Vol. 20, n. 1, febbraio 2021

PROSPETTIVE E MODELLI ITALIANI

Bambini mediatori delle conoscenze

Una dinamica evolutiva?

Andrea Canevaro1 e Federica Ceccoli1

Sommario

La cospicua presenza di minori di origine straniera in Italia è un dato oramai consolidato da una decina di anni. Grazie al processo di scolarizzazione, essi apprendono la lingua italiana e familiarizzano con le pratiche culturali del nostro Paese molto più rapidamente rispetto ai propri genitori e per questo motivo contribuiscono al processo di integrazione dell’intera famiglia fungendo da mediatori linguistici e culturali per coloro che ancora non parlano italiano. Queste pratiche di mediazione linguistico culturale ad opera di minori stranieri vengono definite dalla letteratura internazionale Child Language Brokering (CLB) e non solo sono svolte a favore della famiglia, ma anche per facilitare l’inserimento di compagni stranieri neo-arrivati appartenenti alla loro stessa comunità linguistica d’origine. L’obiettivo di questo articolo è quello di fornire una descrizione del fenomeno di Child Language Brokering nell’ottica della dinamica evolutiva delle conoscenze. Dopo aver presentato in dettaglio la pratica della mediazione linguistico culturale ad opera di minori bilingui e averne esposto le caratteristiche principali, il presente studio mostrerà il contributo dell’attività accademica svolta in Italia fino ad ora su questo argomento e si concentrerà sulla proposta di attività che possano mettere in valore il contributo prezioso che i minori stranieri apportano sia per l’integrazione della propria famiglia in Italia sia per l’inserimento nel mondo della scuola di coetanei neoarrivati appartenenti alla loro comunità linguistica.

Parole chiave

Bilinguismo, Child Language Brokering, educazione attiva, immigrazione, mediazione culturale.

ITALIAN MODELS AND PERSPECTIVES

Children as mediators of knowledge

An evolutionary dynamic?

Andrea Canevaro2 and Federica Ceccoli1

Abstract

In Italy, the large presence of migrant minors has been consolidated over the last ten years. Thanks to their schooling, they learn the Italian language and become familiar with the cultural practices of our country much more quickly than their parents and for this reason they contribute to the process of integrating the entire family by acting as linguistic and cultural mediators for those who do not yet speak Italian. The practices of cultural and linguistic mediation carried out by migrant minors are defined by international literature as Child Language Brokering (CLB) and are not only carried out to the benefit of the family, but also to facilitate the settlement of newly arrived foreign schoolmates belonging to their own linguistic community of origin. The aim of this article is to provide a description of the Child Language Brokering phenomenon from the perspective of the evolutionary dynamics of knowledge. After having presented in detail the practice of cultural and linguistic mediation by migrant bilingual minors and having explained its main features, the present study will show the contribution of the academic activities carried out in Italy so far and will present a series of activities that can enhance the valuable contribution that these minors make both for the integration of their family in Italy and for the settlement of newcomer peers belonging to their linguistic community at school.

Keywords

Bilingualism, Child language brokering, Active education, Immigration, Cultural mediation.

Premessa

L’obiettivo di questo articolo è di porre attenzione e far luce su alcune pratiche che interessano i bambini stranieri e l’aiuto linguistico e culturale che essi apportano alle proprie famiglie e alle istituzioni dei Paesi in cui si sono trasferiti. Per farlo ricorriamo a Jared Diamond, che scrisse nel 1997 il saggio Armi, acciaio e malattie (Guns, Germs and Steel: The Fates of Human Societies) edito in italiano da Einaudi. È un libro che ha affascinato un gran numero di lettori nel mondo, avendo numerose riedizioni, in cui Diamond sviluppa un quadro d’insieme sulla storia delle varie società umane a partire dalla fine dell’ultima glaciazione, avvenuta circa 13000 anni fa. È interessante la lettura che Diamond fornisce del mondo e delle vicende evolutive e da questo studioso possono derivare alcuni spunti utili per capire meglio le dinamiche che caratterizzano il fenomeno della mediazione linguistico interculturale svolta dai minori stranieri, argomento principale di questo contributo.

Immigrazione in Italia

Il mondo in cui viviamo è caratterizzato da una crescente globalizzazione, da un continuo aumento della popolazione, ma anche da una disuguale distribuzione della ricchezza, tre fattori che sono all’origine delle migrazioni internazionali e dei grandi spostamenti verso i Paesi più ricchi. I flussi migratori coinvolgono tutto il pianeta, proseguendo lungo corridoi che procedono dal sud del mondo verso il nord, dai Paesi in via di sviluppo ai Paesi più ricchi e da una zona all’altra delle stesse regioni geografiche. In particolar modo, l’Europa e l’Asia sono i continenti che accolgono il maggior numero di migranti, oltre 70 milioni, ovvero circa due terzi del totale mondiale. In Europa, la Germania e la Francia sono tra le nazioni con una tradizione migratoria più consolidata, seguite da Spagna e Italia, in cui la presenza di migranti è aumentata considerevolmente fino a raggiungere i 4 milioni di presenze ciascuna (rapporto OIM online). In Italia, in particolar modo, dagli anni Settanta in poi la popolazione straniera è aumentata costantemente, fino a rappresentare al 31 dicembre 2018 l’8,7% del totale della popolazione residente (report ISTAT 2019). Ai giorni d’oggi la presenza straniera è diventata quindi una realtà intrinseca al Paese, assumendo un carattere sempre più stabile e l’aumento dei figli degli immigrati nati in Italia (circa 80.000 l’anno) e i ricongiungimenti familiari (circa 40.000 bambini l’anno si trasferiscono in Italia per ricongiungersi ai genitori emigrati) testimoniano queste evoluzioni (Rapporto OIM online, p. 52). Uno dei principali motivi alla base dell’aumento della popolazione immigrata non è dovuto a nuove entrate, ma piuttosto a un alto tasso di natalità nelle famiglie straniere. Tale dato viene confermato anche dalla percentuale di studenti iscritti nelle scuole italiane: nell’anno scolastico 2017/2018 gli alunni stranieri sono stati il 9,7% della popolazione scolastica totale. Inoltre, il 63,1% degli alunni con cittadinanza non italiana è nato in Italia (Caritas, XXVIII Rapporto Immigrazione online, 2020).

Immigrati di seconda generazione

I dati appena descritti mostrano come la componente minorile straniera in Italia è diventata in questi anni sempre più visibile nella nostra società. La loro cospicua presenza in Italia è un dato relativamente recente che si è sviluppato a ritmi sostenuti a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, in seguito alla possibilità di ricongiungere le famiglie e di far arrivare i familiari rimasti in patria. L’immigrazione, da esodo e partenza individuale, in molti casi diventa infatti un evento familiare e da periodo di transizione momentanea si trasforma in una condizione permanente. Durante il periodo migratorio, le persone si sposano, costruiscono una famiglia, hanno dei figli e organizzano l’arrivo di coloro rimasti in patria (Favaro, 2001). In questo modo il fenomeno assume nuovi connotati e si trasforma da «immigrazioni per lavoro in immigrazioni di popolamento» (Ambrosini, 2004, p. 1), processo che favorisce, tra l’altro, l’insediamento e la crescita delle seconde generazioni di immigrati. Occorre precisare che non è facile definire il concetto di seconde generazioni, in quanto si tratta di una categoria complessa «caratterizzata dalla compresenza di fasi diverse, di cicli e flussi migratori diversi» (Demarie e Molina, 2004, p. XII). L’utilizzo del plurale è necessario in quanto questa definizione include casi diversi tra loro: i bambini nati in Italia da famiglie immigrate, i figli di coppie miste che sono di nazionalità italiana fin dalla nascita, i bambini ricongiunti alla famiglia, coloro che sono stati adottati o che sono sfuggiti a situazioni di conflitto (Ambrosini, 2004, pp. 1-2). Per molti di questi minori, la questione dell’integrazione si propone in modo diverso rispetto ai propri genitori. Nascendo in Italia o trasferendovisi in età scolare, la loro integrazione risulta meno problematica, in quanto apprendono più facilmente la lingua, frequentano le scuole nel Paese ospitante e riescono a tessere legami sociali più forti. Tuttavia, anch’essi devono affrontare vari ostacoli e situazioni di conflitto. Uno dei problemi principali, ad esempio, è legato alla loro identità, che si trova divisa tra due realtà con valori, tradizioni e lingue diverse, rappresentate dalla famiglia e dalla scuola. I genitori, molto spesso, richiedono una continuità con le origini e con l’identità nazionale, ma al contempo esigono una migliore integrazione nella società e un successo scolastico e professionale, obiettivo preteso anche dall’istituzione scolastica locale (Balsamo, 2003). Queste richieste contraddittorie creano delle situazioni di conflitto per il bambino stesso che stenta a costruirsi un’identità propria. Il desiderio di emancipazione di questi ragazzi, inoltre, stride di frequente con le tradizioni culturali delle famiglie e molto spesso essi non accettano né condividono le forme di integrazione scelte e adottate dai propri genitori e nemmeno i lavori duri e faticosi attraverso i quali questi ultimi sono riusciti a conquistarsi un reddito e un ruolo nel Paese straniero (Demarie e Molina, 2004, p. XV).

