Vol. 21, n. 1, febbraio 2022

PROGETTI E BUONE PRASSI

Non credere che tutto sia finito, ragazzo

Spera, fatti una ragione della tua pena. Quello che va in giro torna

Rosita Lanciotti1

Sommario

Un percorso formativo continuo. Un gruppo di ragazzi che hanno bisogno di attenzioni e di CURA. Adi si è sentito accolto in questa classe multietnica e ha trovato dei compagni con cui parlare la sua lingua madre. Lavorare per acquisire un certificato di competenze. I problemi posti dalla pandemia. Realizzare un progetto in cui l’attività didattica nell’area linguistica coinvolga tutte le discipline. L’importanza del progetto di vita.

Parole chiave

Supplenze e incarichi, Buoni esempi, Un ragazzo e un gruppo multiculturale, Progetto individualizzato, Progetto di vita, Yoga a tutto tondo.

PROJECTS AND BEST PRACTICES

Boy, don’t believe it’s over

Hope, find a reason. In the end everything matters

Abstract

A continuous educational path. A group of guys who need attention and CARE. Adi felt welcomed into this multi-ethnic class and found companions to speak his native language to. Working to acquire a certificate of expertise. The problems posed by the pandemic. Realizing a project in which the teaching activity in the linguistic area involves all disciplines. The importance of the life project.

Keywords

Replacements and assignments, Good examples, A boy and a multicultural group, Individualized project, Life project, All-round yoga.

Premesse per presentarsi

La mia esperienza scolastica sul sostegno è iniziata nel lontano 1991, quando frequentavo il primo anno del corso di specializzazione polivalente e mi chiamarono per una supplenza nella scuola media di Tor Bella Monaca. Il ricordo più significativo di quella esperienza fu la gita scolastica a Siena, durante la quale ben tre alunne, di cui una con difficoltà di apprendimento, si erano allontanate dal gruppo; noi docenti eravamo tutti in agitazione, per fortuna a un certo punto, furono avvistate sedute in un bar. L’insegnante di lettere si è avvicinata a loro e con molta dolcezza ha detto: «Sono molto felice di rivedervi. State bene? Cosa è accaduto? Vi eravate perse?». Questa accoglienza così calda mi ha riscaldato il cuore e mi ha riportato a una mia bravata di gioventù quando in una gita a Roma, al primo anno di scuola superiore, io e alcune mie compagne ci siamo allontanate: eravamo andate al caffè Greco in Via Condotti e poi con il taxi eravamo tornate all’appuntamento pomeridiano a Piazza Maggiore, dove ci aspettava il pullman per ritornare a casa. Appena ci hanno visto i nostri insegnanti ci hanno sgridato, dicendoci che eravamo delle incoscienti, che non ci si allontana senza permesso e che il giorno dopo saremmo dovute andare a scuola accompagnate dai genitori e ci avrebbero messo una nota disciplinare. L’esperienza a Siena è stata rivelatrice di una possibilità: la via dell’amore e non quella della punizione per aiutare gli adolescenti a comprendere il valore del rispetto. Sempre nello stesso anno, fui chiamata per una seconda supplenza, questa volta al Liceo artistico, nella sede distaccata del quartiere Olimpico. Mi era stata affidata una ragazza autistica: Valeria, si dondolava sulla sedia, non usava il linguaggio per comunicare ma emetteva dei suoni, aveva un miniregistratore e le cuffiette con le quali ascoltava la musica. Non voleva essere toccata, amava colorare (ricordo che colorammo dei disegni con delle palline di carta velina) e ogni tanto iniziava a correre per la scuola. Una mattina, mentre eravamo in aula di disegno, qualcuno ha fatto cadere un cavalletto e lei è uscita dall’aula, si è messa a correre ed è uscita dalla scuola. Non riuscivo a starle dietro, mentre suonava i campanelli di tutte le abitazioni lì vicino. Questo mi ha riportato ai miei giochi d’infanzia, quando con i miei amichetti, nelle serate d’estate, giravamo per le vie del mio paese e a turno dovevamo suonare un campanello e scappare, mentre gli altri erano già nascosti. Era un gran divertimento vedere le persone che si affacciavano e si arrabbiavano. Valeria mi aveva riportato a quei giochi, solo che quella mattina dovevo fare in modo di calmarla, riportarla a scuola e nel frattempo scusarmi con tutte le persone che venivano disturbate. In quell’occasione sono riuscita a trovare un contatto con Valeria dicendole: «Che bello suonare i campanelli, suoniamoli insieme!». I suoi occhi hanno ripreso luce e, invitandola a spostarci verso altre palazzine, l’ho riportata a scuola. Non è stata un’impresa facile, ma questo episodio è stato molto importante e mi ha fatto riflettere su due aspetti: dalla scuola i ragazzi vogliono spesso fuggire perché, come dice Gianni Rodari, «a scuola si ride troppo poco», e io direi che si gioca anche troppo poco. Avevo capito che, per essere una buona insegnante di sostegno, mi dovevo tenere allenata, ma soprattutto avrei dovuto imparare a leggere quello che accadeva, momento per momento. Dovevo trovare la strada per apprendere insieme ai miei studenti, entrare in mondi affascinanti e altri, ma anche non perdere di vista ciò che io sentivo. Questo concetto ha trovato una espressione chiara quando nel 1999 ho partecipato alle giornate di studio su Gregory Bateson, Pensare e agire per storie, a Napoli. Lì ho avuto la fortuna di incontrare la figlia di Gregory, Mary Catherine Bateson, che nella quarta sessione, dal titolo A che cosa serve una metafora, ha enunciato il seguente principio etico: «Io guardo me, cerco di capire chi sono e di che cosa ho bisogno io per vivere, io guardo te e cerco di capire chi sei tu e di che cosa hai bisogno tu per vivere». Questo principio ha guidato i passi della mia vita professionale e personale. Già da tempo avevo preso atto che la scuola superiore per me da studentessa era stata una grande fatica, non mi ero sentita vista, avevo vissuto quella terribile sensazione di essere per i miei docenti un contenitore vuoto da riempire. Partecipando alle lezioni in classe spesso vedevo ripetersi lo stesso schema: lezioni frontali, alunni che non capivano una spiegazione e chiedevano chiarimenti, docenti che rispiegavano l’argomento esattamente nello stesso modo. Ancora oggi a volte faccio fatica a comprendere alcune spiegazioni, un esperto di una disciplina dà per scontati molti prerequisiti e concetti che gli alunni non possiedono, la loro zona di sviluppo prossimale è assai lontana dalle competenze richieste. L’attività combinata tra il docente curriculare e il docente di sostegno può dare avvio a dei passaggi importanti: si tratta di avvicinarsi a piccoli passi, attraverso la mediazione di immagini, di oggetti, di esperienze, l’utilizzo di mappe concettuali, che aiutano l’alunno ad avvicinarsi alla meta richiesta e rendono i contenuti complessi accessibili a molti più studenti. Mi convinsi allora che la presenza degli studenti disabili poteva essere l’occasione per gli insegnanti di interrogarsi su come costruire una scuola più umana, più vicina ai bisogni di chi insegna e di chi apprende e poteva essere l’occasione, come diceva Don Milani, anche di «preoccuparsi di come bisogna essere per poter fare scuola».

Tre esperienze per parlare di scuola

Proverò ora a raccontare alcune delle mie esperienze scolastiche, a partire da quella svolta in una cittadina nella provincia di Ancona.

Un Angelo dal Pakistan: Adi

Il mio secondo anno all’IIS, settore professionale nella provincia di Ancona, è iniziato per continuità su una classe seconda (settore meccanico) e con un’assegnazione per i primi giorni di scuola nella classe prima, sempre del settore meccanico. Mi sentivo molto arrabbiata per la scarsa cura nell’assegnazione delle cattedre: negli incontri del dipartimento di sostegno si era discusso sull’importanza di istituire un GLI (Gruppo di lavoro per l’inclusione) per definire i processi di inclusione ma, a ridosso dell’ingresso degli alunni in classe, abbiamo avuto il nostro orario con delle classi definite dal docente con l’incarico di funzione strumentale e dal dirigente.

Le classi professionali del settore meccanico sono le più agitate, si tratta di classi maschili, con molti alunni ripetenti e scarsamente motivati allo studio. Durante le lezioni tendono a parlare, ad alzarsi, molti hanno una carriera scolastica corredata di insuccessi, una scarsa stima nelle proprie capacità, storie familiari complesse, insomma ragazzi che hanno bisogno di CURA.

