Vol. 20, n. 4, novembre 2021

RICERCHE, PROPOSTE E METODI

Un dirigente inclusivo

Andrea Canevaro1

Sommario

L’organizzazione non è il contrario della libertà. Dirigere è valorizzare gli altri che sono accanto a noi. Bisogna essere curiosi e avere un progetto. La singola conoscenza non è sufficiente. Ci vogliono le diverse conoscenze di diversi esseri umani. Il progetto diventa inclusivo. Abbiamo la necessità di costruire innovazione sostenibile. Chi dirige non dovrebbe ritenersi nella perfezione perché dirige. Può sbagliare. L’inclusione è l’elogio dell’imperfezione. L’educazione inclusiva è l’impegno sempre perfettibile.

Parole chiave

Organizzazione, Curiosità, Inclusione, Ascolto e valorizzazione, Responsabilità e condivisione, Il rischio del narcisismo, Uno stile di vita coerente.

Research, proposals and methods

An inclusive school principal

Andrea Canevaro2

Abstract

The organization is not the opposite of freedom. Directing is valuing others who are next to us. You have to be curious and have a project. Single knowledge is not enough. It takes the different knowledge of different human beings. The project becomes inclusive. We need to build sustainable innovation. Those who direct should not consider themselves perfect because they direct. The director can be wrong. Inclusion is the praise of imperfection. Inclusive education is the commitment that can always be improved.

Keywords

Organization, Curiosity, Inclusion, Listening and enhancement, Responsibility and sharing, The risk of narcissism, A consistent lifestyle.

Presupposti

«In sostanza l’atto del determinarsi [come soggetto che cresce in questo mondo e nella sua storia] consiste in un confronto tra il nuovo e il vecchio, cioè nell’assunzione del nuovo attraverso il vecchio; esso costituisce un processo che, nel proprio svolgimento, esplicita i termini proposti dalla situazione nuova e gli elementi che sono già nell’io» (Neri, 1968, p. 59).

«Quale ruolo allora assegnare alla didattica razionale in rapporto alle istituzioni scolastiche? La pedagogia è il “fattore regolativo dell’ordinamento scolastico” che deve adattarsi alle esigenze sociali [...] Da siffatto adattamento, a cui devono piegarsi i concetti pedagogici generali, derivano le norme che regolano i programmi, gli orari la distribuzione delle materie, la compilazione dei libri di testo, la maniera pratica dell’insegnare. Ne deriva una “pedagogia speciale” il cui compito fondamentale risiede nel riuscire a realizzare queste minute questioni didattiche senza che siano mai persi di vista i concetti, ampi e finalizzati, della pedagogia generale» (Neri, 1968, p. 109).

Queste due citazioni contengono i presupposti per riflettere su come Sergio Neri, che morì venti anni fa, intendeva il compito — o il servizio — di dirigere, e nello specifico dirigere una scuola. Modalità e riflessioni tutt’altro che datate.

Conseguenze

Mario Lodi riteneva che l’organizzazione non fosse il contrario di libertà, ma il mezzo per passare dall’io al noi, vale a dire dalla consapevolezza della realtà sociale entro cui il singolo deve vivere (Lodi, 1963). Cooperare — e l’educazione è inevitabilmente lavorare con altri — è assunzione di responsabilità. Vi sono due aspetti decisivi nel rapporto fra pratiche della responsabilità e vita quotidiana:

  1. le pratiche di responsabilità hanno a che fare con gli altri, reali e concreti: sono intessute di tempi e spazi vissuti, di conflitti, di ragioni, di sentimenti ed emozioni intrecciate. Sono dimensioni dell’esperienza;
  2. queste pratiche sono incorporate. La responsabilità come risposta (a sé stessi e ad altri concreti) non può essere pensata fuori dalla dimensione corporea.

