Vol. 22, n. 2, maggio 2023

PRECURSORI

Una scuola per tutti e per ciascuno

Bruno Ciari, la democrazia e la partecipazione

Vanessa Roghi1

Sommario

Nel secondo dopoguerra Bruno Ciari, maestro toscano, mette a punto, insieme a un gruppo di colleghi, un sistema di tecniche didattiche per rendere concreta la grande trasformazione indicata dalla Costituzione democratica. A lui più degli altri, tuttavia, spetterà il compito di rispondere alle critiche di chi vede un eccesso di ottimismo e di ingenuità nell’affidarsi alla «sola» riforma della didattica nella scuola per fondare la Democrazia. Attraverso una rielaborazione originale di Dewey e di Gramsci e l’incontro fecondo con Célestin Freinet, Bruno Ciari e i suoi compagni e compagne di strada della Cooperativa della tipografia a scuola, poi MCE, lavora invece convinto che la democrazia si faccia includendo tutti nel processo di apprendimento. La sua idea di democrazia, infatti, non è puramente formale ma decisamente pratica: le tecniche didattiche includono tutti, attivando processi di apprendimento e di ricerca, che si confrontano costantemente con una dimensione politica più grande che comprende il parallelo sviluppo della famiglia e della città.

Parole chiave

Bruno Ciari, John Dewey, Antonio Gramsci, Inclusione, Democrazia, Tecniche didattiche, Pedagogia.

PIONEERS

A school for each and every one of us

Bruno Ciari, Democracy, and Participation

Vanessa Roghi2

Abstract

After World War II, Bruno Ciari, a Tuscan teacher, together with a group of colleagues, developed a system of teaching techniques that would give concrete expression to the great transformation put into motion by the democratic Constitution. To him, more than to others, however, falls the task of responding to the criticism of those who see an excess of optimism and naivety in relying «solely» on a didactic reform in schools in order to establish democracy. Through an original reworking of Dewey and Gramsci and a fruitful encounter with Célestin Freinet, Bruno Ciari and his companions from the school printing house cooperative, later MCE, instead work under the conviction that democracy is achieved by including everyone in the learning process. His idea of democracy, in fact, is not purely formal but decidedly practical: teaching techniques include everyone, activating learning and research processes that constantly confront a larger political dimension that includes the parallel development of the family and the city.

Keywords

Bruno Ciari, John Dewey, Antonio Gramsci, Inclusion, Democracy, Teaching technique, Pedagogy.

«L’unico metodo d’istruzione è l’esperimento e l’unico criterio pedagogico la libertà»

L. Tolstoj

«La scuola tradizionale voleva costringere a bere il cavallo che non ha sete. Noi provochiamo la sete nei ragazzi. Facciamo splendere il sole, e di colpo tutto è trasformato»

C. Freinet

Premessa

Fiorenzo Alfieri, maestro torinese recentemente scomparso, scrivendo di Bruno Ciari parla di quel particolare «demone» che rende desiderabile e financo necessario realizzare se stessi attraverso l’autorealizzazione degli altri (Alfieri, 1992). Un demone fondamentale, a suo dire, nel mestiere di maestro che si consolida negli anni nei quali la postura stessa dei bambini verso il sapere viene costruita, insieme a schemi mentali e procedurali che fanno ragionare più sul know how che sul know what.

Del resto, continua Alfieri, tanto più ci rivolgiamo ai bambini piccoli quanto più bisogna guardare e sentirsi in alto. Bruno Ciari entrava in classe con l’atteggiamento di chi va a svolgere un’attività professionalmente qualificata, socialmente indispensabile, artisticamente intrigante.

A lui dobbiamo gran parte della messa a punto di tecniche didattiche democratiche, laddove l’aggettivo «democratico» si riferisce, da un lato, alla risposta creativa al rinnovato momento storico in cui si trovò a vivere, quello della nascita dello stato democratico; dall’altro all’attenzione nei confronti dell’attivazione di processi democratici entro la comunità scolastica, palestra di vita comunitaria. Questo articolo si sofferma sulla messa a punto di questa idea che si esplica sul terreno della pratica.

Tra biografia e ricerca

Bruno Ciari nasce a Certaldo il 16 aprile 1923. Figlio di un artigiano e di una casalinga, cresce in un ambiente antifascista che lo porterà a aderire alla Resistenza fin dal 1943. Racconta Guglielmo Nencini, già dirigente comunista durante la Resistenza:

Il 31 dicembre 1943, in un’ispezione che feci alla Brigata Lavagnini per portarvi le direttive del comitato di liberazione del Partito comunista, trovai il Ciari nel mezzo della neve, con un freddo acutissimo e molta fame, che dava lezione a un gruppo di partigiani a proposito del materialismo storico di Bucharin (Nencini, in Catarsi 1992, p. 71).

Bruno Ciari, classe 1923, a vent’anni era salito in montagna e lì aveva preso il nome di Davide. Il partigiano Davide. Ora Davide stava lì, in mezzo al freddo e alla fame, a fare scuola. Il nome Davide, Ciari, l’aveva preso dal romanzo di A.J. Cronin E le stelle stanno a guardare, il cui protagonista, Davey Fenwick, provenendo da una famiglia di minatori, grazie ai sacrifici del padre, era riuscito a studiare e a diventare, attraverso la militanza politica, un agitatore di coscienze. Niente di più vicino a quello che, in quei mesi in montagna, Bruno Ciari voleva essere, provava a essere, nel tentativo di cambiare il mondo facendo scuola, da partigiano. Come Davey Fenwick anche Ciari aveva studiato — ed era stato il primo a farlo nella sua famiglia —, fino ad arrivare a frequentare, addirittura, dei corsi universitari.