Nella prima di meccanica sono stati inseriti due alunni in situazione di disabilità: un ragazzo con difficoltà di apprendimento assegnato ad altre due colleghe e Adi, un ragazzo proveniente dal Pakistan, assegnato a me e a un’altra collega. Entrata in classe ho trovato un mondo molto variegato: 9 alunni stranieri provenienti da continenti diversi (Asia e Africa), almeno tre arrivati da pochissimo in Italia senza conoscere neanche una parola d’italiano, alcuni alunni ripetenti, due minori non accompagnati che vivono in una comunità: un mondo a colori.

Adi però non era presente in classe, è mancato per la prima settimana perché non era stato istituito il servizio di trasporto. È stato allora convocato il genitore che è venuto a scuola con il ragazzo; lo teneva per mano, era difficile comunicare con loro, neanche il papà parlava molto bene l’italiano, ma con pazienza ci siamo confrontati, ci ha consegnato la documentazione e gli abbiamo fornito le indicazioni per attivare il servizio trasporti. Nel frattempo, anche il docente con l’incarico di funzione strumentale aveva inviato una serie di mail. Abbiamo concordato sul fatto che, in attesa del trasporto, Adi sarebbe venuto a scuola accompagnato dal papà o dal fratello che frequenta un altro istituto che si trova molto vicino. Abbiamo concordato un orario ridotto e la scuola ha avuto inizio anche per lui.

L’alunno ha 15 anni, è arrivato lo scorso anno in Italia, non parla ancora la lingua italiana, ha frequentato per alcuni mesi la scuola secondaria di primo grado, senza essere supportato da nessuna figura specifica perché non aveva nessuna diagnosi e non ha potuto usufruire della didattica a distanza per mancanza di mezzi tecnologici. Dai colloqui avuti con la docente referente della scuola ho saputo che la classe lo ha accolto con molto affetto e i compagni di classe gli hanno regalato un paio di occhiali (peccato che nel frattempo si siano rotti!). Adi è un ragazzo molto disponibile, ha un aspetto piacevole, è abbastanza alto con grandi occhi marroni e un fisico asciutto. Il suo sguardo è molto dolce, è sereno, pronto a rispondere positivamente a tutte le proposte didattiche. L’alunno, già dallo scorso anno, è seguito da un’educatrice domiciliare che lo ha molto supportato nell’acquisizione della lingua italiana e che continua a seguirlo per tre pomeriggi a settimana per un totale di 8 ore. Svolgono le attività all’esterno della casa, presso la biblioteca. A causa della chiusura dei luoghi pubblici per la pandemia, si è valutata la possibilità di richiedere uno spazio alla scuola. Adi si è sentito accolto in questa classe multietnica e ha trovato dei compagni con cui parlare la sua lingua madre. La sua docilità lo rende un ragazzo da proteggere anche da parte degli alunni più turbolenti.

La sua famiglia è composta da 7 persone, ha una sorella minore affetta dalla stessa sindrome ma in condizioni di maggiore gravità e con un ritardo cognitivo grave. La famiglia ha difficoltà di tipo economico, l’unica fonte di reddito deriva dal lavoro del padre. Ha due fratelli maggiori che frequentano l’istituto alberghiero e una sorella minore che frequenta la scuola elementare. La sorella che si trova in condizioni di maggiore gravità viene tenuta a casa dalla madre.

La diagnosi indica Sindrome di Joubert associata a difetto oculare prevalente e disabilità intellettiva (codici ICD 10: Q04.3). Rispetto al problema visivo, non viene esplicitata la tipologia di danno e quali siano le effettive difficoltà dell’alunno, dal colloquio avuto con il padre è emerso che la capacità visiva dell’alunno peggiora notevolmente in condizioni di scarsa luce. La sua vista migliorerebbe con l’utilizzo degli occhiali ma in questo momento ne è sprovvisto, perché si sono rotti e la famiglia non ha le disponibilità per riacquistarli. È stata informata l’assistente sociale per verificare quali opportunità potessero esserci, ma durante il GLO (Gruppo di Lavoro Operativo) ci ha informati che non è possibile da parte dell’istituzione fornire la visita oculistica, né gli occhiali e nemmeno la logopedia. Adi aveva il permesso di soggiorno scaduto e senza di esso non era possibile effettuare le visite e avere i certificati. Per fortuna, tramite una collega, abbiamo trovato una strada: richiedere la visita e gli occhiali al centro Caritas.

È stata effettuata una valutazione delle sue capacità e performance su base ICF, utilizzando il questionario e la piattaforma dell’Università di Verona (Lascioli e Pasqualotto, 2018), con cui ho effettuato un corso di formazione per la costruzione del PEI su base ICF. Dalla piattaforma è possibile ricavare un grafico (figura 1) che inserisco.

Nel grafico, il colore rosso indica le aree di minor funzionamento come le abilità di lettura, scrittura e comunicazione. Questo dipende dal fatto che, pur essendo l’alunno in Italia dallo scorso anno, non conosce ancora la lingua italiana. Altre aree rosse riguardano l’autonomia e la vita domestica, ma, avendo visto il papà che lo accompagnava a scuola tenendolo per mano, è facile intuire che a Adi non vengono lasciati molti spazi di sperimentazione a casa. Infatti, il papà sostiene che Adi abbia bisogno di essere guidato anche nelle attività di igiene personale. In questo senso, è interessante notare come a scuola, l’alunno dopo solo alcuni giorni, abbia acquisito l’abilità di spostarsi autonomamente, andare al bagno, uscire nel cortile con i compagni durante la ricreazione, iniziare a utilizzare la macchinetta per prendere la merenda.

Figura 1

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Profilo di funzionamento (area Attività e Partecipazione) di Adi.

È molto poco sviluppata la capacità di interazione/relazione, ma ciò è determinato dalla scarsa conoscenza della lingua italiana, soprattutto dalla sua difficoltà nella produzione e nella pronuncia delle parole.

Adi si rivela uno studente molto curioso, sin dai primi giorni di scuola ha manifestato il desiderio di conoscere i nomi dei diversi oggetti, partecipa alle spiegazioni delle diverse discipline supportato da immagini e parole chiave.

L’insegnante di lettere si è dimostrata molto sensibile alle problematiche degli alunni stranieri e si è adoperata affinché tutti i ragazzi avessero dei testi di italiano L2 e addirittura un testo di letture facilitato. Purtroppo, la scuola non si è attivata sin dall’inizio dell’anno con corsi di L2, ma alcuni docenti del consiglio di classe, a partire da dicembre, hanno istituito tre corsi in base ai livelli dei ragazzi, utilizzando le ore che avevano a disposizione.

Adi fa molta fatica a pronunciare le parole, ma lui comprende molto di più di quello che riesce a produrre: se pronuncio i nomi degli oggetti lui li indica, se chiedo di prendere dei materiali lui lo fa con rapidità, se lavoriamo su una storia, usando soprattutto le immagini lui è in grado di ricostruire il filo. Adi riesce a ricordare e pronunciare diverse parole, fa fatica a pronunciare frasi intere (soggetto, verbo, complemento), bisogna scriverle sillabando per poi leggerle, ma il vocabolario si sta incrementando significativamente. Nell’area logico/matematica abbiamo lavorato con le operazioni ma anche con il denaro, per vedere come Adi si muove: conosce il valore delle monete da 10 centesimi a 1 euro, è in grado di comperare una merendina alla macchinetta, di scegliere quella adeguata per i soldi che ha, di prendere il resto, ma fa fatica ad aprire il cassetto, ha poca forza nelle mani.

Alla luce di questa analisi, abbiamo costruito un PEI su base ICF su due macro aree trasversali che riguardano: 1) la comunicazione e le abilità di lettura e scrittura (strumentali e funzionali) della lingua italiana; 2) l’area delle autonomie che si è sviluppata attraverso la conoscenza del territorio, lo sviluppo delle abilità di autonomia relativamente alla conoscenza del denaro, al saper effettuare piccoli acquisti e svolgere piccole mansioni nella vita domestica. È importante che le abilità vengano esercitate sia a scuola che a casa lavorando sugli stessi obiettivi. Per quanto riguarda la programmazione didattica, questa si è sviluppata su tre macro-aree: area umanistica, area scientifica e area tecnico-pratica. Si è trattato di un PEI (Piano Educativo Individualizzato) differenziato per portare l’alunno ad acquisire un certificato di competenze. Ma si sono cercati dei punti di contatto per tutte le discipline in modo tale che Adi potesse partecipare alle attività di classe e che ogni attività disciplinare fosse occasione per incrementare il suo vocabolario e le sue capacità espressive.