Nonostante questi elementi di discontinuità con la famiglia, appare comunque evidente che la socializzazione dei minori rappresenta un elemento fondamentale per i rapporti interetnici di tutto il nucleo immigrato. Grazie alla conoscenza della lingua e della cultura del Paese di origine e di accoglienza, le seconde generazioni rendono possibile l’incontro tra le famiglie e la società in cui si sono insediate, rompono l’isolamento dei genitori e li aiutano in un «processo di progressiva cittadinizzazione» (Ambrosini e Molina, 2004, p. 2). Il sostegno che offrono ai propri genitori e/o ai parenti immigrati di prima generazione consiste, molte volte, nel tradurre e nel mediare per essi quando devono comunicare con rappresentanti delle istituzioni locali o con persone autoctone, dando così avvio al fenomeno definito Child Language Brokering, ovvero la mediazione linguistico-culturale ad opera di minori. Proprio a causa del ruolo decisivo che svolgono per tutta la famiglia, l’integrazione delle seconde generazioni deve essere tutelata ed essa rappresenta non solo un nodo cruciale dei fenomeni migratori, ma anche una sfida per la coesione sociale e un fattore di trasformazione delle società riceventi (Ambrosini, 2004, p. 2).

Integrazione e inserimento nel mondo della scuola

Il processo di scolarizzazione, come è già stato accennato precedentemente, svolge un ruolo cruciale per l’integrazione dei bambini ed è importante quindi che tutti i minori stranieri possano godere del diritto all’istruzione così come i loro coetanei italiani.

A tal fine, il decreto del Presidente della Repubblica del 31 agosto del 1999, n. 394 afferma che:

I minori stranieri presenti sul territorio nazionale hanno diritto all’istruzione indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani. Essi sono soggetti all’obbligo scolastico secondo le disposizioni vigenti in materia. L’iscrizione dei minori stranieri nelle scuole italiane di ogni ordine e grado avviene nei modi e alle condizioni previsti per i minori italiani. Essa può essere richiesta in qualunque periodo dell’anno scolastico. I minori stranieri privi di documentazione anagrafica ovvero in possesso di documentazione irregolare o incompleta sono iscritti con riserva.

Questa disposizione tutela il diritto dei bambini immigrati di intraprendere la propria carriera scolastica, fase che rappresenta l’occasione primaria di formazione linguistica, di costruzione di relazioni interne al Paese di accoglienza e di apprendimento degli usi e dei costumi locali. A scuola, infatti, i bambini immigrati non imparano solo il codice linguistico locale, ma sperimentano anche modelli e relazioni diverse dalle loro. Nella vita familiare essi sono esposti a pratiche e consuetudini della cultura del Paese di origine, mentre quando studiano si ritrovano immersi nella lingua e nella cultura del Paese ospitante. Intraprendere un percorso formativo dopo essere emigrati rappresenta quindi sicuramente un banco di prova per l’integrazione sociale degli immigrati. Per tutti questi motivi e poiché tra i suoi compiti vi è anche quello dell’insegnare a vivere insieme in un mondo caratterizzato da valori differenti (quarto pilastro su cui si fonda l’educazione, insieme a sapere, saper fare e saper essere, secondo l’Unesco (I quattro pilastri dell’Educazione, in Sitografia), la scuola deve dimostrare di essere un’istituzione capace di ridurre le disuguaglianze. Per la realizzazione di tale obiettivo è importante che venga impartita un’educazione interculturale che trasmetta sia gli elementi culturali comuni sia quelli discordanti. Così facendo, lo studente straniero può sentirsi maggiormente a proprio agio e trovare un’armonia tra le due identità che si stanno formando in lui senza sviluppare forme di asocialità, legate al rifiuto sia della cultura familiare sia di quella di accoglienza (Fischer e Fischer, 2002, in Sitografia). Specifico compito della scuola è quello di essere una mediazione tra diverse culture, mediazione intesa come animatrice di un continuo e produttivo confronto tra le differenze in vista della promozione della capacità di convivenza in un tessuto culturale e sociale multiforme. L’avvio di un percorso formativo nel Paese ospitante rappresenta la prima e a volte la sola opportunità di comunicazione quotidiana con la società ospitante anche per i genitori immigrati. Essi vi accedono molto spesso con sentimenti di diffidenza in quanto temono che l’apprendimento di una nuova lingua e di nuovi valori possa erodere la cultura d’origine dei figli. Molto spesso, essi cercano però di accantonare questa paura in nome del progetto di riuscita dei bambini, obiettivo che rappresenta il senso della loro migrazione e che permette di sopportare meglio lo sradicamento dalla loro terra. I servizi educativi rappresentano quindi i luoghi fondamentali e cruciali per un’integrazione positiva per tutta la famiglia immigrata, non solo per i minori. Tuttavia, il percorso scolastico degli studenti stranieri presenta molte difficoltà e sfide da affrontare. Secondo i dati MIUR 2019 (Gli alunni con cittadinanza non italiana, in Sitografia), nell’anno scolastico 2017/2018, gli studenti italiani in ritardo sono il 9,6% contro il 30,7% degli studenti con cittadinanza non italiana. Il massimo divario si riscontra nella scuola secondaria di II grado dove le percentuali diventano rispettivamente 20,0% e 58,2%. Da questo punto di vista, la scarsa padronanza linguistica riveste una notevole importanza. Per i minori ricongiunti, infatti, le difficoltà linguistiche iniziali comportano una retrocessione ad anni inferiori e si traducono in un’esperienza umiliante e destabilizzante per lo studente in questione (Sintesi del XXIII Rapporto Caritas e Migrantes 2013, in Sitografia). I bambini stranieri neo-arrivati avrebbero bisogno di ore di alfabetizzazione e di un sostegno didattico in aggiunta alla programmazione ordinaria per permettere loro di raggiungere il livello dei coetanei. Molto spesso, però, le lingue parlate dai minori stranieri sono numerose e differenti, data soprattutto la molteplicità dei Paesi di origine e questo fattore ha delle ripercussioni sia sul livello di difficoltà previsto per imparare l’italiano sia sulla possibilità di ottenere un servizio di mediazione in quella determinata lingua straniera. Varie ricerche hanno dimostrato infatti che ottenere dei mediatori culturali è talvolta già difficile per le lingue più comuni e può diventare addirittura impossibile per le lingue meno rappresentate (Rossato, 2014). Molto spesso, quindi, in presenza di simili ostacoli linguistici accade che i migranti si avvalgono dell’aiuto di familiari o di amici per poter comunicare e molto spesso sono i bambini, i quali grazie al processo di scolarizzazione imparano la lingua e la cultura del Paese che li accoglie più rapidamente (Weisskirch e Alva, 2002), a dover tradurre per la propria famiglia e per i propri pari. Nelle scuole, ad esempio, i pacchetti di ore messe a disposizione dall’amministrazione agli istituti scolastici è in molti casi insufficiente e per questo gli alunni e gli insegnanti si ritrovano a dover porre rimedio all’impossibilità di comunicare da soli ricorrendo alla mediazione ad opera di altri studenti (Rossato, 2014).