Sergio Neri, anche nell’ultimo periodo della sua vita, gravemente ammalato, accoglieva chi lo andava a trovare col suo «Allora?» e così chiariva che desiderava notizie. Leggeva l’ultimo libro di Morin, lo prestava a un amico, curioso di sapere. Non era solo curiosità. Aveva bisogno degli altri. Non cominciava per dire. Cominciava per cercare, interrogando e ascoltando. Curiosità e cura nei confronti dell’altro. Un bisogno che sottintendeva almeno un paio di cose.

  • Io non so tutto. Noi sappiamo, insieme, qualcosa di più. Se coinvolgessimo altri, sapremmo ancora di più. Conoscere insieme è andare avanti. Una conoscenza in continuo divenire.
  • Per andare avanti ci vuole un progetto. Fondato su leggi e vincoli di appartenenza e nello stesso tempo capace di aprirsi a un futuro che non è nelle leggi e nei vincoli di appartenenza, che sono alle nostre spalle, ma nell’innovazione compatibile con ciò che abbiamo alle spalle.

Umberto Veronesi,3 nel suo testamento, ha detto: «Il mestiere dell’uomo è pensare. Pensare autonomamente, coscientemente per costruire un sistema libero di interpretazione del mondo. Certo la nostra libertà di pensiero è limitata da scelte che non abbiamo potuto fare in prima persona: i genitori e il paese in cui nasciamo prima di tutto. Tuttavia, dobbiamo ampliare la nostra autonomia adottando il dubbio come metodo». Il sistema è libero se accetta i vincoli di appartenenza. Può sembrare una contraddizione, o un paradosso. Sergio Neri accetta i vincoli e desidera andare avanti con la progettazione di un’organizzazione che non li ignori ma non ne sia prigioniera. Non rimanda al passato e si organizza per avanzare nel futuro. Constata come non ci sia la capacità di vedere come costruire le cose; come vi sia una politica che si muove sul come fare. Uno sa come fare una cosa ma non ne ha una visione di insieme. Se non c’è un progetto più ampio si rimane fermi, se non c’è un’idea delle cose a lungo termine non si riesce più a distinguere. Discernimento e lungimiranza per umanizzarsi e umanizzare.

«Umanizzare vuol dire imparare ad appartenere, ma anche a trasgredire. Il principio di individuazione comporta la scoperta di ciascuno di noi come individuo singolo e la valorizzazione della sua unicità. Tale principio è importante, perché rende ogni persona responsabile, in quanto singolo, delle proprie azioni. Ciascuno vale per quello che è nella società, non per il sistema parentale o amicale a cui appartiene. Umanizzare significa cogliere questi due momenti: appartenenza e individuazione» (Neri, 1968, p. 211).

Rispetto delle competenze

Consideriamo negativa la percezione della qualità come sommatoria individuale, in particolare facendosi carico della problematica legata alle diversità o delle diversità che sono collegabili alle disabilità.

A livello mondiale, abbiamo avuto due grandi punti di riferimento concettuali da cui derivano delle pratiche.

Il primo è l’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proposto e che spingerebbe a praticare una logica in cui vengano combinati degli elementi prima di determinare il risultato di qualità: viene valutato cosa funziona, come funziona un individuo, quale è la sua deprivazione permanente e quale può essere il suo stato di salute, inteso più come qualità della vita che non come presenza esclusivamente individuale di uno stato morboso.

L’altra indicazione importante è quella delle buone pratiche. Le buone pratiche rappresentano una capacità di avere una solida ed equa organizzazione e non una molteplicità indefinita, frastagliata e segmentata di organizzazioni. Una buona organizzazione vive la dinamica del poter essere disponibile per tutti e per tutte.

È lì che si scopre il valore positivo del termine «globale»; la qualità globale significa unità della qualità rispettando le diversità delle domande: la risposta del’offerta è unitaria, per domande differenziate.

