Vol. 19, n. 2, maggio 2020

Monografia

Per un dialogo educativo tra preadolescenti e detenuti attraverso il teatro. Analisi di un caso

Vito Minoia1

Sommario

Dal monitoraggio effettuato nel corso del 2018, da parte del Ministero della Giustizia, si evince che la diffusione del teatro in carcere in Italia sta producendo risultati apprezzabili.

Il contributo analizza il Progetto E.S.C.O., che ha coinvolto negli ultimi anni a Pesaro preadolescenti della Scuola secondaria di primo grado Galilei e detenute/i della Casa Circondariale, attraverso il laboratorio ideato dal Teatro Universitario Aenigma di Urbino, al fine di valutare gli effetti comunicativi di questo esperimento artistico-espressivo sul territorio.

Parole chiave

Teatro, detenuti, studenti, laboratorio, prevenzione.

MONOGRAPHY

For educational dialogue between pre-adolescents and inmates through theater. A case study

Vito Minoia2

Abstract

An assessment conducted by Ministry of Justice in 2018 shows that the increased presence of theater in prisons in Italy is producing positive results.

This article considers the E.S.C.O. Project, which recently involved pre-adolescents from the Galilei middle school and inmates from Casa Circondariale through a workshop designed by the Teatro Universitario Aenigma of Urbino. The article’s intent is to assess the communicative effects of this artistic and creative experiment within the community.

Keywords

Theater, inmates, students, workshop, prevention.

Farsi carico dell’ascolto e dell’apertura all’altro,

alla differenza che è contenuta nell’altro,

riferimento della pedagogia della reciprocità.

Andrea Canevaro

Gli orizzonti della scena reclusa

Sono trascorsi più di sessanta anni dalla nascita del San Quentin Drama Workshop, la prima compagnia teatrale composta da detenuti che produsse una memorabile rappresentazione di Aspettando Godot il 19 novembre del 1957 nella prigione di San Quentin a San Rafael, California. Lo spettacolo fu prodotto espressamente per i 1400 prigionieri del carcere di massima sicurezza. «I detenuti apprezzarono la recita e sembrarono capire subito lo spirito che animava Godot» ricorda Rick Cluchey, allora detenuto nel carcere, poi graziato per meriti artistici e allievo dello stesso Beckett3 che lo riconobbe come proprio attore ideale. Da allora, e fino alla sua scomparsa nel 2015, Cluchey ha continuato a portare in scena le opere di Beckett, soprattutto L’ultimo nastro di Krapp, impegnandosi in diversi progetti di formazione di nuovi operatori teatrali penitenziari (Taki, 2018, p. 97).

Da allora, le esperienze teatrali nelle carceri d’Europa, America Latina e Stati Uniti hanno visto la nascita di molte compagnie teatrali penitenziarie, con lo sviluppo di un tessuto di esperienze molto diversificate fra loro. Si è trattato in gran parte di esperienze condotte da uomini e donne del teatro professionista che sono andati a lavorare nelle carceri. Questi percorsi hanno consentito una progressiva creazione di metodi d’intervento, stili e linguaggi inediti. È nato così qualcosa di nuovo, di completamente originale: un tipo di teatro fondato sull’ascolto dei luoghi in cui opera, sulle biografie delle persone coinvolte, sulla reinvenzione continua dei linguaggi della scena secondo i limiti dati dalle strutture e dalle condizioni eccezionali di questa particolare forma di espressione.

Oltre a contrastare il forte disagio dell’essere detenuti e di promuovere un’attività espressiva e spirituale per la riabilitazione individuale e sociale, in carcere si promuove un lavoro artistico che è, inevitabilmente, ricco di ricadute sociali nella dinamica fra il dentro e il fuori (Pozzi e Minoia, 2009), fra ospitare spettatori nelle strutture carcerarie in occasione delle repliche, e andare a rappresentare nei teatri pubblici gli spettacoli prodotti in carcere. A volte, in uscita dal carcere, qualcuno ha avuto la possibilità di continuare a praticare i mestieri del teatro, come attore o tecnico.

Le esperienze, spesso molto fragili, sono soggette a processi sociali e scelte culturali a rischio per mancanza di sostegni strutturali. E ovviamente soffrono degli stessi problemi che affliggono il mondo carcerario: il sovraffollamento delle carceri; la conseguente carenza di personale; gli orientamenti e le decisioni che spingono verso il rischio di un ritorno a un carcere non rieducativo ma prettamente esecutivo della pena; la presenza di detenuti con evidenti problemi di povertà, difficoltà comunicative, spesso vittime di fenomeni migratori; la presenza sempre maggiore di giovani detenuti per piccoli reati, come il piccolo spaccio di stupefacenti.