Figlio di un artigiano antifascista, nelle sue due stanze, il giovane Ciari aveva letto Croce e Gentile, Hegel e Kant, Freud e Jung, filosofi antichi e moderni, oltre che le novità scientifiche. E poi, appunto, la letteratura moderna,

Cronin, Steinbeck, Gorki, London, letti e ricercati avidamente a quell’epoca fra la gioventù e che hanno contribuito a formare molti antifascisti, e poi le riviste di pedagogia e filosofia, di politica internazionale, anche queste ammassate nell’indescrivibile confusione di quelle due stanzette (Masini, in Catarsi, 1992, p. 26).

Un ricordo di Marcello Masini, compagno partigiano, poi sindaco di Certaldo, che ha ricostruito in modo vivido gli anni della formazione del maestro toscano. Anni di letture e di incontri grazie ai quali prende forma una scelta:

Lentamente, quasi per forza di inerzia, direi fatalmente — come osserva ancora una volta Masini —, Ciari e i suoi compagni si ritrovarono non dico antifascisti, perché nell’antifascismo erano immersi fin dall’infanzia, ma comunisti, o almeno tali si sentivano e si dichiaravano. Avevano una loro linea, una certezza, uno scopo. Si trattava di un comunismo tutto particolare, certo, fatto di profonde aspirazioni alla giustizia sociale unitamente alla più ampia libertà, e siccome proprio i comunisti, anche localmente, erano i soli che facevano qualcosa contro il fascismo, era fatale il volgersi a loro. Il fatto stesso che i fascisti vantassero il proprio anticomunismo era un’ulteriore conferma della scelta fatta. Per quei giovani comunismo e democrazia sembravano identici. Non riuscivano a vedere delle differenze (Masini, in Catarsi, 1992, pp. 28-29).

Comunismo e democrazia sembravano identici. Un dato da tenere sempre presente per poter valutare a pieno la genealogia dell’impegno politico e del «credo pedagogico» di Bruno Ciari, che si costruisce, come per tanti comunisti italiani, in quegli stessi anni, per giustapposizione, per somma di letture ed esperienze. Letture ed esperienze spurie, eterogenee, come lo è per Ciari, senza dubbio, rispetto alla tradizione comunista italiana, la lettura di John Dewey, sulla quale occorrerà soffermarsi presto (Borghi, 1951).

Del resto, quando Ciari sale in montagna e poi, subito dopo, nel 1945, quando viene eletto segretario del partito comunista di Certaldo, che cosa sia questa tradizione comunista italiana non è ancora chiaro, soprattutto in ambito pedagogico. Durante il V congresso del PCI, che si tiene a Roma dal 29 dicembre 1945 al 5 gennaio 1946, è proprio su un aspetto pedagogico della politica culturale che si contrappongono due scuole di pensiero che si rifletteranno nel dibattito sulla scuola a partire dall’Assemblea costituente nei decenni a venire. Possiamo, per sintesi, individuare in Concetto Marchesi e Antonio Banfi i principali esponenti di questo dibattito, che avrà non poche conseguenze sulla vita culturale italiana così come su quella dello stesso Ciari.

Dal primo si leva il richiamo a un umanesimo di stampo classicista, per cui la scuola stessa deve formare l’uomo di tutti tempi attraverso valori universali. Ma, dice Banfi, cosa è l’uomo di tutti i tempi, cosa sono i valori universali, se non l’astrazione di una classe privilegiata che «crea per stessa come giustificazione o come rifugio questo mondo ideale e vi pone a custodi di una classe di clerici pontificanti». Occorrono spirito scientifico e una cultura in grado di cogliere le trasformazioni dei tempi che cambiano (Banfi, 1950, 1951).

Bruno Ciari, maestro e militante comunista, si chiede come adoperarsi affinché la scuola stessa divenga subito parte attiva di questo processo trasformativo (Chiosso, 1973; Covato, 1981; Catarsi, 1982; Bellatalla, 1991, 1999). Nella sua cassetta degli attrezzi di studente di pedagogia ci sono per ora, oltre alle letture degli anni di formazione, oltre alle indicazioni di partito, le lezioni di Ernesto Codignola seguite a Firenze nel 1942 (Santoni Rugiu, 1965). Il pedagogista da posizioni idealistiche vicine a quelle del filosofo Giovanni Gentile a partire dai primi anni Trenta si è avvicinato sempre di più a posizioni sfociate negli studi sul giansenismo e nel recupero parziale di un certo pragmatismo (De Bartolomeis, 1967; Betti, 2022). Ora, finita la guerra, Codignola è soprattutto al centro di un circolo che, con il ritorno in Italia di Lamberto Borghi e gli interventi di Francesco De Bartolomeis, fornisce preziose indicazioni su come debba essere concepita la relazione stessa fra scuola e democrazia (De Bartolomeis, 1951).

Ovviamente riferirsi a John Dewey, il Dewey di Democrazie e educazione (1916; Bellatalla, 2016), appare scontato. Non tanto perché sono gli stessi Alleati attraverso Carleton Washburne a suggerirlo (i programmi scolastici del 1945 sono ricchissimi di richiami a Dewey), ma forse proprio per la ragione opposta.

Ora che l’attivismo è così di moda da avere pervaso anche le indicazioni ministeriali e le più triviali rivistine di educazione, piene zeppe di ricette ispirate al cosiddetto metodo attivo, occorre secondo Borghi, secondo De Bartolomeis, tornare alle origini, tornare a Dewey (Betti, 2022). Leggerne i testi, e decidere se può essere ancora utile.

La rivista di Ernesto Codignola (e di Borghi e De Bartolomeis), «Scuola e città», a partire dal 1950 gioca un ruolo fondamentale in questo ritorno alla «lettera» di Dewey (Cambi, 1982). Su «Scuola e città» Francesco De Bartolomeis, fra i primi a scrivere un’opera «divulgativa» sull’attivismo educativo, osserva come questo sia spesso solo un espediente di facciata, un’etichetta vuota, per nascondere il fatto che si continua a insegnare alla «vecchia maniera», per la paura di rovesciare il rapporto bambino-adulto (De Bartolomeis, 1953).