Problemi nel tempo della pandemia

La pandemia, soprattutto nei mesi di lockdown, ha prodotto alcune difficoltà. Per fortuna tutti i DPCM hanno previsto l’opportunità per gli alunni BES di seguire in presenza. Grazie alla disponibilità di alcuni colleghi curriculari e di sostegno, della coordinatrice di classe, la classe prima di meccanica da me seguita ha sempre avuto in presenza un gruppo di 5/7 studenti: 3 ragazzi provenienti dal Senegal, un ragazzo dal Bangladesh, un ragazzo italiano, un ragazzo egiziano e Adi. Uno dei ragazzi proveniente dal Senegal ha un forte desiderio di diventare meccanico, gli piace studiare, fa sempre molte domande, conosce abbastanza l’italiano e aiuta i suoi due nuovi compagni appena arrivati, una vera risorsa.

Ci sono state alcune ore, in cui i ragazzi hanno dovuto collegarsi per la lezione perché il docente era a casa; quindi, abbiamo insegnato loro a utilizzare il computer, ad accendere la LIM, così tutti gli alunni hanno iniziato a prendere dimestichezza con lo strumento informatico, con la capacità di sapersi collegare, di utilizzare il materiale presente nella classroom online, anche Adi.

Sembra quasi una contraddizione avere gli alunni a scuola e i docenti a casa, ma il rispetto delle disposizioni per alcuni insegnanti non ammette eccezioni. Io, la mia collega di sostegno e la coordinatrice di classe ci siamo impegnate affinché venisse garantito il diritto allo studio di questi ragazzi che non hanno strumenti e mezzi per poter accedere da casa alla DAD e che hanno bisogno di un lavoro in presenza.

In sede di GLO, si è presentato un altro problema: il docente di esercitazioni meccaniche della classe ha richiesto un certificato medico di idoneità, per ragioni di sicurezza, per permettere a Adi di accedere al laboratorio. Nel primo mese di scuola eravamo andati per qualche ora in laboratorio, il lavoro riguardava l’acquisizione linguistica (foto e nome delle macchine utensili, di alcuni attrezzi). Infatti, la disabilità di Adi (problemi di vista e malformazioni alle mani) non permette al ragazzo l’utilizzo del tornio; tuttavia, si era valutata la possibilità di effettuare esperienze di misurazione utilizzando strumenti di misura diversi, alcuni anche digitali (calibro digitale) e collegando le esperienze con le discipline di fisica e chimica. Con la pandemia e il lockdown, l’accesso al laboratorio è stato negato. Quindi, il lunedì, l’unico giorno in cui tutti i ragazzi della classe sarebbero stati a scuola per partecipare alle attività di laboratorio, Adi sarebbe dovuto rimanere in aula da solo. A questa situazione problematica abbiamo cercato risposte:

  • richiedere il certificato all’ASUR Marche, tramite l’assistente sociale;
  • l’attivazione di un percorso a classi aperte, con la classe seconda di meccanica, dove seguivo un altro alunno con disabilità e frequentavano il lunedì in presenza 2/3 ragazzi, tra cui un allievo arrivato da poco dall’Argentina. Abbiamo proposto all’alunno con disabilità di fare da tutor a Adi, soprattutto nell’ora in cui avrebbe svolto l’attività di laboratorio il martedì, e ha accettato.

Questo è stato possibile perché siamo state flessibili e siamo riuscite a costruire reti di accoglienza e di supporto utilizzando le risorse degli allievi, oltre a quelle dei docenti, con la voglia di tentare strade nuove per ricercare opportunità di inclusione.

Il progetto di vita di Adi

Centrale nella costruzione del progetto di vita di Adi è stata l’attività didattica nell’aria linguistica che coinvolge tutte le discipline. Il lavoro si è articolato tenendo presenti alcuni principi inerenti alla linguistica (Svolacchia, 2002), secondo i quali il processo di alfabetizzazione avviene percorrendo le seguenti tappe.

  1. Ascoltare (discriminazione fonologica): riconoscimento del fonema all’interno delle parole (fase di familiarizzazione e rafforzamento della consapevolezza fonologica).
  2. Parlare (produzione orale): produrre parole, partendo prima da alcuni disegni e poi autonomamente, in modo che possa pronunciare il suono e prendere confidenza con esso.
  3. Leggere (comprensione scritta): discriminazione dei grafemi, far collegare la rappresentazione grafica al fonema (viene richiesto di sottolineare il grafema corrispondente al fonema oggetto di studio e leggere, quindi, la parola completa).
  4. Scrivere (produzione scritta): ricercare le parole che contengono il suono e scriverle (si tratta di lavorare contemporaneamente sul fonema e sulla sua rappresentazione grafica).

Non è sufficiente che Adi sappia «decodificare» i significanti grafici (le lettere) in significanti acustici (i suoni), è importante che sappia passare dai significanti ai significati, in altre parole che sia in grado di capire quello che sta leggendo. Si è scelto di lavorare su testi semplificativi di due tipologie: narrativa e descrittiva, in particolare si è inteso sviluppare la capacità di osservazione e descrizione, fornendo delle schede che potessero aiutarlo ad acquisire la terminologia per descrivere ad esempio una persona, un ambiente, un esperimento nel laboratorio di chimica o fisica.

Adi è diventato una risorsa per tanti altri compagni di classe, le mappe costruite sulle parole-immagini vengono utilizzate anche per gli altri ragazzi che non conoscono l’italiano e si possono costituire piccoli gruppi di approfondimento.

Di seguito riportiamo alcuni esempi di schede elaborate a titolo esemplificativo. Ad esempio, in figura 2 troviamo immagini e parole per la descrizione del viso e in figura 3 per la descrizione della persona fisica (in linea con l’unità didattica interdisciplinare di italiano e storia, dal titolo Presentare se stessi e gli altri). Oltre alla scheda, di solito si fornisce un testo, si analizza, e poi si risponde alle domande. Si continua con la scrittura di una didascalia supportata da immagini, per passare alla stesura di un testo guidato.

Per costruire un progetto, che sin dal primo anno di scuola possa andare verso la direzione di un progetto di vita, è necessario che tutte le componenti interagiscano per trovare insieme il percorso più adatto al ragazzo. In questo caso abbiamo valutato se il settore meccanico fosse il più adatto per Adi o se invece potessero essere prese in considerazione altre possibilità ed eventualmente riorientarlo.

In un primo momento è stato fondamentale lavorare sull’acquisizione della lingua e sul miglioramento della sua produzione orale per poi effettuare una valutazione delle sue abilità spendibili in un possibile contesto lavorativo.

Entrare nella logica «pensami adulto/a» (Cuomo, 1995) significa costruire percorsi che garantiscono a ciascun ragazzo di:

  • conoscere le proprie potenzialità;
  • sviluppare abilità funzionali indispensabili per qualsiasi contesto lavorativo (cognitive: attenzione, concentrazione, memoria; affettivo-relazionali: comunicare, stabilire e mantenere rapporti; autonomia personale e sociale);
  • conoscere il mondo del lavoro (orientamento al lavoro, interviste ai lavoratori, visita ai luoghi di lavoro, alternanza scuola-lavoro);
  • sviluppare capacità decisionali (per diventare soggetti attivi e artefici del proprio percorso).

Per accompagnare un giovane in situazione di disabilità verso il mondo adulto, occorre molto tempo, per cui è necessario non perdere nessuna occasione di crescita e soprattutto definire l’obiettivo realisticamente perseguibile e attivare tutte le tappe di un percorso che sia graduale e coerente. Montuschi (1992) dice: «L’orientamento in termini “formativi” esige che venga superata l’idea statica di orientamento come “selezione” o come semplice utilizzazione di “elementi presenti”, osservabili nella personalità dei soggetti, per introdurre l’idea di orientamento come “processo educativo” opportunamente guidato e finalizzato. Un vero orientamento, in senso personale e professionale, non può avere come punto di riferimento solo ciò che appare, le qualità emergenti, le abilità in atto: deve andare alla ricerca del potenziale implicito, della dotazione ancora non manifesta e tuttavia prevedibile». Quindi questo primo anno è stato utile per ricercare tutte le potenzialità di Adi in modo da costruire con lui una prospettiva di senso. La funzione orientativa è rientrata nel solco della funzione di istruzione e formazione. Ciò implica un cambiamento di concezione da orientamento sincronico-finale (informativo-diagnostico) a orientamento diacronico-formativo. Domenici (1998) indica i seguenti interventi come necessari per sviluppare la capacità di sapersi orientare.

