Vol. 20, n. 2, maggio 2021

PROGETTI E BUONE PRASSI

Un PEI in un contesto e un orizzonte operoso

Andrea Canevaro1

Sommario

Il PEI va collocato in un sistema, aperto e complesso, in un paesaggio istituzionale fatto di contesti che formano un ecosistema. L’idea di scuola che abbiamo potrebbe ignorare l’evoluzione del far scuola che la scuola per tutti ha contribuito a realizzare. L’inclusione si collega alla lotta alle disuguaglianze. Le sfide si vincono col gioco di squadra. Le leggi ci servono non solo per applicarle, ma anche per sperare di sviluppare percorsi possibili.

Parole chiave

Contesto e contesti, Orizzonte operoso, Inclusione, Segni dei tempi, Disuguali, Sfide, Educazione attiva, Cooperazione, Il sistema dei sostegni.

Projects and best practices

IEP in an operating context and horizon

Andrea Canevaro2

Abstract

The IEP must be placed in an open and complex system, in an institutional landscape made up of contexts that form an ecosystem. The idea of school that we have could ignore the evolution of schooling that school has helped to achieve for everyone. Inclusion is linked to the fight against inequalities. Challenges are won with teamwork. We need laws not only to apply them, but also to hope to develop possible paths.

Keywords

Context and context keywords, Operating horizon, Inclusion, Signs of the times, Unequality, Challenges, Active education, Cooperation, Support system.

Premesse

Ogni intervento nelle politiche scolastiche deve tener conto di aspetti e aspettative variegate. Le politiche sociali, quelle sanitarie, economiche, urbanistiche… devono procedere di concerto. Le migliaia di insegnanti, genitori, operatori… sono nello stesso tempo sulla scena e in platea, e possono nello stesso tempo fare la loro parte e applaudire o fischiare.

Tutti questi soggetti hanno un’idea di scuola. In tempo di pandemia, i media parlano di scuola tutti i giorni. Quasi sempre riferendosi a un’idea di scuola concentrata nell’aula, e sottintendendo che far scuola sia quasi esclusivamente far lezione. Questa idea di scuola è diffusa, e porta a difendere l’aula e la lezione da ogni anche piccolo accenno di cambiamento. È un’idea che vive in un orizzonte ristretto.

La scuola che abbiamo in mente potrebbe però non essere quella della realtà, che sta in qualche modo evolvendo. Un’evoluzione a cui contribuisce non poco l’apertura a una scuola di tutti, compresi i soggetti con disabilità. L’evoluzione va verso una scuola di comunità, in cui aula e lezione possono essere una componente di un’offerta formativa ben più articolata e ampia, in un contesto ampio il cui orizzonte è dato da molte operosità: l’orizzonte dell’operosità.

Giovanni XXIII, con saggezza contadina, portò l’attenzione a cogliere i segni del tempo. Bisogna imparare a leggerli, avendoli percepiti. Per scoprire gli elementi di operosità nascosti nel paesaggio e che possono comporre un progetto, occorre osservare, contemplare il paesaggio stesso. Assumere posizioni variabili e tali da farci dimenticare noi stessi. Osservando dal basso, e dall’alto. Da vicino e da lontano. Contemplare cercando la giusta distanza. Come fanno certi artigiani. Che si allontanano e si avvicinano all’opera, perché la giusta distanza è variabile. Cioè non pre-stabilita.

