Pedagogia Speciale (Canevaro e Goussot, 2000; Caldin, 2001; d’Alonzo, 2008), partendo dagli importanti itinerari storici connotati dalla relazione con diverse discipline, tra cui quelle mediche, riproponendo una nuova composizione di rapporti disciplinari indispensabili per capire l’identità epistemologica e per «abitare l’interdisciplinarietà» (Bocci, 2016). Pensiamo inoltre a chi ha argomentato, in chiave fenomenologica, questo possibile connubio tra medicina e pedagogia mettendo al centro non solo la spiegazione, ma la comprensione dei fenomeni (medico-clinici, da un lato, educativi dall’altro) nelle loro trame singolari e irripetibili (Zannini, 2008, 2015; Castiglioni, 2016). In altre parole, sia il medico che il pedagogista si trovano a confrontarsi quotidianamente con dimensioni quali il vissuto della disabilità, la sofferenza, la relazione d’aiuto, le diverse e specifiche rappresentazioni della persona con disabilità e dei suoi familiari in riferimenti al contesto di vita (Good, 2006). E l’incontro, in questa direzione, si osserva nelle interessanti proposte di un orientamento narrativo e biografico (spesso anche autobiografico) che permettono di comprendere la storia della persona con disabilità nella sua espressione «incarnata» e la relazione tra essa e il professionista ( che sia esso educatore, operatore socio-sanitario, pedagogista, insegnante medico) e che sono diventate prospettive proprio della medicina narrativa all’interno delle Medical Humanities (Catiglioni, 2016) e della Pedagogia Speciale (Gaspari, 2008; De Anna et al., 2018; Giaconi, Del Bianco e Caldarelli, 2019).

Una proposta di formazione all’aver cura del paziente in condizione di disabilità