Scuola attiva, però, ricorda De Bartolomeis, non significa annullare la figura del maestro ma, semplicemente, mettere il bambino al centro del progetto educativo per un efficace progetto di cittadinanza democratica(De Bartolomeis, 1953).

Del resto, che questo sia il senso primo della lezione di Dewey lo sottolinea Antonio Banfi quando, nel 1950, dedica al filosofo statunitense una monografia dove mette in luce come sue caratteristiche peculiari siano l’antidogmatismo, l’impegno non per una rivelazione definitiva, ma per una ricerca infinita, una ricerca di tutti, che il filosofo sprona, orienta, unifica.

Il sapere che ne nasce vuole essere dunque sapere di tutti e per tutti, un sapere diretto a penetrare e a migliorare la vita (Banfi, 1951).Come scrive chiaramente Mario Lodi, che arriva alla stessa conclusione a partire da premesse del tutto diverse:

Tanto nella società quanto nella scuola (che è una piccola società di scolari, obbligati a vivere insieme per diversi anni) credo non ci possano essere che due modi di vivere: o la sottomissione a un capo non eletto, oppure un sistema in cui la libertà di ognuno sia rispettata, condizionata solo dalle necessità di tutti. Il paternalismo, nella società degli adulti come nella scuola, non è che una forma insidiosa dell’autoritarismo che concede una finta libertà. Se la scuola non deve soltanto istruire, ma anche e soprattutto educare, formando cioè il cittadino capace di inserirsi nella società col diritto di esporre le proprie idee e col dovere di ascoltare le opinioni degli altri, questa scuola fondata sull’autorità del maestro e la sottomissione dello scolaro non assolve al suo compito perché è staccata dalla vita. Ma come cambiare le cose? Con quali mezzi? (Lodi, 1963, pp. 9-10).

Le tecniche didattiche

Alla ricerca di questi stessi mezzi Bruno Ciari, ora eletto nelle liste del Partito comunista italiano nel consiglio comunale a Certaldo (Catarsi, 1992), si trova insieme all’amico Aldo Pettini ad approfondire i testi indicati dalla rivista «Scuola e città». Fra questi, di John Dewey, c’è Democrazia ed educazione, pubblicato in una nuova edizione nel 1949 per la Nuova Italia, ma ancora più importante per Bruno Ciari è nello stesso anno la pubblicazione della Logica. Teoria dell’indagine, tradotto da Aldo Visalberghi, che vede la stampa presso l’editore Einaudi.

Fondamentale sarà anche, qualche anno dopo, per Ciari Arte come esperienza (Striano e Cambi, 2010). La Logica offre a Bruno Ciari l’occasione per approfondire un interesse, quello verso il ragionamento scientifico, sulla linea indicata da Antonio Banfi.

Ciari, come ha scritto Luciana Bellatalla, sottolinea la pregnanza del metodo scientifico, per la costruzione di personalità libere, antidogmatiche, tolleranti e pronte, perciò, a dare un senso pieno e nuovo alla democrazia, che non è, non può e non deve essere solo un mero gioco elettorale, una vuota e formale tecnica delle istituzioni, ma deve essere invece una prassi, un tirocinio costante, un metodo (Visalberghi, 1982). In questo senso, il «suo» Dewey va perfettamente d’accordo, per un fruttuoso paradosso, con Antonio Gramsci, i cui scritti, che iniziano a circolare a partire dall’immediato dopoguerra, danno forma a quella via italiana al socialismo tutta da costruire (Martinez, 2014).

Non stupisce dunque che Célestin Freinet, comunista e seguace della scuola attiva, abbia l’effetto di una rivelazione per chi, come Ciari, cerca nella prassi soluzioni pratiche per entrare in classe e nelle intenzioni un orizzonte etico e politico per costruire la città futura (Bellatalla, 1999). Freinet, il cui articolo manifesto esce sul primo numero della rivista «Scuola e città», viene presentato come

un maestro che ha dovuto fare i conti con le realtà pratiche che gli offriva la sua classe, con le difficoltà tecniche, psicologiche e sociali. La pedagogia Freinet è insomma la reazione naturale di un educatore lucido, che ha misurato l’insufficienza delle soluzioni verbali e dogmatiche che gli propone la scuola tradizionale e che, con i suoi propri mezzi dapprima, poi con l’aiuto di altri educatori svegliati a questa medesima lucidità, prende a riesaminare nel suo complesso l’intera tecnica pedagogica (Freinet, 1950, p. 34).

C’è tutto, in nuce. La posizione da cui ci si pone la domanda. Un maestro che ha dovuto fare i conti con la pratica entro i confini di una scuola pubblica, una delle tante, non una speciale, non Scuola e città Pestalozzi per capirsi. Ma la scuoletta di campagna o di città. Una delle tante. E c’è il lavoro cooperativo, essenziale per superare quel senso di frustrazione e fallimento che prende ogni insegnante prima o poi. Così arriviamo al 1952. L’anno in cui Bruno Ciari entra in contatto con la CTS, la Cooperativa della Tipografia a Scuola.

L’episodio è raccontato da Tamagnini in una lettera del 28 ottobre 1953 che gli scrive Ciari:

Sono un maestro, e cerco di partecipare attivamente al rinnovamento della nostra scuola. Siccome attualmente ricopro nel mio comune la carica di assessore alla pubblica istruzione e di vicesindaco, mi sforzo di fare tutto il possibile per fornire la scuola delle attrezzature più moderne (Catarsi, 1992, p. 17).