La qualità è certamente un processo, che deve contenere diverse variabili, permettendo di capire in che punto si è di una dinamica progressiva. La qualità non può essere un fotogramma distaccato ma deve essere il film, con la possibilità di vedere come si va avanti e di poter rimediare a possibili errori, a momenti in cui le situazioni non sono favorevoli per mille ragioni da esplicitare e non essere penalizzati non avendo una qualità che permetta l’assunzione di risorse.

Abbiamo la necessità di costruire innovazione sostenibile. La sostenibilità è un concetto che si ricollega alle pratiche, e comporta l’esaminare quali cambiamenti possono essere realizzati per un certo numero di anni, senza provocare dei rigetti. Ora è chiaro che la sostenibilità non è unicamente l’introdurre una novità efficace ma anche il cambiare il modo di pensare, a volte, alla novità; quindi, fare aderire alla novità avendo cura di operare dei processi di cambiamento formativo, culturale, nei soggetti che la adottano.

È importante capire quanto costi l’inclusione. Questo permetterà di capire quanto costi l’esclusione. L’inclusione può permettere:

  • di diffondere una maggiore capacità produttiva, anche in soggetti che sarebbero costretti a vivere passivamente dell’assistenza da parte di altri o da parte della comunità statale;
  • di investire in un progetto strutturale che migliora le possibilità di tutti, disponendo di servizi a carattere universale e non categoriale;
  • di promuovere la cittadinanza attiva, collegando le azioni dei singoli (famiglie, gruppi locali, associazioni di disabili e singoli disabili) alle strutture pubbliche.

Il progetto inclusivo é legato all’integrazione delle risorse. Questo ci deve spingere a ripensare alle alleanze tradizionali, rivolgerle non tanto a una diplomazia della sopravvivenza quanto a una progettazione di sviluppo. E questo si collega al collegamento con campi aziendali che hanno ritmi di rinnovo tali da esigere una cura particolare per l’implementazione delle competenze, nell’empowerment delle competenze dei loro addetti.

Organizzare per vivere un futuro e valorizzare le differenze

Dirigere vuol dire osservare e cercare di capire come «la vita diretta che si svolge in classe» offra un’occasione di apprendimento proprio a partire dalla diversità della disabilità. E non solo apprendimenti relativi a sentimenti solidali, ma anche di carattere scientifico, tecnico, storico, linguistico… «Apprendere è sempre apprendere con gli altri» (Neri, 1968, p. 110).

Entrare in un progetto per realizzare un progetto in cui riconoscersi. «Uno dei problemi che hanno oggi i ragazzi è questo, che non sentono il giorno dopo come un appuntamento, cioè la mattina vanno a scuola: “a fare cosa?”. “Non lo so”. Il discorso degli appuntamenti è molto importante, basterebbe che l’insegnante dedicasse l’ultima mezzora per creare un appuntamento per il giorno dopo».

«Si costruisce solo a partire da quello che c’è già, per poco che ci sia, deve avere qualcosa su cui appoggiare il piede e fare forza. Quindi, c’è bisogno di persone che leggano una diagnosi “in avanti”: quello che i bambini in situazione di handicap possono fare, anche vicino nel tempo, così da suggerire: “Guardate che fra tre mesi può avvenire questo: lavorate su questo!”. Non serve un giudizio del tipo: “è Down”; ne so quanto prima mi dicano piuttosto che cosa sa fare con le mani, come parla, di cosa soffre, quali sono le sue attitudini, le voglie che ha, in modo tale che io possa iniziare a costruire sul positivo. C’è bisogno di diagnosi mobili, non certe. Una diagnosi certa è un destino, mentre una diagnosi di tipo concertato offre margini di manovra, di azione. Hai bisogno dei “può darsi” con un ragazzo handicappato, anche se tutti tendono a vederlo come scritto una volta per sempre, chiuso» (Sergio Neri, in Nocera, 2001, p. 247).