Gli assi delle dinamiche evolutive delle conoscenze

Per capire meglio il supporto e le attività di mediazione svolte dai minori stranieri, cercheremo prima di descrivere le dinamiche evolutive delle conoscenze (Diamond, 1997) e l’importanza della trasmissione per affiancamento. Le dinamiche evolutive nelle vicende del mondo possono essere lette esaminando l’asse orizzontale dell’Eurasia, che facilita una dinamica delle conoscenze e delle pratiche evolutive per contiguità e affiancamento, e l’asse verticale delle Americhe e dell’Africa, che rende difficili i trasferimenti da un meridiano all’altro, per evidenti ragioni climatiche e questo ha effetti sulla dinamica evolutiva, più lenta: «[…] un bel mare di spighe dorate [non è] l’ammirevole prodotto dell’ingegno superiore dei primi contadini euroasiatici. Il merito è tutto dell’orientamento dell’asse principale dei continenti. Attorno a questi giocano le fortune della Storia» (Diamond, 1997, p. 146). Certo, dobbiamo avere lo stesso sguardo ampio di Jared Diamond e porre attenzione ai bisogni primordiali che molte volte sono collegati ai differenti contesti e all’origine di scenari evolutivi. «Come ogni animale, anche l’uomo può dedicare solo una certa quantità di tempo ed energie a sfamarsi» (Diamond, 1997, p. 80). Le conoscenze e le tecniche di coltivazione, di addomesticazione, di allevamento, possono essere trasmesse e arricchirsi di scambi senza grossi problemi quando le condizioni climatiche non costituiscono un ostacolo. L’asse orizzontale è favorito rispetto a quello verticale. Il Medio Oriente eurasiatico, la Mezzaluna Fertile, è punto di irradiazione per conoscenze e tecniche adattabili ed evolutive. Questo facilita il commercio, lo scambio, l’intreccio di competenze. Diamond insiste affermando che le diverse dinamiche evolutive non sono dovute a intelligenze più o meno sviluppate, quanto piuttosto a fattori ambientali che influiscono in maniera determinante sui processi evolutivi. Per evolvere occorre avere un progetto, avendo la possibilità di tentare e anche di sbagliare. Sbagliare non significa però automaticamente trasgredire, ma alcuni, come i migranti, potrebbero fare sbagli che altri considerano trasgressioni, confermandoli così nella presunta marginalità di chi è senza progetto. Alla luce di quanto descritto, le attività di mediazione svolte dai bambini mediatori sono il risultato di un bisogno primordiale della famiglia immigrata per poter comunicare con le persone e le istituzioni del Paese accogliente. Esse corrispondono a una vera e propria dinamica evolutiva che interessa molto spesso i minori bilingui, i quali traducendo e mediando per i propri connazionali, sviluppano determinate competenze e abilità che andrebbero valorizzate molto di più rispetto ai potenziali errori che questi minori potrebbero commettere, soprattutto nel contesto scolastico.

Le conseguenze sulla dinamica evolutiva educativa: la trasmissione frontale e quella per affiancamento

L’immagine che molti hanno della scuola e dell’apprendimento pare essere concentrata sulla lezione frontale. Fare lezione: sembra che queste due parole dicano tutto quello che avviene nell’insegnamento e nell’apprendimento. C’è chi va a scuola per fare lezione e chi va a scuola per prendere lezione. Questa interpretazione riduttiva si riduce ulteriormente con l’interrogazione che accerta che chi impara sappia ripetere ciò che l’insegnante ha detto mentre impartiva la lezione. Tale riduzione sembra voler fare a meno dello scaffolding, ovvero dell’impalcatura, aspetto che dovrebbe essere provvisorio ma funzionale al lavoro di costruzione delle conoscenze e che sta alla base della trasmissione di informazioni per affiancamento. La trasmissione frontale, o apprendimento faccia a faccia, è carente infatti della relazione di contiguità che caratterizza invece lo scaffolding dell’apprendimento per affiancamento. Tale impalcatura deve essere provvisoria e funzionale al processo di apprendimento a cui la persona partecipa e si basa sul concetto di reciprocità. Questa parola — reciprocità — può permetterci di superare il bipolarismo schematico a cui siamo abituati (pensiamo per esempio alla polarizzazione forti/deboli, sapienti/ignoranti, buoni/cattivi, civilizzati/selvaggi, uomini/donne) e che ci impedisce di vivere secondo una logica costruttiva fondata appunto sulla reciprocità in cui diversi elementi possono rapportarsi in una molteplicità di modi. L’essere umano apprende maggiormente affiancando chi è operoso e integrando tale operosità con la propria, apprende il linguaggio, apprende i gesti finalizzati, apprende le variabili del tempo e apprende facendo anche errori e scoprendo che ci sono errori da evitare perché pericolosi, ed errori fecondi perché aprono nuove possibilità. Nascono le passioni operose dotate di una forza educativa che, se è visibile, può essere decisiva e travolgente, in grado di attirare l’attenzione delle persone e attivare processi mentali fondamentali per la crescita personale e del proprio progetto di vita, tanto da essere riconosciuti come mediatori naturali in grado di collegare tra loro più sfondi possibili, offrendo così una pluralità di possibilità. Ma la visibilità non è sempre facile. A tal proposito, per meglio definire la reciprocità, possiamo citare il Dalai Lama, il quale disse: «Segui sempre le 3 R: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni», nonché Voltaire, il quale avrebbe detto: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo». I processi di disumanizzazione, come il genocidio nazista ma anche le guerre, curavano e curano particolarmente gli sforzi per cancellare la reciprocità, facendo in modo che l’altro venisse e venga considerato non umano, le vite indegne di essere vissute. In positivo, ricordiamo il soldato napoletano che, durante quella che chiamiamo Grande Guerra, dalle linee del Carso intonava canzoni che venivano applaudite dal nemico.3 Possiamo quindi dire che un’offerta formativa che si esaurisce nelle lezioni frontali è un’offerta povera, ma sembra rispondere alle attese. Non sembrò che accadesse niente di grave quando chi poteva decidere aumentò il numero di bambini/e per ogni classe, ritenendo che chi fa lezione può farla con 25/30 alunni/e invece di 15 con lo stesso risultato e un risparmio sicuro alla voce stipendi. Per analoghe ragioni, chi dirigeva una scuola avrebbe potuto dirigerne alcune. Tali scelte rappresentano il trionfo della trasmissione frontale e, secondo gli studi di Jared Diamond, dell’asse verticale, quello che crea qualche problema alla dinamica evolutiva. Questa dinamica, ricordiamolo, si sviluppa meglio nell’affiancamento dell’asse orizzontale, in cui chi impara affianca chi ha maggiori conoscenze e in cui il rapporto di affiancamento è sempre mediato da uno strumento, da un oggetto, da un materiale. Françoise Waquet (2015) ha ricostruito l’ambiente materiale in cui ogni scienziato lavorava perché la disposizione di libri, carte, schede, disegni, oggetti ha avuto una certa importanza nell’impegno di ricerca: ha permesso il richiamo della memoria, l’intreccio di elementi che sembravano destinati a stare lontani fra di loro, il bricolage continuo con la scoperta di nuovi elementi. Tutto questo non sarebbe possibile senza uno scaffolding originale perché personale dell’ambiente di lavoro quotidiano. Scaffolding è l’organizzazione degli oggetti, una cartellonistica adeguata, una parola al momento giusto, l’organizzazione del tempo marcato da piccoli rituali, il riferimento a un tutor, ecc. Questi oggetti fungono da mediatori che guidano i gesti, che diventano così anch’essi mediatori. Un chiaro esempio di apprendimento per affiancamento è l’apprendistato, che ebbe giuste critiche per il possibile sfruttamento che poteva permettere, ma che non venne criticato invece per la proposta formativa, che può essere coniugata in molti modi. Coloro che lavorano negli atéliers si definiscono con una pratica educativa altra da quella dell’insegnante in aula. La loro prassi prevede quella che viene chiamata la relazione di contiguità (essere accanto a), o anche relazione di atélier, di laboratorio. Le persone sono accanto, le età sono diverse, qualcuno ha assunto un compito che è quello di lavorare una materia, di costruire qualche cosa, un oggetto, di elaborare: è il laboratorio, al cui centro vi è un’attività finalizzata, che deve produrre oggetti, lavori. Tutta l’organizzazione del tempo, dello spazio, dei materiali, dei gesti, è determinata dalla finalità del laboratorio, una finalità produttiva. Assume inoltre molta importanza il contesto, ovvero una costruzione diversamente articolata che si definisce nel tempo attraverso la delimitazione e la semantizzazione degli spazi, delle azioni dei suoi utilizzatori, delle parole che vengono scambiate e degli oggetti utilizzati. I campi, le serre, i laboratori, gli spogliatoi, gli spazi per riporre gli attrezzi, gli spazi aperti al pubblico, le azioni fra e negli spazi, con gli attrezzi, nella terra con le piante, con il cibo, i modi delle interazioni, gli scambi verbali, tutto questo costruisce il contesto. Ogni soggetto umano ha bisogno di sviluppare la propria esistenza in un contesto. Chi viene da altre culture ha bisogno di mediatori e può essere anch’esso mediatore per vivere al meglio il nuovo contesto in cui si è trasferito. A volte un mediatore può mettere d’accordo, intrecciandoli armoniosamente, i tempi del mondo e quelli di un essere umano.

