Vol. 19, n. 3, settembre 2020

CANTIERE APERTO

Con i nostri occhi

Il ruolo delle narrazioni dei genitori per la promozione dell’integrazione scolastica dei figli disabili

Mariarosaria De Simone1

Abstract

Il presente lavoro cerca di approfondire il ruolo, nel contesto scolastico, delle narrazioni dei genitori con figli disabili nella duplice valenza di strumento riflessivo dal grande valore catartico e formativo sia per chi scrive che per gli insegnanti e per tutta la comunità educante. Si descrive, come buona pratica, la Metodologia Pedagogia dei Genitori e la cornice di riferimento teorica che si rifà essenzialmente alla pedagogia critica di Freire, sottolineando l’importanza di coscientizzare i genitori, valorizzarne e raccogliere le narrazioni degli itinerari educativi compiuti coi figli, che vengono riconosciute e accettate dagli esperti che si occupano di rapporti umani come strumento conoscitivo indispensabile alla loro professionalità. Si conclude il lavoro con la narrazione esemplificativa di un genitore all’interno di una situazione educativa implementata secondo la metodologia descritta.

Parole chiavi

Pratiche narrative, metodologia pedagogia dei genitori, coscientizzazione, autobiografia.

OPEN PROJECT

With our own eyes

The role of parents’ narratives for promoting the school integration of disabled children

Mariarosaria De Simone2

Abstract

This paper deepens the role, in the scholastic context, of the narration of parents with disabled children both as a reflective and cathartic tool also meant as a formative value for the writer, but also for the teachers and the whole educating community. We describe, as a good practice, the Pedagogy Methodology of the Parents and the theoretical frame essentially referring to Freire’s critical pedagogy, underlining the importance of conscientizing the parents, enhancing and collecting the narratives of the educational itineraries made with children. These narratives are recognized and accepted by experts dealing with human relationships as a cognitive tool essential to their professionalism. In conclusion, this piece of work ends with an example of a parent’s narration in an educational context implemented for the said described methodology.

Keywords

Narrative practices, methodology, pedagogy of parents, conscientization, autobiography.

Introduzione

Nessuno insegna a nessuno, tutti imparano da tutti.

Paulo Freire

La crescente sensibilità verso il ruolo dei genitori all’interno della scuola ha avuto, in questi ultimi anni, un riconoscimento tale da portare a una nuova stagione di dialogo. La collaborazione tra famiglia e scuola infatti, nel rispetto dei relativi ruoli e competenze, è da sempre un elemento determinante ed essenziale per migliorare qualitativamente la valenza educativa del contesto scolastico: la cura degli spazi d’incontro, la promozione di progetti di sostegno alla genitorialità, il coinvolgimento responsabilizzante dei genitori ai compiti educativi della scuola, la condivisione informativa della progettazione e delle iniziative scolastiche, una formazione adeguata degli insegnanti a comunicare con le famiglie sono iniziative già in atto da molto tempo. Quello che emerge da sempre è la necessità di considerare il genitore come risorsa fondamentale al processo formativo delle giovani generazioni, dimensione che, nostro malgrado ma anche per fortuna, si è manifestata in tutta la sua evidenza in questo periodo di Covid-19.

In particolare ciò che oggi si richiede agli adulti di riferimento è di avere qualcosa da dire, e quindi delle certezze, non solo dei dubbi, soprattutto in un contesto spazio-temporale, il nostro, in cui risulta essere in crisi la capacità di una generazione di genitori di educare i propri figli, smarriti come siamo dalla perdita delle grandi e rassicuranti narrazioni del passato, alla ricerca di nuove identità più fluide, aperte, interconnesse, inclusive. Educare però non vuol dire solo prendersi un rischio, ma anche che l’adulto indichi con forza una via, che si faccia carico, che prenda in cura il rischio suo e di colui che si educa, anche quando il figlio non la scelga, e ne prenda un’altra tutta diversa. È qui che viene tutelato, anzi, esaltato l’aspetto generativo dell’educazione (Margiotta, 2008).

E invece capita di frequente che

in un momento storico-caratterizzato dall’accentuazione del «disordine» e dalla consapevolezza di esso — in cui predominano nel costume l’ostentazione della spregiudicatezza, lo sbandamento etico, lo pseudo-permissivismo educativo (o almeno la tentazione di esso), la babele dei linguaggi etici e pedagogici — genitori e insegnanti, considerati dalla tradizione, forse a torto, depositari di sapienza educativa, consentono un po’ troppo sbrigativamente al principio di un’autogestione educativa [...] che in realtà dà alibi al loro disorientamento e alla loro incertezza di educatori (Bertin e Contini, 2004, pp. 181-182).