Due esempi: genitore il primo; insegnante il secondo. Devono cercare la giusta distanza assumendo posizioni variabili. Devono farlo per chi cresce. Che a sua volta ha bisogno di non restare nella distanza pre-stabilita — stereotipo — di figlio o figlia, o di alunno o alunna. Deve spostarsi, allontanarsi, avvicinarsi, muoversi. In questa maniera scoprirà il paesaggio. E nel paesaggio gli elementi che comporranno il suo progetto. Certe informazioni di cui si nutre la nostra mente possono essere disposte in modo da essere rilevanti, salienti. La percezione paranoica del fenomeno migratorio è un esempio di come lo strumento mediatico possa creare una salienza particolare, che attiva quello che viene chiamato un processo «attenzionale». Paola Barretta,3 presentando i risultati della ricerca relativa al racconto dell’informazione televisiva italiana ed europea del fenomeno migratorio, ha messo in rilievo come il 2016 sia ancora l’anno di profughi e migranti, anche per i media che riflettono i fenomeni sociali più rilevanti e che hanno reso — in Italia e in Europa — l’immigrazione tema dominante. Un fenomeno molto visibile ma «senza volto». La voce di migranti e rifugiati, nei notiziari di prima serata, è solo del 3%. Questo tema ha una salienza particolare miscelata sapientemente con insicurezza e paura. Ingredienti perfetti per invocare decisioni per l’emergenza. Il cerchio si chiude, quasi a voler confermare: siamo accerchiati. Vediamo se riusciamo ad aprirlo. La nostra percezione potrebbe essere condizionata da un elemento saliente del paesaggio, condizionando la nostra visione rispetto a quell’elemento. Nel paesaggio scolastico, una certa idea di sostegno ha assunto una salienza tale da condizionare la nostra visione. Si connette all’idea di scuola concentrata su aula per far lezione. I segni del tempo non sono colti. Proviamo a coglierli e a leggerli, tentando di vedere un paesaggio più ampio in cui si colloca il Piano Educativo Personalizzato.

La relazione educativa tra uguaglianza e ineguaglianza

Attraverso l’analisi della tipologia del rapporto con l’altro possiamo notare come la scoperta dell’altro sia spesso viziata dal pregiudizio degli stereotipi.

Poniamoci il problema dell’educazione che nasce dal pregiudizio se la scuola non è attenta alla relazione e al rapporto originali, operando scelte di comodo contrassegnando i gruppi, in modo da non dover più decifrare e analizzare le relazioni che vivono, ma da avere già, a priori, una colorazione di giudizio, un’attesa precisa. Agendo con parametri che tendono a uno standard.

Il rapporto con l’altro sembra ruotare attorno a due poli: l’uguaglianza e l’ineguaglianza. Se io sono buono, se i miei valori sono buoni, l’altro da me non può essere che cattivo. Non è una novità, la mitologia ci offre vari esempi, dal mito del Minotauro, e, in tempi recenti, la persecuzione tedesca degli ebrei, la guerra nel Golfo Persico.

Sembra che questo sia il modo più semplice per crearsi la giustificazione all’emarginazione e all’isolamento di chi non essendo come me minaccia le mie certezze e mi fa paura. Il contesto è uno e limitato.

Se l’ineguaglianza sfocia nella superiorità, l’uguaglianza sfocia nell’identificazione, che vorrebbe la condivisione di un presunto standard di normalità, condito da compassione.

In entrambi i casi si nega l’esistenza di una sostanza umana realmente altra, che possa non consistere semplicemente in un grado inferiore e imperfetto di ciò che noi siamo. Queste due elementari figure dell’alterità si fondano entrambe sull’autoreferenzialità, sull’identificazione dei propri valori con i valori in generale, del proprio io con l’universo: sulla convinzione che il mondo è uno. Il nostro. Siccome siamo buoni…

L’egualitarismo in educazione riconosce una uguaglianza formale che è sudditanza a un unico modello educativo e culturale che anziché riconoscere la specificità delle differenze tende a rendere tutti uguali a un unico modello di normalità.

L’egualitarismo si manifesta non solo in senso orizzontale ma anche in senso verticale: l’educazione al conformismo maschera tutti i bambini, i bambini sono diversi dagli adulti, ma l’educazione scolarizzata vuole forzatamente renderli uguali.

In questo contesto dove uguaglianza e ineguaglianza, superiorità e assimilazione assumono un certo peso, come si colloca chi vuol essere, in diversi modi e ruoli, educatore? Il Profilo Professionale è un quadro stabile e comune a chi fa una professione, mentre il profilo di competenza è variabile e personale. Prendiamo ad esempio l’educatore sociale: la possibilità che l’educatore sociale abbia un profilo professionale deve essere accompagnata dalla possibilità che ciascuno possa curare se stesso o se stessa costruendosi un profilo di competenza.