I bambini mediatori e l’affiancamento: Child Language Brokering

L’apprendimento per affiancamento rappresenta ciò che può accadere durante le pratiche di mediazione linguistica e culturale svolte da minori stranieri a favore di quei coetanei che ancora non parlano l’italiano e che necessitano di essere affiancati per apprendere meglio, o a favore di famigliari adulti che necessitano di un supporto linguistico. Le pratiche di mediazione linguistica e culturale ad opera di bambini e adolescenti figli di immigrati prendono il nome di Child Language Brokering (CLB) (Harris e Sherwood, 1978). Il termine language broker deriva dal concetto di cultural brokering sviluppato dagli antropologi Wolf e Clifford (Robbins, 1996) per descrivere le attività compiute da coloro che mettono in relazione le comunità locali con quelle nazionali, nonché la cultura principale di una società pluralistica alle varie sotto-culture in essa presenti (Gentemann, 1983). I broker svolgono un ruolo attivo, esercitano un’influenza notevole sugli eventi che mediano e molto spesso, come emerso dagli studi condotti, sono i bambini e gli adolescenti a svolgere questa funzione per la propria famiglia. L’espressione child langugage broker è stata utilizzata per la prima volta da Tse (1995) e in seguito da Hall e Sham (1998) per riferirsi a tutti quei bambini, nati in famiglie immigrate, che traducono e interpretano per i loro genitori, altri parenti e amici che non hanno ancora imparato la lingua del Paese che li accoglie. Il compito che svolgono i language brokers non è né neutrale, né formale, ma rientra in quella che viene definita una vera e propria transazione interculturale, in quanto essi devono creare significati, risolvere problemi e negoziare concetti (Hall e Robinson, 1999).

Caratteristiche dei child language brokers

Gli studi che sono riusciti a delineare le caratteristiche principali dei bambini che svolgono il ruolo di mediatori linguistici per le proprie famiglie sono ancora insufficienti. Tuttavia, secondo quanto emerso dalla maggior parte di essi, i language brokers iniziano a mediare poco dopo essersi trasferiti nel Paese che li accoglie, all’età di 10-11 anni. Solitamente i figli primogeniti sono i prescelti nel dover aiutare e favorire la comunicazione tra i propri genitori e le istituzioni locali. Qualora, però, vi siano maggiori impegni scolastici o extra-scolastici, il compito passa al secondo figlio (Dorner et al., 2008). Per quanto riguarda il genere, vi sono opinioni ancora contrastanti sulla scelta della figlia femmina o del figlio maschio per ricoprire questa funzione. Secondo alcuni studi non sussistono differenze, i figli sono chiamati indistintamente ad adoperarsi in qualità di traduttori (Jones e Trickett 2005). Per altri, invece, le figlie femmine vengono preferite nello svolgere questo ruolo, in quanto sviluppano maggiori capacità verbali rispetto ai maschi e trascorrono più tempo con la famiglia e con le madri, soprattutto nelle culture più tradizionaliste, in quanto molto spesso sono proprio queste ultime ad aver più bisogno di assistenza linguistica. Soprattutto dalle ricerche condotte sulle comunità ispaniche (Buriel et al., 1998; Buriel et al., 2006) è emerso che essere femmina, avere un’ottima fluenza linguistica e capacità prosociali sono gli elementi preferiti nella scelta dei language brokers. Infine, in altri casi ancora, invece, i genitori scelgono il figlio che medierà per loro sulla base di determinate caratteristiche, come la volontà di aiutare la famiglia, le competenze linguistiche, la capacità di riportare informazioni dettagliate nonché il riuscire a trasmettere emozioni e sentimenti (Tse, 1995; Morales e Hanson, 2005; Martinez et al., 2009).

Processo di acculturazione e inversione dei ruoli all’interno della famiglia

I bambini mediatori possono fungere da language brokers in quanto, come già affermato, tendono ad acquisire le competenze linguistiche e a adeguarsi alle norme culturali più velocemente rispetto ai propri genitori (Martinez, 2006). Dopo il trasferimento in un nuovo Paese, il processo di acculturazione inizia subito per tutti i membri della famiglia, ma per alcuni di essi può essere fonte di stress e difficile da gestire (Baptiste, 1993). Per cercare di ridurre la difficoltà di questa transizione, i genitori immigrati fanno affidamento sui propri figli, solitamente più rapidi nell’imparare la lingua e gli usi del nuovo Paese, per riuscire a integrarsi e inserirsi meglio nella società che li accoglie. In queste circostanze, quindi, si verifica un diverso livello di integrazione culturale in seno alle famiglie (Kurtines e Szapocznik, 1996; Martinez, 2006; Santisteban et al., 2002). Mentre i bambini acquisiscono il linguaggio e le informazioni culturali a un ritmo più veloce di quello dei genitori, un divario di acculturazione maggiore emerge e ciò è ancora più evidente nelle famiglie con entrambi i genitori monolingui rispetto a quelle con uno o entrambi i genitori bilingui. L’attività di language brokering ha quindi un impatto sulla relazione genitore-figlio e le ricerche finora condotte hanno dimostrato che le conseguenze possibili possono essere sia positive, sia negative.