Un momento storico che richiede di promuovere e sostenere direttive educative a più livelli, livelli che appaiono intimamente e costruttivamente collegati:

che la responsabilità educativa spetti alla società educante nel suo complesso, e non soltanto a istituzioni e ad agenti specializzati (e ciò non nell’intento di screditare ancora di più famiglia e scuola, ma allo scopo di correggere, integrare e rafforzare la loro azione educativa con l’apporto robusto di forze sociali e politiche); che l’educazione costituisca un’attività permanente, prolungata per tutta la vita, e sia orientata a rendere ogni cittadino capace di costruire un’esistenza per sé, nell’ambito delle esigenze collettive — consapevole e razionalmente fondata (Bertin e Contini, 2004, p. 182).

Che non si corra il rischio, dunque, di delegare alle famiglie, in primis, e alla scuola, secondariamente, come è accaduto in questo periodo di Coronavirus, quello che deve rappresentare un obiettivo primario di una società che voglia definirsi democratica: l’educazione.

Per combattere tale rischio e promuovere sinergia tra tutte le forze in campo, da quelle in ambito pedagogico a quelle appartenenti alla sfera politica, occorre quindi, oggi più che mai, andare oltre i disimpegni, le rassegnazioni, le esitazioni di tutti, riattualizzando metodi educativi guidati da utopia, speranza, poiché «l’utopia non è idealismo, è compromesso storico: tra l’utopia e la sua realizzazione c’è un tempo storico, che è il tempo dell’azione trasformatrice» (Freire, 1993, pp. 31-32).

E infatti l’utopico assume «una funzione ampliamente positiva se serve a rendere più lungimirante e responsabile lo sforzo dell’uomo per risolvere i problemi più gravi del presente in una prospettiva non ristretta a questo, ma proiettata verso il futuro» (Bertin e Contini, 2004, p. 180).

Non si tratta di evadere in maniera consolatoria dal «disordine» dell’attuale, ma di prefigurarsi possibilità laddove sembrano mancare condizioni di realizzazione.

È quindi una scelta di coraggio che si richiede a se stessi e agli educatori il proporre l’apertura all’utopia perché se il possibile non offre garanzie sulla realizzazione di quanto si progetta nel suo orizzonte, l’utopia non legittima alcun progetto se l’obiettivo è la realizzazione, almeno a breve termine. L’utopia vale come direzione, non come meta: implica cioè il demonismo della ricerca e della sperimentazione, impedisce il compiacimento per le tappe raggiunte e le soluzioni trovate perché impone una continua tensione a trascenderle, a spostare sempre più avanti — oltre — le linee di traguardo. In questo senso quello a cui ci riferiamo è certamente ipotesi sovversiva nei confronti di una umanità tanto condizionata da perseguire l’identità con se stessa — timorosa del differente — senza inorridire di fronte all’omogeneizzazione di banalità e inautenticità che ne deriva (Bertin e Contini, 2004, p. 35).

La valorizzazione delle competenze educative genitoriali per la promozione della cultura delle differenze

Per coltivare la dimensione utopica foriera di azioni trasformatrici appare quanto mai fondamentale lavorare nella direzione dell’autonomia e della differenza: un’educazione vera non può nascere da una logica di omologazione, di unificazione. Una logica che ha avuto i suoi meriti, per fare di questo Paese una nazione e per far uscire dall’arretratezza tanta parte d’Italia, ma che deve cedere il passo, proprio in nome del valore dell’educazione, al massimo dell’autonomia e al ruolo anche delle famiglie nell’educazione dei ragazzi (Margiotta, 2014, p. 33), ruolo che va supportato e valorizzato.

Oggi più che mai il recupero della categoria della differenza sembra assumere un significato decisivo «nell’attuale crisi educativa che tende ad accentuare e a rendere prevalente, nell’attenzione e nella preoccupazione dell’educatore, l’esigenza di stimolare e rafforzare — anziché gli elementi che distinguono e separano — gli elementi che collegano gli uomini e li dispongono al riconoscimento e all’accettazione del comune fondo di umanità, e cioè il momento dell’identità» (Bertin e Contini, 2004, pp. 67-68)

Autonomia e differenza che diventano dimensioni ancora più pregnanti se si tratta dell’educazione di alunni con disabilità, dove dare voce alle narrazioni dei genitori può rappresentare, in un’ottica dialogica, un ottimo stimolo per riflettere e comprendere la diversità, al di là di pregiudizi e stereotipi che molte volte colpiscono non solamente i disabili, ma anche le loro famiglie.

Leggere ciò che genitori con figli disabili scrivono può essere allora un modo per mettere meglio a fuoco le strutture organizzative da promuovere per costruire, come educatori, insegnanti, operatori sociali, formatori dei percorsi, dei modelli e sostenere quelle reti sociali che meglio possono rispondere alle esigenze di coloro che si trovano a vivere situazioni nelle quali diventano fondamentali strategie compensatorie (Gelati, 2008, p. 57).