All’interno di un profilo professionale vi possono essere più profili di competenza; che non dovrebbero collocarsi in un sistema chiuso: dovrebbero essere una dinamica aperta per cui può agire l’educatore sociale che acquisisce un profilo di competenze ben documentabile e trasferibile. Questo dovrebbe essere tenuto presente per la formazione di base e per incrementare competenze nella formazione in servizio, allargando il contesto e realizzando un ecosistema di contesti.

Il PEI. Magari nuovo

La sezione introduttiva del PEI si apre — riprendendo un passaggio dei documenti ministeriali — non a caso con un «quadro informativo» dedicato alle informazioni che i genitori (o coloro che esercitano la responsabilità genitoriale) ovvero gli esperti da loro indicati possono fornire. Nell’ottica di una stretta collaborazione scuola-famiglia è fondamentale acquisire informazioni sulla vita dell’alunno. Non è infrequente, infatti, che i comportamenti osservati in famiglia differiscano da quelli agiti a scuola, a volte per la diversità dell’approccio adottato nella «presa in carico» dell’allievo. Per questo è sempre bene che scuola e famiglia «si parlino», scambiando informazioni, punti di vista, modalità di presa in carico, strategie di gestione dei comportamenti problematici, ma anche — se vi è il consenso da parte delle famiglie — notizie sulle terapie, ad esempio, e sull’approccio seguito dagli specialisti, in modo da poter coordinare gli interventi.

Il legislatore ha voluto indicare con chiarezza che la valutazione deve essere formativa, ma non autoreferenziale, fermo restando il principio di terzietà. Che pone le parti in una posizione di assoluta indifferenza e di effettiva equidistanza. Non deve esserci un pre-giudizio, magari compassionevole.

Al fine della definizione dei PEI e della verifica del processo di inclusione, compresa la proposta di quantificazione di ore di sostegno e delle altre misure di sostegno, tenuto conto del profilo di funzionamento, presso ogni Istituzione scolastica sono costituiti i Gruppi di Lavoro Operativo per l’inclusione dei singoli alunni con disabilità. Ogni Gruppo di lavoro operativo è composto dal team dei docenti contitolari o dal consiglio di classe, con la partecipazione dei genitori della bambina o del bambino, dell’alunna o dell’alunno, della studentessa o dello studente con disabilità, o di chi esercita la responsabilità genitoriale, delle figure professionali specifiche, interne ed esterne all’istituzione scolastica che interagiscono con la classe e con la bambina o il bambino, l’alunna o l’alunno, la studentessa o lo studente con disabilità nonché con il necessario supporto dell’unità di valutazione multidisciplinare.

La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, (Nazioni Unite, 3. 5. 2006) riguarda più di 650 milioni di individui nel mondo, in un mondo in cui la mobilità delle popolazioni è in continuo aumento; in cui la media della durata della vita, in Paesi come il nostro, è aumentata (invecchiamento della popolazione); in cui si calcola che, in media, un individuo che viva 70 anni, avrebbe 7 anni — anche cumulativi — di condizione di disabilità.

La disabilità, come emerge dalla Convenzione, è un concetto in evoluzione. L’art. 1 ribadisce che la disabilità è il risultato dell’interazione tra le caratteristiche delle persone e le barriere attitudinali e ambientali che incontrano.

È inscindibile dalla qualità della vita; che può dipendere:

  • da una rete sociale attiva;
  • dall’accessibilità dell’informazione;
  • dall’esigibilità dei diritti (non per un procedimento giudiziario apposito, ma già presenti, in una società inclusiva;
  • e da una buona accessibilità di prodotti di mercato facilitanti e dalla complementarità con i servizi sociosanitari con competenze specifiche.

Sintetizzando: da un sistema aperto e complesso, composto da più contesti che formano un ecosistema con un orizzonte operoso ampio.

