Vol. 20, n. 4, novembre 2021

PROSPETTIVE E MODELLI ITALIANI

Le competenze di ricerca degli insegnanti

Promuovere una didattica fondata sull’evidenza empirica1

Anna Maria Ciraci2, Maria Vittori Isidori3 e Concetta La Rocca4

Sommario

Già a partire dal Processo di Bologna del 1999, con cui la formazione degli insegnanti entra a far parte dell’Area europea di istruzione superiore, si ritiene necessaria una condizione di base: gli insegnanti devono conoscere i più recenti risultati della ricerca nelle discipline che insegnano e devono essere al corrente delle nuove indagini sui modi in cui una materia può essere insegnata e appresa e che l’evidenza scientifica ha dimostrato essere efficaci. L’articolo concerne gli esiti di una ricerca empirica volta a indagare prassi e opinioni degli insegnanti sulle attività di ricerca nelle scuole. Per raccogliere le informazioni è stato predisposto e somministrato un questionario strutturato a 296 insegnanti di ogni ordine e grado scolastico. Dai dati, sottoposti alle analisi statistiche pertinenti, emerge un quadro in cui sono presenti elementi interessanti, come la capacità dichiarata dagli insegnanti di documentarsi sui più recenti risultati della ricerca educativa e la convinzione della necessità di condividere con i colleghi indagini empiriche volte alla sperimentazione didattica; ma sono anche presenti alcune criticità, come la difficoltà a implementare gli esiti della ricerca accademica nella propria attività didattica, la conoscenza delle metodologie della ricerca e la scarsa partecipazione a progetti di ricerca in rete con Università e Enti di ricerca.

Parole chiave

Competenze di ricerca degli insegnanti, Didattica inclusiva, Formazione degli insegnanti, Insegnanti di sostegno.

ITALIAN MODELS AND PERSPECTIVES

The teachers’ research skills5

To promote a teaching founded on the empirical evidence

Anna Maria Ciraci6, Maria Vittori Isidori7 and Concetta La Rocca8

Abstract

Starting from the Bologna Process of 1999, where teacher training becomes part of the European area of higher education, a basic condition is considered necessary: teachers must have an in-depth knowledge of the most recent research results in the disciplines they teach and they need to be aware of new investigations, which scientific evidence has shown to be effective, into the ways in which a subject can be taught and learned. The article concerns the results of an empirical research aimed at investigating teachers’ practices and opinions on research activities in schools. In order to collect the information, a structured questionnaire was prepared and administered to 296 teachers of all grades and levels. From the data, subjected to the relevant statistical analyzes, a picture emerges in which there are interesting elements, such as the ability declared by teachers to obtain information on the most recent results of educational research and the conviction of the need to share empirical surveys aimed at didactic experimentation with colleagues, but there are also some critical issues, such as the difficulty in implementing the results of academic research in one’s teaching activity, the knowledge of research methodologies and the low participation in research projects networked with universities and research institutions.

Keywords

Teacher research skills, Inclusive education, Teacher training, Support teachers.

La formazione alla ricerca degli insegnanti

Con il Processo di Bologna, nel 1999, la formazione degli insegnanti entra a far parte dell’Area europea di istruzione superiore. Per ottemperare alle finalità dell’istruzione superiore, il prerequisito indispensabile è che la formazione degli insegnanti si fondi sulla ricerca a partire da una condizione di base: gli insegnanti devono conoscere profondamente i più recenti risultati della ricerca nelle materie che insegnano e devono essere al corrente delle nuove indagini sui modi, che l’evidenza empirica ha dimostrato essere efficaci, con cui una materia può essere insegnata e appresa. Già nel DPR 275/1999, «Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche», troviamo importanti riferimenti all’attività di ricerca degli insegnanti e delle scuole: «Le istituzioni scolastiche, singolarmente o tra loro associate, esercitano l’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo tenendo conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali» (art. 6, Autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo). Anche a livello internazionale, dai primi anni 2000, si comincia a evidenziare l’importanza per gli insegnanti di riflettere in maniera sistematica sulle loro pratiche, di intraprendere ricerche in classe e di incorporare nell’insegnamento i risultati delle ricerche effettuate in classe e delle ricerche accademiche (Commissione Europea, 2007). Nello stesso tempo va detto che la sola informazione della ricerca trasmessa dall’alto non è sufficiente a modificare le prassi degli insegnanti. La partita più alta si gioca proprio nel riuscire a trasferire questi principi generali nei diversi, multiformi e complessi contesti educativi. Le ricerche, infatti, partono da diversi quadri teorici, da diverse situazioni operative e da diverse caratteristiche personali di docenti e studenti, oltre che da altri fattori non controllabili. Gli studi empirici condotti in altri contesti possono senz’altro dare utili suggerimenti sui fattori che sembrano correlarsi al successo formativo e rappresentare un punto di riferimento per orientare la ricerca, ma gli insegnanti devono, prima di tutto, essere in grado di porsi domande significative sui problemi del proprio agire didattico, di leggere criticamente i risultati delle ricerche educative, di vagliare le differenti tipologie di evidenze selezionando i risultati più attendibili e di valutare la rilevanza di tali risultati per la propria pratica didattica. In realtà, le competenze di ricerca degli insegnanti sono state, finora, l’ambito più trascurato sia nella formazione dei docenti che nella pratica scolastica e la dialettica tra ricerca teorica e pratica didattica non è sempre stata facile. Oggi gli insegnanti, pur risolvendo i non pochi problemi che il contesto pone ogni giorno non hanno sempre consapevolezza del modo con cui giungono ad affrontare questi problemi. Parimenti poco sviluppato è il dibattito sull’epistemologia della pratica educativa: occorre modificare atteggiamenti e cultura degli insegnanti e allargare la consapevolezza della loro pratica affinché possano aprirsi a nuove possibilità per la soluzione dei problemi mediante una riflessione sul fatto educativo, condotta non con gli strumenti conoscitivi del senso comune ma con appropriato metodo scientifico. Per gli insegnanti non è importante possedere un repertorio di tecniche e linee precodificate di azione ma piuttosto sviluppare la capacità di cogliere il profilo originale delle situazioni e mettere in gioco abilità di innovazione, creazione, decisione che non risiedono in codici da apprendere ma si esplicano solo in «pratiche situate» (Schön, 1983; Mezirow, 1991). A questo riguardo non possiamo non considerare la progressiva importanza che hanno assunto negli ultimi decenni orientamenti volti a individuare metodi e conoscenze in grado di integrare ricerca teorica e pratica didattica. Ci riferiamo, in particolare, ai filoni di indagine di taglio fenomenologico in cui l’integrazione tra ricerca e pratica didattica ha assunto i connotati di una «riflessività ancorata all’azione» o «professionalità riflessiva» (Schön, 1983), contrassegnati come ricerca-azione, metodologia particolarmente sostenibile nel contesto scolastico in quanto caratterizzata dalla coincidenza tra ricercatori e insegnanti e finalizzata alla soluzione di un preciso problema evidenziato dagli stessi insegnanti.

Ma senza studi metodologici ed esperienza dei processi di ricerca è molto difficile che gli insegnanti interiorizzino un tale orientamento professionale, vale a dire che imparino ad avere un atteggiamento analitico e aperto verso il loro lavoro e che siano in grado di trarre conclusioni dalle proprie esperienze e osservazioni. Gli insegnanti hanno, pertanto, bisogno di apprendere un alfabeto critico scientifico. Di fronte alla necessità di assumere continuamente decisioni è indispensabile non tanto la conoscenza di tutta l’enciclopedia dei saperi pedagogici quanto, piuttosto, il possesso di tecniche di indagine scientifica che possano aiutare gli insegnanti a trovare una soluzione ai tanti problemi che si trovano di fronte (Ciraci, 2019a). Un curricolo per la formazione degli insegnanti non può più, dunque, essere pensato solo in termini di conoscenze teoriche da cui aspettarsi, semplicisticamente, una automatica applicazione nel contesto professionale (Ciraci e Isidori, 2017). Occorre modificare atteggiamenti e cultura degli insegnanti e allargare la consapevolezza della loro pratica affinché possano aprirsi a nuove possibilità per la soluzione dei problemi (Oberg, 1987) mediante una riflessione sul fatto educativo condotta non con gli strumenti conoscitivi del senso comune ma con appropriato metodo scientifico (Ciraci, 2019b). Le metodologie formali e tradizionali di formazione dovrebbero lasciare il passo ad attività meno strutturate, maggiormente basate su forme collaborative tra pari, che coinvolgano gli insegnanti in processi ciclici di azione e riflessione, come ad esempio il Lesson study (Lewis et al., 2012), con il coinvolgimento degli studenti «sul campo» (Chiappetta Cajola e Ciraci, 2019).