È però in atto un progressivo lavoro di progettazione, relazione e creazione di luoghi di confronto e di qualificazione del movimento teatrale sorto all’interno delle carceri. Ne sono testimonianza la nascita di movimenti di confronto e di coordinamento capaci di offrire riferimento e informazione ai molti operatori del settore in continua crescita.4

Dal monitoraggio effettuato nel corso del 2018, da parte della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, sono risultati attivi 146 laboratori teatrali. Presso 70 Istituti, l’esperienza teatrale è stata affiancata da altre attività di supporto da parte degli operatori del trattamento; in 132 casi gli operatori hanno segnalato che l’esperienza del laboratorio teatrale ha inciso positivamente sul clima generale dell’Istituto.5

Il «bisogno di teatro» fiorisce con tanta più urgenza proprio nei luoghi della negazione; esprime, qui con più forza che altrove una necessità di difesa, un’ansia di trasformazione, il bisogno di «resistere collettivamente, con la fantasticheria, al male che divora il soggetto umano forzato a sottomissioni paralizzanti» (Meldolesi, 1994, p. 46).

La chiave che determina il successo dell’azione teatrale e culturale in carcere è quella che consente alla persona privata della libertà personale di esprimere la propria personalità «senza coartazioni trattamentali, permettendogli un percorso di autodeterminazione potenzialmente idoneo alla ricostruzione del legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato» (Ruotolo, 2018, p. 23).

Più cultura può senz’altro equivalere in chiave educativa a investire in formazione, mediazione, evoluzione del linguaggio e buone prassi (Canevaro, 2006).

Quando il cammino di una persona è segnato da insuccessi, errori, cedimenti o da catastrofiche cadute, l’importante è «ricominciare, riprendere dal prima, riscoprire i valori profondi dell’umanità in un contesto locale e globale, e non perdere di vista la libertà, cartina di tornasole di ogni risalita sociale e civile, per ogni individuo e per ogni comunità» (Persi, 2018, p. 18).

Quando l’attività teatrale in carcere riesce a porre le premesse per percorsi di reinserimento sociale delle persone recluse, occorre comunque tenere in considerazione la necessità di neutralizzare in uscita numerosi fattori di carattere per lo più socio-economico (Sarzotti, 2019).

Nel contesto anglosassone in particolare sono stati analizzati i vari elementi che potrebbero ostacolare la desistenza dal crimine: assenza di opportunità di lavoro dignitose, contesti familiari o abitativi troppo frequentati da attività criminali professionali, tossicodipendenza, clandestinità (Shapland e Bottoms, 2017).

L’impegno della progettazione teatrale in carcere può assumere comunque una rilevanza educativa, culturale, politica ben oltre le ricadute riabilitative e investire «la funzione della critica all’istituzione totale e del coinvolgimento della società esterna» (Sarzotti, 2019).6

Il linguaggio teatrale in carcere, grazie alle sue peculiarità creative e artistico-espressive, diventa uno strumento privilegiato di intervento educativo-inclusivo (Minoia, 2018a), fuoriuscendo dagli schemi imposti e individuando forme di conoscenza in grado di far fronte a nuove emergenze educative (Gardner, 2006).

Quando la scuola incontra il carcere attraverso il teatro

Il Teatro Educativo Inclusivo (Minoia, 2018b) è un luogo d’incontro di storie di vita e si realizza come un insieme di buone prassi al servizio di bisogni inclusivi. Al tempo stesso partecipa a processi di rinnovamento di linguaggi e tecniche.

Le esperienze stesse di alcuni artisti che operano nell’ambito della ricerca teatral-educativa e che hanno scelto di lavorare in una dimensione di ascolto delle differenze hanno creato contaminazioni positive e nutrimenti in continue osmosi tra teatro ed educazione.7

A Villa Fastiggi, quartiere della periferia di Pesaro, la Casa Circondariale è poco distante dalle scuole e tanti ragazzi passano tutti i giorni davanti a quella struttura, all’interno della quale si svolge una vita parallela, una vita che, spesso, chi vive all’esterno non conosce. Tutto ciò che è dentro è come se fosse invisibile, o non lo si volesse vedere, rimuovendolo. Il Laboratorio La comunicazione teatrale, a cura del Teatro Universitario Aenigma di Urbino, ha permesso a una decina di classi di preadolescenti (d’età tra gli 11 e i 13 anni) della Scuola secondaria di primo grado Galilei, grazie al Progetto E.S.C.O,8 di entrare in contatto con un universo che prima può essere solo immaginato. Tante le testimonianze raccolte insieme ai ragazzi, spesso orientate da stereotipi e pregiudizi: proiezioni immaginarie di detenuti magri, legati con catene e chiusi nelle celle dove dormono su letti di paglia in spazi bui infestati da topi e insetti, indossando abiti a strisce bianche e nere. Un universo condizionato fortemente da certe produzioni cinematografiche nelle quali il carcere rappresenta simbolicamente il lato oscuro diabolico che va perennemente delimitato e controllato «sino alla fine dei tempi» (Ilardi e Tarzia, 2020).

