Vol. 19, n. 1, febbraio 2020

Cantiere aperto

L’insegnante specializzato per le attività di sostegno nella scuola inclusiva: dalla delega alla corresponsabilità educativa

Antonella Pugnaghi1

Sommario

Accogliere, mediare, connettere sono azioni che molto spesso vengono utilizzate per tratteggiare il ruolo professionale dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno in ambito scolastico.

Si tratta di un professionista che, in Italia, ha segnato l’evoluzione dei processi di integrazione e inclusione scolastica, sviluppando un’identità poliedrica. Infatti, egli è chiamato a svolgere compiti complessi, in molti casi non adeguatamente riconosciuti e valorizzati, divenendo mediatore attivo in grado di raccordare sinergicamente diverse figure professionali e offrendosi come garante della qualità della vita di tutti gli alunni (Gaspari, 2015).

Tuttavia, occorre ricordare che i recenti provvedimenti normativi nazionali e i numerosi documenti internazionali sottolineano l’urgenza di intraprendere importanti processi di riqualificazione degli itinerari formativi (iniziali e in servizio) di tutti i docenti per adeguarli alle nuove emergenze educative, speciali e non, e realizzare così delle comunità inclusive e accoglienti.

In tal senso, tramite l’analisi della più recente letteratura scientifica e della normativa nazionale di riferimento, il presente contributo intende quindi prendere in esame i tratti peculiari che contraddistinguono il profilo educativo dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno, approfondendone i diversi itinerari formativi e analizzandone le differenti aree di competenza emergenti, per poi ipotizzare nuovi percorsi di ricerca e formazione.

Parole chiave

Inclusione scolastica, ruolo insegnante specializzato per il sostegno, competenze, formazione insegnante.

OPEN PROJECT

The specialized teacher for school support activities in the inclusive school: from delegated tasks to educational corresponsability

Antonella Pugnaghi2

Abstract

To meet, to mediate and to connect are verbs very often used to outline the professional role of the specialized teacher for school support activities.

In Italy, this is a profession who has marked the evolution of the processes of school integration and inclusion, developing a multifaceted identity. In fact he has to perform complex tasks, in many cases not adequately recognized and valued, becoming an active mediator able to synergistically link different professional figures and to offer himself as a guarantor of the quality of life of all students (Gaspari, 2015).

However it should be noted that recent national regulatory laws and numerous international documents underline the urgent need to undertake important redevelopment processes in the professional education courses (initial and in-service) of all teachers to adapt them to new educational needs, special and otherwise, and so realize inclusive and welcoming communities.

In this sense, through the analysis of the most recent scientific literature and the national reference law, the present contribution aims to examine the peculiar traits that distinguish the educational profile of the specialized teacher for the support activities, analyzing the different education courses and the varied domains of competence, for then hypothesize new areas of research and training.

Keywords

School inclusion, role of special teacher for inclusion, teacher’s competences, teacher education.

Introduzione

In un periodo storico contrassegnato da importanti cambiamenti normativi nell’ambito dell’inclusione scolastica, diventa importante individuare, chiarire e condividere alcuni concetti chiave di tale ambito per poi rintracciare gli elementi peculiari che costituiscono la professionalità educativa dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno.

Se, infatti, in tale professionista si riconosce una figura chiave per garantire la qualità dei processi inclusivi a scuola, è essenziale e strategico riuscire a individuarne le principali aree di competenza emergenti e analizzarne criticamente i diversi percorsi formativi intrapresi, anche alla luce dei più recenti provvedimenti normativi.

Tuttavia, prima di prendere in esame le peculiarità che contraddistinguono tale profilo educativo, occorre richiamare alcuni presupposti terminologici e quadri concettuali di riferimento che caratterizzano l’attuale dibattito scientifico e politico, nazionale e internazionale, in materia di inclusione scolastica, ricordando che tali riflessioni riguardano tutti coloro che operano nella scuola, seppur con professionalità e responsabilità differenti (Mura, 2015).

L’inclusione scolastica: una sfida collegiale

Il riconoscimento del comune diritto alla diversità fonda la prospettiva dell’inclusione, secondo la quale l’accoglienza non concerne la disponibilità della maggioranza a includere una «minoranza» (Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011) ma, assumendo le differenze come dato sociale e culturale, riconosce nell’eterogeneità di tutti e di ciascuno la normalità (Canevaro, 2006).

La prospettiva dell’inclusione si basa, infatti, sulla convinzione che ogni individuo ha valore e appartiene alla comunità, pertanto, essa «adotta un approccio valoriale-progettuale-organizzativo radicale, rivolto a priori a un gruppo eterogeneo, di cui la diversità di ciascuno diventa la condizione naturale della convivenza» (Pavone, 2012, p. 158).

Adottare una prospettiva inclusiva non significa, dunque, annullare le differenze in funzione di un processo di omogeneizzazione e «normalizzazione» ma, a partire dal riconoscimento della diversità quale condizione ontologica strutturale della condizione umana, si mira a garantire pari opportunità di emancipazione e partecipazione a tutti i soggetti, superando ogni forma di discriminazione e di marginalizzazione. A tal proposito, è importante essere consapevoli che la realizzazione e il consolidamento di una società realmente inclusiva, attenta ai bisogni di ciascuno, mossa dalla capacità di individuare nelle differenze delle opportunità creative, non è pensabile come un dato di fatto acquisibile a priori, ma occorre intenderla come un’idea regolativa, un fine verso cui tendere.

Inoltre, occorre ricordare che, essendo il concetto di «inclusione» un costrutto di natura contingente, situato geograficamente, culturalmente e storicamente (Parente, 2017), diviene necessario chiarire le diverse interpretazioni che attraversano tale terminologia, in modo da comprendere i diversi processi intrapresi nei vari sistemi scolastici e nelle più ampie società. In generale, se nel contesto sociale, come sostengono Miller e Katz (2002), tale concetto si fonda sull’idea di ben-essere (ossia nel sentirsi rispettati, valorizzati per quello che si è); in ambito educativo significa realizzare un sistema scolastico in grado di garantire a tutti il diritto all’educazione a prescindere dalle differenze di ciascuno, sia che esse derivino da condizioni di disabilità e/o da situazioni di svantaggio psico-fisico, socio-economico e culturale, fornendo gli strumenti utili per comprendere la realtà e partecipare attivamente alla vita della comunità scolastica. Pertanto, come afferma Parente (2017, p. 3):

scommettere su un’educazione inclusiva significa costruire comunità in grado di riconoscere e accettare le differenze: attraverso il riconoscimento, l’accoglienza e la valorizzazione delle differenze individuali come parti importanti di un’unica collettività, si contribuisce a creare condizioni di cambiamento, di sviluppo culturale e sociale, che, a partire dalla capacità dei sistemi educativi di accogliere gli studenti in modo equo, portano a un progressivo consolidamento di sistemi sociali maggiormente coesi, in grado di prendersi cura e di corrispondere alle necessità di tutti i cittadini, assicurando loro dignità, rispetto delle differenze, pari opportunità e accesso ai servizi.