Se si vuole che l’insegnamento abbia uno status professionale elevato i curricula di formazione degli insegnanti debbono avere un orientamento non solo fondato sulla ricerca, ma anche informato da essa. La ricerca deve diventare stile di pensiero e strumento pedagogico per indagare, comprendere e intervenire nelle realtà educative e, nello stesso tempo, per sviluppare atteggiamenti riflessivi e accrescere le proprie competenze professionali. L’ideale punto di convergenza tra teoria e pratica diventa, quindi, un insegnante «ricercatore» capace di un atteggiamento riflessivo verso la propria attività professionale, in grado di scegliere tra alternative formalmente equivalenti e mettere in atto la sua scelta, controllarne i risultati, rivederne eventualmente il significato (Ciraci, 2019a). In particolare, nelle professioni educative per capire e intervenire nei contesti quotidiani, le competenze indispensabili sono relative soprattutto agli strumenti utili per osservare, analizzare, riflettere, sviluppare piani di intervento controllato per la soluzione dei problemi (Benvenuto, 2015). Si impone, dunque, la necessità di fornire agli insegnanti la strumentazione conoscitiva e metodologica opportuna per l’esercizio di una professione che diviene sempre più complessa e articolata in quanto rispecchia i molteplici problemi sociali in cui la formazione ha luogo.

Un passo in questa direzione era stato fatto con il DLgs 13 aprile 2017, n. 59, «Riordino, adeguamento e semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola Secondaria per renderlo funzionale alla valorizzazione sociale e culturale della professione, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera b), della legge 13 luglio 2015, n. 107», in base al quale l’attività dei futuri docenti doveva essere orientata anche verso la ricerca, nelle sue varie articolazioni metodologiche: i vincitori del concorso e titolari di contratto triennale FIT (Formazione iniziale, tirocinio e inserimento), sia su posto comune che su posto di sostegno, dovevano «predisporre e svolgere nel secondo e terzo anno di contratto un progetto di ricerca-azione, sotto la guida dei tutor universitario o accademico e coordinatore» (artt. 10 e 11); altresì il titolare di contratto FIT su posto comune era tenuto «ad acquisire 15 CFU/CFA complessivi nel biennio in ambiti formativi collegati alla innovazione e alla sperimentazione didattica» (art. 10).

Ma il DLgs 13 aprile 2017, n. 59, è stato riscritto a opera della legge di bilancio per il 2019 con cui il legislatore ha confermato la suddivisione del meccanismo di reclutamento in due fasi (la prima concorsuale e la seconda di formazione e prova) e il percorso FIT è stato sostituito da quello che viene chiamato percorso annuale di formazione iniziale e prova. Inoltre, a differenza di quanto era inizialmente previsto per il percorso FIT, la norma non si preoccupa di precisare quali siano i contenuti del percorso di formazione e prova che il docente sarà chiamato a percorrere.

In questa prospettiva il primo anno serve solo a svolgere una prova e a imporre al docente la partecipazione ad alcune attività formative, che sono però evidentemente ancillari e da realizzare nei ritagli di tempo rispetto all’impiego a tempo pieno nell’attività di insegnamento alla quale il docente viene immediatamente adibito. Una conferma del cambiamento così impresso alla logica che ispirava l’originaria impostazione del DLgs 59/2017 la si trae anche dalla parziale modifica dei requisiti di accesso all’iniziale fase concorsuale (Alvino, 2019).

Nella prospettiva di favorire una prassi didattica fondata sugli esiti della ricerca empirica si ritiene che andrebbe ripresa e meriterebbe di trovare un nuovo spazio la previsione, presente nella versione originaria del decreto, che prevedeva l’obbligo per il docente di avviare un progetto di ricerca-azione e più in generale la necessità di adibire il docente ad attività formative, di tipo laboratoriale, collegate alla innovazione e alla sperimentazione didattica. Ciò in considerazione del fatto che gli obiettivi del periodo annuale di formazione e prova inducono a concludere che lo stesso debba essere costruito al fine di favorire un’integrazione proficua fra approfondimento teorico delle tecniche didattiche e sperimentazione delle stesse sul campo, realizzando un circolo virtuoso tra acquisizione della professionalità da parte del futuro docente di ruolo della scuola Secondaria, avanzamento dello stato delle conoscenze e affinamento delle metodologie nel campo delle tecniche didattiche e della trasmissione del sapere critico in questo settore della formazione scolastica (Alvino, 2019).

I Bisogni Educativi Speciali (BES) e la didattica inclusiva informata dalla ricerca

Il riconoscimento dell’importanza di disporre di competenze di ricerca come elemento altamente qualificante la professione del docente, in particolare del «docente inclusivo», è qualcosa di consolidato in seno alla riflessione scientifica nazionale e internazionale (Asquini, 2018; Baldacci, 2010; Wang, Kretschmer e Hartman, 2010). Sappiamo che i Bisogni Educativi Speciali (BES) sono molti e diversi: una scuola davvero inclusiva dovrebbe essere in grado di leggerli tutti e di fornire le risposte necessarie. Un alunno può presentare BES quando il suo apprendimento, in uno o più dei vari ambiti, è rallentato o problematico. Questi rallentamenti o problematicità possono essere globali e pervasivi (ad es. Autismo), specifici (ad es. Dislessia), settoriali (ad es. Disturbi del linguaggio, Disturbi da deficit dell’attenzione con iperattività) e, naturalmente, più o meno gravi, permanenti o transitori (Consensus Conference, 2011). I fattori causali possono essere a livello organico, psicologico, familiare, sociale, culturale, ecc. In questi casi i bisogni educativi che tutti gli alunni hanno (per annoverarne solo qualcuno: il bisogno di sviluppare competenze, il bisogno di appartenenza, di identità, di valorizzazione, di accettazione) si articolano in modo tale da diventare speciali (Ciraci e Isidori, 2017). Ciò premesso, se il compito della scuola è quello di soddisfare i bisogni degli allievi in relazione alle differenze individuali di chi apprende, evidentemente diversificando l’organizzazione della didattica, è fondamentale che tutti gli insegnanti siano in grado di disporre di competenze pedagogiche, relazionali, valutative, organizzative e tecnologiche, ma anche riflessive e di ricerca (OECD, 2014).

La stessa attivazione del Corso di Specializzazione per il Sostegno in Italia (Decreto ministeriale 30 settembre 2011)9 attesta una qualche attenzione istituzionale a rendere questo ambito della formazione una componente organica e imprescindibile della professionalità dei futuri insegnanti (Calvani et al., 2017; Chiappetta Cajola e Ciraci, 2013; Ciraci e Isidori, 2017). Il percorso formativo è infatti teso a sollecitare un apprendimento attivo per il quale il corsista possa condurre un’esperienza, analizzarla, decontestualizzarla e riconfigurarla secondo schemi e modelli forniti dai docenti del corso, riprogettarla e metterla in atto. In questo il riferimento alla dimensione esplorativa e trasformativa dell’attività di ricerca (Bocci, 2003; Bruce, Flynn e Stagg-Peterson, 2011). Ciò per mezzo delle lezioni teoriche, ma in particolare dei Laboratori e dei Tirocini (diretti e indiretti) che rappresentano un’esperienza guidata di formazione pratica (Damiano, 2006), non certo una semplice riproduzione o imitazione di buone prassi consolidate (Margiotta, 2014).10 Si tratta di un apprendere dalla pratica, nella pratica, per la pratica; dimostrazione del legame inscindibile tra théoria, téchne e phrónesis (Bertagna, 2014). In riferimento alle competenze di ricerca, un legame, quello menzionato, che si intravede in modo evidente nel «profilo di competenze in uscita» dell’insegnante di sostegno che prevede la capacità di riflettere criticamente e di rivedere pratiche e scelte attraverso nuovi percorsi di ricerca e di innovazione.

Per quanto attiene in modo particolare al presente studio, viene indagato per così dire il rapporto che il docente stabilisce con le ricerche disponibili in letteratura le quali, se accostate in modo critico, possono realmente costituire fonti preziose per ricavare indicazioni utili a migliorare la qualità dell’intervento didattico (Calvani et al., 2017).