I ragazzi fanno ingresso in carcere accompagnati dai loro docenti di riferimento e autorizzati dai loro genitori, incontrano una realtà nuova e sconosciuta per loro, avviano una comunicazione con detenuti e detenute fino a vivere con loro momenti di scambio creativo attraverso il teatro. Diventano protagonisti di una seconda sperimentazione condotta a scuola e intrecciata alla prima sviluppata in carcere. Negli anni sono stati dedicati percorsi creativi a tematiche come quelle dell’ombra o del sogno o a una serie di autori in differente rapporto con il carcere o l’esperienza concentrazionaria.9

Sulla base di sistematiche osservazioni prodotte insieme ai docenti coordinati in modo competente dal professore Antonio Rosa, possiamo fissare alcune significative considerazioni. I ragazzi sentono, condividono e manifestano quanto vibra nel loro animo durante l’esperienza nuova e coinvolgente perché diversa dal solito laboratorio teatrale. Si trasformano, nel loro intimo, da spettatori passivi a spettatori coinvolti emotivamente. Comprendono inoltre che qualsiasi situazione problematica può essere risolta in modo non violento, attraverso un dialogo costruttivo, in collaborazione attiva con gli altri, facendo emergere quella forza creativa, quell’attitudine espressiva, spesso sopita da modelli sociali imposti.

E ancora più coinvolti si sentono nel momento in cui devono varcare quella porta blu che automaticamente si apre, e poi si chiude alle loro spalle separandoli dal loro mondo di tutti i giorni, per scoprire una nuova dimensione. Silenzio, timore, curiosità, accompagnano gli sguardi di quella realtà che conoscono soltanto attraverso qualche film. Separarsi dallo zaino, dal cellulare e da ogni altro oggetto personale, passare attraverso il metal-detector, in fila indiana, seguendo l’agente di polizia penitenziaria, li proietta in un ambiente regolato da severe norme (Aguzzi e Minoia, 2004, p. 75).

Il valore educativo dell’esperienza è stato sin dall’inizio condiviso con la responsabile dell’area pedagogica del carcere e con tutta l’équipe socio-psico-pedagogica che sostiene il progetto. Sebbene all’inizio vi fossero delle perplessità sull’opportunità di far incontrare dei delinquenti con dei minorenni, i dubbi vengono superati attraverso una pianificazione del lavoro che prevede un avvicinamento graduale, e fortemente sostenuta dalle motivazioni condivise: la necessità che siano le persone ad incontrarsi; l’opportunità che il carcere venga vissuto come un luogo dove sia possibile agire una interazione col territorio; la convinzione che una relazione significativa si costruisca sul fare insieme utilizzando i mezzi espressivi del teatro.

Anche Dario Fo, incontrato da chi scrive durante la visita ai detenuti del carcere di San Vittore a Milano l’8 gennaio 2013, nella giornata in cui la Corte Europea dei Diritti Umani infliggeva all’Italia una condanna per trattamento inumano delle persone recluse, ha dichiarato che sarebbe educativo che i ragazzi visitassero le carceri come momento di presa di coscienza, ascoltando le storie di vita di chi vi è rinchiuso (Minoia, 2013, p. 3).

Il vissuto di una allieva tredicenne che ha partecipato al progetto si esprime con un’intensa poesia.

Il dolore e la sofferenza

hanno il volto del detenuto,

ed io l’ho visto, l’ho visto due volte

dietro sbarre di ferro che rapiscono la sua allegria,

ho visto i suoi cari

disegnati nei suoi illusori occhi.

Ho respirato,

ho respirato il suo stesso odore,

quell’odore di costrizioni e di sbagli,

ho toccato la sua vita,

vedendo che non è semplice.

Poi,

ho scalfito il mio egoismo

che vuole e pretende tutto per sé,

non facendomi vedere il suo dolore.

Lui…, lui… il carcerato

ha combattuto la sua coscienza

che rammenta il ricordo

di una vita difficile.

Ha provato a dimenticare,

a dimenticare i suoi errori.

Solo per poche ore

ha parlato,

si è divertito, forse…

forse ha scordato ciò che ha fatto,

assieme a me, agli altri.

Poi, tutto è finito

È spuntata una lacrima

Perché è spuntato un rapporto,

un’amicizia che si credeva impossibile.

Abbiamo creduto l’uno negli altri

e sentito i nostri timori.

Quei giorni in carcere

la gioia aveva il volto dei tredicenni.