A tal proposito, l’Italia è considerata un paese all’avanguardia data la sua esperienza pluridecennale in politiche di integrazione scolastica degli alunni con disabilità nella scuola ordinaria (Gelati, 2004; Cottini, 2004; de Anna, 2006; 2014). In particolare, volendo superare la logica del puro inserimento nel sistema scolastico delle persone con disabilità, riconducibile all’emanazione della legge 118/1971, progressivamente si è fatta strada una nuova visione di scuola in cui, non solo si mira a garantire a tutti il diritto all’accesso al comune percorso scolastico, ma si interviene anche sulla qualità e sulla flessibilità degli interventi programmatici, organizzativi e didattici per soddisfare i diversi bisogni educativi presenti nelle classi ordinarie. Tale evoluzione, riconducibile al concetto di integrazione, è stata supportata sul piano normativo e procedurale dall’introduzione di importanti leggi nel corso della seconda metà degli anni Settanta fino agli anni Novanta, di cui è bene ricordare la legge quadro 104 del 1992 («Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate»), grazie alla quale, oltre ad ampliare gli interventi per l’assistenza e la tutela dei diritti delle persone con disabilità nei diversi settori della società civile, in ambito educativo si introducono e si consolidano alcuni strumenti istituzionali nevralgici: la programmazione individualizzata, l’arricchimento dell’offerta formativa, l’apertura a modalità organizzative flessibili e funzionali, la programmazione collegiale tra i docenti e con gli operatori sociosanitari, le figure degli insegnanti di sostegno e la riduzione del numero di alunni per classe in presenza di compagni con disabilità (Pavone, 2010). Tuttavia, nel modello dell’integrazione, tratteggiato in tali normative, pur riconoscendo l’esigenza di avviare un reciproco adattamento-accomodamento attivo tra l’individuo con disabilità e il contesto scolastico, progettando degli interventi pedagogici qualificati e garantendo delle risorse efficaci ed efficienti, continua a prevalere una visione medica della disabilità e non si sfidano i principi e le regole di funzionamento dell’istituzione accogliente (Pavone, 2012). La promozione del successo formativo di ogni alunno, indipendentemente dalle caratteristiche individuali e sociali, garantendo a tutti reali opportunità di scelta e di iniziativa e intervenendo sui contesti per eliminare ogni forma di esclusione ed emarginazione dal percorso educativo è, invece, alla base del processo di inclusione (Ghedin, 2009). In tal senso, occorre ricordare che, come sottolinea Santi (2016, p. 58), «il passaggio dalla vocazione italiana all’integrazione all’autentica inclusione non si riduce a un transito o a un miglioramento di qualità: l’inclusione chiede il ripensamento dei paradigmi di riferimento e la ridefinizione di nuove aspirazioni e dei lessici per indicarle nella cultura e nella pratica».

Nello specifico, l’inclusione è il modello prevalente nei documenti internazionali più recenti (UNESCO, 1994; 2005; United Nations, 2006; Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione degli Alunni Disabili, 2011; 2012; OECD, 2005; 2012), ma tale termine appare per la prima volta nella Dichiarazione di Salamanca del 1994, in cui si sostiene che «l’inclusione e la partecipazione sono essenziali per la dignità umana e per il godimento e l’esercizio dei diritti umani. Nel campo della formazione, questo si riflette nello sviluppo di strategie che cercano di realizzare una vera e propria equalizzazione di opportunità» (UNESCO, 1994, p. 11).

In tal senso, un traguardo significativo è segnato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009, documento nel quale tutti gli Stati firmatari si impegnano a definire e a promuovere i diritti, la dignità e le pari opportunità delle persone con disabilità (Dainese, 2016), rimuovendo gli ostacoli alla partecipazione alla vita sociale, culturale ed economica delle comunità e riconoscendo nella scuola un «autentico fattore di conversione dei progetti di vita di ogni persona» (Santi e Ruzzante, 2016, p. 58).

In tale prospettiva, si inserisce l’approccio dei Disability Studies, che accentuano il carattere sociale della disabilità, criticando il concetto di «norma» e focalizzando l’attenzione sui processi di discriminazione e di esclusione sociale (Medeghini, 2006; 2015). In particolare, riconoscere il carattere sociale della disabilità significa, da un lato, rompere il rapporto causale e unilaterale tra avere una menomazione ed essere disabile — presupposto alla base dell’idea individualistica veicolata dal modello medico e psicologico (Marra, 2009) — e, dall’altro, garantire a tutte le persone di avere le stesse possibilità di accesso e partecipazione alla vita sociale, andando a rilevare e superare tutte quelle barriere che causano condizioni di esclusione e segregazione (de Anna, 2014).

In ambito educativo, come sottolinea D’Alessio (2013, p. 105), «[…] lo scopo è quello di combattere ogni forma di esclusione […] rendendo la scuola e i sistemi educativi più inclusivi, non soltanto per le persone disabili ma per tutti coloro che fino ad ora sono stati esclusi dal processo di apprendimento poiché non rispondenti a quelli che sono i criteri riconosciuti dalla norma (o dello studente “ideale”)».

In questa direzione la scuola inclusiva riconosce nelle differenze tra gli studenti delle sfide e delle opportunità evolutivamente fruttuose per lo sviluppo individuale e collettivo, piuttosto che dei problemi da superare (Santi, 2014). Pertanto, perseguire un’idea di scuola inclusiva significa prima di tutto rivedere le culture, le politiche gestionali e le pratiche affinché corrispondano alle differenze di tutti gli alunni (Medeghini, 2006).

In particolare, occorre precisare che nel progettare ambienti educativi in grado di accogliere tutti non viene negata l’esistenza di bisogni educativi speciali, connessi a difficoltà di sviluppo e di apprendimento, temporanee o permanenti, ma li si considera in un’ottica sistemica, non come sinonimi di deficit individuali (Cottini, 2018).

Dal punto di vista didattico, riconoscere, accogliere e valorizzare tutte le diversità significa non solo educare al prendersi cura delle relazioni, elemento costitutivo dei processi educativi, ma diviene la condizione che costringe l’équipe pedagogica a ripensare e innovare le scelte progettuali, organizzative e metodologiche messe in atto quotidianamente, proponendosi come agente di cambiamento piuttosto che di riproduzione sociale (D’Alessio, 2005; Ianes, 2006; d’Alonzo, 2009; Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011; Mura, 2015; Crotti, 2017).

Nello specifico, come sottolinea Cottini, occorre pensare alla didattica inclusiva come un orientamento metodologico che caratterizza la comune prassi quotidiana di tutti gli insegnanti,

attenta non solo alle strategie da mettere in campo per soddisfare le esigenze di particolari allievi, ma orientata anche all’ambiente, al clima, alla differenziazione didattica, alla progettazione condivisa, alle strategie collaborative, allo sviluppo di capacità cognitive e metacognitive, alla formazione di competenze assertive e prosociali, alla conoscenza e gestione delle emozioni, all’impiego funzionale delle tecnologie (Cottini, 2018, p. 17).

A tal proposito, anche nel recente decreto legislativo n. 66 del 13 Aprile 2017 si afferma che per perseguire la prospettiva inclusiva occorre progettare e implementare «percorsi per la personalizzazione, individualizzazione e differenziazione dei processi di educazione, istruzione e formazione, definiti e attivati dalla scuola, in funzione delle caratteristiche specifiche degli allievi» (art. 4). In particolare, si sottolinea l’importanza di allestire intenzionalmente contesti educativi significativi e accoglienti per tutti gli alunni e di progettare i curricoli didattici in maniera differenziata, in riferimento alle differenze individuali, con un’attenzione particolare alle esigenze specifiche di alunni con disabilità e altri bisogni educativi speciali (Cottini, 2016; d’Alonzo, 2016).

Tuttavia, in Italia in molte scuole rimane ancora troppo ampio lo scarto tra la dichiarazione dei principi di partecipazione e uguaglianza nelle differenze e l’esigibilità effettiva di questi diritti, soprattutto da parte di chi vive una condizione di disabilità e/o svantaggio socio-culturale (Dovigo, 2008; Pavone, 2010; Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011; Demo, 2014).