Notoriamente Perrenoud (2002) ha richiamato l’attenzione sulla necessità di alfabetizzare dal punto di vista metodologico tutti gli insegnanti in formazione iniziale poiché conoscere il linguaggio scientifico, la logica e gli strumenti della ricerca è indispensabile per poter comprendere e valutare la qualità delle ricerche cui ispirarsi per la pratica didattica. È poi necessario che i docenti conoscano l’effect-size dei metodi, che siano in grado di rielaborare il significato dell’esito della ricerca (Dean et al., 2012; Marshall e Smart, 2013).

Alcune indagini (Davis et al., 2013; Cochran-Smith e Lytle, 1999) finalizzate a individuare i predittori di uso delle ricerche empiriche nelle pratiche didattiche, oltre a confermare il basso livello d’impiego, hanno messo in luce, tra i fattori facilitanti, la competenza maturata nell’ambito della ricerca declinandola in termini di capacità di leggere, comprendere e valutare la qualità dei prodotti. Hattie (2016), a proposito dell’efficacia delle strategie didattiche, oltre a sottolineare l’influenza delle convinzioni degli insegnanti sul rendimento degli studenti e a richiamare la necessità di conoscere e intervenire sulla forma mentis dei docenti in riferimento alla loro formazione, ricorda che i docenti dovrebbero sapere non solo quali metodi applicare ma perché applicarli sulla base dell’evidenza scientifica. L’importanza di quanto appena detto si comprende dal fatto che il concetto stesso di efficacia in educazione e nella didattica è oggi più chiaro grazie alla ricerca e grazie al dibattito sulle condizioni necessarie (empiricità) ma non sufficienti (trasferibilità e modello esplicativo) (Calvani, 2012; Magnoler, 2012; Vivanet, 2014; 2015) per affermare quali interventi didattici «funzionino», vale a dire, quali abbiano effetti «visibili» sugli apprendimenti degli studenti. La ricerca in pedagogia e didattica speciale e inclusiva — cui gli insegnanti partecipano insieme a esperti di settore o contribuiscono in modo autonomo ad essa — ha fornito, a tal proposito, un modello integrato di efficacia degli interventi (Cottini e Morganti, 2015) utile a distinguere efficacy (risultati significativi in assoluto), effectiveness (effetti nel contesto reale) e implementation (monitoraggio nel tempo) e ad analizzare sempre «cosa funziona» (strategia, tecnica) all’interno delle specifiche «circostanze» (per quali studenti, per quali obiettivi) (Mitchell, 2017).

Comunità di ricerca e scuole in rete. Promuovere negli insegnanti la disposizione alla ricerca educativa

La capacità di lavorare in team può senz’altro essere considerata una delle competenze che dovrebbero essere possedute da un buon ricercatore, in particolare da coloro che agiscono in ambito educativo. Questa affermazione può essere articolata secondo una duplice linea argomentativa. La prima riguarda la natura stessa della scienza moderna e contemporanea, la seconda attiene alla specifica configurazione della professionalità del docente in generale e dell’insegnante di sostegno in particolare.

In merito alla prima questione, Stefan Amsterdamski (1983), nella sua riflessione sulla formazione del concetto moderno di scienza, rileva come il cammino del sapere scientifico non possa essere considerato un percorso lineare, solipsistico e autonomo, ma piuttosto come un cammino accidentato che deve essere costantemente posto a confronto con le forme di vita e di cultura storicamente determinate. L’autore rileva che il processo di istituzionalizzazione a cui è stata soggetta la scienza moderna richiede norme specifiche che «regolino il comportamento degli individui che se ne occupano, norme che debbono assicurare la realizzazione dei suoi scopi e la sua autonomia rispetto agli altri sistemi sociali» (Amsterdamski, 1983, p. 91). La ricerca scientifica, oltre all’obiettivo fondamentale di una disinteressata ricerca della verità, mira alla pubblicazione dei risultati per renderne possibile il controllo da parte della comunità scientifica e per il loro eventuale utilizzo nella pratica: il sapere scientifico non può essere tenuto nascosto o essere ritenuto di proprietà privata, ma deve essere considerato un bene comune e condiviso. Dunque il valore delle asserzioni scientifiche non è collegato a un singolo autore (non può uniformarsi all’ipse dixit), ma è il frutto di una interazione tra i soggetti che compongono una comunità scientifica i quali, avendo specifiche competenze e conoscenze in dato campo, possono produrre un dialogo, o un contraddittorio, pubblico al fine di generare l’unica vera oggettività a cui può aspirare la scienza, ovvero l’intersoggettività in grado di generare «conoscenza vera giustificata» (Pagnini, 1995).

Data questa sintetica cornice teorica sulla natura della scienza, si comprende come sia necessario assumere il punto di vista della collegialità da parte di chiunque voglia agire in modo «scientifico» nell’ambito della propria pratica professionale, ovvero i ricercatori in generale e gli insegnanti che, come si è detto, possono essere considerati, di fatto, professionisti e ricercatori nel campo dell’educazione.

Venendo alla seconda linea di ragionamento, come rilevato in alcuni studi (Dettori, Giannetti e Persico, 2006), si può partire dalla considerazione che una delle competenze che maggiormente qualifica la professionalità del docente sia quella dell’autoregolazione (Paris e Winograd, 2001; Bolhuis e Voeten, 2001), ovvero della capacità di osservare in modo sistematico i contesti formativi e di adattare le proprie conoscenze e le pratiche utilizzate per far fronte alla varietà delle situazioni che possono verificarsi in classe. Gli insegnanti in formazione possono sicuramente trarre vantaggio dal miglioramento della propria autoefficacia nell’esercizio della professione (Bandura, 1997) poiché ciò incentiva i processi riflessivi e motivazionali e potenzia gli aspetti affettivi producendo positivi cambiamenti nella fiducia del proprio operato (Corrigan e Taylor, 2004). Tuttavia, spesso, le capacità di autoregolazione sono considerate come espressioni della determinazione del singolo e non vengono inquadrate nella dimensione collaborativa (Dettori, Giannetti e Persico, 2006) quando invece, nei contesti lavorativi, gli insegnanti hanno bisogno di attingere alle competenze di collaborazione per rapportarsi con colleghi e figure professionali che rivestono ruoli e funzioni specifiche.

Per chiudere il ragionamento proposto, bisogna considerare che lo sviluppo di competenze di collaborazione rappresenta la base da cui partire per la costruzione di un contesto educativo dialogico, condiviso, costruttivo e costruibile, ovvero un contesto educativo nel quale si affinano e si pongono in essere vere e proprie comunità di ricerca scientifica che, di fatto, possono essere considerate coincidenti con comunità di apprendimento e di pratica. Gli insegnanti «ricercatori» che abbiano sviluppato tali competenze avranno la capacità di condividere teorie e pratiche, di sottoporle allo sguardo incrociato dei colleghi e dei professionisti che fanno parte del team di lavoro, di rilevare insieme punti di forza e criticità, di cambiare convinzioni e protocolli operativi sulla base delle evidenze osservate (La Rocca, 2015).

Per tutti gli insegnanti, e in particolare per quelli che si occupano degli allievi con bisogni speciali o disabilità, la capacità di variare l’approccio didattico è essenziale poiché è legata agli interventi personalizzati da offrire a ragazzi con esigenze particolari. Tuttavia, rispetto ai loro colleghi, gli insegnanti di sostegno affrontano ulteriori sfide: in particolare, hanno la necessità di sviluppare la dimensione collaborativa come pratica costitutiva dell’insegnamento per poter affinare la capacità di interagire con più figure professionali (Billingsley et al., 2009), e la flessibilità nell’adeguare continuamente la progettazione didattica e le strategie di valutazione alle evidenze delle situazioni emergenti (Brownell et al., 2010).