  • Personalizzazione e individualizzazione dei processi formativi per garantire a ogni allievo l’accostamento reale a tutti gli ambiti disciplinari (è quello che abbiamo fatto costruendo mappe, con la combinazione di parole e immagini, per avvicinare tutti gli alunni della classe ai diversi contenuti disciplinari affrontati).
  • Registrazione periodica degli andamenti degli apprendimenti, degli interessi, delle attitudini dell’allievo (sfera cognitiva e affettiva): le nuove parole acquisite e le attività più interessanti della settimana sono state trascritte giornalmente su un apposito quaderno. Per Adi abbiamo costituito un gruppo su WhatsApp in modo tale da avere un canale immediato di confronto tra tutti gli operatori che lavorano con lui (docenti di sostegno, educatori) e la famiglia, inviare materiale necessario per le attività, comunicazioni e abbiamo fissato degli incontri trimestrali di verifica su Meet.
  • Conoscenza del mondo in cui viviamo: è stato attivato il progetto Alla scoperta della città e sono state organizzate uscite quindicinali con percorsi definiti. Abbiamo studiato i nomi di alcune vie, preparato il percorso sulla mappa, preparato l’intervista a un abitante della città (un commerciante che ha un negozio storico; un maestro elementare in pensione che racconta degli aneddoti della città, ecc.) e rielaborato quanto accaduto con una presentazione in Power Point corredata di immagini e didascalie.
  • Sviluppo in ciascuno allievo di un proprio e autonomo progetto di vita (consapevolezza dei propri interessi, delle proprie attitudini): studiando diritto abbiamo incontrato i termini «capacità» e «incapacità», abbiamo costruito una scheda con Adi sulle sue abilità, sulle sue difficoltà, sulle sue potenzialità, ecc. È solo l’inizio di un lungo percorso che vedrà l’alunno sperimentarsi in più situazioni per aiutarlo a scegliere. In Storia, ad esempio, abbiamo costruito delle schede sul passato, presente e futuro della propria storia personale e Adi ha detto che in futuro si vede come un giardiniere.

Figura 2

Parole e immagini per la descrizione del volto umano.

Figura 3

Parole e immagini per descrivere una persona.

  • Conoscenza diretta del mondo del lavoro. Nel progetto alla scoperta della città i ragazzi hanno intervistato persone appartenenti a categorie professionali diverse (artigiani, commercianti con locali storici, ecc.). Nella formulazione delle domande dell’intervista abbiamo preso in considerazione con i ragazzi l’opportunità di chiedere quali sono gli strumenti che utilizzano, quali conoscenze devono avere, quali difficoltà incontrano, quali abilità bisogna avere per svolgere quel lavoro.
  • Riflessione sui processi di strutturazione delle decisioni. Sono state elaborate delle istruzioni per le diverse attività da svolgere, in cui si chiede: Cosa fai per prima cosa? Di cosa hai bisogno per…? Come devi eseguire il lavoro? Qual è la sequenza della operazione? Come verifichi se la procedura è corretta? Sviluppare un’abilità decisionale implica abituare gli alunni a scegliere non solo tra due alternative, ma anche offrirgli più occasioni di scelta. Eberhard (1988) afferma che gli elementi che rendono difficile la scelta per una persona in situazione di disabilità sono:
    • la scarsa capacità di una persona di rappresentare se stessi in una specifica attività lavorativa;
    • la mancanza delle conoscenze necessarie per confrontare attività lavorative diverse;
    • la tendenza a idealizzare le attività lavorative;
    • la sopravvalutazione o sottovalutazione delle proprie possibilità e capacità;
    • l’incapacità di gestire le manifestazioni dell’imprevedibile.

In sintesi, per insegnare agli studenti come orientarsi vanno elaborati curricoli con la finalità di far acquisire agli alunni:

  • conoscenza di sé;
  • abilità funzionali;
  • conoscenza della realtà esterna;
  • abilità decisionali;
  • senso e gusto del percorso;
  • il piacere in ciò che si sta cercando, studiando, facendo, proiettandosi verso una prospettiva di senso per il proprio futuro superando questa fase della nostra epoca caratterizzata da passioni tristi.

Carlo Lepri (Montobbio e Lepri, 2000) dice: «Le riflessioni sul diventare grandi dei disabili mentali, sul loro viaggio verso un’adultità possibile, comportano l’essere consapevoli che non esiste una condizione di osservatori esterni imparziali e immacolati che possono limitarsi a registrare il successo o l’insuccesso del viaggiatore. La significatività del viaggio verso l’adultità e i suoi ruoli sociali è legata anche alla capacità dell’osservatore di trasformarsi in compagno di viaggio che orienta senza sostituirsi».

Questo è per me il compito più complesso da svolgere, noi tendiamo a volte a sostituirci ai nostri allievi a scegliere per loro invece di aiutarli a diventare adulti consapevoli. Tendiamo a desiderare che svolgano bene i compiti assegnati come se fosse una dimostrazione della nostra buona capacità di insegnanti. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di diventare sempre più invisibili e lasciare spazio a loro, lasciargli i loro tempi anche quello di sbagliare e potersi correggere.

Emerge quindi che un progetto di vita non è l’orientamento verso il mondo del lavoro o dell’università effettuato nell’ultimo anno di scuola secondaria di secondo grado, ma un processo che si costruisce con gradualità e in una logica di co-coevoluzione, di ricerca e di aggiustamenti continui. È utilizzare la didattica nella sua dimensione orientativa a partire dalla scuola primaria.

I contenuti-guida e scelte strategiche nella costruzione del progetto di vita dovrebbero essere:

  • superamento della concezione assistenzialista;
  • sostegno all’allievo in funzione dell’assunzione di un ruolo sociale attivo e produttivo;
  • orientamento continuo attraverso esperienze in molteplici contesti;
  • valutazione e autovalutazione come strumenti didattici per la ridefinizione in itinere del progetto di vita.

L’integrazione ha bisogno di una potenza propositiva (Canevaro, 1996, p. 42), è una struttura aperta. Noi lavoriamo all’interno di una classe, nessun alunno potrà mai integrarsi in una realtà non integrata, lo sguardo del docente di sostegno si deve allargare e accogliere le diversità e le fragilità della classe.

L’integrazione o, come la chiamiamo oggi, l’inclusione non può basarsi solo sul rispetto delle disposizioni legislative (a volte non rispettate, ma neanche conosciute), ma deve essere ritradotta, caso per caso, in elementi vivi, giacché integrazione significa riconoscimento dell’originalità (Canevaro, 1996). Esige una capacità di adattarsi alle esigenze di ciascun soggetto, nella condizione in cui si trova, con i compagni con cui si trova. La classe di Adi è una realtà multietnica e nonostante la normativa preveda il concetto di educazione interculturale la scuola in cui lavoro fa ancora molta fatica ad ampliare la propria offerta formativa in questa direzione. Si costruiscono per questi ragazzi dei Piani didattici personalizzati, ma sono spesso una riempitura di caselle a scelta multipla, manca la costruzione di un progetto d’insieme.

Rar e l’educazione interculturale

A questo proposito cito il caso di Rar, un minore non accompagnato arrivato dal Pakistan. Rar ha timore di dimostrare le proprie difficoltà di comprensione, dice che ha capito tutto e invece la sua conoscenza della lingua è molto limitata, ma soprattutto il suo bagaglio conoscitivo è molto differente. Mi è capitato durante questi mesi di rassicurarlo e di dirgli che io mi sentirei persa se dovessi assistere a delle lezioni nella lingua urdu, in cui lui è molto bravo. Rar è cresciuto in una madrasa femminile, con la madre che lo ha protetto dal padre che lo avrebbe voluto un guerriero, ha studiato il corano. Per garantirgli un futuro migliore, la mamma gli ha pagato il viaggio per arrivare in Europa, il ragazzo ha viaggiato per circa un mese su dei camion in condizioni disumane. Ora vive in una comunità, ha una tutrice molto attenta ai suoi bisogni e, attraverso degli incontri formali e informali, siamo arrivati a costruire un Piano Didattico Personalizzato, corredato di un patto formativo stipulato con il ragazzo stesso. Abbiamo fatto un incontro insieme al ragazzo, alla coordinatrice di classe, alla tutrice, ai docenti di sostegno della classe, al responsabile della comunità per costruire insieme un percorso di senso e definire il patto. Parliamo molto di autodeterminazione per i nostri allievi, ma se non li coinvolgiamo nella costruzione dei loro percorsi come possono darsi una prospettiva di senso?

Rar ha manifestato nell’incontro il suo timore per il docente di laboratorio che un giorno lo aveva sgridato perché non era preparato nel leggere il calibro, non aveva fatto il piano di lavorazione. In quell’occasione, sono intervenuta perché ero presente e ho provato a spiegare al collega che le difficoltà di Rar erano dovute alla scarsa conoscenza della lingua, alla completa ignoranza di alcuni concetti mai affrontati nel suo percorso di studi, anche alle difficoltà relazionali con le figure maschili. A lui basta poco per sentirsi aggredito e rischia poi di perdere il controllo. Ci si chiede in questi casi se sia giusto mandare in classe questi alunni senza prima alfabetizzarli, costruire dei prerequisiti. Ma la questione è che la scuola, non ha ancora acquisito la capacità di individualizzare i percorsi, di usare la cooperazione, di utilizzare la normativa vigente che prevede ad esempio la possibilità per gli alunni neo arrivati di sospendere il giudizio per almeno due anni, magari lavorare solo su alcune discipline, e portarli gradatamente alla costruzione di competenze.