La possibilità di stabilire in termini precisi ed esclusivi chi sono i soggetti dei processi di integrazione è più difficile oggi di ieri, e questo è un bene per certi aspetti. Poi abbiamo una necessità che è quella di rifarci a una storia che abbiamo cercato in tutti i modi di cambiare e in buona parte ci siamo riusciti. Riferendoci a Sergio Neri possiamo pensare che quando Sergio era impegnato all’Istituto Charitas aveva a che fare con vite che potevano essere rappresentate in due sole caselle di un immaginario gioco della vita: la nascita in una famiglia e la collocazione in un istituto, non vi era altro. Era più facile quindi chiarire chi fossero i soggetti che erano attorno a chi aveva una disabilità, dei bisogni particolari, ma non erano i soggetti nei processi di integrazione.

«[…] ragazzi legati, ragazzi morti dal freddo. […] Bambini che non avevano mai visto una forchetta in vita loro, neanche il cucchiaio, usavano ancora le mani […]» (Sergio Neri, in Veronesi, 2005, p. 98). Avendo perso la memoria di tutto ciò, qualcuno può credere che l’integrazione non funzioni e pensi che tornare a strutture separate sia meglio perché funzionano…

Sergio ha operato per disfare — questo termine è proprio preso alla lettera — la logica di un’istituzione totale per capire quanto fosse importante per soggetti con bisogni speciali poter vivere con gli altri. E le prime esperienze furono quelle delle colonie estive, apparentemente anch’esse legate a una concezione molto da caserma. La stessa costruzione edilizia delle colonie estive era in collocazioni geograficamente più belle, più capaci di offrire delle occasioni di spiaggia, di mari, di boschi; erano però costruzioni che rappresentavano più uno stile da caserma.

La colonia estiva, però, permetteva l’uscita e permetteva l’organizzazione di un ambiente in cui il soggetto che aveva preso abitudini da due caselle cominciava a percepire che vi erano altre due caselle nel gioco della vita ed erano legate alla possibilità di scegliere il pasto, ad esempio, di non avere sempre lo stesso modo di mangiare, di lavarsi per uscire, e quindi di avere anche un percorso davanti a sé, di dover scegliere gli amici con cui poter fare una gita breve alla spiaggia per fare il bagno, ecc. Si apriva la vita e cominciava un’integrazione, un percorso, un processo di integrazione che interessava pian piano tutti.

«[…] il nostro problema è di ragionare in chiave di progetti di vita, dobbiamo cominciare a pensare complessivamente alle risposte che diamo alle persone che hanno dei bisogni, pensarle assieme alle famiglie, assieme alle associazioni e a tutto quanto si muove all’interno di una città, in modo tale da non pensare che la vita di un ragazzo sia semplicemente in casa e a scuola, e più tardi al lavoro; c’è tutto un ambito di attività di carattere amicale, sociale e sportivo […]. Poi rimane il grande problema della transizione rispetto al lavoro […]» (Neri, 1968, p. 104).

Dirigente socratico: il coraggio per un ruolo di confine

I processi di integrazione hanno questa caratteristica di non sapere più fermarsi ed è un elemento che fa capire come ci sia una certa parentela tra integrazione e la democrazia. La democrazia non raggiunge mai il traguardo, e così l’integrazione, anzi più si avanza più si è sensibili a nuova democrazia, a più ampia e profonda democrazia e così per l’integrazione; e coinvolge piano piano tanti soggetti. I soggetti principali sono legati alle storie singolari. E non possiamo neanche dire che i soggetti principali sono le persone disabili perché questo ci porta al rischio del protagonismo che riporta indietro la storia, la riporta a nuove forme di assistenzialismo.