Le tecnologie digitali possono offrire un notevole supporto per sviluppare una comunità professionale di ricerca e di apprendimento basata su una piattaforma web — quale potrebbe essere, ad esempio, un ePortfolio (La Rocca, 2020; Serra, De Arment e Wetzel, 2013) — nella quale coinvolgere gli insegnanti in una attività di riflessione e di feedback con educatori esperti, al fine di promuovere lo sviluppo della cosiddetta «competenza adattiva» (Serra, De Arment e Wetzel, 2013). Per competenza adattiva si intende l’insieme delle competenze che il docente sviluppa nell’ambito cognitivo (pensiero critico, ragionamento, capacità di innovazione), nell’ambito intrapersonale (flessibilità, iniziativa, apprezzamento per la diversità, metacognizione), nell’ambito interpersonale (comunicazione, collaborazione, responsabilità). Gli «esperti adattivi» considerano il mondo come un contesto mutevole e instabile e assumono tale constatazione come un dato di fatto che rivela i propri limiti di conoscenza e di comprensione; essi però non vivono questa instabilità e mancanza di certezze come una condizione di limite e di precarietà negativa, ma piuttosto come una sfida alla quale potranno reagire, nell’interazione dialogica con la propria comunità professionale, ponendosi domande, cercando risposte e assumendo rischi e responsabilità per affrontare nuove situazioni (Crawford, 2007).

Il tema della comunità professionale inteso come ambito nel quale proporre attività di osservazione, di ricerca, di sperimentazione, di condivisione, è ormai ampiamente sostenuto sia a livello europeo, sia a livello nazionale. Già nel giugno del 1996, il Consiglio Europeo tenutosi a Firenze formulò alla Commissione un invito a elaborare un piano d’azione denominato Apprendere nella società dell’informazione, che mirava ad amplificare gli effetti di traino delle varie azioni condotte a livello nazionale e locale per collegare le scuole alle reti di comunicazione, formare gli insegnanti e sviluppare prodotti adeguati ai bisogni pedagogici.11 Tra le indicazioni espresse nel piano, risulta di particolare interesse quella di favorire l’interconnessione a livello della comunità delle reti locali, regionali e nazionali delle scuole.

In Italia, il già citato Regolamento dell’Autonomia Scolastica del 1999 (DPR 275/1999) ha introdotto l’invito a costruire reti di scuole nelle quali realizzare attività didattiche e di ricerca che possano promuovere una crescita e una maturazione delle responsabilità connesse all’autonomia e un’innovazione del sistema nazionale d’istruzione e formazione. Recentemente la necessità di promuovere azioni collaborative tra le scuole è stata ribadita nella legge 107/2015, la quale nell’art. l, commi 70, 71, 72, 74, fa esplicito riferimento a una «nuova organizzazione sul territorio e una nuova gestione delle risorse valorizzando sinergicamente l’autonomia scolastica e quella collaborazione e condivisione propositiva, che si riconosce alla forma organizzativa della rete» (MIUR, 2015). La norma prevede un nuovo assetto organizzativo che possa favorire una maggiore apertura delle scuole al territorio e al confronto operativo al fine di superare comportamenti competitivi e autoreferenziali. «L’aggregazione per ambiti consente alle scuole, nei diversi contesti, grazie alla sinergia di rete, di rafforzare le proprie competenze e svilupparne di nuove, di gestire e superare le problematicità, di avvalersi e condividere l’esperienza delle altre scuole partecipanti alla rete» (MIUR, 2015). Le reti di ambito e le reti di scopo, come previsto dalla legge 107/2015, rappresentano l’opportunità concreta per le scuole di cooperare nell’ambito di progetti condivisi nei quali far emergere e condividere le specificità di ciascun istituto scolastico. «Le reti rappresentano, quindi, uno strumento di cooperazione fra istituzioni scolastiche autonome che, attraverso la sottoscrizione di uno specifico accordo, si impegnano, in attuazione di un programma comune, a collaborare reciprocamente scambiando informazioni e realizzando molteplici attività, ottimizzando, inoltre, l’utilizzo delle risorse. Le scuole in rete hanno, infatti, la possibilità di raggiungere obiettivi superiori a quelli che riuscirebbero a perseguire agendo singolarmente e quindi di rispondere in modo adeguato alle esigenze di una società sempre più globale» (MIUR, 2015).

Sembra evidente che il concetto di comunità scientifica possa trovare una sua interessante realizzazione nella costruzione di comunità di ricerca e di pratiche educative per rispondere alle quali risulta necessario provvedere allo sviluppo, negli insegnanti, di competenze di collaborazione per la realizzazione di un atteggiamento professionale volto alla ricerca. L’insegnante «ricercatore», dunque, dovrebbe essere formato nella consapevolezza che tale professione non può essere svolta in una forma solipsistica, ma si sviluppa all’interno di un gruppo di lavoro che condivide obiettivi, metodi e forme di monitoraggio e valutazione, comprendendo che, nel suo operare, pensare, riflettere, correggere, indagare, non è solo ma è parte di una comunità educante e in formazione costituita dai colleghi e dalle figure professionali agenti nel contesto territoriale.

L’indagine empirica: obiettivo, metodo e strumenti

La ricerca che qui si presenta si colloca nell’ambito della problematica generale della formazione degli insegnanti. Anche perché, se molto è stato teorizzato, poco è stato fatto, e la prassi didattica quotidiana nelle scuole sembrerebbe, per alcuni aspetti, sostanzialmente immutata (OECD, 2014; Chiappetta Cajola e Ciraci, 2018; Consiglio dell’Unione Europea, 2018).

Obiettivo dell’indagine e dimensioni indagate

L’indagine ha avuto l’obiettivo di indagare atteggiamenti, percezioni, convinzioni e bisogni formativi degli insegnanti al fine di proporre un’impostazione dei programmi di formazione professionale orientati dalla e alla ricerca e promuovere una prassi didattica fondata sugli esiti della ricerca empirica.

In particolare, si è voluto indagare se gli insegnanti ritengono di:

  • essere in grado di porsi domande significative sui problemi del proprio agire didattico, di valutare l’efficacia delle proprie strategie d’insegnamento e modificarle conseguentemente;
  • conoscere i più recenti risultati della ricerca nelle discipline che insegnano e di essere al corrente delle nuove indagini sui modi in cui una materia può essere insegnata e appresa, con particolare attenzione agli studenti con BES;
  • essere in grado di incorporare nell’insegnamento i risultati delle ricerche effettuate in classe e delle ricerche accademiche;
  • essere in grado di leggere criticamente i risultati delle ricerche educative;
  • essere in grado di vagliare le differenti tipologie di evidenze selezionando i risultati più attendibili e di valutare la rilevanza di tali risultati per la propria pratica didattica inclusiva;
  • essere in grado di intraprendere ricerche in classe;
  • padroneggiare gli strumenti per la raccolta dei dati empirici;
  • essere in grado di strutturare un progetto di ricerca educativa.

Metodo e strumenti

L’indagine è stata condotta su due campioni distinti di insegnanti. Il primo campione è costituito 158 insegnanti ammessi al Corso di Specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità presso l’Università dell’Aquila. Il secondo campione è costituito da 138 insegnanti del I ciclo appartenenti a 11 Istituti Comprensivi della Regione Lazio.

Per indagare convinzioni e percezioni sulle competenze di ricerca degli insegnanti, in particolare in direzione inclusiva, è stato utilizzato un questionario12 composto da domande con alternative di risposta predeterminate, costituito da 2 sezioni: Sezione 1. Dati ascrittivi e posizione lavorativa: Età, Genere, Ordine di scuola dove si presta servizio, Titolo di studio, Anzianità di servizio nella scuola, Attività di insegnamento in qualità di docente per le attività di sostegno; Sezione 2. Le competenze di ricerca degli insegnanti. Il questionario somministrato al primo campione (insegnanti del Corso di Specializzazione presso l’Università dell’Aquila) contiene anche alcune domande relative alla didattica con allievi con Bisogni Educativi Speciali-BES. Il questionario è stato compilato in presenza dagli insegnanti del Corso di Specializzazione presso l’Università dell’Aquila nel mese di novembre 2019 e online (Fabbris, 2000) su Google Moduli (Forms) dagli insegnanti del I ciclo della Regione Lazio nel mese di dicembre 2019. Al fine di mitigare alcune distorsioni del test, come l’effetto acquiescenza o l’effetto di desiderabilità sociale, i questionari sono stati anonimi e auto compilati.

Per studiare i dati è stata condotta un’analisi monovariata di tipo descrittivo e a seguire un’analisi bivariata mediante tabelle di contingenza, individuando delle variabili chiave che per ipotesi potessero spiegare la nuvola dei dati: la struttura prevalente delle risposte è connessa con l’età anagrafica dei partecipanti ma più significativa ai fini dello studio è apparsa il tipo di formazione universitaria rilevata, che è stata sintetizzata in una variabile costruita a partire dalle risposte fornite alla serie di domande sulla formazione universitaria degli insegnanti. Questa variabile, che abbiamo chiamato «Formazione», ha dato origine a 5 aree omogenee, anche se non è stato possibile assicurare una equinumerosità delle stesse: «Umanistica-Formazione», «Scientifica-Economica-Giuridica», «Arte-Musica», «Linguistica», «Letteraria» (figura 1 in Appendice).