In tal senso, anche il decreto legislativo n. 66/2017, pur dichiarando l’importanza di garantire a tutti i bambini delle reali opportunità formative e indicando i criteri per la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica, non arriva a individuare ed esplicitare dei livelli essenziali di qualità esigibili, i quali, come sostiene Ianes, già nel 2008, risultano invece necessari, in quanto «la definizione di requisiti minimi, di standard concordati e socialmente accettati dalle parti: scuola, sanità, famiglie, Enti locali […] potrebbe orientare più decisamente le varie azioni che la scuola fa verso l’automiglioramento e la sua progettualità nella direzione delle dimensioni che più costruiscano un’idea di Qualità condivisa» (Ianes e Macchia, 2008, p. 89).

In tal senso, occorre ricordare che la qualità dell’integrazione scolastica degli alunni disabili è stata oggetto, negli anni, di numerose ricerche (Canevaro, 1999; Gherardini, Nocera e AIPD, 2000; Cottini, 2004; Ianes, Demo e Zambotti, 2011) volte soprattutto a individuare degli indicatori significativi, utili per poter valutare la qualità di tali processi3 (Medeghini, 2006; Bondioli, 2009; Ianes e Canevaro, 2015; Cottini e Morganti, 2015; Ruzzante, 2016).

In tale direzione, in ambito internazionale e nazionale, un punto di riferimento per le istituzioni educative che intendono interrogarsi circa la qualità dei processi inclusivi messi in atto e progettare intenzionalmente delle azioni di miglioramento contestualizzate e sostenibili è ravvisabile nell’Index for inclusion (Booth e Ainscow, 2002; 2008; 2014). In particolare, tale processo di auto-analisi non si limita a rilevare le condizioni caratterizzanti ciascuna istituzione scolastica, ma conduce l’équipe educativa a elaborare un progetto di miglioramento: «scopo dell’Index infatti non è semplicemente produrre una descrizione, per quanto precisa ed esaustiva, ma è anche realizzare un effettivo cambiamento che investa gli aspetti culturali, organizzativi e pedagogici implicati dal processo di trasformazione inclusiva» (Booth e Ainscow, 2008, p. 28).

Anche in Italia, soprattutto a partire dallo studio e dall’implementazione dell’Index for inclusion, si sono elaborati diversi dispositivi finalizzati a sostenere i processi di autovalutazione della qualità dei processi inclusivi messi in atto dalle comunità educative (Brugger-Paggi et al., 2013; Demo, 2013; Cottini et al., 2016; Bocci e Travaglini, 2016; Bortolotti e Bembich, 2016) oppure a saggiare gli atteggiamenti degli insegnanti relativamente all’inclusione (Vianello e Moalli, 2001; Zambelli e Bonni, 2004; Arcangeli, Bortolucci e Sannipoli, 2016; Camedda e Santi, 2016; Ferrara, 2016; Antonietti, Bertolini e Veneziani, 2017; Dettori e Pirisino, 2017) o nei confronti della disabilità e dei bambini con bisogni educativi speciali (Nocera, 2001; Campbell, Gilmore e Cuskelly, 2003; Medeghini, 2006; Sze, 2009; Fiorucci, 2014; Antonietti e Bertolini, 2015).

In tal senso, riuscire a sostenere ciascuna istituzione educativa non solo nell’identificare le caratteristiche proprie di contesti realmente inclusivi, ma anche nell’assumere degli impegni concreti per garantire la realizzazione di comunità accoglienti, costituisce l’intento principale del Commitment Towards Inclusion (Santi e Ghedin, 2012). In particolare, si tratta di uno strumento valutativo che, ispirandosi all’Index e facendo esplicito riferimento al capability approach (Sern, 2006), anziché individuare degli indicatori statici, universalmente validi tramite cui valutare la qualità dei processi inclusivi, propone un repertorio di impegni che «corrispondono alle opportunità di inclusione concreta offerte dalle organizzazioni educative in termini di partecipazione alle decisioni e alle occasioni disponibili per lo sviluppo delle facoltà individuali e sociali, che consentono l’aumento di ben-essere soggettivo e collettivo» (Santi e Ghedin, 2012, p. 105).

Per operazionalizzare quindi il commitment di ciascuna comunità scolastica verso l’inclusione, sviluppandolo in termini di impegno individuale e sociale attorno a tre dimensioni principali (creare culture, produrre politiche, sviluppare pratiche), e per sostenere gli scambi tra le diverse realtà educative coinvolte, questo strumento assume come riferimento il lessico e il modello bio-psico-sociale di salute proposto dall’International Classification of Functioning (OMS, 2001; 2007), strumento che interpreta la salute e il funzionamento umano come risultante dell’interazione complessa, globale e multidimensionale tra fattori biologici, biostrutturali, funzionali, di capacità, di partecipazione sociale e fattori contestuali ambientali e personali (Dainese, 2016; Cottini, 2018).

In tale prospettiva, per poter descrivere e conoscere il funzionamento globale di ogni persona occorre adottare un approccio ecologico e olistico in grado di cogliere sia le caratteristiche personali sia la loro interazione con le variabili proprie dei contesti di vita (Ianes, 2006; Caldin, 2009; Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011; Pradal, 2014; Mura e Zurru, 2016), garantendo uno scambio sinergico di diversi punti di vista e identificando con maggior chiarezza i reciproci ambiti di responsabilità e di intervento delle figure coinvolte (Pavone, 2010; Pradal, 2014). In Italia, in ambito educativo e didattico, numerose sperimentazioni hanno esplorato le possibilità e le modalità operative di utilizzo dell’ICF (Cottini, 2004; Ianes, 2004; Ianes e Macchia, 2008; Ianes e Demo, 2009; Ianes e Cramerotti, 2011; Chiappetta Cajola, 2012; Chiappetta Cajola e Rizzo, 2014; d’Alonzo, 2016; Carruba, 2017), riconoscendo in tale classificazione non solo un dispositivo euristico fondamentale, ma anche uno strumento propedeutico per progettare e redigere collegialmente, per gli alunni con disabilità certificata, il Piano Educativo Individualizzato, ossia il progetto a rete, di sintesi collegiale, in cui confluiscono gli intenti, le scelte e le azioni messe in atto da tutti gli operatori coinvolti in una logica di continuità orizzontale e verticale (Chiappetta Cajola, 2008; Pavone, 2010; Dainese, 2016).

In tal senso, è bene ricordare che nelle «Linee guida per l’integrazione degli alunni con disabilità» emanate dal MIUR nell’agosto 2009 si afferma esplicitamente che il personale della scuola deve formarsi sul modello ICF per essere partner competente del personale sanitario. Inoltre, il recente decreto legislativo n. 66/2017 introduce, a partire dal 1 gennaio 2019, un nuovo documento di sintesi, il Profilo di Funzionamento, che sostituisce, ricomprendendoli, la diagnosi funzionale e il Profilo Dinamico Funzionale, frutto della collaborazione interdisciplinare tra commissione medica, famiglia e scuola, secondo i criteri del modello bio-psico-sociale dell’ICF. Tale documento, alla cui redazione collaborano anche i genitori dell’alunno e un rappresentante dell’amministrazione scolastica, oltre a valorizzare i ruoli dei contesti di vita e di apprendimento del bambino, superando una visione individualistico-medica della disabilità, costituirà il riferimento per la stesura collegiale del Piano Educativo Individualizzato.