Alcuni studi provano, ad esempio, che questa pratica facilita la creazione di un legame più forte tra i genitori e i figli (De Ment e Buriel, 1999). Questi ultimi sfruttano, infatti, la loro posizione di potere per proteggere i propri cari da situazioni umilianti o imbarazzanti (Orellana et al., 2003; Valdes et al., 2003) e sviluppano capacità cognitive maggiori. Altri ricercatori sostengono invece la tesi secondo cui il divario di acculturazione che si può formare può indurre a comportamenti errati, come l’uso di sostanze stupefacenti, maggiore vulnerabilità a fattori di stress psicosociali (Martinez, 2006) e un capovolgimento di ruoli all’interno della famiglia, che si traduce in una relazione in cui i genitori dipendono dai figli (Umaña-Taylor, 2003). Quest’ultimo fenomeno è stato descritto con nomi diversi: role reversal (Martinez et al., 2009), parentification (Weisskirch, 2007) e adultification (Trickett e Jones, 2007), ma tutti vogliono indicare l’inversione di ruoli in seno alla famiglia e la conseguente possibilità che il compito di culture broker dia al bambino mediatore maggiori responsabilità. Martinez e colleghi (2009, p. 73) temono che questa pratica possa far perdere ai genitori la propria autorità. Questo sentimento può sfociare in conflitti e causare risultati ostili per tutti i membri della famiglia. La minore autorità genitoriale, infatti, unita a esperienze negative di Child Language Brokering (De Ment e Buriel, 1999; McQuillan e Tse, 1995; Valenzuela, 1999; Weisskirch e Alva, 2002) può aumentare il rischio di ripercussioni sfavorevoli per la crescita dei bambini.

Tuttavia, vi sono altri studi che affermano invece che la mediazione ad opera di bambini non comporta necessariamente un processo di adultificazione (Buriel et al., 1998; Jones e Trickett, 2005; Orellana et al., 2003). Per esempio, alcuni ricercatori dimostrano che l’attività di brokering viene percepita dai bambini e dagli adolescenti come un modo per aiutare le proprie famiglie. Essi dichiarano, inoltre, che quando questa attività è fonte di stress, ciò non è dovuto alla «parentificazione» dei bambini, ma è legata al fatto che interferisce con attività quotidiane come guardare la televisione o uscire con gli amici (Dorner et al., 2007). Anche Trickett e Jones (2007) affermano che, sebbene vi siano certe situazioni in cui i bambini possono avere maggiore potere, i ruoli all’interno della famiglia non subiscono alterazioni. Per questo alcuni dichiarano che il culture brokering è diventato talmente parte integrante della vita dei piccoli mediatori che loro stessi non percepiscono le responsabilità che devono assumersi come segno del processo di «adultificazione» (Orellana et al., 2003). Inoltre, Dorner et al. (2007) sottolineano l’importanza che assume il bambino nel processo di acculturazione dei propri genitori, insegnando loro a leggere o a firmare.

Come si può notare dai vari studi condotti, il meccanismo che si viene a creare comporta un’alterazione nel rapporto genitore-figlio (Cline et al. 2010) che può avere ripercussioni positive, come un legame più forte e solido all’interno della famiglia nella quale tutti cooperano per il bene collettivo, ma anche conseguenze negative, come una maggiore esposizione a situazioni di stress e la mancanza di un’autorità che protegga la crescita del bambino mediatore.

Ripercussioni sul rapporto tra i language brokers e la propria famiglia

Prendendo in considerazione una prospettiva più ampia, appare evidente come il fenomeno del Child Language Brokering abbia conseguenze sia positive sia negative nel rapporto che si instaura all’interno della famiglia e sul bambino mediatore stesso.

Partendo dall’analisi delle relazioni intrafamiliari, come presentato nel paragrafo precedente, tra gli effetti negativi, vi può essere il cosidetto parental disempowerment (Buriel et al., 1998), ovvero una minore autorità genitoriale e la conseguente parentificazione del bambino. I genitori immigrati, e soprattutto coloro che hanno un livello di istruzione inferiore (Buriel et al., 1998), riscontrano maggiori difficoltà nelle interazioni interculturali e dipendono maggiormente dalle persone che mediano per loro. Questa eccessiva dipendenza verso i propri figli per poter affrontare il processo di acculturazione si è dimostrata essere una fonte di stress e di frustazione, soprattutto negli studi condotti sugli immigrati ispanici negli Stati Uniti (Padilla et al., 1988). La precoce adultificazione dei language brokers, il conseguente capovolgimento di ruoli all’interno della famiglia e lo stravolgimento delle normali dinamiche familiari sono elementi che possono quindi comportare effetti sfavorevoli. Agire per conto dei propri genitori, prendere decisioni al loro posto e assumersi responsabilità che solitamente non spettano a loro fanno sì che il bambino si senta erroneamente in una posizione di potere, creando imbarazzo nei genitori stessi e tensioni all’interno della famiglia. Infine, come osserva Weisskirch (2007), la situazione di disagio può essere esacerbata per i bambini mediatori che vivono in un contesto di relazioni intrafamiliari problematiche, in quanto il dover svolgere questo compito potrebbe aggravare i sentimenti avversi che essi provano.

Tuttavia, il Child Language Brokering può rappresentare anche un’esperienza positiva con ripercussioni favorevoli per tutti i partecipanti. Sovente, nelle famiglie immigrate si instaurano legami molto forti che fanno sì che le esigenze del gruppo prevalgano sulle necessità individuali (Uba, 1994, p. 183). L’intensa solidarietà che si percepisce tra i membri della famiglia si ripercuote nel saldo legame e nel senso di dovere che i bambini immigrati provano verso i propri parenti. Molto spesso i language brokers sviluppano una sensibilità maggiore, riescono a comprendere le preoccupazioni e le responsabilità dei loro genitori e la frustazione che essi provano nel non poter comunicare. In questo modo, essi diventano più consapevoli dell’importanza del loro compito (Tse, 1996) e accettano quindi il ruolo di CLB come un modo per aiutare i propri cari (Valdes et al., 2003). Affinché tale pratica sia efficace, vi deve essere l’assoluta fiducia da parte del genitore nei confronti del figlio e, di conseguenza, si viene a creare un rapporto di stima e di rispetto reciproci, in cui i genitori sono molto orgogliosi dei propri figli (Hall e Sham, 2007). In questo contesto di reciproca cooperazione, i genitori e i figli, oltre al linguaggio verbale, utilizzano anche un codice implicito per comunicare, come il contatto visivo e la mimica facciale, che permette al genitore di mantenere il controllo della situazione e che rafforza il gioco di squadra della famiglia immigrata (Valdes et al., 2003). La mediazione diventa, quindi, un vero e proprio lavoro di gruppo, in cui il genitore e il figlio collaborano per raggiungere lo stesso obiettivo.

Conseguenze sui bambini mediatori

Date le circostanze appena descritte, appare evidente la forte interazione che si crea tra i genitori e i figli e questo legame è all’origine dell’influenza che i membri della famiglia esercitano gli uni sugli altri. A tal riguardo, assume una notevole importanza l’apprezzamento dei genitori nei confronti delle capacità di mediazione dei propri figli. Se essi gradiscono l’aiuto che ricevono, anche il bambino si sentirà stimato, se invece si mostrano esigenti e severi, quest’ultimo svilupperà sentimenti negativi e ostili. Occorre inoltre considerare che altri fattori possono influire indirettamente sugli effetti del Child Language Brokering, come ad esempio lo status socio-economico e il quartiere dove la famiglia immigrata si è insediata (Weisskirch, 2007).