Ciari parteciperà al convegno di Signa del 1954 e da lì in poi la sua partecipazione alla CTS (poi MCE) sarà fondamentale, soprattutto nell’affrontare teoricamente e reagire creativamente al fuoco amico che mai cesserà di piovere sulle teste dei maestri e delle maestre del Movimento accusati di affidarsi ingenuamente alle tecniche, come se le tecniche non fossero strumenti indispensabili nell’insegnamento di determinati contenuti (Bertoni Jovine, 1957).

Che le tecniche non siano un fatto neutro lo racconta molto bene quanto accade proprio a Signa dove viene costituito il gruppo della didattica della prima elementare, gettando le basi di quello che sarà nei fatti, dieci anni dopo, il gruppo nazionale della Prima, una delle componenti più attive del MCE grazie al lavoro di Bruno Ciari e di Aldo Pettini.

In discussione il cosiddetto «metodo globale». Rimane da capire, infatti, cosa far scrivere ai bambini una volta che hanno imparato a farlo: già Giuseppina Pizzigoni, maestra e pedagogista, si era posta il problema del rapporto tra lingua ed esperienza. E si era risposta così: a che pro torturare i bambini con temi di fantasia su argomenti che non conoscono? Il rilievo dato alla didattica nella prima classe è il rilievo conferito alle questioni di fondo del leggere e dello scrivere, quindi della prima relazione col sapere, un fatto per niente banale che non ha niente a che vedere con la meccanica del pensierino.

Non a caso il testo libero diventerà il cuore della rivoluzione didattica del MCE: uno spartiacque fra un’educazione concepita come formativa e una concepita come mero addestramento. L’insegnante che parte dalla frase del bambino e non dal libro di testo compie una rivoluzione in classe che riguarda la didattica intesa come pratica cognitiva a tutto tondo. Nessuno spontaneismo, nessun naturalismo, questo quello che dicono gli interventi al convegno, il tradizionale autoritarismo viene superato, secondo l’indicazione di Freinet, accompagnando i bambini a «lasciarsi andare dal muro solo quando i piedi toccano terra» (Pettini, 1973).

L’insegnante è una scala che li può aiutare, come scriverà molti anni dopo Gianni Rodari, sintetizzando il pensiero del maestro francese: «Noi siamo i gradini della scala che il bambino sale. Non c’è niente di mistico, in questo. Di fatto siamo quei gradini anche quando non ce ne accorgiamo: allora, s’intende, siamo gradini sconnessi, pericolanti e pericolosi». Ritorna lo scrittore che lucidamente si pronuncia contro ogni forma di mistica dell’educazione: l’educatore deve anzi essere la più duttile fra le figure perché ha il compito di mettere a fuoco non «l’elenco delle cose che ci proponiamo di ottenere dai bambini, ma di quelle che dobbiamo fare noi per essere utili ai bambini» (Rodari, 1976, p. 6).

Su questa fase di ricerca di Ciari ha scritto parole molto importanti Tina Tomasi, parole che vale la pena riportare:

La lezione deweyana trova in lui comunista militante un interprete vigile ma non prevenuto che avverte subito, al di là delle divergenze dovute anche alle circostanze in cui è sorta e si è affermata, una carica progressista capace di contribuire alla rottura delle più pesanti ipoteche gravanti sulla nostra tradizione pedagogica e sul nostro sistema scolastico. Dewey, infatti, mette in luce lo stretto rapporto tra scuola e società; esprime l’esigenza di un rinnovamento democratico fondato sui grandi principi della libertà e della tolleranza; afferma che il rispetto pieno dell’alunno non significa eliminazione della guida del maestro e abbandono a una incontrollata spontaneità; che il metodo scientifico, estensibile anche allo studio dell’uomo, è un antidoto contro il dogmatismo e il conformismo; che l’apprendimento, lungi dall’essere qualche cosa di puramente intellettuale e individuale, è tanto più efficace quanto più comunitario; che una vita consapevole implica la padronanza critica, la più larga possibile, del patrimonio culturale elaborato nei secoli (Tomasi, 1980, p. 9).

Il dibattito nel Partito Comunista Italiano

Bruno Ciari vorrebbe che il suo ragionamento e quello dei compagni e delle compagne dell’MCE fossero discussi anche dentro al suo partito, il PCI. Scrive a Tamagnini il 21 maggio 1955 una lunga lettera molto critica sull’atteggiamento dogmatico che gli sembra di riscontrare:

Io avevo in mente di fare un intervento per chiedere al partito un effettivo interessamento al nostro lavoro nella CTS, al fine di stabilire una nostra linea di condotta. Questo mio proposito fu rafforzato da un intervento della compagna M. Venturini, la quale asserì (nientemeno!) che i compagni francesi, in una grande polemica condotta sulla rivista «Nouvelle Critique» (e anche su «L’École et la Nation»), avevano fatto giustizia del Freinet, definendo le sue tecniche come uno strumento della pedagogia borghese.

A questa affermazione io replicai che, in primo luogo, non conosciamo le accuse rivolte dai compagni francesi al Freinet, e quindi non possiamo pronunciarci sulla giustezza o meno di esse. In secondo luogo, la CTS non ha mai inteso di imitare passivamente il movimento del Freinet, così come si è sviluppato in Francia, ma segue una propria linea pur ispirandosi alle esperienze francesi. In terzo luogo, il partito, in Italia, non può dare un giudizio sul lavoro della CTS senza prima prendere conoscenza di esso (Tamagnini, 1992, p. 18).

Secondo Ciari è indispensabile incontrarsi, spiegarsi e soprattutto prendere coscienza del fatto che, se qualcuno ha fatto qualcosa per mobilitare gli insegnanti e la loro riflessione democratica, questi sono stati gli appartenenti alla CTS.

La CTS è la sola organizzazione democratica che ha la possibilità di svilupparsi potentemente tra gli insegnanti. Ed essa non promuove esperienze pedagogiche chiuse, ma tende a una sempre maggiore cooperazione educativa fra scolari e scolari, maestri e maestri, scuola e famiglia; quel che occorre a noi è la consapevolezza dei valori impliciti nelle nostre tecniche; sapere, cioè, che la nostra battaglia è un aspetto di una battaglia più vasta (Tamagnini, 1992, p. 23).