Queste annotazioni dovrebbero indurre a pensare che un buon accompagnamento verso il progetto di vita (la vita indipendente) (Griffo, 2018) di persone con bisogni speciali può avere ricadute fondamentali anche per chi si ritiene con bisogni normali. Chi è attento alle risorse economiche dovrebbe sapere che in questo caso la spesa può essere un buon investimento.

Il paesaggio in questi anni si è arricchito di figure professionali e ruoli sociali. La legge 13 ottobre 2020, n. 126 dice: «Art. 33-bis (Misure urgenti per la definizione delle funzioni e del ruolo degli educatori socio-pedagogici nei presidi socio-sanitari e della salute). — 1. Il Ministero della salute, d’intesa con il Ministero dell’università e della ricerca, con apposito decreto, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, stabilisce le funzioni proprie degli aspetti socio-educativi, considerato che il tratto specifico del ruolo della figura professionale dell’educatore socio-pedagogico nei presidi socio-sanitari e della salute è la dimensione pedagogica, nelle sue declinazioni sociali, della marginalità, della disabilità e della devianza». L’amministratore di sostegno può fare la sua parte. L’alternanza scuola-lavoro può sviluppare linee di apprendimento interessanti. Tutto questo dovrebbe farci riconsiderare le risorse professionali per il sostegno didattico e l’assistenza, facendoci capire che il debito di funzionamento sulle capacità riguarda la struttura, un sistema aperto e complesso, e non il soggetto con disabilità.

Punti per andare avanti. Con le sfide dell’educazione attiva

Le sfide si affrontano con un gioco di squadra. Con un sistema di sostegni.

  • Riusciamo a impegnarci a fare squadra affrontando i problemi coinvolgendo altri ruoli sociali e professionali? È scontato che ciascuno si porti dietro l’immagine sociale fondata su catene di comando in cui prevalgono certi ruoli e certe professioni. Nessuno è libero da stereotipi e pregiudizi. L’antidoto verrà scoperto operando e confrontandosi nella sfida.
  • Dirigere significa coordinare un sistema di sistemi viventi. Ogni esperienza vissuta è tale in quanto l’evento viene inserito in un processo auto-poietico (l’auto-riorganizzazione). Chi dirige deve favorire l’autorganizzazione finalizzata all’inclusione nell’orizzonte dell’operosità.
  • Chi dirige deve avere ben presente il rischio di rimanere prigioniero di uno spazio culturale e mentale molto angusto, e quindi l’impegno, che può essere ritenuto volontariato ma va considerato professionale, è per coltivare conoscenza, autoironia, a stare su uno sfondo ampio e tale da consentire di agire, di far crescere la capacità di dialogo.
  • È importante il cablaggio. Il cablaggio, in elettrotecnica, telecomunicazioni e informatica, è l’insieme dei collegamenti e impianti fisici (cavi, connettori, permutatori, infrastrutture di supporto) che permettono l’interconnessione tipicamente nell’ambito di un edificio o un gruppo di edifici per la realizzazione di una rete (es. rete elettrica, rete telefonica, rete di telecomunicazioni, rete locale, ultimo miglio, MAN, WAN, ecc.). Un cablaggio non orientato, non circoscritto ai soggetti accreditati, è certamente antieconomico, disperde energie e disorienta. Il gene FoxP2, portato dal cromosoma 7, sarebbe il direttore d’orchestra che collega armoniosamente laringe, muscoli boccali, polmoni, eccetera, per permettere a un essere umano di realizzare il linguaggio vocale. È un cablaggio frutto dell’evoluzione della corteccia cerebrale e delle connessioni cerebrali. Non collega organi e funzioni non coinvolte (non accreditate) nella produzione del linguaggio vocale. Senza cablaggio, senza linguaggio, evoluzione molto problematica. Il cablaggio delle risorse sociali non deve basarsi su un paradigma lineare. Seguendo l’orientamento progettuale, deve basarsi su un paradigma reticolare, ecosistemico.
  • Per questo è indispensabile scoprire chi può essere il cavista. Per collegare le conoscenze, quelle di chi ha un compito istituzionale e quelle di chi si rivolge all’istituzione, quelle degli esperti nelle scienze e quelle di chi è esperto nell’arte di sopravvivere; per collegare tutte queste conoscenze ci vuole il cavista. Può essere chi fa le pulizie. O chi è in un servizio alla persona.