Oltre alle conseguenze all’interno della famiglia e nel rapporto genitore-figlio, vi sono quindi effetti positivi e negativi anche sullo sviluppo del bambino mediatore stesso. I giovani language brokers, infatti, possono percepire il loro ruolo come un’esperienza positiva e ricevere la fiducia da parte della famiglia o come un’esperienza negativa irta di difficoltà e di sfide (Halgunseth, 2003; Umaña-Taylor, 2003). Come emerge da molti studi, il CLB può ripercuotersi negativamente sui bambini mediatori che potrebbero percepire il loro ruolo stressante e talvolta imbarazzante. Nella fattispecie, essi non vorrebbero essere coinvolti in quelle che considerano questioni da adulti e nemmeno assumersi le responsabilità di gestire tali situazioni. Questa pratica può in certi casi essere la causa di un declino psicofisico del bambino (Dorner et al., 2008). Il timore di commettere errori e il desiderio di svolgere il proprio ruolo nel miglior modo possibile possono causare ansia, stress e frustazione. Anche da un punto di vista linguistico vi possono essere ripercussioni negative. I language brokers devono riportare le informazioni in modo accurato, senza trascurare le sfumature di significato di ogni lingua. Vi sono alte probabilità, però, che i giovani adolescenti non conoscano la terminologia specifica o non trovino le parole giuste e questo impedimento può essere causa di forte tensione. Villanueva e Buriel (2010) riferiscono che l’appropriatezza di vocabolario è una delle questioni che pone maggiori problemi, soprattutto perché il CLB può aver luogo in contesti molto differenti tra loro. Ogni ambiente è caratterizzato da un proprio linguaggio settoriale che richiede competenze linguistiche specifiche da parte del bambino mediatore. Molto spesso, infatti, i genitori, invece di premiare i figli per l’impegno e lo sforzo profuso, li rimproverano per le imprecisioni che commettono e questo ha ripercussioni negative sull’autostima e la sicurezza del bambino. Inoltre, i bambini mediatori hanno dichiarato di sentirsi imbarazzati e nervosi quando si accorgono che il servizio di mediazione intralcia e riduce la velocità di apprendimento della lingua del nuovo Paese per i familiari (Martinez, 2006). Infine, a dispetto di quanto dimostrato da altri studi, non vi è un preciso legame tra il CLB e migliori prestazioni scolastiche, anzi le aspettative dei genitori e le possibili ore di lezione perse per aiutare i genitori potrebbero solo danneggiare la loro carriera scolastica (Morales e Hanson, 2005). Sentirsi disorientati, isolati, marginalizzati e non completamente accettati né da un gruppo né dall’altro sono sentimenti comuni tra i bambini mediatori che hanno spesso problemi di identità.

Per quanto riguarda, invece, i vantaggi del Child Language Brokering, è fondamentale sottolineare che quando i bambini mediatori compiono questa attività, essi devono capire, interpretare e tradurre messaggi usando una terminologia e dei concetti che possono essere complicati per degli adolescenti della loro età (Buriel e De Ment, 1993). Questa esperienza è quindi molto esigente da un punto di vista cognitivo e può favorire migliori risultati accademici. Inoltre, grazie alle interazioni che intrattengono con adulti e professionisti, essi possono sviluppare capacità interpersonali più mature, sviluppare e mantenere competenze socio-culturali sia nella loro cultura d’origine sia in quella del Paese che li accoglie.

Le molteplici situazioni in cui si trovano a contatto con operatori o rappresentanti delle istituzioni hanno altresì permesso ai bambini mediatori di rafforzare la propria autostima e autoefficacia sociale (McQuillan e Tse, 1995). Bandura (1981) definisce l’autoefficacia come il modo in cui le persone mettono in atto un comportamento per produrre un particolare risultato. Per rappresentare meglio il punto di vista dei genitori, i brokers si convincono delle proprie capacità di fornire un’adeguata prestazione (Buriel et al., 1998), sviluppando così abilità interpersonali solitamente tipiche degli adulti. Alcune ricerche qualitative (Buriel e De Ment, 1993; McQuillan e Tse, 1995) mostrano che questi studenti hanno sviluppato un senso di emancipazione personale e che il loro ruolo di mediatori li motiva ulteriormente a imparare la lingua del Paese che li accoglie. Anche da un punto di vista linguistico si denotano una maggiore consapevolezza e una sensibilità metalinguistica più acuta, lo sviluppo di strategie traduttive e l’acquisizione di un vocabolario più completo e complesso. In questo modo si gettano le basi per il bilinguismo e il biculturalismo. Essi, infatti, riescono, così facendo, a mantenere viva la loro lingua madre e a mettere in pratica le proprie competenze linguistiche. Inoltre, l’attività di language broker non consiste semplicemente in una traduzione letterale, ma in una trasmissione di concetti e comporta quindi la necessità di riformulare il messaggio affinché abbia un senso compiuto nella lingua d’arrivo. In questo modo essi sviluppano altre abilità tra le quali la comprensione e l’attenzione a comportamenti non verbali, come il linguaggio del corpo e la mimica facciale, e la capacità di sintetizzare e chiedere spiegazioni. Inoltre, dovendo tradurre documenti scritti, migliorano la lettura e mettono in atto strategie che favoriscono il buon rendimento scolastico, come la ricerca di sinonimi, l’individuazione degli aspetti importanti in un testo e delle sue parti problematiche. Nel loro studio sugli immigrati a Chicago, ad esempio, Dorner e colleghi (2007) hanno mostrato che gli studenti che traducono per amici o familiari ottenenevano un punteggio più alto nelle prove di lettura. Questo studio avvalora le testimonianze raccolte da Orellana e colleghi (2003) che mostrano una relazione positiva tra il language brokering e il voto ottenuto nei test di matematica, a dispetto di quanto affermato in altre ricerche. Gli alunni mediatori tendono a tradurre documenti che richiedono un alto livello di comprensione, come gli avvisi scolastici, i documenti bancari e le candidature di lavoro (De Ment e Buriel, 1999; McQuillan e Tse, 1995). Di conseguenza, molti accademici affermano che essi sviluppano un vocabolario più accurato e preciso e che usano maggiori abilità cognitive per risolvere problemi e capire e interpretare questo tipo di documenti.

I risultati ottenuti sono quindi molteplici: secondo alcune ricerche il language brokering può ripercuotersi negativamente sui bambini mediatori, mentre altri studi corroborano la tesi secondo cui questa pratica ha effetti positivi sullo sviluppo comportamentale, socio-emotivo e cognitivo del bambino. Queste diverse posizioni dipendono da molteplici fattori, come l’armonia familiare, le abitudini del bambino mediatore stesso e il quartiere di insediamento.

Gradimento dei language brokers nei confronti di questa attività

È altresì interessante studiare l’opinione personale dei bambini mediatori e capire come essi percepiscono questa pratica e i sentimenti che provano quando devono tradurre. Gli studi condotti che hanno cercato di analizzare il gradimento dei language brokers sono stati molteplici e hanno riportato risultati diversi sottolineando quindi la presenza di sentimenti sia negativi sia positivi da parte dei bambini.

Alcuni studiosi hanno messo in luce il fatto che questa pratica viene vissuta come un’esperienza controproducente e talvolta è fonte di stress e depressione per il piccolo mediatore (Buriel et al., 2006). I bambini cubani intervistati da Puig (1987), ad esempio, hanno dichiarato di sentirsi umiliati dai propri genitori poiché non parlavano inglese tra le mura domestiche. Jones e Trickett (2005) hanno evidenziato la presenza di una correlazione tra questa pratica e alti livelli di stress emozionale accompagnati da discussioni familiari, difficoltà di relazione coi compagni di scuola e uno scarso senso di appartenenza scolastica. Guske (2008) ha condotto uno studio in cui ha intervistato studenti di origine turca, italiana e greca che hanno dichiarato il loro malcontento nel dover tradurre per i propri familiari e che hanno confessato di sentirsi imbarazzati a causa della scarsa conoscenza della lingua e delle convenzioni sociali del Paese ospitante da parte dei loro genitori. Altri language brokers hanno ammesso di sentirsi inadeguati e di dover assumersi responsabilità troppo onerose rispetto alla loro età (Hall e Sham, 2007).

Secondo gli studi di altri ricercatori, invece, l’attività di mediazione viene percepita in modo positivo dai bambini che la svolgono. Alcuni language brokers sono infatti felici e orgogliosi di aiutare la propria famiglia (Weisskirch, 2006) sebbene tendano ad agitarsi nei contesti che ritengono più impegnativi (Dorner et al., 2007). Altri bambini ritengono che sia loro dovere aiutare da un punto di vista linguistico i propri genitori senza deludere le loro aspettative (Morales, 2006) ed altri ancora dichiarano che questa pratica ha permesso loro di diventare più maturi e indipendenti, di aumentare la stima in loro stessi e il loro senso di appartenenza alla comunità di origine (Weisskirch, 2006; McQuillan e Tse, 1995).