Rar fa fatica a gestire i conflitti, da quel primo contrasto con il docente, lui avrebbe lasciato la scuola se non avesse avuto una tutrice attenta, degli operatori di comunità disponibili al confronto con la scuola, docenti del consiglio di classe interessati ai processi di accoglienza e integrazione. La cultura da cui si proviene, la propria storia personale, portano a leggere la realtà con modalità differenti e se il docente rimane ancorato alla sola trasmissione dei contenuti della propria disciplina, ai programmi e non si apre alla costruzione di sfondi integrativi in cui l’apprendimento e la comunicazione diventino oggetto di studio e confronto tra gli allievi non si potrà mai assumere la diversità come paradigma costitutivo dell’identità della scuola che si apre al pluralismo di sesso, identità, cultura, provenienza. La circolare ministeriale n. 205 del 1990 (Rizzi, 1996) afferma che l’educazione interculturale avvalora il significato di democrazia, considerato che la «diversità culturale» va pensata quale risorsa positiva per i complessi processi di crescita della società e delle persone.

Ma oggi assistiamo troppo spesso nelle scuole a una gestione centralizzata dei poteri, a una difficoltà nel costruire quelle che Paola Scalari2 chiama «progettualità gruppali». Progettare con gli altri valorizzando l’eterogeneità del pensiero che produce idee inedite è la cifra del nuovo mondo. Questo operare insieme tra istituzioni differenti, tra enti diversi, tra persone appartenenti a plurime professioni richiede la costituzione di gruppi di persone che si mettono a confronto. Ognuna poi deve garantire tempo per parlarsi, disponibilità a interrogare le proprie posizioni, umiltà nell’ascolto di chi è altro da sé, rinuncia alla propria verità assoluta.

Il giorno in cui abbiamo elaborato il PDP e il patto per Rar, ci siamo incontrati alle 12:50 e la riunione è terminata alle 15:15. Nessuno aveva fretta di andare a casa, la centralità di quell’incontro era costruire insieme una prospettiva di senso, abbiamo corretto il piano più volte, ragionato insieme e consegnato un patto da firmare, dando tempo all’alunno per pensarci ed eventuale disponibilità a modificarlo ulteriormente se fosse stato necessario. La strada è ancora in salita, c’è ancora molto lavoro da fare, soprattutto c’è bisogno di formare gli insegnanti a costruire percorsi interculturali. Quasi sempre l’etnocentrismo evidenzia la tendenza a giudicare le altre culture prendendo la propria come punto di riferimento ideale e come punto di riferimento di analisi. L’etnocentrismo è pericoloso perché è una forma di vera e propria collusione con la xenofobia e con il razzismo, siamo tutti a rischio, dovremmo imparare ad avere una visione etnoplurima, cioè tenere insieme più punti vista e attraverso un’azione pedagogica (Demetrio, 1996, pp. 40-42) intenzionale rompere con l’autoreferenzialità formativa.

In alcune ore di lezione asincrona, facciamo con i ragazzi attività di ricerca su Google dei luoghi di provenienza e attraverso un percorso sensoriale ognuno va a recuperare dalla propria memoria o dalle immagini che man mano si presentano sulla lavagna interattiva i ricordi e le caratteristiche della propria terra di origine (piatti tipici, musica, suoni, luoghi). Allora emerge quanto ad alcuni ragazzi manchi la mamma che è lontana, ad altri un piatto. Lo sforzo è descrivere in italiano, con una lingua che è mediatrice, ciò che si è scelto a partire dalla propria terra di origine.

L’obiettivo dell’educazione interculturale «si delinea come promozione delle capacità di convivenza costruttiva in un tessuto culturale e sociale multiforme. Essa comporta non solo l’accettazione e il rispetto del diverso, ma anche il riconoscimento della sua identità culturale, nella quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione e di collaborazione, in una prospettiva di reciproco arricchimento» (Casilio, 1990, p. 71).È dunque il superamento di una situazione statica a favore di un processo basato sull’incontro-confronto, sul dialogo tra i valori proposti da persone diverse, prima ancora che da diverse culture. Nell’educazione interculturale importante è la consapevolezza che possono sorgere conflitti, che non devono essere negati, ma gestiti e imparare a guardarli come opportunità di crescita, come elementi costruttivi delle relazioni umane (Rosetti, 2005).

L’esperienza della classe prima di meccanica che seguo è stata molto significativa. I ragazzi in aula in tempo di pandemia mi hanno ricordato i ragazzi del film documentario del 2013 Vado a scuola, diretto da Pascal Plisson. Il film documenta le sfide che devono vivere ogni giorno quattro bambini e bambine di parti del mondo diverse (Zahira in Marocco, Jackson in Kenya, Carlito in Argentina e Samuel in India) per raggiungere le loro scuole manifestando un forte desiderio di conoscenza e la speranza di un futuro migliore.

Negli istituti professionali, molti dei ragazzi, sono a scuola con atteggiamenti svogliati, una scarsa motivazione e gli insegnanti sperimentano un sentimento di incompetenza, di frustrazione e impotenza perché non riescono a trovare una strada per insegnare a questi ragazzi che di scuola «non ne vogliono sapere».

La scuola di tutti sta rischiando di diventare la scuola di nessuno se non si prende atto del valore e dell’importanza di rispondere ai bisogni educativi di ogni alunno. Alla garanzia per tutti dell’accesso all’istruzione non ha corrisposto l’uguaglianza delle opportunità formative e, contrariamente alle aspettative, si è osservato che le diversità degli studenti si mantenevano quasi inalterate in uscita. Per tali ragioni, gli studi effettuati nell’ambito delle scienze dell’educazione hanno avuto come finalità principale quella di dare risposte sempre più adeguate ai bisogni formativi emergenti nella scuola di massa. Si tratta di prendere in carico il problema delle differenze, da quelle socioeconomiche a quelle legate alla disabilità, fino a quelle individuali che riguardano gli stili di apprendimento. La scuola deve quindi spostare la propria attenzione dai contenuti disciplinari (presentati nello stesso modo, in classi ritenute omogenee) alla programmazione di attività finalizzate ad avvicinare i contenuti delle discipline alle singole esistenze degli alunni, per conferire ai processi di apprendimento un significato comunitario e legittimare le difficoltà di ciascuno in una prospettiva di aiuto reciproco e di corresponsabilità (Mazzeo, 1999).

La pedagogia e la didattica delle differenze potrebbe rappresentare lo sfondo integratore di tutta l’attività didattica. Il problema dell’integrazione, quindi, sorge prima dell’ingresso degli alunni diversamente abili, quest’ultimi rendono solo più evidente la questione della diversità e richiedono un’attenzione maggiore alla già esistente eterogeneità della classe. Infatti, in una realtà non integrata diventa estremamente difficile integrare chi è portatore di bisogni «speciali».

Proprio rispetto a questi studenti per i quali l’impresa si fa più ardua, per i docenti il rischio è quello di semplificare e banalizzare gli apprendimenti, di abbassare i livelli invece di aiutarli a «educare lo sguardo, far sì che i ragazzi imparino a desiderare un mondo nuovo» (Bagni e Conserva, 2005). Insegnare e imparare presuppongono l’azione attiva di tutti i soggetti implicati nella relazione.

Ivan Illich (2019), nel suo testo Descolarizzare la società, sosteneva che la scuola non favorisce né l’apprendimento né la giustizia, perché gli educatori continuano a preparare studenti orientati al consumo di programmi scolastici e di merci culturali studiate per imporre il conformismo sociale, l’obbedienza alle istituzioni. Si dovrebbe sostituire un’educazione autentica ai rituali dell’educazione di massa, per imparare finalmente a vivere attraverso la propria vita e nell’incontro con l’altro. È proprio questo incontro che stiamo perdendo a scuola, ma credo che l’educazione sia talmente essenziale per la nostra specie al punto che, per reinventarla, basterebbe reinventare l’educazione (Fox, 2017).

Come sostiene Edgar Morin (2000), la nostra civiltà e di conseguenza il nostro insegnamento hanno privilegiato la separazione a scapito dell’interconnessione, l’analisi a scapito della sintesi.

Interconnessione e sintesi rimangono sottosviluppate. Concordo con quest’autore sulla necessità di sviluppare in noi e nei nostri studenti l’attitudine a:

  • contestualizzare e globalizzare i saperi per far emergere un pensiero «ecologizzante», nel senso che esso situa ogni evento, informazione o conoscenza in una relazione di inseparabilità con il suo ambiente culturale, sociale, economico, politico e naturale;
  • riconoscere la diversità in seno all’unità (es. l’unità umana attraverso le diversità individuali e culturali e viceversa);
  • affrontare le incertezze non solo facendo conoscere la storia incerta e aleatoria dell’Universo, ma favorendo l’intelligenza strategica e la scommessa per un mondo migliore.