Se da un lato quindi le narrazioni dei genitori con figli disabili, nel contesto scolastico, servono a far luce sulle difficoltà che essi vivono, dovute soprattutto a comportamenti sociali inadeguati e dettati da pregiudizio e mancanza di conoscenza, il genitore sente il desiderio di raccontarsi «spinto dal bisogno di sciogliere quei nodi che la disabilità del figlio gli ha messo dinnanzi e nel far ciò rivela la consapevolezza del proprio mondo interiore, la capacità di analizzare le situazioni spesso dolorose che ha vissuto o che vive, il valore che attribuisce alla comunicazione» (Gelati, 2008).

Narrarsi è infatti darsi pace, pur affrontando l’inquietudine e il dolore del ricordo. La tregua autobiografica non è una forma più alta di spiritualità, è un venire a patti con se stessi, gli altri, la vita (Demetrio, 1996), permettendo inoltre di rilevare i punti significativi della propria vita: interpretandoli e dandogli senso in modo che anche le situazioni di rottura del procedere uniforme della quotidianità acquistino significato (Bruner,1992).

Come ci ricorda Cambi (2002) la narrazione si è manifestata anche, e sempre più, come lo statuto-chiave del soggetto, la sua forma specifica.

Un soggetto «a identità aperta» è in quanto si fa, ma si fa solo nella narrazione: in quel dialogo col proprio vissuto che lo riesamina, lo interpreta, lo ri-orienta. Senza questo lavoro narrativo di sé, l’io si riduce a un puro vissuto e perde identità […] e senso (direzione, ecc.). Solo il narrarsi produce, nel magma, identità e senso, poiché il narrare implica un dare ordine (qualunque sia) e fissare nuclei, passaggi, ecc., se non traguardi, poiché questo complesso lavoro sta nella narrazione stessa (Cambi, 2002, p.81).

L’approccio autobiografico permette attraverso la narrazione di sé di riflettere sulla propria vita nel momento presente e ha un grande valore catartico e formativo sia per chi scrive, sia per chi legge. Scrivere e analizzare vissuti particolarmente dolorosi, come quelli che sperimenta un genitore davanti alla disabilità di un figlio, acquistano importanza non solo per aiutare la comprensione della disabilità ai soggetti «normodotati», ma diventa aiuto e punto di riferimento per i genitori con un vissuto analogo ai resoconti narrati.

Forse, proprio perché la storia di un bambino con disabilità è una storia anche drammatica, gli insegnanti sono chiamati a portare il loro contributo di speranza (Gardou, 2003), di spinta verso il futuro e verso uno sviluppo positivo. La speranza dei genitori si misura infatti sul figlio, sulle sue capacità, sulla necessità di andare oltre, di superare le difficoltà.

E la «“radicalità della speranza” fa parte del bagaglio dell’educatore, consapevole che la realtà dell’incompiutezza apre la strada al sogno, all’utopia e, concretamente, a un’intenzionalità educativa da sperimentare ogni giorno nelle relazioni interpersonali e sociali e nella “ricerca permanente”» (Freire, 2002, pp. 110-111).

Ed è la speranza ciò che permette di andare oltre il determinismo storico delle vicende.

A tal proposito un aspetto rilevante della pedagogia freiriana riguarda la competenza etica della professione educativa, sempre caratterizzata da impegno politico e orientata alla speranza.

Secondo Freire per scegliere e agire intenzionalmente bisogna infatti sviluppare una competenza etica nella propria professione, e che comunque in ambito educativo indica sempre una scelta politica: «non è possibile esistere senza farsi carico del diritto e del dovere di scegliere, di decidere, di lottare, di fare politica. Tutto questo ci riporta all’inesorabile necessità della pratica formatrice, la cui natura è eminentemente etica. Tutto questo ci riporta alla radicalità della speranza. So che le cose possono anche peggiorare, ma so pure che è possibile intervenire per migliorarle» (Freire, 2004, p. 43).

E sono proprio le metodologie narrative e visuali che Freire usava per l’educazione agli adulti, come lo sviluppo dei «temi generatori» in grado di portare alla luce i bisogni formativi dei discenti problematizzando il futuro, a rappresentare un contributo fondamentale per individuare strategie di formazione appropriata, capaci di sviluppare senso critico e possibilità di azione nella pratica quotidiana.

Nella storia dell’incontro scuola-famiglia gli insegnanti devono essere pronti a ospitare il nuovo alunno e la sua famiglia: preparati agli imprevisti di una storia disordinata, dove «il disordine non è assenza di qualsiasi ordine, quanto lo scontro di ordini privi di mutuo rapporto» (Arnheim, 1974, p. 34).