Infine, Weisskirch e Alva (2002) mettono in evidenza come l’esperienza di CLB possa influire diversamente in language brokers con età differenti. I più giovani tendono solitamente a sentirsi inadeguati e a disagio, i più grandi, invece, grazie anche all’esperienza che hanno accumulato nel tempo e alle maggiori competenze linguistiche e cognitive, imparano a cogliere e apprezzare i risvolti positivi di questa pratica.

Un’attività «invisibile» ma ben presente

La diffidenza e la volontà di molti rappresentanti delle istituzioni di non voler affrontare la questione della diffusione dell’aiuto linguistico fornito da minori a familiari e/o pari ha contribuito a rendere il Child Language Brokering un fenomeno poco esplorato e quasi invisibile. Il concetto di invisibilità si manifesta e si accentua ulteriormente dato che i soggetti in questione sono bambini e, in quanto tali, secondo le teorie sociologiche tradizionali, «esseri muti e incapaci di agire» (Antonini, 2014, p. 19). Soltanto negli anni Novanta si sono affermate nuove teorie sociologiche e giuridiche che hanno riconosciuto «al bambino lo status di attore sociale titolare di diritti e all’infanzia lo status di categoria sociale, componente permanente, strutturale e particolare della società» (Antonini, 2014, p. 20).

Sulla scia di questo pensiero, Tse (1995) si dedica a studi approfonditi sul ruolo svolto dai bambini mediatori affermando che essi non solo trasmettono informazioni, ma operano in qualità di agenti di socializzazione, mentre Orellana e colleghi (2003) sottolineano l’importanza dell’aiuto che essi forniscono per la sopravvivenza e l’avanzamento sociale delle loro famiglie, nonché per il funzionamento della società. Molto spesso, però, questo loro ruolo attivo e presente nelle comunità immigrate non viene sufficientemente riconosciuto ed è relegato allo stato di invisibilità.

Indipendentemente dall’adeguatezza di questa pratica, bisogna riconoscere la sua diffusione e il lavoro che i piccoli mediatori svolgono per la famiglia e la società in cui vivono ed è quindi fondamentale approfondire gli studi su questo fenomeno per capire gli effetti e le conseguenze che ha sui piccoli mediatori. La comunità scolastica e sociale dovrebbe riconoscere questo apporto e non trascurarlo o anche guardarlo con sospetto, paragonandolo alla delazione.

Il Child Language Brokering in Italia: quanto fatto e quanto ancora si può fare

In particolare, nell’esaminare il contesto italiano, gli studi di approfondimento sul CLB sono piuttosto recenti, poiché sono iniziati nel 2007 grazie al progetto quadriennale In MedIO PUER(I) finanziato dall’Università di Bologna (Antonini, 2014). Tutte le ricerche condotte nell’ambito di questo progetto si prefiggono di fornire una descrizione dettagliata dei partecipanti, delle situazioni e dei contesti in cui si svolge questa pratica e di raccogliere le attitudini delle parti coinvolte nei confronti del CLB. Le metodologie implementate fino ad ora sono state diverse, tra cui interviste, focus group, questionari e narrazioni e i campioni indagati hanno compreso sia ex child language brokers, sia child language brokers ancora attivi (senza selezionare alcuna comunità specifica di migranti, ma considerando tutti i migranti che vivono nell’area in esame), sia rappresentanti delle istituzioni pubbliche italiane. In particolare, sono stati intervistati ex child language brokers e studenti di scuole superiori e università per esaminare l’impatto del CLB sul loro livello emotivo e relazionale (Bucaria e Rossato, 2010); sono stati intervistati operatori del servizio pubblico per esaminare come i rappresentanti delle istituzioni italiane percepiscono il CLB come un mezzo per interfacciarsi con i migranti adulti (Cirillo et al., 2010); sono stati somministrati questionari sia a detenuti immigrati (Rossato, 2017) che a studenti e insegnanti delle scuole medie inferiori (Cirillo, 2017; Ceccoli, 2018) per esplorare i loro atteggiamenti nei confronti di questa pratica; sono stati scritti racconti e/o prodotti disegni da studenti delle scuole elementari e medie a cui è stato chiesto di descrivere le proprie esperienze come mediatori linguistici attraverso il concorso scolastico Traduttori in Erba (Antonini, 2017; Torresi, 2017); infine sono stati registrati ed esaminati eventi reali di CLB con l’obiettivo di mostrare la partecipazione attiva nonché il contributo alla conversazione dei minori che mediavano (Ceccoli, 2019). Oltre agli studi condotti all’interno del progetto In MedIO PUER(I), due altri studi sono stati effettuati in Italia: Pugliese (2017) ha analizzato il CLB come pratica di peer teaching, mentre Valtolina (2010) ha esaminato la relazione tra il CLB e il benessere psicologico in un gruppo di adolescenti filippini. Questi studi mostrano come la ricerca sul CLB in Italia sia ancora agli inizi e necessiti di ulteriori sviluppi.

Le attività di mediazione linguistica e culturale svolte da bambini e adolescenti sono complesse e spesso richiedono specifiche competenze che vanno oltre la capacità di parlare e/o comprendere due o più lingue. Queste capacità devono essere evidenziate e valorizzate dagli adulti che si trovano a interagire con i child language brokers, in particolare dal mondo della scuola e dagli insegnanti quando questa pratica avviene nel contesto educativo, per far sì che si stimoli l’autostima di questi piccoli mediatori e si dia importanza al valore aggiunto che portano alla conversazione.

Idee di attività per valorizzare l’aiuto dei minori migranti mediatori

Possiamo proporre diverse attività che abbiano una base comune e che forniscano al bambino mediatore un sistema di controllo e di autocontrollo. A tal fine è importante inserire per tutta la classe il controllo del tempo e tenerne conto nell’organizzazione di tali attività. Un primo esercizio che può essere svolto consiste nel far elencare tutti i mediatori che ogni bambino utilizza e cercare di metterli in ordine di sua preferenza. Quando si parla di mediatori, non solo si fa riferimento a compagni che mediano e traducono, ma anche a tutto ciò (come materiali, cartelloni, rituali, musiche) che permette ai minori di creare una struttura condivisa con l’ambiente circostante e di stimolarne un’esplorazione cognitiva, soprattutto nel contesto scolastico. Si suggerisce in seguito di evidenziare i risultati ottenuti con cartelloni da disporre in un ordine variabile: raggruppando ad esempio le indicazioni affini, o seguendo la logica del domino. Tale logica è basata:

  • sulle possibilità combinatorie;
  • sull’individuazione «creativa» delle combinazioni (domino colore, ma anche domino numeri, domino figure, ecc.);
  • sul valore dei collegamenti;
  • sulla necessità di non lasciare un pezzo di domino senza collegamenti;
  • sulla possibilità di attaccare un nuovo pezzo o pedina da qualsiasi parte.