Le tabelle di contingenza ottenute confrontando la variabile «Formazione» con le risposte risultanti dai questionari sono state testate con la funzione di MS Excell «TEST.CHI.QUAD (int_effettivo; int_previsto)». Il test è stato applicato per ogni tabella ma anche per singole distribuzioni di risposta di ciascuna area di formazione. Lo scopo era di verificare statisticamente se per la domanda emergevano profili di risposta «significativi», ovvero spiegabili in funzione del tipo di formazione dei rispondenti. Sono state quindi calcolate le tabelle dei valori attesi e per ciascuna è stato applicato il test e verificata la probabilità con la quale si presentava il caso osservato. Una probabilità bassa indica una tabella di contingenza molto diversa dalla tabella dei valori attesi e quindi «poco probabile» da ottenere per casualità e viceversa per probabilità alte.

Data la limitata numerosità campionaria e per via del numero contenuto di alcuni gruppi come i docenti con formazione Arte-Musica, spesso il test ha restituito risultati non significativi ma in alcuni casi le evidenze hanno trovato conferma con probabilità molto basse (>15%) restituite dal test. In questi casi abbiamo ritenuto la Formazione dei docenti correlata con le risposte ottenute.

Descrizione del campione

L’indagine ha riguardato complessivamente 296 soggetti (di cui 272 femmine e 21 maschi, 3 soggetti non hanno fornito risposta) ed è stata condotta su due campioni distinti di insegnanti. Il primo campione è costituito da 151 insegnanti ammessi al Corso di Specializzazione per il sostegno presso l’Università dell’Aquila di cui: 31 per la scuola dell’Infanzia, 69 per la scuola Primaria, 28 per la scuola Secondaria di I grado, 23 per la scuola Secondaria di II grado. Tutti provenienti dalla Regione Abruzzo. In questo campione le dimensioni indicate sono state esplorate anche con particolare riferimento ai Bisogni Educativi Speciali, (BES). Il secondo campione è costituito da 138 insegnanti del I ciclo appartenenti a 11 Istituti Comprensivi della Regione Lazio di cui: solo 4 per Infanzia, 52 per Primaria, 82 per la scuola Secondaria di I grado. In questo campione non sono presenti insegnanti della scuola Secondaria di II grado. Per quanto riguarda i soggetti della Regione Abruzzo, il 76,7% di essi ha un diploma di laurea a fronte dell’82% dei soggetti della Regione Lazio, d’ora in poi indicati come II gruppo. Le lauree pedagogiche (Pedagogia/Sc.Educazione/Sc.FormazionePrimara) sono meglio rappresentate nel campione Abruzzo (34,8), mentre le Lauree tecnico/scientifiche in quello Lazio (25,4).

Le conoscenze disciplinari, la teoria pedagogica e la pratica in classe (in-school placement) sono gli elementi cardine di una formazione per futuri docenti efficace. Nonostante quasi tutti i sistemi educativi includano nei programmi anche una parte di formazione professionale affiancata allo studio delle discipline accademiche, la sua durata varia notevolmente da un Paese all’altro in Europa. La percentuale di formazione professionale inclusa nei percorsi di studio per diventare insegnante va da un massimo del 50% della durata totale della formazione iniziale nel Belgio francese, Irlanda per decrescere nei Paesi del sud Europa. In Italia il 60% degli insegnanti riferisce di essere stato formato in tutti e tre i principali aspetti della formazione (contenuti disciplinari, pedagogia generale e relativa alla specifica disciplina, pratica in classe). Per quanto riguarda la fase di avvio alla professione per i nuovi insegnanti in Italia l’anno di prova è obbligatorio per la conferma in ruolo dei docenti, ma è rivolto solo agli insegnanti assunti a tempo indeterminato (Eurydice, 2021).13 Un’altra evidente differenza tra i due sottogruppi da noi studiati è quella relativa all’anzianità di servizio che vede il 2,5% dei soggetti della specializzazione nel sostegno con un’anzianità superiore ai 15 anni a fronte del 70,3% dei docenti del Lazio (viceversa il 77,2% del gruppo dell’Aquila ha meno di 5 anni di anzianità di servizio a fronte del 3,6% dei docenti dell’area romana) (figura 2 in Appendice).

Da questo punto di vista c’è un’evidente differenza nell’esperienza di lavoro cui corrisponde una sintonica differenza nell’età anagrafica. Più giovani al primo gruppo, ma il nostro campione è relativamente giovane: il 23,3% dei soggetti ha un’età compresa tra i 41 e i 46 anni. Volendo proporre anche in questo caso qualche riflessione sulla scia del citato rapporto Eurydice (2021) Teacher in Europe: Careers, Development and Well-being, in alcuni Paesi UE, tra cui l’Italia, più della metà dei docenti andrà in pensione nei prossimi 15 anni e solo il 6,4% di insegnanti ha meno di 35 anni; solo in Grecia e in Portogallo la situazione è più critica, con il 4,6% e 3,4% rispettivamente. L’invecchiamento degli insegnanti interessa più della metà dei sistemi educativi. Alla luce della pandemia da Covid-19, l’età avanzata degli insegnanti aggiunge un ulteriore elemento di vulnerabilità ai sistemi educativi nel loro insieme, sia per la maggiore fragilità degli stessi, sia per la diffusa difficoltà tra gli insegnanti più anziani di gestire la didattica a distanza attraverso le nuove tecnologie. La carenza di insegnanti è peggiorata negli ultimi anni e riguarda 35 sistemi educativi in Europa. Le carenze sono più evidenti in materie come le STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) e le lingue straniere. Per concludere l’analisi, un tratto comune ai due gruppi è la prevalenza delle donne (149 e 123 soggetti di sesso femminile, 6 e 15 di sesso maschile) (Eurydice, 2021). Passando ora al grado scolastico in riferimento al quale sono impegnati nell’attività di docenza, il I gruppo è impegnato prevalentemente nelle scuole dell’Infanzia e Primaria (rispettivamente 19,6% e 43,7% docenti), il secondo gruppo nella scuola Primaria e Secondaria di secondo grado (37,7% e 59,4%).

Risultati

Principali evidenze relative ai due campioni

Gli insegnanti di entrambi i gruppi dichiarano in prevalenza («Abbastanza» e «Molto») di essere in grado di accedere alla letteratura di riferimento (figura 3 in Appendice), di conoscere i più recenti risultati della ricerca nelle discipline che insegnano (figura 4 in Appendice), di essere al corrente delle nuove indagini sui modi in cui una materia può essere insegnata e appresa (figura 5 in Appendice), quindi anche delle modalità didattiche che la ricerca empirica ha dimostrato essere efficaci (figura 6 in Appendice). Però, nonostante questo e nonostante il fatto che la maggior parte degli insegnanti dichiari di documentarsi e tenersi aggiornato sui risultati delle più recenti ricerche educative (figura 7 in Appendice), emerge una certa difficoltà a incorporare i risultati delle ricerche accademiche nella propria attività didattica (figura 8 in Appendice) date le elevate percentuali di «Poco» e «Per nulla». In questo caso il test chi quadrato evidenzia il profilo più significativo nell’area di formazione universitaria «Letteraria».

L’attività di sperimentazione in classe prevale invece nel campione del Lazio (Roma) (figura 9 in Appendice). Stranamente (ci sono delle sporadiche evidenze), i docenti di formazione scientifica, e solo loro, dichiarano in una percentuale significativa di non intraprendere attività di sperimentazione nella propria classe e questo viene confermato anche nella scarsa partecipazione a progetti di ricerca in rete con altre scuole e con Università o Enti di ricerca (figura 10 in Appendice).

La maggior parte degli insegnanti di entrambi i campioni dichiara di affrontare i problemi in classe e prendere decisioni sulla base di osservazioni sul campo (figura 11 in Appendice).

Infatti, gli insegnanti di entrambi i gruppi dichiarano in prevalenza («Abbastanza» e «Molto») di essere in grado di costruire e impiegare gli strumenti per la raccolta dei dati empirici e di analizzare e rappresentare i dati raccolti (figure 12 e 13 in Appendice).