«Freud sosteneva che ci sono tre funzioni impossibili per definizione: educare, governare, psicanalizzare. Il fatto è che queste sono più che funzioni o professioni. Il carattere funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante a un semplice impiegato. Il carattere professionale dell’insegnamento porta a ridurre l’insegnante all’esperto. L’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione» (Morin, 2000, p. 106).

La missione è elevata e difficile, poiché suppone nello stesso tempo arte, fiducia e amore.

Lo yoga per sentire la relazione

In quest’ottica di costruzione unitaria e nella consapevolezza che l’educazione non è dare all’allievo una quantità sempre maggiore di conoscenze, ma è «costituire in lui uno stato interiore profondo, una sorta di polarità dell’anima che l’orienti in un senso definitivo, non solamente durante l’infanzia, ma per tutta la vita» (Durkheim, 2014), ho realizzato un percorso, rivolto agli studenti della scuola secondaria di un liceo di scienze umane di Roma, in cui lo yoga ha costituito un tassello stimolante del percorso: lo spazio in cui iniziare a sentirsi per aprirsi all’altro, al mondo della conoscenza e costruire relazioni intrapersonali e interpersonali, relazioni concettuali e relazioni affettive per ricercare quell’unità che crea armonia.

L’idea di attivare un percorso di yoga a scuola era nata durante la realizzazione di un laboratorio itinerante (a.s. 2009), quando i colleghi mi avevano chiesto d’inserire nel percorso annuale due incontri in cui spiegare cosa fosse lo yoga e proporre alcune pratiche.

Il laboratorio itinerante è un progetto di orientamento, nato dall’esigenza di dare una risposta agli alunni in situazione di disabilità che seguono una programmazione non riconducibile ai programmi ministeriali e, quindi, non potranno conseguire il diploma di scuola superiore. Da una sperimentazione attivata nel 2005 all’Istituto Cattaneo di Roma, è stato elaborato un progetto in cui le scuole in rete hanno messo a disposizione i propri laboratori con l’obiettivo di consentire a ogni alunno di sperimentare le proprie abilità integrando le diverse professionalità delle scuole partecipanti di indirizzi diversi: agrario, alberghiero, meccanico, ottico, liceo di scienze umane. La finalità del laboratorio itinerante era quella di accompagnare i ragazzi verso una scelta più consapevole del proprio progetto di vita permettendogli di sperimentarsi in attività differenti, accompagnati dai propri compagni di classe con funzioni di tutor e riportando le esperienze alla classe di appartenenza. I ragazzi avevano un’uscita settimanale, oppure ospitavano nella propria scuola i compagni degli altri istituti per condividere l’attività programmata. Oltre a sperimentarsi nei laboratori di cucina, giardinaggio, tornio, attività pittoriche e teatrali, si effettuavano uscite per svolgere attività sportive di vela, dragon boat, arrampicata, rafting. Nel 2010 è stato attivato anche un percorso emotivo attraverso lo yoga.

Gli alunni (sia i tutor che i ragazzi con disabilità) hanno avuto l’opportunità di conoscersi meglio in un ambito diverso da quello ordinario della propria scuola, e di organizzare gli spostamenti in città e nei dintorni utilizzando i trasporti pubblici per sviluppare così la capacità di muoversi con maggiore autonomia. Da questa mini esperienza, è stato elaborato e approvato un progetto di yoga che ha visto coinvolte due classi seconde del liceo di scienze umane in cui lavoravo in qualità di docente di sostegno.

Le classi coinvolte

Una delle due classi (indirizzo Scienze Umane - SU) era composta da 29 alunni, 2 maschi e 27 femmine di cui una ripetente e tre provenienti da un’altra scuola. Erano presenti 2 alunne in situazione di disabilità: Desy e Nicol. La classe a inizio anno risultava poco coesa, emergevano conflittualità e competizione, si evidenziava una suddivisione in sottogruppi; non riuscivano a comunicare tra loro e tendevano ad attaccarsi reciprocamente con modalità giudicanti e aggressive. In questo contesto la maggior parte delle ragazze ha dato la propria disponibilità a svolgere il ruolo di tutor per il laboratorio itinerante, ma questa disponibilità è stata letta, da Desy e da alcune sue amiche di classe, semplicemente come desiderio di sottrarsi all’ordinaria didattica, e non come una reale aspirazione a svolgere il ruolo di tutor. Ancora una volta, invece di accogliere questa situazione come opportunità di crescita per tutti e di conoscenza reciproca, diventava motivo di ulteriore critica e conflittualità. Alla luce di questa situazione si era deciso di attivare un percorso di Circle Time insieme all’insegnante di Scienze Umane come approfondimento esperienziale delle tematiche affrontate nella programmazione di classe. Le due ragazze in situazione di disabilità certificata presentano le seguenti diagnosi: Nicol è affetta da ritardo mentale medio-lieve, difficoltà di linguaggio (origine moldava); Desy presenta una situazione da borderline cognitivo, disturbo della sfera emozionale, disturbo del linguaggio con riflesso sull’apprendimento; la ragazza viveva in una casa-famiglia.

Per ciascuna delle due ragazze è stato elaborato un Piano educativo Individualizzato non riconducibile ai programmi ministeriali. Le capacità delle ragazze erano molto differenti: Nicol aveva bisogno di essere seguita per svolgere qualsiasi attività didattica, l’unica attività che svolgeva in autonomia era copiare; l’alunna di origine Moldava era arrivata in Italia da un anno e proveniva da un istituto speciale, non riusciva a esprimersi in modo chiaro sia per il deficit cognitivo, ma soprattutto perché straniera e con un vocabolario carente; i colleghi riferivano che l’anno precedente piangeva in continuazione. Avevo elaborato una scheda di monitoraggio del pianto e verificato che c’era una tendenza a piangere per ottenere ciò che voleva, per cui era indispensabile lavorare sull’acquisizione del vocabolario, attraverso l’associazione immagini-parole, in modo tale da permettere a Nicol di esprimere i bisogni e gradatamente diminuire questa associazione desiderio-pianto; il suo piano prevedeva un lavoro sulle autonomie di base e sullo sviluppo del linguaggio funzionale, tenendo conto della sua difficoltà linguistica (italiano per stranieri).

Desy presentava significative lacune nell’area logico matematica e nelle acquisizioni meta-linguistiche che non le consentivano di seguire la programmazione di classe ma presentava anche potenzialità che dovevano essere sviluppate; la ragazza manifestava un vissuto di forte rabbia rispetto alla classe per alcune situazioni verificatesi nell’anno precedente, rabbia perché si trovava in una casa-famiglia e non poteva tornare a casa dai genitori, rabbia verso alcune persone della casa-famiglia. Valutata la situazione si era definito con il tutore e i responsabili della casa-famiglia di utilizzare l’anno scolastico per effettuare una valutazione delle competenze e un percorso di orientamento per consentire alla ragazza di scegliere con consapevolezza il suo futuro, senza subire le pressioni di un contesto familiare disfunzionale e cercando di individuare sia i suoi sogni che le sue effettive capacità. Il consiglio di classe e le famiglie/tutori hanno approvato la partecipazione di entrambe al laboratorio itinerante e al progetto di yoga. Purtroppo, Nicol da gennaio ha cambiato scuola in quanto la famiglia si è trasferita altrove; non è stato possibile avere un riscontro complessivo del percorso realizzato.

L’altra classe coinvolta nel progetto (indirizzo Economico Sociale - ES) era composta da 24 alunni, 6 maschi e 18 femmine di cui quattro provenienti da un’altra scuola. In questa classe era presente un alunno in situazione di disabilità, Bernardo, che presentava la diagnosi di Disturbo specifico di apprendimento misto (dislessia, disortografia, discalculia), disturbo d’ansia e disturbo del linguaggio recettivo. L’alunno presentava difficoltà di relazione, tendeva a isolarsi: nell’area cognitiva manifestava difficoltà nella rielaborazione scritta, nella logica e nelle lingue straniere. Tendeva a non assumersi i propri impegni giustificandosi e quindi a sfuggire alle responsabilità personali; tendenza che condivideva con molti compagni di classe. Il consiglio di classe ha stabilito per Bernardo un PEI riconducibile ai programmi ministeriali; si era ritenuto necessario che il ragazzo venisse supportato nello studio a casa per cui era stato indirizzato al Centro Tata Giovanni, con cui collaboravo da anni, che forniva supporti allo studio gratuitamente. Bernardo aveva anche intrapreso una terapia di supporto psicologico per affrontare le difficoltà legate all’ansia. Si era costruito un piano di supporto a tuttotondo. La sua classe appariva abbastanza coesa anche se molti alunni tendevano a frequentare con discontinuità la scuola, a partecipare con uno scarso interesse alle proposte didattiche e a studiare poco. La metodologia d’intervento è stata caratterizzata da un lavoro di équipe che ha visto la partecipazione di parte del consiglio di classe, della docente di sostegno e dell’assistenza specialistica, per consentire a Bernardo di acquisire una strategia di studio adeguata ad affrontare la complessità del lavoro di scuola secondaria, usufruendo dei supporti necessari per far fronte alle sue difficoltà di scrittura, logica e comprensione. Si voleva garantire una coerenza educativa rispetto all’intera classe.