Una seconda attività che può essere svolta consiste nell’organizzare con l’intero gruppo classe il gioco di Kim. Che gioco è? Il gioco di Kim può essere utilizzato con tutti gli elementi sensoriali di cui si dispone: se si può usare la vista, si osservano per pochi attimi gli oggetti che sono su un tavolo, poi, senza più vederli, bisogna ricordarli. Si può fare il gioco di Kim oltre che con la vista, anche con l’udito, con l’olfatto, col gusto e col tatto, ed è interessante riscontrare le differenze di accessibilità e quindi di rendimento di ognuno dei cinque sensi. Un soggetto può privilegiare il tatto per entrare meglio in contatto con la realtà, per esplorarla, e tale consapevolezza andrebbe presa in considerazione quando si organizzano e svolgono attività didattiche e extra didattiche in cui tale soggetto è coinvolto. Si può in seguito realizzare un cartellone dove inserire una tabella a due entrate: su un asse vengono elencati i nomi dei partecipanti, e sull’altro asse i materiali con cui si realizza il gioco di Kim. L’incrocio dei due assi permette di far risaltare le caratteristiche di ciascun bambino/a partecipante. Infine, ci sono alcuni temi che possono essere affrontati con varie attività decidendo se mantenerli costantemente nella logica dell’emergenza, dell’incidente e dell’accidentale; o se, nella prospettiva dell’Educazione Attiva, possono essere il motivo per rilanciare e praticare una migliore qualità organizzativa dell’educazione dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta. Si elencano di seguito alcuni di questi temi:

  • l’incertezza. È l’incertezza del collegamento fra passato e presente, la difficoltà a vivere il futuro, la perdita della memoria e lo smarrimento in un orizzonte indefinibile. È la difficoltà a capire cosa ciascuno può e sa fare;
  • la paura. È la paura dell’altro che può nascondere sempre una minaccia, che può far temere che una gentilezza sia attrazione morbosa, che una divergenza di opinione sia un’aggressione, che una diversità culturale sia un’invasione;
  • l’inadeguatezza. È l’inadeguatezza di fronte al bisogno anche minimo che si può incontrare, e quindi il ricorso esagerato al tecnico, allo specialista, al farmaco. È l’impossibilità, per chi cresce, di vivere la quotidianità accanto a semplici relazioni di aiuto e di cura, perché nessuno ha più tempo e perché nessuno si sente adeguato/a;
  • l’isolamento. È l’isolamento in un affollamento crescente, in un ritmo sempre più intenso, in una frantumazione di funzioni e di nozioni che faticano a ricomporsi in una coerenza unitaria ed è l’ansia inesauribile di essere continuamente in contatto, di sentirsi collegati.

Nella prospettiva dell’Educazione Attiva questi come altri temi devono essere affrontati cercando di produrre innovazioni che possono essere assunte come componenti stabili dell’organizzazione dell’educazione di tutti e di tutte. L’Educazione Attiva è presente in molte esperienze vive, e solo alcune sono vissute con la coscienza esplicita di esserne parte. L’Educazione Attiva consiste nel valorizzare l’impegno di tutti/e in una prospettiva che sappia leggere un territorio ampio e aperto, come un laboratorio educativo capace di rispondere alle esigenze della formazione di base e di quella permanente. La scuola, in particolare la scuola dell’autonomia, può diventare il punto nodale e il riferimento stabile di una rete che tocca tanto le strutture culturali che quelle produttive e di servizio. È la valorizzazione delle competenze di tanti e non solo di quelle dei docenti. Non è la sostituzione al ribasso dei professionisti dell’educazione; è, al contrario, la possibilità che chi educa per impegno professionale lo possa fare anche meglio e con più efficacia.

Il senso della traduzione deve inibire una reattività di corto respiro e favorire la lungimiranza del senso

Il respiro condiviso è il titolo di un brano dell’Elogio della cospirazione, in cui Ivan Illich definisce la sua idea di pace e comunità. «Alle sue origini, la cultura civica occidentale oscillò tra una forma raffinata di sfiducia nell’altro e una forma simpatetica di fiducia. Platone riteneva che sarebbe stato sconvolgente per i cittadini ateniesi essere toccati fin nelle loro viscere dalle passioni rappresentate dagli attori a teatro; egli voleva che il pubblico si limitasse a riflettere sulle parole. Aristotele, in modo garbato, modificò l’opinione del suo maestro. Nella Poetica egli chiede agli spettatori di lasciare che i gesti e la mimica, il ritmo e la melodia del respiro influenzino la loro sfera più intima. I cittadini dovrebbero frequentare il teatro non solo per comprendere, ma anche per commuoversi. Per Aristotele, senza questa avvincente mimesis non si verificherebbe alcuna trasformazione o catarsi purificatrice».4 Il mediatore conquista fiducia, anche nel futuro, sintonizzando il proprio respiro con quello dell’altro e insieme entrambi possono conquistare un respiro più ampio. Questo avviene con l’esercizio e l’esperienza. Un/a bambino/a mediatore/trice unicamente in casi eccezionali ha meno possibilità di diventare un buon traduttore. Avrà il respiro corto di chi traduce parola per parola, senza cogliere il senso. Cogliere il senso vuol dire tradurre tenendo aperta la traduzione al divenire del senso. Non è il senso della singola parola. La singola parola deve vivere — sia permessa l’immagine retorica — la sospensione della freccia scoccata. Chi parla e chi traduce devono avere lo stesso respiro. Fanno lo stesso percorso, e non possono avere uno il passo del maratoneta e l’altro quello del centometrista. Questo può essere molto utile per il percorso delle conoscenze, per l’apprendimento come per l’insegnamento. Entrambe dovrebbero fare i conti sul fatto che quello che conosciamo, noi esseri umani, è una percentuale minima rispetto a ciò che non conosciamo. L’asse verticale, della logica lineare dall’alto al basso, può ingannare e illudere. L’asse orizzontale, della logica dell’affiancamento, può favorire la dinamica evolutiva anche delle conoscenze. Nell’economia della conoscenza:

Possesso

Scambio

Accumulo

Diffusione

Chiusura

Accoglienza

Scarto

Bricolage

Un bene materiale diviso diminuisce

Un bene materiale diviso si moltiplica

Le strategie delle conoscenze potrebbero farci vivere alcune avventure.

  • Perdersi senza saperlo.
  • Incorporare il concetto di «essere in un percorso».
  • La reciprocità tra individui e organizzazione.
  • Bisogno di scambio, rete e integrazione con le istituzioni e con i pari.
  • Necessità di avere accesso a informazioni.
  • Alfabetizzazione istituzionale.
  • Autonomia dell’individuo come soggetto sociale.
  • La gestione della conoscenza, tacita ed esplicita.
  • Eventualmente intrecciare la fruizione di tecnologie con una proposta evolutiva e formativa.

L’apprendimento è individuale, ma l’individuo è un essere umano sociale. L’aria è respirata e composta da tutti. Potremmo mangiare senza gli altri? Laboratori e sartorie, fabbriche, negozi e scelte. Anche solo una caramella porta a qualcun altro.

Le stelle nella galassia sono circa cento miliardi.

Il numero dei neuroni del nostro cervello? Cento miliardi.

Il numero degli esseri umani vissuti finora? Cento miliardi.

È possibile non contaminarsi?

Chi traduce si appoggia, contaminandosi, a una parola che conosce sapendo che non basta. Non può accontentarsi del poco che sa e deve lasciare aperto il proprio sapere a ciò che ignora. Se si accontentasse di quello che sa, se non volesse contaminarsi, farebbe come quel tale che cercava la chiave non dove l’aveva perduta, ma dove il lampione faceva luce. Bisogna ammettere che «[…] la conoscenza individuale sia notevolmente semplicistica, in grado di scalfire solo la superficie della reale complessità del mondo e tuttavia spesso non ci rendiamo conto di quanto poco comprendiamo. Il risultato è che di frequente siamo troppo sicuri di noi stessi, certi di avere ragione riguardo a cose di cui sappiamo pochissimo» (Sloman e Fernbach, 2018). Chi cresce facendo a volte l’interprete, magari per un genitore, può fare esperienza di conoscenze che non ostacolano la conoscenza. Sembra una stramberia, un paradosso buttato là per stupire. Suggeriremmo di coglierne la sfida facendola diventare autentica e appassionante.

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1 Università di Bologna.

2 Università di Bologna.

3 Ermanno Olmi l’ha illustrato nel film Torneranno i prati, del 2014. Siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. Nel film il racconto si svolge nel tempo di una sola nottata. ‘O surdato ‘nnammurato è la canzone che viene cantata e che descrive la tristezza di un soldato che combatte al fronte e che soffre per la lontananza dalla donna di cui è innamorato.

4 Illich I., Elogio della cospirazione. Traduzione a cura di Antonio Airoldi eseguita sul testo inglese The Cultivation of Conspiracy, che compare in L. Hoinacki e C. Mitcham (a cura di), The Challenges of Ivan Illich. A Collective Reflection, Suny Press, Albany (NY), 2002.

Vol. 20, Issue 1, February 2021

 

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