Pur incrinando l’indissolubile associazione certificazione medica/risorse, che da sempre struttura il processo di integrazione scolastica dei bambini con disabilità in Italia, e riconoscendo l’importanza di adottare un approccio bio-psico-sociale per la lettura dei reali bisogni formativi degli interessati, in realtà anche i recenti provvedimenti normativi non arrivano ad accogliere pienamente le richieste avanzate da alcuni studiosi (Ianes, 2014; 2015; 2016; Fantozzi, 2014; Santi, 2014), soprattutto in merito alla professionalità e alla formazione degli insegnanti specializzati. Al contrario, in questi documenti si prospettano carriere e percorsi formativi differenti tra i docenti curricolari e quelli specializzati per quanto concerne la scuola secondaria, producendo una forte discontinuità tra i diversi ordini scolastici (in particolare con i docenti della scuola primaria) e correndo il rischio di incentivare ulteriormente i processi di deresponsabilizzazione tra gli insegnanti curricolari, come ampiamente denunciato da diversi autori (Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011; Demo, 2014; Ianes, 2014).

A tal proposito, dunque, pur riconoscendo negli insegnanti gli «agenti strategici dei processi di inclusione scolastica e sociale, capaci cioè di accogliere in pieno le sfide poste dalla diversità e dalla prospettiva dell’apprendimento permanente» (Chiappetta Cajola e Cirani, 2013, p. 9), è lecito chiedersi: quali sono le competenze essenziali che ciascun docente e, in particolare quello specializzato, deve possedere per favorire e ampliare l’inclusione scolastica di tutti gli alunni?

L’insegnante specializzato per le attività di sostegno: l’insegnante di tutti

Possiamo discutere di integrazione su più livelli — ideale, politico, normativo o di ricerca — ma alla fine è il docente che deve affrontare l’eterogeneità degli studenti in classe! È l’insegnante che mette in pratica i principi dell’integrazione scolastica. Se l’insegnante non è in grado di rivolgersi a un’ampia complessità di studenti seduti nella stessa classe, tutte le buone intenzioni sull’integrazione scolastica sono vane. Dunque, la sfida del futuro è migliorare i programmi di formazione e preparare i docenti ad affrontare la diversità (Meijer, 2011, p. 6).

Riconoscere nell’intero gruppo di lavoro una comunità di professionisti responsabili della definizione e realizzazione di contesti competenti, accoglienti e inclusivi, in grado di rispondere ai bisogni formativi di tutti gli alunni, significa superare il modello della delega alla figura dell’insegnante specializzato, in un’ottica di sostegni distribuiti. Si delinea, dunque, un’idea ampia di sostegno, che non si riduce all’introduzione di un professionista aggiuntivo che si occupa di un bambino in difficoltà separatamente, ma che concerne «la capacità dell’organizzazione di prendersi carico, nel suo complesso, dei diversi e possibili problemi che possono emergere nel corso delle attività e delle esperienze scolastiche» (Medeghini, 2006, p. 90).

In quest’ottica, nella scuola dell’inclusione, attenta alle differenze di funzionamento di tutti gli alunni, attraverso l’introduzione di mediatori efficaci, la funzione di sostegno non si riduce a uno tecnicismo esclusivo, esercitato da un singolo docente, ma si esplica nella tessitura di relazioni tra professionalità competenti, ossia in «sostegni di prossimità» (Canevaro, 2013). Pertanto, per superare definitivamente il binomio simbiotico sostegno/disabilità (Camedda e Santi, 2016) da un lato occorre rivedere e intensificare i percorsi formativi (iniziali e in servizio) di tutte le figure professionali coinvolte (insegnanti curricolari, dirigenti scolastici, educatori, collaboratori scolastici, professionisti dei servizi sociosanitari) e dall’altro bisogna ripensare le funzioni e le competenze attribuite al docente specializzato, garantendo un sostegno evolutivo (Canevaro, 2013).

Tale sottolineatura diviene fondamentale prima di approfondire la professionalità di una figura chiave nei processi di integrazione e inclusione scolastica degli alunni con disabilità certificata realizzati in Italia, qual è l’insegnante specializzato per le attività di sostegno didattico, il quale molto spesso continua a denunciare una scarsa collaborazione pedagogica e progettuale soprattutto con gli insegnanti curricolari (Ianes, Demo e Zambotti, 2011). Per arginare tali involuzioni, purtroppo ancora presenti in alcune delle nostre scuole (Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011), occorre individuare i tratti che maggiormente caratterizzano il profilo educativo dell’insegnante specializzato e chiarire quali competenze egli deve possedere e quali funzioni è chiamato a svolgere.

Chi è l’insegnante specializzato per il sostegno? Tra descrizioni e rappresentazioni

In Italia, nell’anno scolastico 2016/2017, si è registrata una crescita progressiva nel numero dei docenti specializzati per il sostegno, coerentemente con l’aumento degli alunni con disabilità certificata, tanto che si è passati dall’8,6% nell’a.s. 2001/2002 al 16,3% (MIUR, 2018). Pur riscontrando delle forti eterogeneità tra i diversi ordini scolastici e tra le differenti Regioni, si è ormai consolidata la presenza quotidiana di tale professionista nelle classi di tutte le scuole italiane.

Tuttavia, nonostante questa diffusione e incremento è lecito chiedersi: l’insegnante specializzato è un effettivo punto di riferimento per l’intera scuola, volano del più ampio cambiamento organizzativo, politico e culturale che deve sfidare le nostre comunità per definirsi inclusive (D’Alessio, 2013) oppure viene ancora segregato a espletare la sua professionalità nella relazione didattica individuale e separata con l’alunno disabile?

Numerosi autori, pur utilizzando sottolineature differenti, concordano nel riconoscere come elemento qualificante il ruolo e il sapere dell’insegnante specializzato per il sostegno la parola «mediazione» (Pavone, 2010; Goussot, 2014; Gaspari, 2015; Cottini, 2018), la quale si esplica nei confronti di una pluralità di soggetti e di ambiti d’azione.

Innanzitutto, pur non trattandosi né di un tecnico della riabilitazione, né di un terapeuta da chiamare in causa per risolvere le difficoltà più gravi di alcuni alunni, egli si pone nei confronti del gruppo classe come un docente in grado di riconoscere le differenze nei funzionamenti individuali e di potenziare le autonomie di tutti, implementando una pluralità di strategie didattiche e garantendo così pari opportunità formative. Un insegnante capace di attivare cambiamenti significativi nella gestione della classe, nell’accesso ai saperi, proponendo una reale differenziazione didattica, in grado di coinvolgere tutti gli alunni e ottimizzare le condizioni organizzativo-contestuali (Gaspari, 2016). Si delinea, dunque, la figura di un «insegnante competente che permetta al contesto scolastico di essere competente, e non limiti e chiuda, quindi, la competenza alla sua presenza ma la colleghi all’investimento strutturale dell’ambiente scolastico» (Canevaro, 2006, p. 82). Per permettere ai contesti educativi di essere competenti, l’insegnante specializzato deve riconoscere e attivare le risorse in esso presenti, troppo spesso sottovalutate, valorizzando sia le capacità degli studenti nell’orientare e supportare i percorsi di apprendimento dei propri compagni, ma anche le capacità potenziali del gruppo degli insegnanti in cui egli opera (Medeghini, 2006). Consapevole dell’essere un professionista con altri professionisti, il docente specializzato è chiamato a problematizzare l’utilizzo di didattiche trasmissive, standardizzate (Ianes, Demo e Zambotti, 2011), proponendo ai colleghi di ripensare il curricolo in un’ottica realmente formativa e sollecitandoli verso una dimensione dell’agire professionale che si muova sugli assi della progettualità, della consapevolezza, della responsabilità e della riflessività (Fantozzi, 2014). In quest’ottica, il consiglio di classe o collettivo scolastico diviene una micro-comunità intessuta nella rete dell’inclusione, in cui l’intero team docente si trova a co-progettare situazioni e contesti di apprendimento mediato e di co-educazione, introducendo nell’azione didattica forme e approcci plurimi in grado di far evolvere non solo le capacità dinamiche degli alunni coinvolti, ma anche gli stessi contesti di vita (Medeghini, 2006; Ghedin, Aquario e Di Masi, 2013; Goussot, 2014; Demo, 2016).