Invece un minor numero di insegnanti dichiara di essere in grado di strutturare un progetto di ricerca educativa e di conoscere le diverse metodologie di ricerca (soprattutto nel gruppo dell’Aquila) (figure 14 e 15 in Appendice). Probabilmente gli strumenti per la raccolta dei dati non vengono utilizzati all’interno di un progetto di ricerca strutturato e con obiettivi individuati ma solo per raccogliere informazioni in modo saltuario e, fondamentalmente, di tipo contabile.

Anche gli strumenti utilizzati normalmente per raccogliere informazioni sono tutti ampiamente conosciuti e utilizzati senza distinzioni. Prevale l’uso di strumenti di natura qualitativa, come l’intervista (faccia a faccia e di gruppo) per il campione dell’Aquila (figure 16 e 17 in Appendice), mentre per quello di Roma prevale leggermente l’utilizzo del questionario (figura 18 in Appendice). L’osservazione (strutturata e non strutturata) viene molto utilizzata da entrambi i gruppi (figure 19 e 20 in Appendice). Il questionario differenzia i gruppi in base alle risposte con l’area «Linguistica» che lo usa più frequentemente e l’area «Scientifica» meno propensa. L’area scientifica in realtà si distingue per usare meno tutti gli strumenti, mentre l’area «Letteraria» presenta alte percentuali di mancata risposta su tutta la batteria di domande.

Infine, è interessante evidenziare che, tra gli ambiti in cui gli insegnanti vorrebbero sviluppare una ricerca, l’ambito didattico è prevalente per il campione di Roma mentre non è molto presente nel campione dell’Aquila. Probabilmente perché nel gruppo di Roma sono presenti in maggioranza docenti di ruolo e maggiormente coinvolti nella didattica quotidiana (figura 21 in Appendice). Anche in questo caso le risposte sembrano dipendere dall’esperienza dei docenti e quindi dall’anzianità di servizio.

Principali evidenze relative all’attività didattica inclusiva con allievi con BES del campione dell’Aquila

Un importante livello di riflessione, sviluppato attraverso la nostra indagine — che nel presente paragrafo rivolge l’attenzione agli esiti riferiti in modo particolare agli iscritti al Corso di Specializzazione alle attività di sostegno nell’A.A. 2018/19 presso l’Università dell’Aquila — è quello che attiene l’atteggiamento adottato dal docente di fronte a problemi di natura educativa e/o didattica con allievi con Bisogni Educativi Speciali (BES). Le risposte più frequenti sono quelle che vedono il docente «Impegnato a condividere con i colleghi le modalità per affrontare il problema»; a «Valutare l’efficacia del proprio operato modificandolo», a «Condividere le modalità per affrontare il problema con altri insegnanti di sostegno eventualmente presenti in classe» (figura 22 in Appendice).

Nello studio la risposta «Abbastanza» viene più frequentemente fornita dai corsisti, rispetto ad altre alternative, in riferimento alle seguenti risposte: «Sono in grado di strutturare un progetto di ricerca educativa inclusivo nelle sue diverse fasi» (il 44,3%) (figura 23 in Appendice); «Conosco le metodologie della ricerca educativa» (il 43,7%); «Incorporo nella mia attività didattica i risultati delle ricerche accademiche» (il 38,0%).

Nel questionario, alla domanda «In relazione alle sue competenze di ricerca riferite agli allievi con BES, indichi quanto ritiene di padroneggiare le seguenti conoscenze e attività», la maggior parte dei soggetti intervistati risponde «Abbastanza» alle seguenti alternative: «Conosco i più recenti risultati della ricerca nelle materie che insegno» (il 53,8%); «Sono al corrente delle nuove indagini sui modi in cui una materia può essere insegnata e appresa» (46,2%); «Sono al corrente delle modalità didattiche che la ricerca empirica ha dimostrato essere efficaci» (il 47,5%); «Sono in grado di accedere alla letteratura scientifica di riferimento» (il 42,4%).

Per quanto riguarda l’inclusione delle persone con disabilità, i soggetti del campione rispondono con maggiore frequenza «Abbastanza» (30,4%) alla risposta «Metto in atto procedure di osservazione dei vari aspetti del funzionamento umano secondo il modello ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health)» (figura 24 in Appendice).

In realtà nel campione dell’Aquila i risultati in tale direzione non sono confortanti. Gli insegnanti rispondono in prevalenza «Per nulla» o «Poco» alle seguenti alternative: «Cerco di attivare collaborazioni con le Università e con altri soggetti pubblici e privati che svolgono attività di ricerca» (39,2% e 31,6%); «Partecipo/ho partecipato a progetti di ricerca didattica con l’università o con altri enti di ricerca in cui è/era coinvolta la mia scuola» (48,1% e 19%). Evidenti le fragilità nella possibilità di partecipare a progetti di ricerca collaborativa (Marzano, 2007; Farrell e Ives, 2015) assumendo il ruolo di co-ricercatore. Carenza confermata dalla prevalenza di «Poco» e «Abbastanza» alla domanda «La mia scuola aderisce a reti di scuole aventi a oggetto attività di ricerca e di sperimentazione» (figura 25 in Appendice).

In tal caso gli insegnanti avrebbero la possibilità di sperimentarsi in qualità di ricercatore con la guida di un esperto che stabilisce con loro una relazione simmetrica fondata sulla condivisione e sulla compartecipazione (Perla, 2013; Peterson e Dixon, 2014).

Siamo quindi di fronte a un’altra importante area di miglioramento nella formazione dell’insegnante di sostegno, quella relativa alla competenza esercitata in autonomia progettando e implementando azioni di ricerca nel proprio contesto professionale (Scruggs, Mastropieri e McDuffie, 2006). L’insegnante diviene a tutti gli effetti un ricercatore cui sono richieste non solo conoscenze e strumenti metodologici di base ma anche un solido background rispetto agli approcci, ai dispositivi, alle tecniche. Nel nostro campione, alla domanda «Nel caso in cui abbia svolto osservazioni e registrazioni di dati, quali strumenti ha utilizzato per raccogliere le informazioni?» i docenti del corso rispondono con maggiore frequenza «Molto» (il 32,9% dei casi) per le prove di verifica dell’apprendimento e per l’osservazione strutturata e non strutturata (36,0%); mentre per l’intervista faccia a faccia, l’intervista di gruppo e il questionario la risposta prevalente è «Abbastanza» (31,0%, 32,3% e 32,3%). Infine, per l’utilizzo dei documenti prodotti dalla scuola la risposta più frequente è «Molto» (il 32,9%).

Comunque, la consapevolezza dell’importanza della ricerca valutativa nella didattica inclusiva è confermata dal prevalere di risposte «Molto» e «Moltissimo». Nelle alternative alla domanda «A suo parere la ricerca in ambito valutativo può essere utile per…», il 42,4% del campione ha risposto «Molto» all’alternativa «Porre sotto osservazione le proprie attività di insegnamento al fine di riprogettare il percorso». In riferimento agli «Ambiti in cui si dovrebbe sviluppare la ricerca», analizzando nella presente discussione le alternative più pertinenti alla didattica nei BES, il 55,7% dei soggetti indica «Molto» per gli «Ambiti della comunicazione e della relazione», seguito da «Individuare strategie di insegnamento per i BES» (figura 26 in Appendice, dove il 43,0% degli intervistati risponde «Moltissimo»), e dall’ambito «Sostenere gli alunni nella motivazione allo studio»(figura 27 in Appendice, dove il 41,1% degli intervistati risponde «Molto»).

In questa prospettiva, la competenza di ricerca, qualora padroneggiata, rafforzerebbe le competenze disciplinari trasformandosi in una leva per promuovere un apprendimento critico e personalizzato da parte degli alunni; per facilitare una rielaborazione personale del sapere infatti non è sufficiente conoscere le discipline ma occorre proporle con un atteggiamento volto all’indagine (Waters, 2011) seguendo la logica della ricerca, mettendo in evidenza come si è giunti a un determinato risultato, senza disgiungere il prodotto (la conoscenza) dal processo della sua costruzione. Nota a tal proposito Nigris (Nigris et al., 2020), che un insegnante che continua a interrogare i significati della sua disciplina dall’interno non solo fa ricerca, ma è in ricerca.

Le opinioni degli insegnanti sulla dimensione collaborativa

In questo paragrafo si dà conto delle opinioni espresse dagli insegnanti in merito al valore della dimensione collaborativa nell’esercizio della professione docente e nella prospettiva di considerare sé stessi come «ricercatori» sul campo. Operativamente, si è proceduto estrapolando dal questionario le domande e le alternative di risposta selezionate dai rispondenti in merito alla questione suddetta.