La classe ha aderito al progetto yoga, con alunne che hanno assunto il ruolo di tutor delle compagne in situazione di disabilità della classe II di Scienze umane e come opportunità di sperimentarsi in una disciplina diversa per cui in una delle ore di educazione fisica partecipavano alla lezione di Hatha Yoga. Bernardo invece mi aveva chiesto un incontro individuale in cui ha voluto alcuni chiarimenti sul respiro, pensando che potesse essere utile per affrontare le interrogazioni e ridurre l’ansia.

Il percorso (intitolato in un primo momento Yoga a scuola per educare) intendeva familiarizzare gli alunni con il mondo dello yoga, inteso come proposta-ricerca che consentiva di acquisire consapevolezza e creare relazioni.

Tabella 1

Schema esemplificativo delle attività svolte dalla due classi.

Classe

Alunni

Attività

Class

seconda

(Scienze

Umane)

2 allieve disabili:

Desy (per tutto l’anno)

Nicol (fino a dicembre per cambio scuola)

  • Corso di Hatha Yoga Settimanale
  • Laboratorio itinerante
  • Alcune lezioni del percorso di Storia della civiltà della Valle dell’Indo
  • Realizzazione di mappe concettuali

23 allieve

  • Tutor laboratorio itinerante a rotazione

Intera classe

  • Circle Time

Classe

seconda

(Economico

Sociale)

6 allieve

  • Corso di Hatha Yoga settimanale in qualità di tutor delle due ragazze disabili della classe seconda di Scienze Umane

Intera classe in cui è presente un allievo disabile: Bernardo

  • La storia della civiltà della Valle dell’Indo, letteratura indiana e Raja Yoga
  • La costruzione di mappe concettuali utilizzando il programma CmapTools

Il percorso si era snodato in una serie di attività che sono state possibili a partire dalla costruzione della nostra aula yoga. L’aver organizzato uno spazio sacro in cui per entrare bisognava togliersi le scarpe, in cui si trovavano tappeti, cuscini, fiori, candele, ci3 aveva permesso di aprire varchi in molte direzioni, creando relazioni con le discipline curriculari e percorsi intrecciati.

Per tale ragione ho poi chiamato il progetto in azione Yoga a tutto tondo. Il percorso si è articolato in più direzioni:

  • lezione settimanale di Hatha Yoga per le allieve in situazione di disabilità della classe II SU e per le allieve tutor della classe II ES che hanno aderito al progetto scegliendo l’ora di yoga come alternativa alla lezione di educazione fisica, 8 alunne in totale;
  • lezioni a classi aperte in una logica di didattica flessibile, corso di Hatha Yoga, il laboratorio itinerante;
  • lezioni esperienziali in cui favorire il confronto tra coetanei e sperimentare la corrispondenza teoria-pratica: (Circle Time sui temi della comunicazione, 5 incontri per la classe II SU);
  • lezioni interdisciplinari per favorire i collegamenti concettuali (diritto-scienze umane sulle leggi dell’integrazione, classe II SU; yoga per l’esperienza di Circle Time per la classe II SU; storia e yoga per lo studio della civiltà della valle dell’Indo per la classe II ES), utilizzando un primo approccio alla didattica metacognitiva e cooperativa.

La flessibilità è un elemento fondamentale della didattica e in questo percorso ci ha permesso di costruire questa rete complessa, ma funzionale per promuovere:

  • la conoscenza di sé e del proprio corpo, attraverso l’esperienza di Hatha Yoga;
  • apprendimenti di tipo significativo (Novak e Gowin, 1989, p. 25), attraverso la costruzione di mappe concettuali manuali e di tipo informatico con l’utilizzo del programma gratuito CmapTools e lezioni in modalità di cooperative-learning;
  • relazioni tra il percorso yoga e le discipline curriculari (ad esempio, in Storia con lo studio della civiltà della valle dell’Indo);
  • una politica d’integrazione in cui l’allievo in situazione di disabilità costituisce una risorsa per la classe e una disponibilità ad aprirsi attraverso la partecipazione di allievi tutor a percorsi aggiuntivi alla didattica curriculare che permettono di arricchirsi (ad esempio, la partecipazione al laboratorio itinerante, lo studio delle leggi sull’integrazione e le differenti tipologie di disabilità);
  • un clima cooperativo all’interno della classe attraverso una conoscenza reciproca e una conoscenza dei meccanismi di comunicazione, in cui lo studio teorico della disciplina di scienze umane si traduce anche in momenti di attività esperienziale (Circle Time);
  • riflessioni e commenti sulle attività svolte, elaborate dai ragazzi stessi come momenti di valutazione-autovalutazione per sviluppare capacità di riflessione e muoversi nella direzione della consapevolezza;
  • il desiderio di sapere e la decisione d’imparare: sapendo integrare allo sviluppo degli argomenti tutto ciò che permette agli alunni di dare un senso e farlo proprio, utilizzando tempi adeguati, negoziando con gli allievi regole e contratti, offrendo attività di formazione opzionali;
  • produzione di materiali come prove tangibili e valutabili del proprio percorso;
  • l’autonomia e la capacità di scegliere con responsabilità in relazione a sé, ai propri bisogni e alle proprie caratteristiche: infatti Desy attraverso il percorso di orientamento e analisi delle proprie abilità, è stata riorientata e ha scelto un corso di formazione professionale per estetista, ma soprattutto aveva elaborato moltissimo la sua rabbia.

Valutazione del progetto

Il corso di Hatha Yoga si è svolto utilizzando un approccio interattivo e partecipativo, in cui brevi spiegazioni teoriche precedevano la pratica del giorno che riguardava sia le asana (posizioni di yoga) che il respiro. Iniziando dall’osservazione del respiro a partire dall’addome si è giunti ad acquisire la tecnica del frazionamento del respiro. L’ujjai è stato il principale pranayama (esercizio) utilizzato durante l’intero corso perché utile sia per favorire l’interiorizzazione della pratica, che come supporto nello sforzo fisico durante un asana intenso. Ogni lezione si apriva e si chiudeva invitando le ragazze a condividere sensazioni, impressioni, difficoltà emerse sia durante la pratica che dopo come effetto della stessa.

Riporto di seguito la valutazione dell’esperienza attraverso alcuni commenti delle alunne su cosa le aveva colpite maggiormente colpite.

La pace interiore che avevo, non è una cosa che mi capita frequentemente.

Non c’è qualcosa che mi ha colpito maggiormente mi è piaciuto tutto anche l’ultima cosa la verticale.

La cosa che mi piaciuta di più è la fluidità perché mi ha rilassata molto.

Mi ha colpito molto le emozioni che ho provato, oggi con la capovolta, ho fatto questo esercizio due volte e la prima volta sono quasi scoppiata a piangere e la seconda volta sono scoppiata a ridere.

L’esperienza dello yoga mi ha aiutato nella concentrazione, alla fine della lezione mi sentivo leggera e rilassata, ciò che più mi è tornato utile è il respiro durante le interrogazioni, pensavo che dovevo aprire le spalle e allineare la colonna e respirare più lentamente. È cambiata la relazione respiro-corpo, e il respiro.

Sono più consapevole di avere un corpo e ascoltarlo di più.

Nel laboratorio itinerante io ho curato il laboratorio espressivo che si è svolto in più momenti nel corso dell’anno alternando attività nel laboratorio di yoga ad attività esterne, utilizzando sempre gli organi di senso e portando la consapevolezza verso le emozioni che emergevano. Si è trattato di un lavoro esperienziale sul corpo e sul respiro, accompagnato dall’esposizione e trascrizione su dei cartelloni delle sensazioni provate, seguita da una rappresentazione grafica attraverso il colore su dei mandala scelti dai ragazzi. Nel facilitare il contatto con il respiro, avendo nel gruppo molti alunni con ritardo cognitivo grave, si sono realizzati con le ragazze tutor della mia scuola dei supporti visivi, cioè dei fogli con disegnate delle colline, in cui si accompagnava il respiro con il dito sul foglio immaginando di salire sulla collina durante l’inspirazione e di scendere la collina durante l’espirazione.