Tuttavia, il ruolo educativo dell’insegnante specializzato non si esaurisce nelle relazioni che instaura con gli alunni e con i colleghi, ma configurandosi quale figura di sistema strategica (Cottini, 2014; Ianes e Canevaro, 2015), «è chiamato a svolgere un lavoro di rete e ad assumere un ruolo-ponte tra l’alunno certificato e gli alunni di classe, fra l’alunno e gli insegnanti curricolari, fra scuola ed enti locali e territoriali, tra scuola e famiglia» (Mannucci e Collacchioni, 2008, p. 184).

Prima di prendere in esame le relazioni che l’insegnante specializzato per il sostegno è chiamato a tessere e curare con i vari servizi presenti sul territorio, occorre richiamare l’attenzione su un’altra figura chiave nell’esperienza scolastica di tutti, troppo spesso poco considerata, ossia l’educatore professionale (Tatulli, 2015) o assistente educatore (Medeghini e Cavagnola, 2001). Si tratta, infatti, di una professionalità che nel corso degli anni ha registrato una notevole evoluzione e un’ampia diversificazione di ruoli e ha ottenuto, nel nostro Paese, un pieno riconoscimento giuridico soltanto recentemente con l’emanazione della legge n.2443 approvata il 20 dicembre 2017. Tale legislazione, delineando i profili professionali degli educatori e dei pedagogisti, fa chiarezza circa i ruoli e gli itinerari formativi connessi a queste figure:

nella giungla di titoli e ambiti lavorativi eterogenei e incerti che comprendono al loro interno anche ingiustizie e disparità, nel contesto di norme contraddittorie che attendevano da oltre 20 anni di essere riviste e che risultavano inadeguate ai tempi e alle modifiche sopraggiunte nell’organizzazione dei servizi, le professioni educative sono finalmente definite nella loro fisionomia. Gli educatori esistono come professionisti e sono definiti per legge (Iori, 2018, p. 11).

Una svolta ancora più importante se la si connette con quanto indicato nel decreto legislativo n. 66/2017 a proposito degli assistenti alla comunicazione e all’autonomia, in quanto si dichiara l’intenzione di procedere alla individuazione dei «criteri per una progressiva uniformità su tutto il territorio nazionale della definizione dei profili professionali del personale destinato all’assistenza per l’autonomia e per la comunicazione personale, in coerenza con le mansioni dei collaboratori scolastici […] anche attraverso la previsione di specifici percorsi formativi propedeutici allo svolgimento dei compiti assegnati» (DLgs 66/2017, art. 3, p. 6). In sintesi, si tratta del riconoscimento giuridico, della definizione di un profilo educativo comune e dei rispettivi itinerari di formazione di un professionista chiamato a collaborare con l’insegnante specializzato e l’intero team docente per la realizzazione del Piano Educativo Individualizzato, svolgendo «un ruolo di facilitatore relazionale, operando sull’ambiente ecologicamente inteso, al fine di attivare le risorse del minore a lui affidato e dei contesti, per favorire l’empowerment da un lato e per promuovere la cultura dell’accoglienza dell’altro» (Pavone, 2010, p. 181). Per superare il rischio della creazione di un rapporto triadico esclusivo tra insegnante specializzato, alunno con disabilità e educatore, occorre coinvolgere tale figura educativa, da un lato, all’interno dell’intero team docente, pensandola come risorsa per tutto il gruppo classe, dall’altro, nella realizzazione di continui scambi e relazioni con tutte le istituzioni e i servizi coinvolti, in quanto professionista esperto.

In particolare, in questa rete di relazioni che il docente specializzato deve essere in grado di tessere con tutti gli attori coinvolti, la famiglia del bambino con disabilità certificata costituisce il principale partner del processo educativo. In generale, si tratta di un nucleo familiare contrassegnato da una storia evolutiva particolarmente delicata, con il quale il docente specializzato deve essere in grado di porsi in relazione in maniera competente per sostenere la resilienza genitoriale e negoziare obiettivi e modalità di intervento, nella valorizzazione e rispetto reciproco (Pavone, 2010). Una professionalità autentica capace di rispettare e coinvolgere attivamente i genitori nella comunità scolastica, informandoli costantemente sui progressi e sulle criticità incontrate dal figlio, ma anche offrendo loro l’opportunità di incontrare gli altri genitori della classe, realizzando dei momenti comuni in cui diviene possibile «scambiarsi sostegno, esperienze e opinioni, di discutere le conoscenze acquisite, di confrontarsi sugli interventi in atto, di rendersi conto di non essere i soli ad avere problemi educativi, di sviluppare maggiore fiducia nelle procedure che vengono suggerite, di trovare nel gruppo gratificazione, empatia e comprensione» (Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011, p. 156).

Promuovere contesti inclusivi in grado di accogliere e valorizzare tutte le diversità significa anche arricchire una professionalità complessa, qual è quella dell’insegnante specializzato, della capacità di instaurare relazioni positive non solo tra alunni, insegnanti curricolari, educatori, scuola e famiglie, ma anche tra scuola e comunità. In una situazione contrassegnata molto spesso da frammentarietà e scarsa comunicazione tra i diversi Enti coinvolti, risulta tutt’altro che scontato riuscire a progettare realmente dei percorsi comuni e condivisi, senza scadere in una pura formalità burocratica. Per garantire l’istituirsi di proficue collaborazioni e scambi tra tutti gli attori coinvolti, oltre a condividere un linguaggio comune e intraprendere momenti di formazione e aggiornamento congiunti, occorre assicurare con continuità e sistematicità degli incontri per ipotizzare, documentare e valutare una progettualità condivisa (Crotti, 2017).

In questa prospettiva, l’èquipe scolastica deve assumere uno sguardo olistico e prospettico per realizzare «interventi a livello educativo e didattico altamente qualificati e integrativi, che siano per giunta aperti e ben coordinati con le esperienze offerte dal territorio in cui il minore vive» (Pavone, 2010, p. 172). In tal senso, il docente specializzato deve riuscire a garantire un soddisfacente, quanto difficile, equilibrio relazionale all’interno e all’esterno della comunità scolastica, venendo ad assumere il ruolo di regista (Albanese, 2006).

Una pluralità di situazioni e di professionisti con cui l’insegnante specializzato per il sostegno deve essere in grado di relazionarsi in maniera competente, ma che talvolta si traduce in vissuti di inadeguatezza e marginalità. A tal proposito, in un’indagine condotta dalla Fondazione Agnelli (Fondazione Agnelli, 2009) emerge chiaramente dagli insegnanti coinvolti la percezione di possedere un’identità professionale dai contorni incerti, spesso poco valorizzata sia all’interno della scuola che nel più ampio territorio, tanto da essere relegati alla condizione di jolly factotum. Tale insoddisfazione diffusa costituisce nella maggior parte dei casi una delle ragioni principali alla base della costante propensione alla fuga verso posti e cattedre comuni da parte dei docenti specializzati, dimostrando come l’incarico sul sostegno molto spesso rappresenti più una scorciatoia per l’immissione in ruolo che non una scelta profondamente motivata (Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011; Mura e Zurru, 2016).