I processi di integrazione fanno scoprire come sia possibile partecipare all’integrazione a partire dal proprio ruolo. Mario Tortello, facendo il giornalista e anche il docente universitario — ma principalmente vorremmo sottolineare la sua attività professionale di giornalista — ci ha mostrato quanto sia importante fare informazione per favorire i processi inclusivi, essendo pubblicista forse, più che giornalista, ma anche il giornalista che stava sulle pagine di un giornale secondo le esigenze che il giornale aveva giorno per giorno. E giorno per giorno un giornalista diventa capace di alimentare i processi di integrazione. Un giornalista ha una maggiore visibilità di un cameriere di un caffè o di un ristorante ma quanto è importante anche per un cameriere di caffè o di ristorante essere attivo nei processi inclusivi.

Sergio Neri trasformava le frontiere in punti di incontro. Si esercitava nel comporre un insieme con elementi probabilmente abituati a tenere per sé le proprie qualità, vedere nei colleghi degli antagonisti, e fare di tutto per apparire zelanti e obbedienti. Potremmo dire che il dirigente Sergio Neri sia socratico. «Il dialogo socratico è una pratica di speranza perché crea un mondo di ascolto, di voci calme e di rispetto comune per la ragione. I suoi partecipanti condividono già un obiettivo: trovare l’argomentazione corretta. […] vogliono davvero capire cos’è il coraggio, non semplicemente trovare una storia a effetto sul coraggio» (Nussbaum, 2020, p. 196).

Chi dirige deve ascoltare tutte e tutti. Deve rischiare il sovraccarico di informazioni. L’infodemia (Valerio, 2020, p. 70). È il paradosso della memoria di un futuro, la memoria di un progetto. Bisogna ricordarsi l’appuntamento quotidiano che noi abbiamo con chi sta crescendo — qui noi abbiamo delle responsabilità! — è quello che conta, è l’elemento maggiore. E qui dobbiamo portare non la semplice attualità, ma l’attualità con il respiro della memoria e quindi anche con la possibilità che ci sia un futuro. Con la memoria c’è anche un progetto. Sono due elementi che non possono disgiungersi, se manca uno difficilmente si realizza l’altro.

Nei diari di classe di Sergio Neri — erano gli anni in cui lui insegnava nel modenese, a San Giacomo Roncole — c’è una riflessione che dice più o meno così: «Io devo rallentare alcune cose, devo differenziarle nel gruppo perché alcuni sono un po’ indietro su questo», era molto preciso, puntuale, «io potrei rivolgermi solo a questi e gli altri li potrei lasciare al ripetitore». In queste pagine Sergio Neri annota l’importanza della conversazione: «la classe mentre fa conversazione la devo guidare io, non devo lasciare che facciano loro, è importante perché ho bambini che potrebbero non avere mai queste possibilità di ascoltare, di conversare, perché a casa devono lavorare nei campi, c’è la maglieria». Il dirigente socratico deve saper azionare il freno, saper rallentare, non facendosi ubriacare dal fascino dell’immediato, per andare avanti tutti insieme nel progetto in fieri.

Ogni progetto innovativo rischia, specialmente negli anni in cui viviamo, di avere buone intenzioni di partenza e poi interpretazioni e sviluppi in disaccordo con le intenzioni. È quindi utile prendere sul serio le obiezioni critiche ed esaminare i modi per dar loro risposta, possibilmente positiva. È quello che tentiamo di fare prendendo in considerazione le prospettive di sviluppo, ritenendo così di prevenire le eventuali obiezioni critiche. L’approccio alle competenze può riferirsi a diverse prospettive.

  • La prospettiva innatista, che considera le competenze come presenti o meno nell’individuo, non pensandole in termini di sviluppo.
  • La prospettiva comportamentista, behaviorista, centrata sui soli risultati delle attività, senza preoccuparsi dei processi. Sostanzialmente l’apprendimento si realizza attraverso memorizzazione, riproduzione, applicazione.
  • L’approccio socio-cognitivo costruttivista, che prende in considerazione l’interazione fra gli individui e le loro disposizioni: motivazioni, esperienze fatte, capacità, aspirazioni. Favorisce l’attenzione ai processi, il confronto fra diverse procedure e diversi punti di vista. E privilegia i metodi attivi di esplorazione, scoperta, sperimentazione.
  • L’approccio contestuale. Il processo è correlato all’organizzazione del contesto, dei ruoli e dei compiti.