Dai commenti scritti dai ragazzi e dalle parole — simbolo che ciascun partecipante ha comunicato a fine incontro — è emerso un livello di soddisfazione e desiderio di ripetere l’esperienza. Dopo il primo incontro una delle allieve dell’alberghiero, che era sempre molto agitata, nel tragitto di rientro nella sua scuola con il pulmino si era addormentata con stupore degli insegnanti e degli assistenti, che hanno evidenziato l’effetto rilassante che aveva prodotto il colorare il mandala e l’ascolto del mantra «Om Namah Shivaya» durante l’attività. Inserisco alcuni mandala e commenti realizzati dai ragazzi del laboratorio itinerante di attività espressive ed emotive.

Il Circle Time si è svolto durante l’ora disciplinare di Scienze Umane per un totale di cinque incontri di un’ora con cadenza mensile da ottobre a febbraio. Gli aspetti su cui si è lavorato con la finalità di migliorare le relazioni di questa classe, utilizzando anche i riferimenti teorici dei contenuti della disciplina, sono stati: l’ascolto, la conoscenza dell’altro, il giudizio, la diversità, il riconoscimento del punto di vista dell’altro.

Sintetizzo il percorso con ciò che le alunne hanno scritto di portarsi da questa esperienza e cosa invece avrebbero desiderato lasciare di sé, come parte scoperta e da migliorare.

Figura 4

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Con il laboratorio itinerante ho fatto tante esperienze, ma questa mi ha colpito particolarmente tanto che inizialmente non riuscivo neanche a scrivere, perché molte volte le parole limitano il pensiero. Questa volta abbiamo fatto il laboratorio espressivo associando ai suoni e ai colori le emozioni. Ed è facile associarle, ma non è altrettanto facile spiegare il perché si associano determinati colori e suoni a colori. È strano e anche bello vedere come a me un colore fa provare delle emozioni che possono essere l’opposto di emozioni che provano altri. Mi sono divertita tanto e credo che ogni incontro che ho fatto finora mi abbia arricchito e donato delle emozioni bellissime. Vale

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Ed eccoci di nuovo tutti qui per terra, seduti in cerchio con la nostra musica, i nostri colori e le nostre risate. Sì, quelle ci sono sempre, perché si dice così: «un giorno senza sorriso è un giorno perso». Io credo che quando lì, tutti insieme sorridiamo, siamo tutti uguali, nessuna differenza. Perché un sorriso è uguale per un bambino di 4 anni e per un adulto di 50 e lo stesso per un ragazzo speciale e me. Siamo tutti speciali quando sorridiamo… e loro lo sono doppiamente! Federica

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Io sono stata la prima a sperimentarmi in quest’attività, ho sentito che non ci volevo stare, che volevo essere l’ultima per il semplice fatto che pensavo che gli altri fossero più bravi di me. Ho fatto fatica ad associare il colore al suono, poi però mi è piaciuto. È stato anche piacevole ascoltare come gli altri suonavano. Desy

Mandala e commenti di alcune ragazze coinvolte nel laboratorio itinerante.

Tabella 2

I risultati del Circle Time.

Mi porto via

Cosa lasci

  • La regola d’oro
  • Il chiarimento con Giorgia
  • Aver capito che devo essere meno aggressiva
  • L’essere più carina nel dire le cose
  • Le modalità di relazione, il vivere in gruppo
  • Le modalità che abbiamo imparato nella comunicazione, l’ascolto, il lasciar parlare gli altri, il loro modo di essere e di vivere in modo diverso
  • L’empatia
  • Il saper trovare le parole giuste per comunicare e l’orgoglio di saper dire la verità
  • Le esperienze condivise
  • Alcune idee «cattive» su qualcuno… il risentimento
  • La mia timidezza e l’aggressività
  • I pregiudizi
  • Ferire il sentimento di altri, devo imparare a mediare per non ferire l’altro
  • Il giudizio
  • Non lascio nulla, ho solo aggiunto…
  • Un po’ di delusione perché pensavo di fare più pratica e meno teoria
  • Lascio l’aggressività, la delusione, perché mi aspettavo di risolvere cose
  • La rabbia

L’attività della costruzione delle mappe concettuali con la classe II ES, in collaborazione con l’insegnante di lettere durante lo studio della Civiltà della valle dell’Indo, ha visto coinvolta l’intera classe e anche Desy. Il percorso è stato strutturato su 6 ore di lezione in cui sono stati utilizzati filmati, presentazioni in Power Point, spiegazioni di 15 minuti con confronti a coppie o a piccoli gruppi e costruzione di mappe concettuali. Obiettivo fondamentale del percorso era quello di aiutare i ragazzi ad acquisire le nozioni base per costruire le mappe concettuali perché, come afferma Novak, sono alla base dell’integrazione costruttiva di pensiero, emozione e azione. Per la costruzione delle mappe concettuali si è usato nel laboratorio d’informatica della scuola il programma gratuito di CmapTools. Per supportare i ragazzi con maggiori difficoltà sono state predisposte delle mappe bianche in cui inserire i concetti. Molti alunni della classe hanno migliorato le loro prestazioni attraverso l’utilizzo delle mappe.

Il fatto che la scuola avesse uno spazio e che sia stato possibile allestirlo come aula di yoga ha permesso di attivare intorno ad essa una molteplicità di percorsi, dimostrando come lo Yoga sia unione e come attraverso di esso ci si possa dirigere verso una maggiore consapevolezza, che porta i docenti a lavorare insieme per portare alla luce le capacità migliori di ogni individuo.

Desy aveva iniziato l’anno molto arrabbiata, nella sua classe vi era un clima di grande tensione e spesso lei lo alimentava avendo scarsa fiducia rispetto alle compagne. Sono migliorate sia le sue prestazioni cognitive, l’abilità di risolvere problemi utilizzando passi istruzionali, la capacità di elaborazione un testo utilizzando schemi e mappe concettuali, ha lavorato con la sua rabbia sia attraverso lo yoga che nel Circle Time. Le sue relazioni con le compagne di classe sono migliorate, il laboratorio itinerante ha permesso loro di conoscersi in contesti diversi.

A questo punto lascio la parola a Desy riprendendo alcuni stralci della sua lettera di saluto:

L’anno scorso ho avuto un anno difficile e anche con voi è stato difficile entrare in relazione… secondo me il Circle Time e il laboratorio itinerante ci hanno aiutato a capire quanto è bello essere una classe… Io non sapevo cosa fosse lo yoga… mi porto con me il mio respiro, la capacità di aprirmi e guardare me e gli altri e di non giudicare. L’emozione che ho provato quest’anno è stata la serenità… Ho scoperto che posso prendermi dei momenti per me e che questo mi fa stare bene!

Claudio Naranjo afferma che l’educazione è per la maggior parte una forma di addomesticamento forzato da parte della cultura del «patriarcato» (Naranjo, 2006): siamo sottomessi agli usi e costumi della società «civile». La proposta del prof. Naranjo si muove nella direzione in cui l’educazione dovrebbe incoraggiare uno sviluppo equilibrato delle nostre tre persone interne: recupero dell’istintività come rispetto per l’infanzia, recupero dell’istinto materno come costruzione di vincoli empatici e solidali, recupero dello spirito. Insomma, un’educazione del corpo per il lavoro, del cuore per la vita di relazione, della mente per la conoscenza dell’universo e, attraverso il mistero del vuoto, giungere alla divina radice della coscienza.

Credo che il progetto Yoga a tutto tondo si sia mosso in questa direzione: educare la persona nella sua interezza: saper cogliere e riconoscere i bisogni specifici di ciascun allievo per guidarlo al dialogo e al rispetto di Sé e degli altri, attraverso il confronto costruttivo e interculturale. Mi verrebbe da dire che «si può fare», possiamo trasformare una scuola di mattoni in una scuola di spirito (Fioretti, 2007). Cambiare punto di vista: per cambiare il mondo dobbiamo cambiare noi stessi e, nella scuola, il primo passo di questa difficile danza spetta a chi vuole insegnare (Tamagnini, 2016).

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  1. 1 Insegnante di sostegno.

  1. 2 https://paolascalari.eu/spunti/450-come-uscire-dall-emergenza-ripartire-dalle-relazioni-per-costruire-progetti-gruppali.html (consultato il 26 gennaio 2022).

  1. 3 Con il «ci» intendo me, gli allievi in situazione di disabilità che spesso sono visti come marginali e le assistenti specialistiche con le quali condivido il lavoro specifico di supporto per gli allievi disabili.

Vol. 21, Issue 1, February 2022

 

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