Sondare i vissuti e gli atteggiamenti degli insegnanti specializzati per il sostegno nei confronti dei propri profili professionali, andando a rilevare le diverse autorappresentazioni da essi elaborate, costituisce l’intento principale di un recente filone di ricerche (Cardarello e Gariboldi e Antonietti, 2006; Bortolotti, 2011; Antonietti, 2014; Baschiera, 2014; Tessaro, 2014). A tal proposito, Bortolotti (2011) individua alcune interessanti forme di autorappresentazioni metaforiche: le insegnanti «Luna» (satellite senza luce propria che ruota attorno al curricolare), le insegnanti «Mary Poppins/Eta Beta» (fa e trova tutto), le insegnanti «Fantasmino» (ci sono e non ci sono), le insegnanti «Confidenti» (al di qua della barricata, dalla parte dei bambini), le insegnanti «Bilancia» (mediatori tra tutti e tutto), le insegnanti «Crocerossine» (specialiste della cura) o le insegnanti «Maestre che aiutano» (Cottini, 2018).

In particolare, nell’indagine condotta da Antonietti (2014), volta a indagare il profilo dell’insegnante specializzato, ponendo a confronto le opinioni di insegnanti curricolari e sul posto di sostegno di scuola dell’infanzia e primaria, emergono chiaramente non solo le criticità percepite da entrambi i gruppi, ma soprattutto le eterogeneità di prospettive tra i docenti coinvolti. In particolare, mentre tutti gli insegnanti concordano nel riconoscere come criticità elementi riconducibili alla dimensione didattica (incertezza nelle strategie adottate, nell’area della progettazione e valutazione) e relazionale (scarsa collaborazione nel team docente e aspetti di relazione con i bambini), i docenti specializzati indicano anche la scarsa collaborazione con i servizi, mentre quelli curricolari segnalano la difficoltà nel collaborare con le famiglie, aspetto quest’ultimo non percepito invece dai colleghi specializzati (Antonietti, 2014). Tuttavia, pur rilevando delle disomogeneità nelle percezioni dei due gruppi di docenti presi in esame, è interessante notare come tutti concordino nel ritenere che un buon insegnante specializzato per le attività di sostegno debba possedere delle competenze riconducibili alle più ampie e comuni dimensioni didattico-educative (osservazione, progettazione, documentazione) e delle conoscenze più approfondite delle specificità individuali anche attraverso una ricerca delle possibili cause (Mortari, 2013; Antonietti, Bertolini e Cardarello, 2014) per riuscire a progettare dei percorsi educativi individualizzati ed efficaci, avvalendosi di strumenti differenziati.

Pur riconoscendo le specificità che contraddistinguono questo professionista, anche in questa indagine si conclude affermando l’importanza di costruire sul campo un’effettiva collegialità tra tutti i professionisti coinvolti, anche mediante una solida formazione speciale per tutti (Antonietti, 2014).

Una collegialità reale tra tutti gli insegnanti coinvolti nei diversi percorsi educativi che viene valorizzata e indagata in un importante studio condotto in 13 classi di scuola primaria (Demo, 2016) riconosciute quali esempi di buone prassi inclusive. In particolare, in tale indagine emerge chiaramente come l’adozione di diverse modalità organizzative (compresenza, assunzione di un doppio ruolo titolare materia/sostegno, suddivisione delle attività in piccoli gruppi) consenta di sperimentare una effettiva partecipazione e collaborazione tra l’insegnante specializzato e gli altri colleghi, superando in tal modo ogni possibile forma di marginalizzazione e impoverimento. Inoltre, sfruttando realmente le ore di compresenza tra i diversi docenti diviene possibile far evolvere le metodologie didattiche ordinarie verso modalità strutturalmente più inclusive (apprendimento cooperativo, aiuto e insegnamento reciproco diretto, didattica laboratoriale, per progetti, per problemi reali, adattamento e diversificazione dei materiali di apprendimento, uso partecipato e inclusivo delle tecnologie) (Ianes, 2014), attivando forme di co-teaching in cui i ruoli si possono differenziare e interscambiare (Ghedin, 2013).

In questa direzione, si colloca anche la proposta di evoluzione dell’insegnante specializzato delineata da Ianes (2014; 2015; 2016), il quale ne propone una trasformazione radicale. In particolare, in tale ipotesi evolutiva si sostiene l’urgenza di attivare nelle scuole una nuova modalità organizzativa che prevede di eliminare del tutto l’attuale figura dell’insegnante specializzato, mediante il passaggio degli attuali insegnanti specializzati (80%) all’organico nomale delle scuole e contemporaneamente il restante (20%) per la creazione di un congruo numero di insegnanti specialisti, chiamati a sostenere direttamente, in classe, i colleghi nell’applicare didattiche inclusive (Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011).

Pur non trovando un richiamo esplicito nella recente normativa di riferimento in merito all’inclusione scolastica (DLgs n. 66/2017), le indicazioni provenienti da tali indagini sottolineano l’urgenza di adottare uno sguardo olistico-sistemico fondato sul pieno coinvolgimento di tutti i docenti, mediante l’attivazione di itinerari formativi (in servizio) congiunti, i quali, dovendosi confrontare quotidianamente con una realtà complessa e in divenire, necessitano sistematicamente di riflettere sulle proprie esperienze, esplicitando le differenti coordinate teoriche di riferimento, condividendo i vissuti e acquisendo una pluralità di strumenti e strategie operative.

L’insegnante specializzato per le attività di sostegno: quale formazione per quali competenze?

Se è vero che per promuovere una reale scuola inclusiva occorre coinvolgere l’intero team docente e gli altri operatori attivi nel processo educativo (educatori, famiglia, collaboratori scolastici, dirigente), condividendo non solo alcuni valori fondanti le culture e le politiche inclusive, ma anche le strategie idonee a garantire pari opportunità formative a tutti e a ciascuno, è lecito domandarsi quali competenze specifiche vengono richieste al docente specializzato e in quali ambiti di azione si distingue la sua identità professionale.

Innanzitutto, come sottolinea Pavone (2010, p. 183), «non bisogna cadere nel pregiudizio che per effetto del processo di integrazione nella scuola e nella società non vi sia più bisogno di professionisti specializzati; al contrario. Soprattutto in contesti inclusivi occorrono professionalità altamente preparate, che sappiano mettere in dialogo le competenze specialistiche con gli ambienti di normalità». Per garantire professionalità qualificate occorre prima di tutto interrogarsi circa le proposte formative attivate e sondare le ripercussioni connesse a tali percorsi sui processi inclusivi osservati nelle diverse realtà scolastiche (Canevaro, 2004; Pavone, 2004; Albanese, 2006; d’Alonzo, 2006; Canevaro, d’Alonzo, Ianes e Caldin, 2011; SIPes, 2013; de Anna, Gaspari e Mura, 2015; Gaspari, 2015; Mura e Zurru, 2016).