L’intervento di Ciari viene ripreso da Mario Alicata che promette di prendere sul serio la richiesta e convocare una riunione. La riunione non si farà mai. Ciari, nel frattempo, ha pubblicato sulla rivista «Cooperazione Educativa» il suo articolo Tecniche e valori:

Non si tratta, in ultima analisi, di strumenti o procedimenti; la nostra opposizione alla scuola tradizionale, che è quella di ieri, e, quasi nella sua totalità, quella di oggi, è opposizione di due concezioni (diverse) del mondo. La vecchia scuola, dominata dall’autoritarismo, nei suoi vari toni, è essenzialmente, antidemocratica, antimoderna, vorrei dire reazionaria. La nostra scuola è essenzialmente democratica. La democrazia è uno, il principale, dei valori impliciti nelle nostre tecniche. Essa si fonda in primo luogo sul rispetto dell’individualità, che noi cerchiamo di attuare con una sempre maggiore e obiettiva scoperta della personalità infantile e con l’individualizzare l’insegnamento, aiutando ciascuno a camminare sulla propria via col proprio ritmo, senza imporre a nessuno pesi e doveri inadeguati alle sue forze ed estranei ai suoi interessi.

La democrazia, continua Ciari, si manifesta poi, in generale, nella libertà di espressione e di movimento, in particolare, nella scelta dei testi da stampare e in tutte le altre occasioni in cui i bambini e le bambine devono compiere scelte consapevoli, accompagnate o no da votazioni. Ma, sottolinea, questo non è che l’aspetto più esterno del carattere democratico della nostra scuola: «L’essenza più profonda della democrazia sta nella liberazione dell’intelligenza dei nostri ragazzi e nella partecipazione piena e attiva di questa a tutta l’attività sociale della scuola» (Ciari, 1955, p. 6). Questo è ottenuto, ad esempio, attraverso l’utilizzo del testo libero. Un tipo di elaborato che vede l’impegno intellettuale, estetico e creativo dei bambini, che implica la discussione, la critica, la valutazione, la scelta: «non c’è momento nell’attuazione delle nostre tecniche, in cui la mente rimanga assente o passiva» (Ciari, 1955, p. 7). Questa intelligenza liberata e interessata è evidentemente presente nell’elaborazione dei progetti, dei piani di lavoro, nella ricerca individuale e collettiva, e via dicendo.

Oltre all’immediata declinazione nella vita della classe c’è, secondo Ciari, un riflesso sulla società tutta che questo tipo di tecniche favorisce. Lo spirito cooperativo, l’attitudine a lavorare collettivamente e a sottoporsi in modo consapevole al controllo sociale, la consapevolezza del valore del lavoro degli altri ai fini comuni, e altri aspetti che investono la formazione del carattere, contribuiscono a creare negli allievi un senso concreto della libertà e, progressivamente, una sempre più alta apertura sociale e morale suscettibile di estendersi a gruppi umani sempre più vasti.

Vi è da considerare poi un lato interessante della democrazia nella scuola: la valorizzazione di tutti. Ciascuno, anche chi magari in un altro ambiente sarebbe messo da parte e disprezzato come incapace, trova la sua occupazione, il posto ove le sue capacità vengono poste in luce e apprezzate, in modo che su questa coscienza del proprio valore si può far leva per far progredire tutti secondo le proprie forze. In ultimo, democrazia significa dignità ed eguaglianza, nel senso che nessuno, per una classificazione aritmetica o di altro genere, si sente un essere inferiore agli altri, o magari superiore. Anche il fatto che i mezzi fondamentali di espressione, carta, colori, strumenti, siano egualmente a disposizione di tutti, costituisce una delle basi fondamentali della struttura democratica della nostra scuola (Ciari, 1955, p. 6).

Da amministratore locale, negli stessi anni, si batte per portare una sezione di scuole medie a Certaldo e «il 21 novembre 1955 è delegato a un convegno regionale toscano del PCI sui problemi della scuola organizzato in preparazione dell’importante Comitato centrale di pochi giorni dopo in cui la relazione introduttiva è tenuta da Mario Alicata». Ciari afferma chiaramente il suo favore per l’unicità della scuola media fino ai 14 anni e la sua netta avversione all’insegnamento del latino, al contrario di Mencaraglia e Luporini che sono perplessi e richiedono invece un maggiore approfondimento della questione (Catarsi, 1992, p. 48).

Riconfermato nel maggio del 1956 all’assessorato propone un doposcuola artistico per le elementari (avevamo accennato all’importanza che riveste per lui la lettura di Arte come esperienza di John Dewey) e rileva che questo tipo di istituzione parascolastica dovrebbe avere «un carattere prevalentemente ricreativo e di educazione artistica» e prevede l’impegno di cinque insegnanti per i quali dovrà essere organizzato un apposito corso di preparazione (Catarsi, 1992, p. 49).

Con la collaborazione del regista Vito Pandolfi, mette in scena delle novelle di Boccaccio, cittadino illustre della sua Certaldo. Decide di farlo sul parterre davanti al Palazzo pretorio.

Quando arrivammo a mettere in scena la novella di Frate Cipolla, lo scandalo esplose anche a livello nazionale, con un articolo di ben due colonne dell’Osservatore romano, ripreso pari pari da tutta la stampa cattolica nazionale, con il quale si richiamavano all’ordine tutte le strutture dello stato che autorizzava tale «sconcio» e addirittura fornivano parte dei finanziamenti. È bene pensare che certe cose succedevano nel 1953. Finché fu a Certaldo, occorre ricordarlo, Ciari fu elemento attivo e dirigente di tale associazione (Nencini, in Catarsi, 1992, p. 73).