Non è possibile considerare la progettazione formativa come una pura applicazione che il tecnico competente fa nella vita degli altri. Occorre che vi sia una struttura dialogica che permette di sviluppare delle relazioni d’aiuto e non delle sostituzioni. Nessuna persona, per quanto abbia competenze tecniche altre, può sostituirsi interamente alla vita dell’altro.

Ma per non perdersi in una quantità di variabili pressoché infinita occorre costruirsi anche uno strumento professionale che diventi la capacità di riferirsi all’altro o agli altri individuando, percependo — e l’esperienza professionale permetterà di perfezionare continuamente questa capacità percettiva — le necessità dialogiche per potere trasformare l’interlocutore in un cooperante e per fare in modo che il progetto sia condiviso e non il progetto dei tecnici.

Un progetto esige competenze condivise e collegate una con l’altra... Non può fare delle competenze l’elemento di dominio sull’altro, e certamente un rischio delle relazioni di aiuto e delle professioni di aiuto è quello di non tener conto che il momento di partenza è inevitabilmente connotato da un rapporto di dominio quasi inevitabile, basato su immagini sociali e conseguenti rendite predefinite.

Sappiamo che vi è una bella differenza tra una organizzazione che dipende da un solo contesto e una capacità che diventa competenza, cioè che si rielabora secondo i diversi contesti. «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia» (Lettera a una professoressa, Scuola di Barbiana).

Lo sviluppo umano ha luogo tramite un processo di interazione reciproca, via via più complessa, tra un organismo umano attivo, in sviluppo, e le persone, gli oggetti, i simboli che si trovano nel suo ambiente immediato. Perché sia efficace tale interazione deve essere regolare ed estendersi per periodi prolungati di tempo (proximal process).

La forma, la potenza, il contenuto e la direzione dei processi prossimali che influenzano lo sviluppo variano sistematicamente in funzione:

  • delle caratteristiche delle persone in via di sviluppo;
  • dell’ambiente immediato e più lontano della persona in via di sviluppo (Bronfenbrenner, 1986).

La comprensione dello sviluppo umano richiede di più che non l’osservazione diretta del comportamento di uno o due persone che condividono lo stesso luogo; essa richiede l’analisi di sistemi di interazione composti da più persone, che non va limitata a un unico contesto, e che deve tener conto di aspetti dell’ambiente che vanno al di là della situazione immediata di cui il soggetto fa parte.

L’essere umano e il contesto. Chi è sbagliato?

Nella realtà italiana la scuola si è fatta promotrice di una rivoluzione pedagogica che ha consentito di affiancare a un approccio tradizionale disciplinare un’ampia gamma di offerte formative dal taglio altamente educativo. La sua funzione si è infatti progressivamente articolata passando dall’essere agenzia di istruzione ad agenzia di formazione e ora anche agenzia di promozione del benessere. Tale cambiamento è stato sostenuto sempre più chiaramente dalle norme che regolano la materia a livello legislativo e ministeriale (legge 162/90; legge 216/91; legge 285/97). In quest’ottica ci proponiamo di utilizzare il modello dell’educazione all’autostima e all’autoefficacia.

Nelle regioni, in quasi tutte le province, i Piani Sociali di Zona (PSZ) prevedono specifiche azioni progettuali destinate all’utenza giovanile, le cui azioni rientrano nelle aree della dispersione scolastica, dell’integrazione dei minori immigrati e degli interventi per la socializzazione e il tempo libero. L’idea è quella di integrare la formazione secondo un modello top-down, pensato dall’alto, con un modello bottom-up che consenta ai ragazzi di essere promotori di competenze secondo una logica di empowerment.

Si dice che chi educa sia a rischio di burn-out per lo stress sul lavoro, per una professionalità poco riconosciuta e per il fatto che lavora in situazioni in cui i risultati sembrano mancare o per lo meno sono molto al di sotto delle aspettative. La crisi delle attese degli educatori è l’incapacità di situarsi in un rapporto originale con l’altro.