Alla domanda «Nella sua esperienza, quando ha incontrato problemi di natura educativa e/o didattica con allievi BES cosa ha fatto?» il 72,3% del totale dei rispondenti sceglie l’alternativa: «Ho condiviso con gli altri docenti della classe le modalità per affrontare il problema». Questo dimostra che una grande parte degli intervistati ha piena consapevolezza della necessità di condividere con i colleghi le difficoltà e le problematicità che emergono quando si tratta di fare fronte a casi che riguardano soggetti con difficoltà. Questa consapevolezza però tende a non mostrarsi così ferma quando la domanda diventa più generale: «Quando si è trovata/o a affrontare un problema in classe, la sua decisione si è basata prevalentemente su…». Tra le alternative possibili, quella di fare ricorso ai consigli dei colleghi, in particolare nella rete romana (che alla domanda precedente si era attestata sul 73,9%), viene selezionata da meno della metà dei rispondenti, ovvero dal 45,7%, sommando i livelli «Molto» e «Abbastanza». Si ritiene possibile ipotizzare due interpretazioni: in primo luogo sembrerebbe che gli insegnanti abbiano bisogno di confrontarsi con i colleghi in particolare quando si trovino ad aver a che fare con allievi che abbiano bisogni speciali; la seconda interpretazione potrebbe assumere l’ipotesi che gli insegnanti considerino distinte le attività del condividere con gli altri docenti della classe le modalità per affrontare il problema e del fare ricorso ai consigli dei colleghi, considerando la prima come una prassi didattica strutturata e dunque auspicabile e la seconda come la manifestazione di un atteggiamento sicuramente collaborativo e amichevole ma forse poco professionale. Comunque, questa ambivalenza, rilevata analizzando le risposte suddette, potrebbe essere anche l’espressione di un disorientamento in merito a cosa siano effettivamente le competenze di collaborazione e cosa abbiano a che fare con la professione e con lo sviluppo di un atteggiamento volto alla ricerca. Infatti, sempre gli insegnanti della rete romana, alla domanda: «A suo avviso quali ambiti e progetti di ricerca risultano oggi prioritari per il docente-ricercatore?» il 90,6% si esprime indicando la realizzazione di percorsi curriculari per lo sviluppo di competenze sociali. L’alta percentuale dei rispondenti mostra con grande chiarezza la convinzione che sia essenziale potenziare la ricerca sul campo proprio nell’ambito dello sviluppo di competenze sociali, di collaborazione, utili sia per costruire contesti solidali e inclusivi, sia per condividere con i colleghi indagini empiriche volte alla sperimentazione didattica e alla sua verifica.

A questo proposito, nell’ottica di effettuare una riflessione in merito ai possibili rapporti di collaborazione che potrebbero essere promossi tra il mondo della scuola e le Università o altri enti di ricerca, vengono formulate le domande riportate nella tabella 1 sottostante.

Tabella 1

Esperienze di collaborazione e di ricerca con Università o con altri Enti di ricerca.

% Aquila

% Roma

Totale

158

138

296

Cerco di attivare collaborazioni con le Università e con altri soggetti che svolgono attività di ricerca

Per nulla

Poco

Abbastanza

Molto

Non risponde

39,2%

31,6%

9,5%

4,4%

15,2%

Per nulla

Poco

Abbastanza

Molto

Non risponde

27,5%

35,5%

29,7%

7,2%

0,0%

Per nulla

Poco

Abbastanza

Molto

Non risponde

33,8%

33,4%

18,9%

5,7%

8,1%

Partecipo/Ho partecipato a progetti di ricerca didattica con l’Università o con altri enti di ricerca

Per nulla

Poco

Abbastanza

Molto

Non risponde

48,1%

19,0%

13,9%

6,3%

12,7%

Per nulla

Poco

Abbastanza

Molto

Non risponde

28,3%

27,5%

31,9%

12,3%

0,0%

Per nulla

Poco

Abbastanza

Molto

Non risponde

38,9%

23,0%

22,3%

9,1%

6,8%

Come è evidente, sommando «Molto» e «Abbastanza», solo il 24,6% del totale dei partecipanti asserisce di aver cercato di instaurare collaborazioni con enti che abbiano scopo di ricerca, e che, sempre sommando «Molto» e «Abbastanza», solo il 31,4% dichiara di aver partecipato a progetti di ricerca nei quali fossero stati coinvolti anche Università o altri enti. Senza entrare nel merito delle differenze tra i due soggetti territoriali coinvolti nell’indagine, per le quali si evince una percentuale decisamente minore di risposte sui livelli «Molto» più «Abbastanza» per l’Aquila, sembra opportuno rilevare che, a fronte dei dati emersi, sarebbe davvero auspicabile poter implementare una fattiva collaborazione tra gli istituti ufficialmente preposti alla ricerca e le scuole al fine di promuovere iniziative utili all’esplorazione in campo educativo e alla messa a punto di dispositivi di miglioramento per la qualità del sistema di istruzione.

Per concludere, sembra esplicativo evidenziare che alla richiesta di indicare, tra gli ambiti elencati, quelli su cui si vorrebbe sviluppare un’attività di ricerca, il 52,4% degli insegnanti sceglie quello relativo all’«Ambito relazionale e della comunicazione (comunicazione in classe e gestione dei conflitti con colleghi, genitori, dirigente)» ed è interessante rilevare che questo ambito risulta essere preceduto solo da quello che riguarda l’apprendimento (metodo di studio, motivazione, ecc.) e che la differenza è solo di circa un punto (53,7%). Quest’ultima rilevazione offre un importante spunto di riflessione: gli insegnanti, sebbene abbiano collaborato poco con gli istituti di ricerca e sebbene esprimano qualche tipo di disorientamento in merito alle modalità in cui poter collaborare con un team di lavoro, o forse proprio a causa di ciò, manifestano l’urgenza di poter realizzare percorsi curriculari per lo sviluppo di competenze sociali e di attivare processi di ricerca che riguardino l’ambito delle relazioni e della comunicazione. Detto in altri termini, sembra che i rispondenti siano profondamente convinti dell’importanza dello sviluppo di competenze di collaborazione sia per costruire contesti collaborativi e inclusivi, sia per avviare proficue attività di ricerca coinvolgendosi nei gruppi di lavoro e nei team professionali, confermando con ciò la necessità di promuovere disposizioni collaborative negli insegnanti al fine di facilitare la costruzione di comunità di pratica-apprendimento-ricerca.

Discussione e conclusioni

Dai dati emerge un quadro in cui sono presenti elementi interessanti, come la capacità dichiarata dagli insegnanti di documentarsi sui più recenti risultati della ricerca educativa, ma sono anche presenti alcune criticità, come la difficoltà a implementare gli esiti della ricerca accademica nella propria attività didattica e la conoscenza delle metodologie della ricerca. Buona parte degli insegnanti intervistati, infatti, pur affermando di padroneggiare e utilizzare gli strumenti per la raccolta dei dati empirici, dichiara di avere maggiori difficoltà a strutturare e realizzare un progetto di ricerca in classe. Più in generale le risposte sembrano dipendere dall’esperienza dei docenti e quindi dall’anzianità di servizio anche se ci sono delle sporadiche evidenze di minor conoscenza delle metodologie di ricerca da parte di alcuni gruppi come, ad esempio, i docenti con formazione universitaria in ambito scientifico. L’incorporare nella attività didattica i risultati delle ricerche accademiche è una casistica critica con elevate percentuali di «Poco» e «Per nulla». Qui il gruppo dell’area di formazione universitaria «Arte-Musica» si mostra con maggior esperienza e più incline all’attività anche se il test del chi quadrato evidenzia come più significativo il profilo dell’area «Letteraria». Da evidenziare che riguardo agli ambiti in cui gli insegnanti vorrebbero sviluppare un’attività di ricerca la risposta più frequente nel campione è «Ambito dell’apprendimento (metodo di studio, motivazione, ecc.)» per le aree di formazione universitaria «Umanistica-Formazione» e «Arte-Musica»; per le aree «Letteraria», «Scientifica» e «Linguistica» la risposta più frequente è stata «Ambito della progettazione didattica», mentre per l’area senza formazione universitaria la risposta più frequente è stata «Ambito relazionale e della comunicazione».