Nel 1961 Bruno Ciari pubblica Le nuove tecniche didattiche, una summa delle riflessioni e delle esperienze di un vero e proprio lavoro cooperativo. «Esse non stanno a servizio di certi valori, ma sono i valori stessi. In quanto tali (ripetiamo) non sono adoperabili da chicchessia per finalità diverse: sono mezzo e fine al tempo stesso. O si accettano in questa loro unità sintetica o si distruggono» (Ciari, 1961, p. 5). In esse emerge una grande attenzione al ruolo del maestro (questo come risposta a chi accusa Ciari e il movimento di spontaneismo). Insiste, inoltre, sia sulla necessità di porre attenzione all’ambiente nella formazione dell’alunno sia sullo «spirito scientifico», il grande assente da sempre nella nostra scuola, specie a livello popolare.

Il metodo della ricerca chiede a tutti di essere sempre, e non un giorno solo, costruttori di sapere. Si fonda sullo studio d’ambiente, una pratica che Mario Lodi usa costantemente in classe con i suoi bambini. Una delle tecniche più discusse soprattutto da parte di chi, sulla rivista «Riforma della scuola», considera troppo velleitario e poco politico il modo di portare avanti questa analisi. A Bruno Ciari è affidato l’incarico di rispondere a questa continua raffica di critiche: in che modo, con quale atteggiamento, l’ambiente deve essere studiato? Si tratta di promuovere nei bambini o nei ragazzi un’aderenza ai valori e al costume del mondo etico-sociale in cui sono cresciuti, oppure di stimolare e guidare i ragazzi a una presa di coscienza critica, che comporti un giudizio e una conseguente accettazione o ripulsa di certi aspetti di quel mondo? (Ciari, 1960).

Si chiede Aldo Pettini: «Qual è l’ambiente che il bambino deve esplorare? Le cose che lo circondano? La famiglia? Oppure tutto ciò che, in qualche forma, arriva fino a lui?» (Pettini, 1963, p. 34). Deve guardare fuori dalla finestra ben oltre il giardino che costeggia la sua scuola, immaginare il mondo degli altri, fossero pure passeri come Cipì? Oppure limitarsi a delineare da solo l’ambito dei suoi interessi, senza farsi guidare da nessuno, nemmeno dal maestro come sostiene qualcuno?

In effetti, chi guarda con diffidenza alle tecniche dell’MCE lamenta proprio questa apparente mancanza di direzione, come racconta la testimonianza di Gioachino Maviglia a proposito di Mario Lodi: «mi sembrava che non facesse bene il suo mestiere perché non insegnava». Così su «Riforma della scuola» Luigia Pagnin, insegnante destinata a ricoprire negli anni Settanta il ruolo di assessore all’istruzione in provincia di Venezia, nel febbraio del 1960, scrive che la pedagogia moderna riflessa anche nelle attività dell’MCE interdice al maestro la possibilità di autoritarismo o di arbitrio e quindi, alla fine, di insegnamento. Ne deriva una «ostilità manifesta contro ogni forma di intervento».

Bruno Ciari suggerisce di leggere quanto ha scritto Freinet, se non Tamagnini, su questo aspetto, fin dagli inizi del Movimento di Cooperazione Educativa (Tamagnini, 1965). Rimanda ad Antonio Gramsci, che pure Pagnin cita, nel momento in cui definisce la coscienza del fanciullo come «il riflesso della frazione di mondo a cui lo stesso partecipa, in termini storici e sociali». Se ne distacca però Ciari, poiché trova la parola «riflesso» sbagliata, presupponendo un bambino del tutto passivo. Meglio ragionare in termini di interazione, dice Ciari.

Il primo approccio nei confronti del bambino deve essere di accettazione totale del suo mondo in modo che la sua storia passata e presente si riveli in tutta la sua pienezza. Non si può insegnare niente a chi non si conosce, e anche questa è una massima molto cara a Gramsci (Gramsci, 1965; Garin, 1987, p. 350). Poi, però, vale quanto detto da Dewey in Democrazia e educazione: la scuola deve creare un ambiente completamente nuovo e diverso da quello di origine. Ma, aggiunge Ciari, andando oltre Dewey, questo non può essere fatto se non in relazione dialettica con l’ambiente esterno. La scuola, insomma, deve educare a una «coscienza critica dell’ambiente», anche laddove questo ambiente fosse animato da idee progressiste.

Tutto questo ragionamento, come già detto, si manifesta nel volume Le nuove tecniche didattiche, che esce nel 1961 ed è sicuramente uno dei più importanti libri di pedagogia del dopoguerra nel suo tenere insieme teoria e pratica. Porta esempi concreti di quello che afferma, offre strumenti, suggerisce risposte alle più diffuse domande poste dagli insegnanti nei tanti incontri fatti a partire dalla metà degli anni Cinquanta, ed è pensato per far dialogare tutti gli ordini scolastici, dalle elementari alle superiori intorno alla questione del come si fa scuola, del come si sta a scuola.

Ciari, in questo senso, va oltre Gramsci: «l’insegnamento in tal modo diventa un atto di liberazione, esso ha il fascino di tutte le cose vitali […] Ciò che è più efficace e interessante è la storia della ricerca, la storia di questa enorme epopea dello spirito umano» (Garin, 1987, p. 298). Proprio perché il metodo dialettico indicato dal pensatore comunista spinge necessariamente a negoziare il proprio pensiero a partire dalle mutate condizioni esterne. Il marxismo è un metodo, è costante ricerca, è scoperta della realtà, svelamento della tradizione. Per il materialismo storico, la presenza dell’uomo nella storia è in ogni momento attiva, e dialetticamente attiva, nei confronti di una materia «socialmente e storicamente organizzata».