Gli ultimi due approcci, integrabili, possono contribuire efficacemente a vincere la sfida dell’inclusione, innovazione, arricchimento. E portano alla valorizzazione di un aspetto fondamentale, che chiamiamo coscienza ambientale.

Chi dirige non è Narciso

Sergio Neri non era narcisista. Non voleva imporre un suo progetto. Voleva organizzarlo insieme agli altri. Per questo riteniamo che sarebbe stato pronto ad accogliere i flussi migratori. «Nella parola “immigrazione” passa un soffio vivificante. Il più povero dei migranti può mettere in contatto delle differenze che sono il più nutriente alimento dell’identità» (Chamoiseaue Glissant, 2008, p. 32).

Sergio Neri era un educatore, e lo rimaneva essendo dirigente. Un essere umano che sta crescendo porta novità. Si proietta verso il futuro. Deve essere aiutato e incoraggiato in questa direzione. Dirigersi insieme. Una scuola deve tenerne conto. Non può essere un non luogo con l’obbligo di lasciar fuori ogni novità. Se chi dirige non vuole tener conto delle novità, trasmette agli insegnanti un analogo atteggiamento. Le conoscenze, plurali, sono scomode ed esiste la conoscenza codificata, già stabilita e che va soltanto trasmessa.

Le conoscenze che potrebbero arrivare da bidelle e bidelli, da famigliari di alunni, da autisti di pulmini, oltre che, certamente, da insegnanti e alunni, andrebbero assunte in modo da risultare evolutive, e quindi innovative e integrabili nell’ordito istituzionale. È un compito da Dirigente. Da solo? Un’armonia viene eseguita dal solo direttore d’orchestra? Dirigere per dirigersi insieme. L’inclusione è ecosistema. È il superamento delle logiche autoreferenziali disposte per categorie separate. Le esigenze di una persona anziana possono trovare risposte che valgono allo stesso modo per una persona giovane con deficit motorio. Risposte inclusive. Elogio dell’eterogeneità, delle contaminazioni. Prendiamo sul serio ciò che diceva Nadine Gordimer:4 la solitudine — che è assenza di contaminazioni — è vivere senza responsabilità sociali.

Nei momenti particolarmente difficili e complessi, viene sovente invocata la formazione. A sua volta può essere narcisista. Un dirigente narcisista vorrebbe far formazione con un formatore narcisista, in una catena di narcisismi che dovrebbe portare tutte e tutti a rispecchiare e a rispecchiarsi reciprocamente. Con la presunzione, narcisistica, che chi forma, specchiandosi in chi viene formato possa contemplare la perfezione. Essendo gli esseri umani tutti imperfetti, possiamo capire come la presunzione narcisistica possa avere conseguenze che cristallizzano la finta perfezione.

Chi dirige non dovrebbe ritenersi nella perfezione perché dirige. Può sbagliare. Esiste l’errore fecondo. E c’è sempre un altro appuntamento. Diceva Sergio Neri che il problema è che per fare l’educatore devi inventare sempre nuovi appuntamenti, nuove attese … ma se non hai un progetto, anche un progettino piccolo, è un guaio.

Sergio Neri sapeva bene che le imperfezioni sono il carburante della progettualità. Per questo teneva nella giusta considerazione le leggi. Ma non le riteneva l’elemento stabile da cui non staccarsi. Poteva appoggiarsi a loro, ma per andare oltre, come abbiamo già detto.