E in questo incontro appare quanto mai necessario valorizzare le competenze educative genitoriali, dimensione che, a partire dalla pedagogia della famiglia, viene presa in considerazione quale componente privilegiata dalla Metodologia Pedagogia dei Genitori (Tortello e Pavone, 1999), metodologia il cui intento è proprio quello di partire «dalla dignità delle idee dei “non tecnici”, i quali comunque operano nella realtà, contribuendo alla sua trasformazione e si propone di individuare elementi di scientificità nell’agire quotidiano» (Tortello e Pavone, 1999, p. XV). A tal proposito incrementare e attivare le risorse familiari significa anche ridurre il rischio che la famiglia prediliga un ruolo passivo e dipendente dalla figura degli esperti e dalle loro concezioni circa valori e significati della famiglia stessa (Tortello e Pavone, 1999), diventando protagonisti attivi e coinvolti al tempo stesso, base fondamentale per la costruzione di un patto educativo nel quale le competenze dei genitori, degli insegnanti, degli esperti di cura si alleano nell’interesse dello sviluppo del bambino.

La Metodologia Pedagogia dei Genitori per la promozione dell’integrazione scolastica dei figli disabili. Con i nostri occhi: vi presento il nostro S.

In questo bisogno profondo di arrivare a un orizzonte comune di significati non si può non fare riferimento alla Metodologia Pedagogia dei Genitori approntata da Moletto e Zucchi (2013), volta alla valorizzazione dei genitori e sviluppata a Torino intorno agli anni Novanta del secolo scorso. La fecondità del protagonismo dei genitori, come cittadini attivi e primi conoscitori dei loro figli, ha permesso la diffusione della metodologia a livello nazionale e internazionale, contribuendo alla formazione e all’aggiornamento dei professionisti come insegnanti, educatori, medici, giudici, assistenti sociali, ecc., e divenendo un progetto europeo inserito nel programma di educazione Socrates II Grundtvig che promuove una dimensione europea permanente attraverso la cooperazione transnazionale. La metodologia evidenzia la dignità dell’azione pedagogica dei genitori come esperti educativi, mediante iniziative mirate a promuovere la conoscenza e la diffusione di Pedagogia dei Genitori.

Se la mission di Pedagogia dei Genitori è valorizzare le competenze e le conoscenze educative della famiglia, in primo luogo si individua nella narrazione il modo nel quale si esprimono i genitori, indicando come raccogliere le loro testimonianze, pubblicarle, diffonderle. Perché sia efficace occorre che le narrazioni siano riconosciute e accettate dagli esperti che si occupano di rapporti umani come strumento conoscitivo indispensabile alla loro professionalità. In secondo luogo, gli itinerari educativi dei genitori diventano formazione dei professionisti che si occupano della crescita dell’uomo; infine, si validano scientificamente le ipotesi di partenza, le si collegano alle correnti attuali di pensiero e le si diffondono nell’ambito degli studiosi, dei professionisti e a livello sociale (Moletto e Zucchi, 2013, p. 53).

È chiaro per la Pedagogia dei Genitori un riferimento esplicito a Paulo Freire e al suo metodo educativo di coscientizzazione: «tramite la narrazione si passa da un’impostazione in cui l’uomo viene considerato oggetto di studio a quella in cui diventa attore e autore di conoscenza. Si attenua il dislivello tra chi studia e chi viene studiato, si imposta un processo di mutua crescita, fondato sulla reciprocità» (Moletto e Zucchi, 2013).

Uno degli strumenti utilizzati dalla Pedagogia dei Genitori sono i gruppi di narrazione che si pongono l’obiettivo di coscientizzare i genitori, valorizzare e raccogliere le narrazioni degli itinerari educativi compiuti coi figli. Partecipano i genitori e tutti coloro che sono interessati alla metodologia, tra cui insegnanti, studenti, educatori, amministratori, operatori sanitari, medici, giudici, assistenti sociali, ecc., portando la propria esperienza di come educano o di come sono stati educati. Ogni partecipante responsabilmente narra solo quello che egli vuole gli altri sappiano, racconta liberamente l’itinerario educativo compiuto come genitore o come figlio, la sua crescita, gli episodi più significativi, il carattere, il comportamento, senza schemi prefissati, partendo dalla propria esperienza e narrando le situazioni vissute e sperimentate.

La logica del gruppo si collega alla metodologia storico culturale elaborata dallo studioso russo Lev Semenovic Vygotskij (Vygotskij, 1974), che sottolinea l’unicità della persona, frutto delle sue scelte e della sua storia e la visione evolutiva del suo sviluppo. Ognuno dà testimonianza di sé e della propria vita, con indicazioni derivanti da una competenza specifica. Il vissuto e la narrazione sono collegati: la vita si esprime nel racconto che permette di proporre particolari concreti, episodi reali, legati dal filo costituito dall’esistenza della persona. La narrazione permette di esprimere consapevolmente il proprio percorso umano: ognuno narra quanto conosce. Non ci sono generalizzazioni astratte, ma un sapere contestualizzato, testimoniato, verificato. Chi partecipa sceglie quello che desidera esporre, gli episodi che ritiene significativi per sé e per gli altri, autentica con la propria vita quanto esprime. Ne è l’autore e come tale viene riconosciuto (Moletto e Zucchi, 2013, p. 125).