Ciari e Lodi, e tutti i maestri e le maestre marxisti a loro vicini, si pongono il problema di «chi è il bambino?». E lo fanno perché, lungi dal fare del bambino un mito (come Gramsci scriveva in relazione alle teorie puerocentriche del suo tempo), sanno che un adulto non può prescindere da esso affinché il processo educativo sia anche processo di costruzione di cittadinanza civile e democratica (Urbani, 1957, pp. 4-12).

Le reazioni di molte insegnanti dell’MCE sono indignate per le accuse che vengono fatte al movimento:

Chi scrive su «Riforma della scuola» spesso pecca di astrattezza, dimostra di non aver mai varcato la soglia di una scuola attiva: «si vede che non ci intendiamo più sul problema della spontaneità, perché si è rimasti al Rousseau, e anch’esso inteso più alla lettera che nella sostanza» (Gerundino Ros, 1962, p. 9).

La risposta di Bruno Ciari varrebbe la pena rileggerla tutta, tanto, ancora oggi, fa riflettere. Ciari sottolinea la confusione, presente anche nei più lucidi fra gli interventi su contenuti e metodi, di chi pensa che i due termini siano scindibili: una visione «strumentale, utilitaristica, gesuitica delle tecniche» che chi si richiama al marxismo deve totalmente rigettare (Ciari, 1962, p. 26).

La stessa parola «contenuto» è da respingere: rimanda infatti a un pensiero concepito come passivo, riflesso di dati esterni e non a un processo, a un’attività conoscitiva. Ogni contenuto deve corrispondere a una produzione dell’educando oppure è un contenuto fasullo. Non si possono perseguire certi fini, certi contenuti, senza studiare e determinare la prassi metodologica specifica per cui i fini, i contenuti, gli ideali si realizzano.

Rivendicare una molteplicità di contenuti, senza elaborarli pedagogicamente, rappresenta una velleità puramente astratta. Se facciamo così, insiste Ciari, ci mettiamo nell’impossibilità di promuovere un rinnovamento serio della scuola italiana: indicare delle finalità non è fare pedagogia: «le rivendicazioni ideali di cui parliamo, fuori dal terreno della praxis, restano delle pretese, delle intenzioni, valgono assolutamente zero» (Ciari, 1962, p. 29; Pettini, 1961, pp. 3-4).

Infine, e così facendo si rivolge a chi cita Antonio Gramsci a casaccio, Ciari aggiunge:

Io sono per respingere nettamente questo concetto che la noia e la fatica abbiano un qualsiasi valore pedagogico: lo sforzo sì, mettere in moto le energie, ma non la noia e la fatica no, non sono educative. Attribuire all’attivismo la responsabilità delle lacune della scuola italiana è assurdo, poiché l’attivismo nella scuola italiana non è mai entrato (Ciari, 1962, p. 29).

Scriverà anni dopo Gianni Rodari ricordando Bruno Ciari, morto troppo presto, nel 1970:

Il primo giorno di scuola, nella prima classe secondo il MCE, è il giorno dei primi testi liberi orali. Il bambino è venuto a scuola per ascoltare e si trova a parlare, mentre il maestro lo ascolta. È venuto a scuola per obbedire, ed è il maestro che obbedisce, con delicatezza e saggezza, ai suoi suggerimenti. Se egli si distrae a guardare un passero sul tetto della casa di fronte alla scuola, il maestro non lo rimprovera, ma va con lui alla finestra, anche lui guarda il passero, la parete tra la scuola e il mondo di fuori è già abbattuta, già negata. Se egli guarda la pioggia che cade, anche il maestro guarda la pioggia con lui (Rodari, 1971, pp. 10-15).

In questione vi è la «libertà», non la «spontaneità», la democrazia, non l’assenza di regole. Fare scuola attiva non significa fare lezioni ex cathedra, né imporre principi, «sia pure razionali e dimostrabili», ma fare in modo che questi stessi principi emergano dalla pratica. La democrazia non si insegna con un’ora di lezione sui concetti che la sorreggono ma con la condivisione delle regole. Altrimenti il rischio è quello del dogmatismo, come rileva Raffaele Laporta, mentre il metodo critico è ben altra cosa: insegna a trovare la modalità per rispondere alle domande che inevitabilmente variano, di generazione in generazione (Laporta, 1962, pp. 3-5).

Responsabile dei servizi scolastici del Comune di Bologna

Nel 1966 Bruno Ciari viene chiamato dal Comune di Bologna a coordinare i servizi educativi (Righi, 1982). Si trasferisce con la famiglia nel capoluogo emiliano e per quattro anni si impegna a mettere in pratica su larga scala la convinzione che per fare una scuola occorra una città.

I temi sui quali si spende di più sono il tempo pieno, la scuola per l’infanzia, la creazione di un unico percorso educativo che consenta al sistema dell’istruzione di non essere più un ospedale che cura i sani e respinge i malati, come denuncia nel 1967 il libro di don Lorenzo Milani e dei ragazzi di Barbiana, Lettera a una professoressa (Alberti, 1972).

Il lavoro di questi anni, che ben altra trattazione meriterebbe, è rintracciabile nella raccolta di saggi pubblicata poco dopo la morte, avvenuta a Bologna il 27 agosto 1970, a cura di Alberto Alberti, che scrive:

Il peso e il significato che ha avuto la presenza di Bruno Ciari nel panorama pedagogico e di politica scolastica degli ultimi 15 anni in Italia probabilmente non emergeranno da queste pagine con tutto il rilievo che meritano, anche se in misura più o meno completa, più o meno convincente, non si potrà fare a meno di parlarne per via di quella coerenza ineliminabile che esiste tra ciò che uno è e ciò che scrive quando si ha una personalità armonica e ben costruita come l’ebbe appunto Ciari (Alberti, 1972, p. 9).

Il saggio di Alberti è fondamentale per capire a pieno la figura di Ciari, nel suo voler restituire allo stesso tempo da un lato l’impegno di una vita del maestro di Certaldo, dall’altro il tentativo di un primo bilancio verso ciò che è «andato storto» in questa storia.