In particolare, senza voler addentrarsi negli importanti cambiamenti che hanno contrassegnato la storia della formazione iniziale degli insegnanti specializzati per le attività di sostegno in Italia (Zappaterra, 2014), occorre ricordare che l’elemento della de-specializzazione è rimasto una costante, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta: una formazione generale, contrassegnata da una maggiore componente pedagogica e psicologica, ma allo stesso tempo, attenta a fornire le necessarie conoscenze riguardanti specifici deficit e strategie peculiari.

Piuttosto che fornire solamente conoscenze limitate ai diversi quadri diagnostici e trasmettere tecniche di intervento da applicare, il percorso formativo iniziale, delineato nel decreto ministeriale n. 249/2010, ancora in vigore, mira a far cogliere ai corsisti, già abilitati all’insegnamento, «la natura complessa e multidimensionale del concetto di formazione stesso che, oltre al sapere e al saper fare, consideri il saper essere, il saper sentire e il saper agire» (Gaspari, 2016, p. 100). In particolare, si tratta di un orientamento formativo che contraddistinguerà anche il corso di specializzazione previsto per gli insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria, indicato nel decreto legislativo n. 66/2017, al termine del quale il bagaglio formativo dell’insegnante specializzato deve essere «caratterizzato da un insieme di competenze integrate, epistemologicamente fondate sulla complessità e sulla polivalenza dell’agire strategico nei diversificati campi di intervento» (Gaspari, 2015, p. 97).

In particolare, diviene importante non solo acquisire alcuni saperi specifici della didattica inclusiva e conoscenze riferite anche alle varie tipologie di disabilità, ma, come sostiene Goussot, essendo

tecnico delle tecniche di mediazione pedagogica per favorire gli apprendimenti di tutti, l’insegnante specializzato, non come specialista di una specifica disabilità, ma specializzato nelle metodologie di osservazione pedagogica, di ricerca e azione partecipata in classe, di animazione didattica di tipo laboratoriale, costruisce e crea delle situazioni di apprendimento integrando contesti, ruoli e sguardi disciplinari diversi per favorire l’accesso di tutti gli alunni e, in particolare, di quelli con bisogni speciali all’istruzione (Goussot, 2014, p. 59).

Per non correre il rischio di vedersi schiacciati da continue richieste di medicalizzazione e psicologizzazione, il docente specializzato per il sostegno, non specialista, deve proporsi ai colleghi e all’intera comunità scolastica quale professionista educativo dotato di una pluralità di conoscenze, competenze (pedagogiche, didattico-curricolari, relazionali, metodologiche, organizzative, tecnologico-informative) e capacità strumentali, tecniche e organizzative (Gaspari, 2004), essendo, inoltre, in grado di attivare processi di complementarietà sinergica tra agenzie formative, enti, famiglie, operatori scolastici e sociosanitari e il più ampio territorio, in una prospettiva co-evolutiva e co-educativa (Gaspari, 2016).

In particolare, come sottolinea Antonietti, rifacendosi alla letteratura di riferimento sul tema,

gli insegnanti specializzati per il sostegno didattico agli alunni con disabilità dovrebbero:

  • facilitare la costruzione di un contesto inclusivo agendo come mediatori entro la scuola e tra la scuola e le istituzioni/realtà territoriali;
  • progettare attività per i bambini con disabilità utilizzando un approccio ICF;
  • scegliere e applicare le metodologie più appropriate tra quelle a disposizione;
  • adottare pratiche di osservazione e documentazione;
  • conoscere lo sviluppo e le modalità di apprendimento in relazione ai diversi deficit;
  • possedere buone abilità di comunicazione empatia e negoziazione;
  • saper affrontare le situazioni con una buona dose di creatività (Antonietti, 2014, p. 157).

Una professionalità, dunque, caratterizzata da una pluralità di approcci epistemologici, fondata su solide competenze e valori etici condivisi, ma sempre alla ricerca di nuovi riferimenti teorici e dispositivi applicativi, in quanto «un obiettivo della formazione iniziale dovrebbe essere quello di aiutare i futuri docenti a sviluppare una propria personale teoria pedagogica basata sul pensiero critico e la capacità di analisi, coerente con le conoscenze, le abilità e i valori che si riflettono nelle competenze didattiche e professionali» (Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione degli Alunni Disabili, 2012, p. 23).

Infine, per rispondere in maniera competente alla complessità dei bisogni formativi emergenti, l’insegnante specializzato deve sviluppare delle competenze riflessive e autoriflessive, problematizzando i propri riferimenti teorici e analizzando criticamente le prassi messe in atto, consapevole che occorre «accettare la precarietà del sapere e insieme ad essa un’etica della fragilità, che consiste nell’imparare a rendere porosa ogni nostra convinzione, pronta a frantumarsi sotto l’urto di uno sguardo costitutivamente critico […]» (Mortari, 2013, p. 90).

Oltre l’insegnante specializzato: riflessioni e prospettive di ricerca

Se la qualità dell’inclusione scolastica non dipende solamente dal numero di ore assegnate all’insegnante specializzato (ma queste ore devono essere effettivamente garantite), ma è data principalmente dall’effettiva realizzazione di un progetto educativo, condiviso da tutti in maniera responsabile, diviene fondamentale che chi svolge la funzione di sostegno la realizzi secondo una dinamica evolutiva che tenga conto dei continui cambiamenti provocati dai coinvolgimenti di altri soggetti (Canevaro e Malaguti, 2014).

Infatti, come sottolinea Gaspari «l’inclusione di qualità non richiede specialisti e tecnicismi particolari, ma una pedagogia e una didattica inclusiva quotidiane, realizzate da tutti e al servizio di tutti, che possono anche fare ricorso a competenze speciali» (Gaspari, 2012, p. 107).

In tal senso, diviene fondamentale che negli itinerari formativi (iniziali e in servizio) rivolti a tutti coloro che operano nella scuola, con un’attenzione particolare agli insegnanti specializzati per il sostegno, sia dato ampio spazio alla cultura pedagogica e didattica inclusiva, in modo tale da garantire la piena corresponsabilizzazione di tutte le figure professionali coinvolte nei processi inclusivi (insegnanti curricolari, educatori, collaboratori scolastici e dirigenti).

Inoltre, per sostenere costantemente le competenze progettuali di tutti i docenti e far evolvere le capacità operative dell’intero sistema scolastico, occorre favorire realmente gli scambi e le collaborazioni tra le scuole e un’effettiva rete di servizi4 presenti sul territorio, per garantire alle comunità scolastiche una serie di specifiche competenze tecniche, funzionali a rendere più efficaci le normali pratiche educative e didattiche (Associazione TreElle, Caritas italiana e Fondazione Agnelli, 2011).

In tale senso,

un centro risorse può diventare la sede per conservare la memoria dei percorsi compiuti e delle esperienze maturate per evitare il rischio che si ricominci sempre da capo; può proporsi come il punto di incontro […] delle volontà di molte istituzioni […] di agire in maniera collegata, consorziata o tramite convenzioni, per mettere a disposizione di coloro che ne sentono il bisogno e ne sono sprovvisti, competenze, risorse, strumenti, sussidi, esperienze, percorsi di lavoro (Neri, 1997, pp. 84-85).

In quest’ottica, anche i centri di documentazione educativa divengono delle risorse territoriali strategiche, non solo per la realizzazione di percorsi di ricerca-formazione in servizio, anche in collaborazione con le Università, ma anche per fornire servizi di consulenza tecnica specialistica alle scuole, in relazione alle differenti disabilità e difficoltà socio-culturali.