Nei gruppi non vi sono conduttori o esperti, alcuni partecipanti si assumono la responsabilità del buon funzionamento fungendo da moderatori. I componenti dei gruppi narrano oralmente gli itinerari di crescita, in seguito si invita chi ha narrato a scrivere quanto esposto, le narrazioni vengono lette collettivamente e raccolte dai responsabili, le riunioni proseguono su temi educativi scelti dai partecipanti: ognuno narra come li ha affrontati secondo la propria esperienza, si approfondiscono periodicamente le componenti teoriche della metodologia, così come periodicamente si aggiornano gli itinerari di crescita. I partecipanti presentano pubblicamente le narrazioni nelle istituzioni in cui sono attivi i gruppi (scuole, associazioni, parrocchie, ecc.). Gli itinerari raccolti vengono quindi diffusi a livello più vasto, col consenso dei partecipanti, come testimonianza delle competenze educative della famiglia. Le narrazioni hanno valore sociale: la loro pubblicazione e diffusione sono testimonianza di cittadinanza attiva, rendono visibile il capitale sociale costituito dall’educazione familiare e sono opportunità per la professionalizzazione degli esperti che si occupano di rapporti umani. Le riunioni periodiche dei gruppi di narrazione permettono la costruzione di reti territoriali di genitorialità collettiva e l’attuazione del patto intergenerazionale.

Per esemplificare uno strumento narrativo della Metodologia Pedagogia dei Genitori che comunemente viene chiamato Con i nostri occhi3 e che consiste nella presentazione scritta dei figli da parte dei genitori, vorrei riportare la narrazione che il papà di S. ha donato alla comunità educante dell’I.C.S. «C. Santagata» 5° C.D. di Portici (NA) durante un evento formativo tenutosi il 19 giugno del 20174 dal titolo Tutti insieme appassionatamente. La collaborazione tra scuola e famiglia per realizzare l’inclusione scolastica, organizzato dall’Associazione Italiana Persone Down, sezione di Napoli-Onlus. Il momento in cui si è svolto il seminario è coinciso con il passaggio di S. dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, proprio per favorire la continuità educativa tra maestre dell’infanzia e della primaria.

E il passaggio da un ciclo di studi a un altro rappresenta un momento topico, grazie al quale poter lavorare, attraverso la narrazione, su più fronti.

Innanzitutto si tratta di un passaggio che permette di «pensare adulto» (Cuomo, 1995) un bambino, dandogli la possibilità di progettarsi nella vita futura, promuovendo la responsabilizzazione di tutti, genitori, insegnanti, intera comunità educante, nel costruire l’oggi guardando al futuro, poiché «l’esperienza produce una responsabilità e la conoscenza legata all’esperienza non è più orizzonte limitato, ma conduce a dimensioni molto ampie e ha ricadute lontane nel tempo e nello spazio» (Canevaro, Balzaretti e Rigon, 1996, p. 320).

Questo momento dà la possibilità inoltre di valorizzare la risorsa della famiglia, ancora vissuta dalla scuola prevalentemente come utenza, come valido alleato nella formazione del bambino, potendo innanzitutto «offrire strategie di intervento efficaci, in situazioni particolari, grazie alla sua esperienza; può — anche — coadiuvare gli insegnanti in programmi ricreativi, culturali o sportivi parascolastici; può collaborare alle attività scolastiche generali (organi collegiali); può esercitare pressioni significative per ottenere l’aumento delle risorse per l’integrazione» (Pavone, 2001, p. 212).

Non solo: la conoscenza che i genitori hanno dei propri figli aiuta gli insegnanti a stabilire anche il punto di partenza per le attività didattiche improntate sul cosa il soggetto sa realmente fare, favorendo la costruzione significativa del legame tra scuola e famiglia, sia per l’osservazione che il genitore può contribuire a fare sul figlio in contesti extrascolastici, sia per rimandare agli occhi dei genitori da parte dei docenti le competenze possedute e acquisite dal soggetto che spesso rischiano di non essere colte dal genitore, ma che in questo modo si ha la possibilità di valorizzare, soprattutto tra la fine di un ciclo e l’inizio di un altro. «Il bambino andrebbe “esplorato” e “scoperto”, osservato attraverso ciò che sa fare dandogli la possibilità di riscoprirsi come capace, come agente attivo. Un nuovo modo di vedersi, in cui anche l’errore può essere rivelatore di competenze, di una volontà, forse un’occasione per dare senso agli eventi» (Cuomo, 2007, p. 26).

Nello specifico, la presentazione del figlio scritta dalla famiglia in accordo con uno degli strumenti privilegiati della Metodologia Pedagogia dei Genitori (la tecnica Con i nostri occhi), è un modo per valorizzare l’expertise dei genitori riguardo allo sviluppo di tipo genetico evolutivo del proprio bambino, alla specificità e unicità della sua personalità, all’itinerario compiuto insieme a lui.