I dialoghi tra la Medicina e la Pedagogia Speciale necessitano di essere incarnati nelle pratiche di formazione delle professioni sanitarie, affinché le cure mediche abbiano cura in modo globale del progetto di vita e dell’autodeterminazione delle persone in condizione di disabilità. In primo luogo, affinché ciò si realizzi, sembra necessario formare tali professionalità all’utilizzo della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (OMS, 2002). Tale classificazione, che prende le mosse da un approccio multidisciplinare e multisettoriale, consente la predisposizione di una base scientifica orientata allo studio e alla comprensione delle condizioni di salute ad esse correlate e promuove una visione coerente delle diverse dimensioni della salute, un modello universale di salute che vede lo scambio reciproco tra individuo fattori ambientali biologici sociali. A differenza delle precedenti classificazioni operate dall’OMS (ICD e ICIDH), che offrivano un quadro descrittivo delle malattie dell’individuo, ricorrendo a termini utilizzati prevalentemente in accezione negativa, la classificazione operata nel 2001 fa riferimento a termini che analizzano la salute dell’individuo in chiave positiva. L’approccio multidimensionale adottato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità si rivolge alle dimensioni fisiche, sociali e spirituali della persona che sono considerate delle caratteristiche fondamentali per poter raggiungere una pienezza esistenziale e sociale. La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute introduce importanti cambiamenti a livello culturale riguardanti i concetti di salute, di funzionamento e di disabilità. La salute, infatti è considerata come uno stato della persona intrinseco ed estrinseco nella sua globalità; pertanto, il benessere è strettamente legato al funzionamento umano a tutti i livelli: biologico, psicologico e sociale. Migliorare le condizioni di salute di un individuo, o di una popolazione, non consiste solo nella riduzione del tasso di mortalità oppure nella diminuzione in termini quantitativi della morte prematura dovuta a una malattia. La salute, infatti, riguarda anche il funzionamento, la capacità di ognuno individuo di vivere la propria vita pienamente e come membro della società. Con la presa in carico del modello biopsicosociale su cui si fonda la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, la disabilità è definita come una condizione generale che può risultare dalla relazione complessa ed interattiva tra la condizione di salute della persona e i fattori contestuali ed ambientali in cui vive. Dunque, è fondamentale tenere in considerazione tutte le dimensioni presenti nell’ambiente fisico e sociale, dimensioni che si riferiscono non solo a strutture, organizzazioni servizi e politiche ma anche a degli aspetti prettamente culturali quali: usi, costumi, atteggiamenti sedimentati nel corso del tempo, norme consuetudinarie e ideologie. Ciò implica che le professionalità mediche e socio-sanitarie possano inoltre individuare in che modo i fattori ambientali interagiscono con tutte le componenti del funzionamento e della disabilità, valutando se tali fattori rivestono nella storia di vita del paziente, una funzione facilitante o ostacolante che il mondo fisico, sociale e degli atteggiamenti può avere sulle persone. Un ulteriore dimensione formativa che sembra essere a servizio dell’aver cura dei pazienti in condizione di disabilità è il costrutto di qualità di vita, che da dimensione puramente teorica deve essere operazionalizzata nelle pratiche di cura. È a partire dalla seconda metà del 900 che l’interesse per la qualità di vita (QdV) è divenuto più consistente, grazie soprattutto alla promulgazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e tale costrutto è stato sviluppato come questione politica e come campo e disciplina di ricerca intorno alla metà degli anni Sessanta (Andrews, 1986; Schuessler e Fisher, 1985; Cummins, 1996; Dennis et al., 1993; Horn, 1993). In questo scenario, il bene comune e il bene individuale sono divenuti infatti gli orientatori capaci di dirigere l’operato e permettere l’identificazione della chiave interpretativa del senso e significato della vita (Croce et al., 2014) per tutte le persone. Nello stesso periodo, il movimento per i diritti umani delle persone con disabilità ha iniziato a muovere i primi passi e sono fiorite le ricerche in merito alle disabilità intellettive ed evolutive (Brown, 1997c; Ferguson, 1996; Oliver, Huxley, Bridges, e Mohamad, 1996; Parmenter, 1999; Schalock, 1990a). È, d’altronde, proprio negli stessi anni che si è iniziata ad avere maggiore consapevolezza in merito alle condizioni di vita delle persone con disabilità intellettive, specie quelle che vivevano negli istituti (Lyons, 2010). A partire dagli anni Ottanta il concetto di qualità di vita è stato indagato, in relazione alle persone con disabilità intellettiva, sia dal punto di vista della sua importanza per la vita delle stesse, sia come costrutto utile a guidare