Alberti si chiede se sia lecito definire la produzione di Ciari un «sistema», se ci sia in Ciari una concezione pedagogica chiara e distinta, definita nei suoi presupposti teorici e separata da quella di altri pensatori dello stesso versante marxista (Alberti, 1972, p. 13). Certo è, continua Alberti, che la vita e l’opera di Ciari rappresentano un inciampo fastidioso per chi concepisce la relazione fra ideologia e educazione come un fatto meccanico, puramente ideologico, calato dall’alto. Ciari, infatti, mostra che

l’equivoco in cui si muove la dottrina pedagogica a livello universitario (anche quella «di sinistra») non è piccolo né casuale. Il distacco dalla base operativa è il prezzo (altissimo) che pagano le «coscienze inquiete» per avere uno spazio di lavoro. La zona isolante e refrattaria che si trovano tutt’intorno fa sì che l’effetto di formulazioni teoriche anche ardite, quando non viene circoscritto nel chiuso di un’aula o nelle pagine di un libro a scarsa circolazione, si stemperi in mille mediazioni, riduzioni e scadimenti e giunga alla base privo ormai di quella carica rivoluzionaria che poteva avere in partenza. Per modo che il sistema ha tempo e modo di riassorbire ogni spinta. Una sorte di destino comune unisce così i pedagogisti del rinnovamento a quelli della conservazione (Alberti, 1972, p. 15).

Un dato, questo, che si riverbera in modo particolare nelle accuse di riformismo fatte a chi, ieri come oggi, crede che non ci si possa nascondere dietro il concetto di «crisi» per rimanere immobili nell’azione quotidiana.

Come ha scritto Aldo Visalberghi, riferendosi proprio a Bruno Ciari:

Egli non ci ha mai detto: in queste condizioni è impossibile fare una scuola decente, mutatele, e vi mostreremo di cosa siamo capaci (che è un po’ il discorso del pedagogismo da salotto). Egli ha detto: ecco la scuola che si può fare e che faccio. Per generalizzarla e per migliorarla ulteriormente ci sarebbe da realizzare queste altre condizioni, in fatto di mutamenti di strutture, di programmi, di preparazione e aggiornamento degli insegnanti, di gestione e di edilizia scolastica (Visalberghi, 1982).

Come ha notato Tina Tomasi non esiste, dunque, un Ciari del metodo che si ispira a Dewey e un Ciari pienamente marxista degli ultimi anni. La lezione di Dewey è stata pienamente acquisita, Ciari è andato oltre occupandosi della società oltreché della scuola, perché le due cose non possono non marciare insieme (Tomasi, 1980).

A dieci anni dalla morte di Bruno Ciari, «Riforma della scuola» dedica al maestro di Certaldo un numero monografico che lo affianca a Gianni Rodari e Dina Bertoni Jovine, da poco scomparsi. In quell’occasione Idana Pescioli, maestra e pedagogista, scrive una lettera a Lucio Lombardo Radice (conservata nell’archivio dell’Istituto Gramsci), nella quale si complimenta del bel numero, sottolineando il rischio che il lavoro di figure come quelle di Ciari Rodari e Bertoni Jovine venga presto dimenticato nei corsi di formazione degli insegnanti nelle facoltà di pedagogia. Scrive che:

La pedagogia universitaria di rado attenta ai problemi pedagogici didattici della scuola di tutti. Di fatto, quell’Università che chiamò Dina nell’accademia solo all’ultimo momento […] di fatto anche oggi respinge chi tenta di dare corpo alle innovazioni uscendo dal fumo delle parole, scrivendo anche in modo semplice e accessibile di pratica quotidiana […], con l’obiettivo ben chiaro di contribuire a cambiare la scuola di base, la scuola di tutti, ogni giorno (Pescioli, 1980).

Insomma, conclude, si dà uno scarso credito accademico e intellettuale a chi si occupa, soprattutto, della scuola di base come scuola formativa di tutti i cittadini e a chi, in accademia, mette nella bibliografia dei seminari libri di Dina Bertoni Jovine, Bruno Ciari e Gianni Rodari.

Un monito che anche oggi dobbiamo tenere presente.

Conclusioni

Seguire il percorso di maestro e di intellettuale di Bruno Ciari, la ricchezza delle sue riflessioni, l’originalità delle sue sperimentazioni fa tornare alla mente quello che scrive ancora una volta Fiorenzo Alfieri, secondo il quale «è impressionante constatare quanto Bruno sia stato capace di precorrere i tempi. È pure vero che i precursori sono spesso creati dai successori» (Alfieri, 1992, p. 77). Infatti, continua Alfieri, sarebbe possibile e persino auspicabile cancellare venti anni di discussioni e tornare a Ciari, porgli le domande dell’attualità.

Inutile nasconderlo, mi sono convinto che sia in atto un grande ritorno ad alcune folgoranti intuizioni di Ciari e del suo ambiente professionale, come per fare un esempio tutt’altro che casuale c’è un ritorno a un livello di pensiero più generale, ai grandi «marginali del Novecento» come John Dewey e Ludwig Wittgenstein (Alfieri, 1992, p. 77).

La potenzialità liberatrice e democratica insita nelle tecniche didattiche, unita all’idea di scuola e di maestro che ha Ciari, torna oggi particolarmente utile a chi crede che l’inclusione passi attraverso la partecipazione e, quindi, la democrazia. La domanda che Ciari pone, ieri come oggi, è la stessa che solleva Alberto Alberti poco dopo la morte dell’amico: la prassi è rivoluzionaria? L’istituzione può essere liberatrice? Oggi, a cinquant’anni dalla morte di Bruno Ciari, come rispondiamo a queste domande?

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1 Università LUMSA, Roma.

2 Lumsa University of Rome.

Vol. 22, Issue 2, May 2023

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