Lo scopo della presentazione è la condivisione della conoscenza del figlio e dei compagni di classe, in modo da costruire una genitorialità diffusa. I genitori usano il linguaggio della quotidianità, lo presentano ai docenti e agli altri genitori in termini evolutivi, seguendo il processo di crescita giorno per giorno. Si integra in questo modo la rete tra le agenzie che contribuiscono allo sviluppo della personalità dell’allievo, ciascuna con le sue competenze e specificità. I genitori presentano il figlio con l’immediatezza e l’empatia che li contraddistingue. Danno una visione a tutto tondo della sua soggettività, indicandone le caratteristiche, le preferenze, le relazioni all’interno della famiglia, le amicizie, le capacità che ha sviluppato e le sue potenzialità, elementi che solo lo stretto rapporto, come quello tra genitore e figlio, può far emergere. Non nascondono difficoltà o problemi, ma non li enfatizzano e propongono la personalità del figlio nella sua complessità (Moletto e Zucchi, 2013, p. 88).

Si tratta di uno strumento quanto mai utile a favorire la continuità nel passaggio da un ordine di scuola all’altro, ma non solo.

Nel percorso di integrazione degli alunni in situazione di handicap, Pedagogia dei Genitori propone di affiancare alla diagnosi del figlio la presentazione Con i nostri occhi, in sintonia con le indicazioni legislative che evidenziano la dignità pedagogica delle scelte dei genitori. La presentazione fornisce ai docenti, ai compagni, alle altre famiglie e agli esperti i mezzi per interagire con la bimba o il bimbo con difficoltà. L’integrazione degli allievi diversamente abili, secondo la normativa, inizia con la diagnosi medica, fondamentale dal punto di vista riabilitativo, ma non per l’ambito educativo, dato che l’insegnamento interviene sugli elementi positivi. La persona è un’unità in cui tutto è connesso nell’interazione tra organi, funzioni e capacità. È quanto indica l’ICF (International Classification of Functioning) approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001, in cui si raccomanda di passare da un modello unicamente medico a un modello sociale basato sulla persona (Moletto e Zucchi, 2013, p. 89).

Ecco il Con i nostri occhi letto in occasione della giornata formativa dal papà di S.

Ci è stato chiesto di raccontare di S. e della nostra esperienza di genitori con lui… Beh sento di dover cominciare parlando di quello che a noi (ma forse non solo a noi) sembra un tratto saliente del suo essere bambino (ormai di quasi 7 anni): la sua contagiosa serenità!

Una serenità fatta di gioia e sorrisi che ti trasmette per esempio la sera quando ti accoglie come se non ti vedesse chissà da quanto; una serenità che penso ha potuto mettere le radici nella nostra famiglia, non solo per il positivo atteggiamento che tutti abbiamo avuto rispetto alla «dirompente» e «disarmante» novità della sua nascita, ma anche forse anche grazie all’assenza di problemi sanitari importanti che ha facilitato tutto il nostro percorso.

Ma torniamo a S., figlio (ed in quanto tale «croce e delizia»), e ancor prima individuo con la sua giovialità, che magari non sempre si manifesta con chi non conosce bene… ma anche con la sua testardaggine che, per fortuna, però a volte diventa «caparbietà» nel suo voler fare le cose «da solo»!

E qui mi riaggancio a un concetto, a mio giudizio decisivo, illustrato durante questa giornata a scuola dalle dottoresse presenti: «la pedagogia della fiducia» (vs. i figli), che io traduco così: se io genitore ce la posso fare, è molto più probabile che mio figlio ce la faccia!

Mi sembra un caposaldo che dovrebbe accompagnare noi genitori ogni giorno nella crescita di tutti i figli, disabili e non, evitando gli eccessi di protezione, soprattutto verso i primi che (inevitabilmente forse) ci appaiono (anche perché troppo spesso così sono «etichettati» dall’esterno) come soggetti «deboli»; beh… non so quanto è appropriata questa definizione quando ripenso a quella già citata «cocciutaggine» di S. che, per esempio, suggerisce a noi di evitare lo scontro frontale (rischia di essere solo logorante e infruttuoso); allo stesso tempo rivendico nel rapporto con lui, la necessità di essere severi, dargli delle regole e alzare il tono della voce affinché riconosca l’autorevolezza dell’adulto sia esso genitore, insegnante, ecc.

In tutte queste dinamiche relazionali la quotidiana realtà scolastica è un elemento fondamentale; essa rappresenta uno spazio-tempo in cui S., in «assenza» del sostegno dei genitori e delle diverse distrazioni casalinghe, può invece beneficiare della «presenza» di compagni da emulare e insegnanti da cui apprendere; altrettanto importante è il rapporto scuola-famiglia che necessita secondo me di un feedback costante tra insegnanti e genitori al fine di sottolineare i piccoli/grandi passi che richiedono la nostra attenzione per non regredire e, naturalmente, evidenziare i punti di debolezza (aree di miglioramento) che richiedono ancor di più il nostro impegno…

Lo scambio reciproco di informazioni è insomma sempre auspicabile così come il lavoro in rete e di verifica con centri riabilitativi e ASL, senza dimenticare la ben nota «continuità didattica» che può essere una vera manna dal cielo per i ragazzi con disabilità come S. Grazie a tutti.