Questa incapacità è visibile nei due seguenti atteggiamenti:

  1. il rifiuto dell’altro perché portatore di una diversità non accettabile in un rapporto normale;
  2. l’accettazione dell’altro attraverso la negazione della diversità.

Nel primo caso il rifiuto può portare, attraverso un senso di colpa, all’accettazione dell’altro senza alcuna attesa; nel secondo l’attesa è rivolta a un altro ideale, non reale.

È vero che la diversità sta alla base dell’incontro e fonda l’educazione stessa, ma spesso è accettata solo se non è duratura nel tempo e se viene assorbita in un unico modello. Il problema che l’educatore incontra con il bambino «atipico» non è la sua diversità; è piuttosto la difficile previsione, o la negazione della possibilità di raggiungere un modello unico. Allora il «diverso» è realmente tale, ed è portatore di una originalità che non può venir negata se non annullandone il significato.

Come evitare questo rischio?

Rifacendoci a Freire (2014) e arrivando a Ingold (2019) possiamo andare verso una valorizzazione delle conoscenze e dei linguaggi dell’altro, inteso come soggetto che deve stabilire delle relazioni con il mondo e, mediante un gioco di creazione e ri-creazione a partire dal mondo della natura, giungere a dare un suo apporto personale, a fare opera culturale nella storia... Nelle sue relazioni con il reale, l’uomo crea un legame specifico, da soggetto a oggetto, dal quale risulta la conoscenza che sarà poi espressa con il linguaggio.

Educatore e educando interagiscono quindi in un processo di coevoluzione atto a trasformare la realtà, per cui l’altro non è più qualcosa di già conosciuto e definito, che deve avvalorare un modello precostituito, ma colui con il quale agire sul reale.

In questo senso l’educatore è colui che potenziando le differenze — e non annullandole in un unico modello — diventa animatore di linguaggi e vive un linguaggio che è sempre riprendere le convenzioni, riproporle aperte a un significato nuovo che si perfeziona nel percorso da una persona all’altra e nel ritorno diverso, all’emittente.

In definitiva si tratta di far sì che ognuno possa essere il più possibile se stesso, diverso dagli altri in tutta l’estensione resa possibile dalle risorse personali.

I rischi che l’educatore corre ponendosi come «meticcio culturale» sono un eccessivo coinvolgimento affettivo, all’identificazione con un ideale e quindi all’impossibilità di capire; oppure il sapere può limitarsi, in presenza di uno scarso coinvolgimento affettivo, alla pura descrizione dei fatti e delle cose senza riuscire a interpretarli, a renderli traducibili in una cultura altra.

È un rischio che va però corso, perché consente di uscire dal binomio uguaglianza/assimilazione — ineguaglianza/inferiorità.

È fondamentale il riconoscimento dell’identità al plurale dell’altro, al fine di non rinchiuderlo dentro uno schema o una categoria definiti da un unico elemento che è spesso negativo della sua personalità, come è molte volte la presenza di un deficit.

L’altro punto fondamentale è riconoscere il contesto. Un essere umano è reso capace includendo nella sua vita molti luoghi in cui può trovare ciò che Martha Nussbaum (2007) ha individuato. Devono essere luoghi in cui può riporre fiducia. Quando un essere umano viene al mondo viene incoraggiato ad essere capace in ciò che gli è possibile, e non in quello che è impossibile. In questo modo riceve fiducia e ha fiducia, anche in sé stesso.

La fiducia può essere quella frase che chi cresce si sente dire: fai la tal cosa, che sei capace! È ritenere qualcuno capace di fare qualcosa, e di entrare così in un progetto. Quest’ultimo aspetto è importante. La fiducia nella capacità di partecipare a un progetto. Che contiene, lo abbiamo detto, una dose di rischio. Oltre ai rischi degli imprevisti, ci sono i rischi dell’illegalità, e questi possono corrompere il progetto, anche quello di una vita. L’illegalità organizzata offre progetti di vita personalizzati, e ha capito bene che per questo è importante il controllo del territorio.