lo sviluppo di politiche, pratiche e servizi per loro e per le loro famiglie. Al tempo stesso, nell’ambito del movimento per l’affermazione del modello di disabilità basato sui diritti umani, che ribadisce la centralità dei diritti umani delle persone con disabilità, la qualità di vita è stata identificata come argomento chiave sul quale concentrare l’attenzione (Goode e Hogg, 1994; Schalock, 1990b; 1993). Sono stati quindi concettualizzati chiari collegamenti tra la qualità di vita ed i concetti di normalizzazione, de-istituzionalizzazione, integrazione ed inclusione, libertà di scelta ed empowerment (Brown et al., 1994; Edgerton, 1996; Goode e Hogg, 1994; Goode, 1992; Parmenter, 1995; Romney et al., 1994; Schalock, 1994a; 1994b) in relazione alle persone con disabilità. Nei decenni successivi, e soprattutto negli anni Novanta, hanno iniziato a divenire prevalenti le ricerche qualitative in merito alle persone con disabilità intellettiva focalizzate su specifiche popolazioni ed individui. Ciò ha portato a considerare la qualità della vita come questione di grande rilevanza nel campo della disabilità (Romney et al., 1994; Swain, Finkelistein, French e Oliver, 1993) ed il suo miglioramento tra le principali sfide da affrontare (Goode e Hogg, 1994; Hughes et al., 1995; Landesman, 1986; Schalock, 1990a; 1999) e ciò anche in relazione ai processi di valutazione ed agli standard, esiti dei servizi e sostegni rivolti a tali persone (Brown e Bayer, 1992; Emerson, 1985; Parmenter e Donelly, 1997; Schalock, 1990c). Il concetto di qualità di vita è ambito di interesse e di studio in diverse discipline. Ciascuna ha sviluppato una differente prospettiva in merito alla sua concettualizzazione ed applicazione (Bergland e Narum, 2007). Schalock (1996) suggerisce che tre siano quelle più esaustive: la prima è quella di Goode (1998) che indica che la qualità della vita si realizza quando le necessità individuali di una persona sono soddisfatte e la stessa ha la possibilità di perseguire e raggiungere i propri obiettivi; la seconda è quella di Felce e Perry (1997) che la vedono come concetto multidimensionale che racchiude una serie di dimensioni centrali strettamente legate al benessere individuale e la terza è quello dello stesso Schalock (1996) che la descrive come l’insieme delle condizioni di vita, salute e benessere desiderate da una persona. In aggiunta, può essere utile ricordare le definizioni di Borthwick-Duffy (1992), per il quale la qualità della vita è determinata dalle condizioni di vita, dalla soddisfazione per le proprie condizioni e dalle aspirazioni, valori e aspettative della persona; quella di Landesman, (1986), che ha sottolineato l’aspetto oggettivamente misurabile delle condizioni di vita, relative alla salute fisica, all’ambiente di vita, alle relazioni sociali, alle attività lavorative ed alle possibilità economiche, definendo la soddisfazione personale come la risposta soggettiva a tali condizioni; e quella di Edgerton, 1990, che ha riconosciuto nel fattore relativo alla soddisfazione per la propria esistenza la possibilità che la persona ha di mantenere o cambiare la propria condizione e quindi la propria qualità di vita. Al di là, pertanto, delle diverse definizioni in parte qui illustrate, esiste un generale consenso nel considerare la qualità di vita un costrutto misurabile con metodi quantitativi e qualitativi e con indicatori di tipo sia generale che soggettivo, multidimensionale e strettamente legato al giudizio personale (Lyons, 2010). Per rispondere, infine, all’interrogativo rispetto alle eventuali peculiarità della concettualizzazione ed applicazione della qualità di vita per le persone con disabilità, esiste un forte consenso in merito al fatto che le stesse debbano essere del tutto simili a quelle del resto della popolazione (per esempio, Borthwick-Duffy, 1992, 1996; Brown, 1998a; Cummins, 2005a; Schalock, 1996). Tuttavia, nonostante nella letteratura relativa alla disabilità intellettiva prevalgano le concettualizzazioni generali di qualità di vita, esistono anche delle definizioni specifiche. Schalock (1997) per esempio si riferisce alla qualità di vita percepita come al grado di soddisfazione nelle principali aree della vita. Brown e colleghi (1994) suggeriscono che il miglioramento della QdV sia correlato alla riduzione nella discrepanza tra le necessità della persona che sono soddisfatte e quelle che non lo sono, includendo la valutazione oggettiva e percepita e riferendosi alla qualità di vita come il grado in cui le persone riescono ad aumentare il controllo sul proprio ambiente (Brown, 1998a). Ancora, come evidenziato da Croce e colleghi (Croce et al., 2014) tra i lavori che possiamo considerare «storici» a fondamento della concettualizzazione della QdV nel campo della salute, della riabilitazione e delle disabilità intellettive ed evolutive ricordiamo Hughes e colleghi (1995), citati in Schalock e Verdugo Alonso (2002), che riportano come le dimensioni più frequentemente considerate nel costrutto di QDV siano:

  1. il benessere psicologico e la soddisfazione personale;
  2. le relazioni sociali;
  3. lo studio e l’occupazione;
  4. il benessere fisico e materiale;
  5. l’autodeterminazione, l’autonomia e la possibilità di scelta;
  6. la possibilità di prendere decisioni, la competenza personale, l’adattamento comunitario e la possibilità di vivere in modo indipendente;
  7. l’integrazione e l’inclusione nella comunità, l’accettazione sociale, il ruolo e lo status sociale;
  8. l’adattamento;
  9. l’identità e l’appartenenza, lo sviluppo personale e la realizzazione di sé;
  10. la qualità dell’ambiente residenziale, di apprendimento e di vita;
  11. le opportunità di apprendimento lungo tutto il corso della vita;
  12. il tempo libero;
  13. la normalizzazione e l’accessibilità;
  14. alcuni aspetti demografici, sociali;
  15. alcune caratteristiche personali;
  16. la responsabilità;
  17. il sostegno ricevuto dai servizi.

Nel tentativo di adottare il modello della qualità di vita come prospettiva di sistema e migliorare gli esiti personali della direzione sopra delineata, diverse organizzazioni stanno sviluppando ed implementando linee guida e strategie operative. Uno di questi set di strategie è quello definito da Schalock e colleghi (2008) come cambiamento di modelli mentali, ad esempio quelli che vedono la condizione di disabilità come soggettiva ed immutabile. Altre strategie si concentrano sulla valutazione degli esiti personali in termini di qualità di vita, anche attraverso lo sviluppo e l’utilizzo di strumenti appositamente costruiti. Sono ancora presenti, tuttavia, aspetti critici da affrontare per rendere la QdV un costrutto realmente e pienamente effettivo nel facilitare i cambiamenti sociali e migliorare le condizioni delle persone con disabilità intellettiva e delle loro famiglie. Ad esempio, la necessità di sviluppare politiche basate sui principi e sulle pratiche volte al miglioramento della qualità di vita; la necessità di basare il sistema dei servizi e dei sostegni sui predittori chiave della QdV come l’autodeterminazione, l’empowerment, l’uguaglianza; la necessità di focalizzarsi sulle esperienze e circostanze individuali; la necessità di includere i principi operazionali ed il pluralismo metodologico nella formazione professionale; la necessità di ripensare cosa misurare e di applicare il costrutto della qualità della vita nei paesi in via di sviluppo. Tanto la formazione all’utilizzo della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, quanto l’operazionalizzazione del costrutto di qualità di vita nelle pratiche professionali di cura richiama al rispetto del diritto di ciascun individuo, di essere «capace» di essere protagonista della propria salute e dei processi di cura a lui rivolti, impedendo l’oggettivazione del corpo della persona disabile, garantendo il rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della dignità delle persone con disabilità e la rimozione delle forme specifiche di discriminazione che le affliggono. la QdV ha strettamente a che vedere con la vita delle persone con disabilità e con la garanzia che alle stesse, in quanto cittadini, siano garantiti gli stessi diritti umani di tutti gli altri membri della società. Il progetto di vita ideato ed implementato in funzione del rispetto dei diritti umani e di una migliore qualità di vita rappresenta la tematica fondamentale nella fase attuale di sviluppo dei modelli e delle pratiche di sostegno alle persone con disabilità intellettive ed evolutive (Brown, Schalock e Brown, 2009; Buntix e Schalock, 2010). La formazione dei professionisti di area medica e socio-sanitaria non può prescindere dal tentativo di riposizionare il significato e la fruizione dei servizi nella prospettiva della qualità di vita delle persone con disabilità e dei loro familiari.

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1 Il contributo è stato concepito e progettato da entrambe le autrici, tuttavia sono attribuibili a Maura Striano l’introduzione e a Valentina Paola Cesarano i paragrafi successivi.

2 Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale, Università degli studi di Napoli Federico II.

3 Docente a contratto e borsista di ricerca, Università degli studi di Napoli Federico II.

4 Università degli studi di Napoli Federico II.

5 Università degli studi di Napoli Federico II.

Vol. 19, Issue 4, November 2020

 

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