Successivamente è stato chiesto alla maestra di fine ciclo di studi di S. di riportare le sue impressioni sulla giornata formativa5.

Rosaria senti, riguardo… ora tu mi hai fatto ricordare un pochino più nel dettaglio quella giornata vabbè sicuramente quel momento era rappresentativo un pochino del percorso che abbiamo svolto con S. e per il quale ho provato una incredibile simpatia da quando è arrivato nella scuola dell’infanzia a quando poi è uscito per appunto accedere alla primaria. Ecco diciamo un pochino che io davanti agli occhi mi vedevo tutta questa evoluzione perché ogni progresso di S. è stata una gioia per lui ma anche una gioia per noi insomma […]. Era un dolcissimo bambolotto con quegli occhioni tenerissimo affettuoso, così pian piano, giorno per giorno, grazie soprattutto ai compagni perché io direi che S. ha avuto la fortuna di una famiglia attenta, di una famiglia incredibile, però ha avuto anche tra virgolette la fortuna di avere dei compagni notevoli, dei compagni di classe che gli hanno voluto un bene dell’anima, compagni che in realtà non hanno mai visto S. come «diverso» da loro, nel senso che in modo estremamente positivo hanno capitola seguente cosa: «non aiutiamolo perché non ce la fa ma aiutiamolo perché è più piccolo». E poi in seguito se a S. gli andava di abbracciare un compagno lo faceva e quindi si è creata questa bellissima relazione, questo bellissimo dare e avere, perché anche lui era capace di dare e nel momento in cui anche lui è stato capace di dare, consapevole di questo, è chiaro che è stato un progresso eccezionale. Lui avvertiva sicuramente da parte dei compagni, da parte di noi insegnanti delle aspettative molto alte nei suoi confronti. Ma erano aspettative positive: noi avevamo fiducia in lui, nelle sue capacità e pure i compagni e questo lo avvertiva. Infatti, lui ha sempre lavorato insieme a tutti i compagni, insieme a tutta la classe: anche se magari si strutturava un’attività un po’ più adatta a S., la facevano tutti quindi non si è mai creata una situazione per lui esclusiva, ma veniva integrato nelle attività di tutta la classe e tutta la classe era perfettamente integrata nelle attività un po’ più adatte a S., quindi c’era unione totale […]. Insomma, sotto questo punto di vista lui era molto gratificato quando riusciva nelle cose perché noi gli dimostravamo la nostra gioia nel fatto che lui riuscisse e lui sicuramente lo avvertiva, avvertiva tantissimo questa approvazione, questa tendenza da parte di noi insegnanti da parte degli altri bimbi. Il fatto che poi S. mostrava un pensiero autonomo e dei gusti, delle preferenze è stata la gioia più grande per noi. Ancora oggi quando la collega della primaria me lo porta giù per salutarci è troppo bello!

Alla domanda riguardo alla tecnica Con i nostri occhi la maestra risponde così:

Penso che come modalità sia valida perché comunque partire dal vissuto del bambino, seguirne l’evoluzione, le difficoltà dal punto di vista della famiglia, dal punto di vista dei genitori è comunque un apporto utile, indispensabile. Noi come insegnanti cercavamo il confronto, anche per verificare per esempio se i comportamenti di S. erano uguali a quelli che magari in una circostanza simile poteva avere a casa o il suo comportamento variava a seconda del luogo e delle persone con cui si relazionava. Ecco magari di fronte a un «no» ci chiedevamo qual era la sua reattività, se questo «no» arrivava dai genitori oppure se arrivava da noi, per dire, quindi questo tipo di valutazione era importante. Per cui la presentazione che il papà di S. ha fatto quel giorno penso che sia stata utilissima, soprattutto per le insegnanti del nuovo ciclo che ex novo devono conoscere un bambino in tutte le sue sfaccettature.

È stato chiesto anche un feedback alla maestra di sostegno della primaria, proprio per valutare l’impatto che la metodologia usata ha avuto sull’insegnante del nuovo ciclo.6

L’incontro organizzato dall’AIPD è stato proposto da due genitori della nostra scuola, entrambi con bambini affetti dalla Sindrome di Down. L’incontro informativo/formativo è stato strutturato in due fasi, durante la prima gli operatori sanitari hanno fornito informazioni riguardanti la sindrome, durante la seconda sono stati i genitori, esperti dei loro bambini, a parlare della loro esperienza, facendole vedere con i loro occhi.

Durante quell’incontro, i genitori hanno usato il linguaggio della quotidianità per descrivere il processo evolutivo di I. e S. Ricordo in particolare un intervento del papà di S., che parlò delle emozioni provate il giorno della nascita di suo figlio, di come giorno dopo giorno, lui e la moglie abbiano costruito la loro relazione con S.