Il progetto di vita personalizzato inclusivo è tale in quanto capace di includere luoghi e persone: un territorio. Può diventare un modo, non corrotto, di controllare il territorio. L’illegalità organizzata si insinua in luoghi e iniziative che sembrano del tutto estranee a quello che immaginiamo criminoso: attività sportive e ricreative di piccola dimensione, circoli culturali, bocciofile… Sono coperture efficaci per attirare e avviare.

Il 17 febbraio 2022 ricorreva il centenario della nascita di Mario Lodi (1922-2014). Ha fatto parte del Movimento di Cooperazione Educativa. I suoi diari della scuola, C’è speranza se questo accade al Vho (1963) e Il paese sbagliato (1970), sono due punti di riferimento imprescindibili per un’idea di scuola cooperativa che vada oltre l’aula e la lezione. Per stare con i piedi ben piantati sul terreno delle leggi, e vivere l’educazione come ricerca di sviluppi possibili. Mario Lodi aveva attivato con il suo gruppo classe un laboratorio sulla nostra Costituzione (Lodi, 2008). Siamo nel paese sbagliato? Se in un paesino come Vho riusciamo a fare accadere il possibile, c’è speranza. Le norme alla base degli sviluppi possibili. Che esigono un’alfabetizzazione istituzionale per non lasciare un provvedimento (il PIL) o un ruolo (l’insegnante specializzato per il sostegno) solo, ma collocarlo in un sistema di sistemi, in un ecosistema con un orizzonte ampio come l’operosità. Intrecciando operosità attorno al fuoco e chi vuole stare al centro si brucia (Montanari, 2020).

Bibliografia

Barca F. e Giovannini E. (2020), Quel mondo diverso. Da immaginare per cui battersi che si può realizzare, Bari-Roma, Editori Laterza.

Bronfenbrenner U. (1986), Ecologia dello sviluppo umano, Bologna, il Mulino.

Freire P. (2014), Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, Torino, EGA.

Griffo G. (a cura di) (2018), Il nuovo welfare coerente con i principi della CRPD. L’empowerment e l’inclusione delle persone con disabilità, Lamezia Terme, Edizioni Comunità.

Ingold T. (2019), Antropologia come educazione, Bologna, Edizioni La Linea.

Lodi M. (1963), C’è speranza se questo accade a Vho, Firenze, Giunti.

Lodi M. (1970), Il paese sbagliato: diario di un’esperienza didattica, Torino, Einaudi.

Lodi M. (2008), Costituzione. La legge degli italiani, riscritta per i bambini, per i giovani… per tutti, Cremona, Casa delle Arti e del Gioco.

Lombardi G. (2020), Il Team nei processi d’inclusione. Come costruire interdipendenze positive nel contesto educativo. Conversando con gli “addetti ai lavori”, Lecce, Pensa Multimedia.

Montanari M. (2020), Contesti scolastici e sociali, Roma, Aracne.

Nussbaum C. (2007), Le nuove frontiere della giustizia, Bologna, il Mulino.


1 Professore Emerito, Università degli Studi di Bologna.

2 Università degli Studi di Bologna.

3 Paola Barretta ha presentato i risultati della sua ricerca al IV Forum su Migrazione e Pace, organizzato dal SIMN (Scalabrini International Migration Network), il 21 e il 22 febbraio 2017, a Roma. L’obiettivo del Forum era stimolare un dialogo di alto livello sulle cause profonde della migrazione, elaborare e proporre le soluzioni migliori per garantire un approccio etico alla gestione internazionale della migrazione e all’integrazione dei migranti nelle comunità di accoglienza. Un’attenzione particolare è stata posta sulla crisi europea dei migranti. Il Forum è stato organizzato da SIMN in partnership con il Dicastero Vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale guidato dal Cardinale Turkson e con Fondazione Konrad-Adenaur-Stiftung. È stato supportato da sponsor di alto profilo, tra cui Corporativa de Fundaciones, Caritas Internationalis, Jesuit Refugee Services and Grupo Mondragón.

Vol. 20, Issue 2, May 2021

 

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