In particolare, nel campione impegnato nella formazione per le attività di sostegno (campione dell’Aquila) risulta carente la partecipazione a progetti di ricerca con le Università e il coinvolgimento della scuola, in cui i soggetti prestano servizio, in reti di scuole che lavorano in modo comune alle indagini. Emerge comunque una consapevolezza dell’importanza dell’attività di ricerca nel promuovere i processi d’apprendimento di carattere inclusivo e un utilizzo preponderante dell’osservazione come sistema di registrazione dei dati.

Nel complesso un’alta percentuale dei rispondenti mostra, con grande chiarezza, la convinzione che sia essenziale potenziare la ricerca sul campo proprio nell’ambito dello sviluppo di competenze di collaborazione, utili sia per costruire contesti solidali e inclusivi, sia per condividere con i colleghi indagini empiriche volte alla sperimentazione didattica e alla sua verifica.

Per concludere, nella prospettiva di promuovere percorsi formativi per gli insegnanti non solo fondati sulla ricerca, ma anche informati da essa, occorre partire dalla consapevolezza che l’insegnamento rappresenta un processo complesso, impegnativo nella pratica quotidiana, non facilmente rilevabile mediante formule lineari, storicamente determinate e perlopiù soggette alle influenze culturali, politiche e sociali che caratterizzano ogni fase storica. L’insegnante professionista dovrebbe essere prima di tutto un insegnante in grado di riflettere sulle proprie pratiche per trovare nuove e appropriate strategie per risolvere le situazioni problematiche che gli si presentano durante l’ordinaria situazione lavorativa. Aldo Visalberghi, già nel 1978, a proposito della formazione degli insegnanti, sosteneva che le istituzioni di preparazione degli insegnanti dovrebbero operare come centri di ricerca al livello scientifico più avanzato attraverso un rapporto di interscambio continuo, di suggestioni, di ipotesi e di collaborazione. «Solo respirando l’atmosfera di vere istituzioni scientifiche il futuro insegnante o operatore educativo può interiorizzare l’atteggiamento scientifico ed evitare i pericoli di un nuovo enciclopedismo epidermico» (Visalberghi, 1978). Un insegnante che vuole sollecitare processi attivi di costruzione ed elaborazione autonoma delle conoscenze nei propri allievi, potrà essere «in grado di “insegnare a ricercare”, solo se egli stesso è capace di farlo in prima persona, se ha imparato a formulare problemi, a risolverli proponendo e verificando soluzioni ipotetiche, a raccogliere e analizzare dati pertinenti, a trarre da queste conclusioni, anche operative, conseguenti» (Pontecorvo, 1984, p. 378).

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1 L’articolo è il risultato del lavoro congiunto delle tre autrici. In particolare, sono da attribuire a Anna Maria Ciraci i paragrafi: «La formazione alla ricerca degli insegnanti»; «L’indagine empirica: obiettivo, metodo e strumenti»; «Risultati. Principali evidenze relative ai due campioni»; a Maria Vittoria Isidori i paragrafi: «I Bisogni Educativi Speciali (BES) e la didattica inclusiva informata dalla ricerca»; «Descrizione del campione»; «Risultati. Principali evidenze relative all’attività didattica inclusiva con allievi con BES del campione dell’Aquila»; a Concetta La Rocca i paragrafi: «Comunità di ricerca e scuole in rete. Promuovere negli insegnanti la disposizione alla ricerca educativa»; «Risultati. Le opinioni degli insegnanti sulla dimensione collaborativa»; il paragrafo «Discussione e conclusioni» è stato scritto in collaborazione dalle tre autrici.

2 Professoressa Associata di Didattica e Pedagogia Speciale, Università degli Studi Roma Tre.

3 Professoressa Associata di Didattica e Pedagogia Speciale, Università degli Studi dell’Aquila.

4 Professoressa Associata di Didattica e Pedagogia Speciale, Università degli Studi Roma Tre.

5 The article has been written by the three authors. In particular, Anna Maria Ciraci wrote the paragraphs: «La formazione alla ricerca degli insegnanti»; «L’indagine empirica: obiettivo, metodo e strumenti»; «Risultati. Principali evidenze relative ai due campioni»; Maria Vittoria Isidori wrote the paragraphs: «I Bisogni Educativi Speciali (BES) e la didattica inclusiva informata dalla ricerca»; «Descrizione del campione»; «Risultati. Principali evidenze relative all’attività didattica inclusiva con allievi con BES del campione dell’Aquila»; Concetta La Rocca wrote the paragraphs: «Comunità di ricerca e scuole in rete. Promuovere negli insegnanti la disposizione alla ricerca educativa»; «Risultati. Le opinioni degli insegnanti sulla dimensione collaborativa»; the paragraph «Discussione e conclusioni» has been written by the three authors together.

6 Università degli Studi Roma Tre.

7 Università degli Studi dell’Aquila.

8 Università degli Studi Roma Tre.

9 Il Decreto del 30 settembre 2011, n. 249, «Criteri e modalità per lo svolgimento dei corsi di formazione per il conseguimento della specializzazione per le attività di sostegno, ai sensi degli articoli 5 e 13 del decreto 10 settembre 2010», delinea il profilo del docente specializzato per il sostegno come indicato anche dall’art. 13 della legge 104/92 («Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate»).

10 La specializzazione sul sostegno si consegue presso le università (art. 13 decreto 249/2010), tramite corsi di formazione a numero programmato, di 60 crediti formativi, a cui se ne aggiungono altri 12 da maturare in 300 ore di tirocinio. Per conseguire le competenze necessarie, il percorso formativo si articola in insegnamenti (36 CFU), laboratori (diversificati per gradi scuola, si compongono di 9 CFU – 1 CFU a laboratorio), il tirocinio (da svolgersi in gran parte presso le istituzioni scolastiche, prevede 300 ore; 12 CFU).

11 In Apprendere nella società dell’informazione, edscuola.it (consultato il 30 maggio 2021).

12 Il questionario è stato costruito, e sottoposto a try out, da A.M. Ciraci prendendo come riferimento il Questionario CDVR per la rilevazione delle competenze didattiche, valutative e relazionali degli insegnanti (Domenici, Biasi e Ciraci, 2014).

13 Il rapporto copre i 27 Stati membri dell’UE, oltre a Regno Unito, Albania, Bosnia ed Erzegovina, Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Montenegro, Macedonia del Nord, Norvegia, Serbia e Turchia (Eurydice, 2021).

Vol. 20, Issue 4, November 2021

APPENDICE

Figura 1

Aree della formazione universitaria.

Figura 2

Anzianità di servizio.

Figura 3

Capacità di accedere alla letteratura.

Figura 4

Conoscenza dei più recenti risultati della ricerca nella materia insegnata.

Figura 5

Conoscenza delle nuove indagini su insegnamento-apprendimento della disciplina.

Figura 6

Conoscenza delle didattiche efficaci.

Figura 7

Capacità di documentarsi sui risultati delle ricerche educative.

Figura 8

Capacità di incorporare i risultati delle ricerche nella didattica.

Figura 9

Capacità di svolgere sperimentazioni in classe.

Figura 10

Collaborazioni con Scuole, Università e Enti di ricerca.

Figura 11

Immagine che contiene testo Descrizione generata automaticamente

Capacità di affrontare i problemi sulla base di dati e osservazioni empiriche.

Figura 12

Capacità di costruire e impiegare strumenti per la raccolta dei dati.

Figura 13

Capacità di raccogliere, analizzare e rappresentare dati.

Figura 14

Capacità di strutturare un progetto di ricerca.

Figura 15

Conoscenza delle metodologie della ricerca educativa.

Figura 16

Uso dell’Intervista faccia a faccia.

Figura 17

Uso dell’Intervista di gruppo.

Figura 18

Uso del Questionario.

Figura 19

Uso dell’osservazione strutturata.

Figura 20

Uso dell’osservzione non strutturata.

Figura 21

Ambiti in cui gli insegnanti vorrebbero sviluppare una ricerca.

Figura 22

Il docente di fronte a problemi di natura educativa e/o didattica con allievi con BES.

Figura 23

Capacità di strutturare un progetto didattico inclusivo.

Figura 24

Immagine che contiene testo Descrizione generata automaticamente

Attivare procedure di osservazione secondo il modello ICF.

Figura 25

Adesione a reti di scuole per svolgere attività di ricerca e sperimentazione.

Figura 26

Strategie efficaci per l’inclusione.

Figura 27

Sostegno nella motivazione allo studio.

 

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