Aver ascoltato l’esperienza mi ha molto avvicinato al loro vissuto emotivo, il racconto del papà di S. ha messo in evidenza la fragilità dei primi momenti, la forza e l’unione dei momenti successivi, il coraggio e la determinazione di chi accoglie e affronta con consapevolezza ed empatia la vita di tutti i giorni guardando il proprio figlio con gli occhi della normalità. S. il successivo anno scolastico è stato mio alunno e continua ad esserlo, il prossimo anno sarà in quarta. È un bambino sereno, ben inserito nel gruppo classe, cerca i compagni e tutti cercano lui, si offrono di aiutarlo, propongono i lavori predisposti dalle maestre e fanno a gara per accompagnarlo nei vari momenti della giornata scolastica. Fin dalla prima, le insegnanti di classe e l’insegnante di sostegno hanno adottato una metodologia comune. Usando il rinforzo sociale hanno motivato S. ad apprendere, i suoi tempi di attenzione sono aumentati, la comunicazione attraverso il linguaggio verbale si sta arricchendo gradualmente. Il confronto costante con i genitori e la reciproca disponibilità a collaborare hanno reso possibile un’autentica inclusione.

Al termine di quell’incontro si gettarono le basi per crescere insieme, commovente fu la lettura di una lettera, che il papà di I. lesse, per dare a tutti la possibilità di capire il mondo visto con gli occhi di un bambino Down.

Riflessioni conclusive

È indubbio che l’educazione è liberazione, come ci insegna il grande Paulo Freire (1975). Le persone possono essere oppresse per una moltitudine di ragioni: razza, classe, genere, età, nazionalità, etnia, religione, sessualità e capacità. Se da un lato l’oppressione è un’esperienza universale sentita da tutti in un momento o nell’altro della propria vita, bisogna precisare, però, che la causa e l’esperienza di cui se ne fa non sono universali, avendo una connotazione personale, sociale, politica ed economica. Il compito centrale dei teorici e pedagogisti critici diviene dunque, secondo questo punto di vista, quello di analizzare e identificare la causa, la giustificazione e la storia di particolari forme di oppressione, fornendo ad esse uno spazio di ascolto. Non fornire uno spazio di comprensione per l’esperienza di oppressione rappresenta, infatti, anch’essa una forma di controllo e di manipolazione: se non si prende consapevolezza in maniera critica della propria condizione non ci si può permette di desiderare di divenire liberi da essa.

L’esperienza di formazione precedentemente descritta ci propone la necessità di promuovere riflessioni che arricchiscono, grazie a esperienze concrete, i nostri pensieri, ponendo l’attenzione alla prassi nuovamente come elemento dalla forza propulsiva, attraverso un circolo virtuoso.

Solo in questo modo possiamo osservare e agire nella società contemporanea, perché «insegnare esige di comprendere che educare è una forma di intervento sul mondo» (Freire, 2004, p. 78).

Oggi più che mai viene chiesto a noi adulti di riferimento di posizionarci attivamente nei processi educativi, e di farlo in maniera aperta e costruttiva.

«Da qui l’importanza fondamentale di conoscere il sapere esistente e al tempo stesso di sapere che siamo aperti e in grado di elaborare la conoscenza che ancora non esiste. Insegnare, apprendere e ricercare hanno a che fare con questi due momenti del ciclo gnoseologico: quello in cui si insegna e si apprende la conoscenza già esistente, e quello in cui si lavora all’elaborazione della conoscenza che non esiste» (Freire, 2004, p. 25).

Concludo con l’auspicio che si possano creare sempre più, e nei contesti educativi più svariati, spazi di riflessione che lavorino contro la negazione delle esperienze di oppressione, esperienze preziose, come quella precedentemente descritta, che contribuiscono a creare identità collettive e che aiutano a sviluppare movimenti sociali democraticamente connotati.

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1 Ricercatore, Dipartimento di Studi umanistici, Università degli Studi di Napoli Federico II.

2 Researcher, Università degli Studi di Napoli Federico II.

3 Metodologia Pedagogia dei Genitori, http://www.pedagogiadeigenitori.info/strumenti/con-i-nostri-occhi.php?p=2 (consultato il 20 ottobre 2020).

4 A tal proposito si ringrazia la dott.ssa Maria Di Nocera e la dott.ssa Graziella Di Lucia che hanno condotto la giornata formativa organizzata dall’AIPD, e si ringrazia il sig. Nunziata, papà di S. e socio attivissimo dell’AIPD.

5 A tal proposito si ringrazia la maestra Rosaria Griffa, maestra di base della scuola dell’infanzia di S., classe coccinelle.

6 A tal proposito si ringrazia l’insegnante di sostegno della primaria di S., la maestra Anna Muto.

Vol. 19, Issue 3, September 2020

 

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