Per far fronte alla complessità di bisogni educativi emergenti, la comunità scolastica deve superare ogni forma di autoreferenzialità e porsi in connessione con le altre agenzie formative presenti sul territorio, in una prospettiva di progettazione e documentazione partecipata e co-evolutiva. Fondamentale, infatti, si rivela la capacità di ragionare in termini di rete, di crescita comune, di collaborazione tra le istituzioni e le figure che vi partecipano, di progettazione condivisa (Bortolotti, 2016). Per arrivare a ciò, diviene nevralgico ripensare e co-progettare degli itinerari di formazione in servizio rivolti alle diverse figure professionali coinvolte nei processi inclusivi, prevedendo anche dei percorsi in comune, in modo tale da disincentivare e superare ogni forma di spontaneismo e individualismo. Percorsi nei quali diviene essenziale condividere sin da subito un comune paradigma di riferimento, riconducibile al modello bio-psico-sociale fondante l’ICF, riconoscendo in quest’ultimo anche un dispositivo cardine per la rilevazione, l’analisi dei bisogni formativi e la stesura del nuovo Profilo di Funzionamento, come previsto dal decreto legislativo 66/2017. Si tratta, dunque, di far conoscere il valore euristico e la funzione orientativa insita nell’ICF a tutti coloro che operano all’interno dei diversi servizi coinvolti (insegnanti, dirigenti, educatori e operatori sociosanitari) ma anche ai genitori, la cui partecipazione e coinvolgimento divengono fondamentali per riconoscere le potenzialità di sviluppo dei loro bambini nei diversi contesti di vita e co-progettare insieme percorsi educativi e sociali realmente inclusivi.

Per tali motivi, diviene ancora più urgente proporre dei percorsi formativi su alcuni temi chiave dell’inclusione scolastica, rivolti a questi professionisti, attivando strategiche collaborazioni con le Università. In questa direzione, sarebbe utile costituire un gruppo interistituzionale territoriale, composto sia da professionisti del mondo accademico che da rappresentati delle diverse agenzie formative presenti su un determinato territorio (dirigenti, insegnanti, docenti neo-immessi in ruolo, educatori, servizi sociosanitari) per co-progettare insieme momenti formativi e percorsi di ricerca ancorati alle reali esigenze rintracciate nelle comunità coinvolte. In particolare, richiamando quanto indicato anche nei recenti documenti europei circa la necessità di garantire «un continuum tra la formazione docente e le opportunità di aggiornamento in servizio dei docenti e dei dirigenti scolastici senza “lacune” o incongruenze tra i diversi ordini di scuola» (Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione degli Alunni Disabili, 2012, p. 64), questo gruppo di esperti si dovrebbe caratterizzare come una «comunità di ricerca» impegnata, da un lato, a progettare e a valutare collegialmente il percorso di specializzazione iniziale dei docenti che intendono operare sul posto di sostegno (Calvani, Menichetti, Pellegrini e Zappaterra, 2017; Ciraci e Isidori, 2017) e, dall’altro, a incentivare e intraprendere percorsi di ricerca-formazione su alcune tematiche particolarmente significative, tra le quali si ricordano:

  • l’elaborazione e l’implementazione di dispositivi di osservazione utili per rilevare precocemente le possibili aree critiche di funzionamento nei bambini, adottando come paradigma di riferimento l’ICF (d’Alonzo, 2016);
  • la competenza progettuale dell’insegnante specializzato per il sostegno (Dainese, 2015; Moliterni, 2015; Demo, 2016): dalla definizione di ampie progettualità collegiali alla progettazione dei percorsi educativi individualizzati in contesti interistituzionali;
  • la valutazione della qualità dei processi inclusivi (Cottini et al., 2016; Ferrara, 2016) e la creazione di repertori multimediali di buone prassi da condividere tra le diverse realtà coinvolte (Santi e Ghedin, 2012);
  • lo studio delle dimensioni relazionali ed emotive caratterizzanti le relazioni di aiuto che si instaurano tra le diverse figure educative (insegnanti e educatori) e i bambini con bisogni educativi speciali, anche sfruttando le potenzialità conoscitive della videoricerca, quale metodologia euristica in grado di restituire la complessità che contraddistingue la quotidianità scolastica e di alimentare processi di riflessione e confronto all’interno delle èquipe educative;
  • la continuità (orizzontale e verticale) nei percorsi educativi dei bambini con disabilità certificata, a partire dai servizi educativi per la prima infanzia: condividere degli strumenti di documentazione in grado di restituire a tutti i professionisti coinvolti i significati sottesi ai diversi percorsi realizzati e ai processi attivati nei diversi contesti di vita (Pavone, 2010);
  • lo studio dell’identità professionale e del ruolo dall’educatore scolastico all’interno delle équipe educative (quali competenze deve possedere? Quali compiti è chiamato a svolgere?) (Medeghini e Cavagnola, 2001; Tatulli, 2015).

Riconoscere nella collegialità e nella ricerca le strategie necessarie per realizzare scuole e comunità accoglienti e inclusive significa non solo coinvolgere attivamente tutte le professionalità che svolgono un ruolo importante nei processi educativi, ma soprattutto adottare una formae mentis distribuita nel sistema, rendendolo capace di coevoluzione e reciprocità (Canevaro e Malaguti, 2014; Gaspari, 2016).

All’interno di una tale prospettiva eco-sistemica, l’insegnante specializzato è chiamato a superare ogni forma di tecnicismo e, agendo sui contesti, deve essere in grado di favorire, moltiplicare e amplificare le opportunità offerte a tutti (Santi, 2015), riconoscendo nelle difficoltà delle sfide, nei problemi delle forze creative e propulsive per far evolvere creativamente l’intero sistema scolastico (Canevaro e Malaguti, 2014). Per promuovere un’educazione inclusiva, intesa come processo di evoluzione creativa (Santi, 2016), in quanto alimentata dalla ricerca infaticabile di ristabilire il miglior equilibrio possibile tra senso della realtà e senso della possibilità (Pavone, 2010), occorre, quindi,

investire in una formazione epistemologicamente fondata e pedagogicamente robusta, quanto diffusa nell’intero corpo docente, che miri alla maturazione di formae mentis capaci di guardare alla realtà come a un ambiente in perenne rinnovamento, non restringibile in categorie assolute, e dunque di professionisti capaci di comprendere le specificità degli alunni e dei contesti al fine di promuoverne il cambiamento evolutivo […]. Ancora, è necessaria una formazione orientata a sviluppare habitus professionali che, nell’interazione dialogica con alunni, colleghi, famiglie e altri attori del territorio, concorrono a declinare le conoscenze acquisite e le competenze maturate secondo un costante riferimento a principi e valori pedagogico-didattici ed etico-deontologici (de Anna, Gaspari e Mura, 2015, p. 10).

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1 Assegnista di ricerca, Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.

2 Research Fellow, Department of Educational and Human Sciences, University of Modena and Reggio Emilia.

3 Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia – Ufficio XI Ambito Territoriale Brescia, Progetto Quadis, http://www.quadis.it/jm/index.php (consultato il 3 febbraio 2020).

4 In particolare, si fa qui riferimento ai Centri di documentazione per la disabilità, istituiti negli anni Novanta, ai Centri Territoriali di Sostegno, sviluppati attraverso un programma nazionale del MIUR con direttiva 180/1999 sulle tecnologie nelle scuole e, infine, ai Centri Territoriali per l’Inclusione. Si intende, inoltre, far notare che il recente decreto legislativo n. 66/2017 non menziona tali importanti risorse, rischiando quindi di depauperare un patrimonio culturale prezioso.

 

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