Chi dirige non deve plagiare. Non deve mettere le sue energie per modellare chi deve essere diretto. Deve proporre un progetto in crescita, e non l’esecuzione di una catena di comandi in cui ciascuno, anche chi ha il compito di dirigere, è anello che riceve e trasmette. Deve organizzare un progetto che valorizzi le capacità originali di ciascuno. Mettendo in luce le capacità, che sovente derivano da passioni, si ridimensionano gli inevitabili problemi dei caratteri. Diminuiscono invidie e vittimismi. Il progetto diventa il nostro progetto. Un progetto inclusivo.

Far vivere un progetto educativo inclusivo non diventa un elemento che riguarda unicamente le persone con disabilità. Può esserci e vivere in un farsi continuo anche nel caso non ci fossero presenti esseri umani con disabilità. L’inclusione è l’elogio dell’imperfezione. L’educazione inclusiva è l’impegno sempre perfettibile.

Verso la fine

Alla fine dei suoi giorni, Sergio Neri non cambiò stile. Continuò a progettare, e dunque a dirigere verso il continuamente perfettibile. Consapevole che un progetto educativo non appartiene a uno. È di tanti che possono andare avanti. Lasciando così il mondo un po’ meglio di come l’aveva trovato.

Non credere che tutto sia finito,

ragazzo. Spera, fatti una ragione

della tua pena. Per il nostro cuore

non c’è una primavera sola.

(da una poesia di Giacomo Noventa)5

Prima guerra detta mondiale. Siamo in trincea, gli austriaci sparano, gli italiani sparano, a un certo punto, c’è la luna, e un soldato napoletano si mette a cantare «o’ soldato innamorato». Il canto si alza nella notte, gli spari cessano: lo stanno ad ascoltare, lo applaudono e per quella notte non si sparano. Ci sono interruzioni di una logica che fan capire che ce n’era anche un’altra. Ermanno Olmi l’ha raccontato nello stupendo inizio del suo film Torneranno i prati. Sergio Neri l’ha indicato con la sua vita.

Bibliografia

Chamoiseau P. e Glissant E. (2008), Quando cadono i muri. L’identità nazionale fuori legge?, Roma, Nottetempo.

Ianes D. (2004), La diagnosi funzionale secondo l’ICF. Il modello OMS, le aree e gli strumenti, Trento, Erickson.

Lodi M. (1963), C’è speranza se questo accade al Vho, Milano, Edizioni Avanti!

Neri S. (1968), Labriola educatore e pedagogista, Modena-Mirandola, Ufficio Editoriale Pico.

Nocera S. (2001), Il diritto all’integrazione nella scuola dell’autonomia, Trento, Erickson.

Nussbaum M.C. (2020), La monarchia della paura. Considerazioni sulla crisi politica attuale, Bologna, il Mulino.

Pievani T. (2019), Imperfezione. Una storia naturale, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Valerio C. (2020), La matematica è politica, Torino, Einaudi.

Veronesi I. (2005), L’alfabeto di Sergio Neri. Le parole del pensiero pedagogico di un grande educatore, Trento, Erickson.

WHO – World Health Organization (2002), ICF - Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Trento, Erickson.


1 Professore emerito dell’Università degli Studi di Bologna.

2 Università degli Studi di Bologna.

3 Umberto Veronesi (1925-2016) oncologo e politico italiano. Fondatore e Presidente della Fondazione Umberto Veronesi, ha fondato e ricoperto il ruolo di direttore scientifico e di direttore scientifico emerito dell’Istituto europeo di oncologia. È stato direttore scientifico dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano dal 1976 al 1994.

4 Nadine Gordimer (1923-2014) è stata una scrittrice sudafricana, autrice di romanzi e saggi, vincitrice del Booker Prize nel 1974 e del Premio Nobel per la letteratura nel 1991. Nel gennaio 2007 le viene assegnato il Premio Grinzane Cavour per la Lettura.

5 Giacomo Noventa è stato un poeta e saggista italiano, il cui vero nome era Giacomo Ca’ Zorzi (Noventa di Piave, 31 marzo 1898 – Milano, 4 luglio 1960).

Vol. 20, Issue 4, November 2021

 

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