R.F. (Aguzzi e Minoia, 2004, p. 77)

È lo psichiatra Vittorino Andreoli (2001) a ricordarci come il carcere sia «un’istituzione che fa soggezione e paura e che migliorerebbe, se considerassimo ogni detenuto non come un mostro ma come un uomo, con la voglia di amare».

Una modalità operativa di carattere pedagogico, quella del progetto E.S.C.O. che va a inscriversi nel campo della prevenzione. Rispetto alle usuali visite, dalle quali si esce magari gonfi di eroismo per essere tornati illesi dall’inferno di corridoi, celle, cancelli sbarrati, alla fine del lavoro che per mesi impegna studenti e detenuti. Nell’ambito di questo tipo di progettualità, i ragazzi escono tristi dopo aver salutato persone che continueranno a vivere la loro vita, fino alla fine della pena, private della loro libertà personale. La prevenzione si esplicita nel riconoscimento di un contesto, quello del carcere e della quotidianità al suo interno, che vede la presenza di uomini e donne come tutte le altre, con una vita, delle fragilità e degli affetti nei quali è facile identificarsi.

«Quello che colpisce le intelligenze vivaci e libere dei ragazzi, è che non ci sia nulla di terribile in queste persone, perché non rappresentano il male confinato e delimitato, non c’è bisogno di essere l’incarnazione del male per ritrovarsi in prigione. E quando tornano a casa, raccontano quanto sia tremenda la prigione e quanto sia meglio evitarla» (Vilella, 2009, p. 111).

Bibliografia

Aguzzi D. e Minoia V. (2004), Per uscire dall’invisibile. Esperienze di teatro e carcere, Cartoceto, ANC Edizioni.

Andreoli, V. (2001), Il carcere: luogo di sentimenti, «Le due città. Rivista dell’amministrazione penitenziaria», vol. 2, n. 7-8, https://www.leduecitta.it/index.php/613-archivio/2001/luglio-agosto-2001/235-il-carcere-luogo-di-sentimenti-235 (consultato il 24 maggio 2020).

Canevaro A. (2006), Le logiche del confine e del sentiero. Una pedagogia dell’inclusione (per tutti, disabili inclusi), Trento, Erickson.

Gardner H. (2006), Development and Education of the Mind, Oxford, Routledge. Trad. it., Educazione e Sviluppo della Mente, Intelligenze Multiple e apprendimento, Trento, Erickson.

Ilardi E. e Tarzia F. (2020). La funzione simbolica del carcere nell’immaginario letterario e cinematografico americano. «Publifarum», (32), https://www.publifarum.farum.it/index.php/publifarum/article/view/256 (consultato il 20 maggio 2020)

McAvinchey C. (2011), Theatre and Prison, Basingstoke, Palgrave Macmillian.

Meldolesi C. (1994), Immaginazione contro Emarginazione, «Teatro e Storia», vol. 16, n. 1, pp. 41-68.

Minoia V. (2013), Darsi credito dentro in «Catarsi, teatri delle diversità», vol. XVIII, n. 62, p. 3.

Minoia V. (2018a), Theatre in prison and its educational-inclusive role, «CERCARE, carcere anagramma di», vol. 2, n. 2-3, pp. 25-29.

Minoia V. (2018b), Per una pedagogia del teatro. Buone prassi tra vecchie e nuove diversità, Roma, Aracne.

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Pozzi E. e Minoia V. (2009), Recito, dunque so(g)no. Teatro e Carcere 2009, Urbino, Edizioni Nuove Catarsi.

Ruotolo M. (2018), Carcere e cultura, «CERCARE, carcere anagramma di», vol. 2, n. 2-3, pp. 19-23.

Sarzotti C. (2019), Il teatro in carcere tra cerimonie istituzionali e strumento di riabilitazione: appunti per una riflessione teorica, Il carcere secondo la Costituzione, XV rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, http://www.antigone.it/quindicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione (consultato il 20 maggio 2020).

Shapland J. e Bottoms A. (2017), Desistance from Crime and Implications for Offender. In A. Liebling, S. Maruna e L. McAra (a cura di), The Oxfors Handbook Criminology, Oxford, Oxford University Press, pp. 744-768.

Taki Y. (2018), In memoria di Rick Cluchey (1933-2015), «CERCARE, carcere anagramma di», vol. 2, n. 2-3, pp. 96-97.

Tocci L. (2007), The Proscenium Cage. Critical Case Studies in U.S. Prison Theatre Programs, Youngstown-New York, Cambia press.

Vilella E. (2009), Un posto attivo nel territorio. In Pozzi E. e Minoia V. (a cura di), Recito, dunque so(g)no. Teatro e Carcere 2009, Urbino, Edizioni Nuove Catarsi, pp. 106-111.

Sitografia

Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (CNTiC), http://www.teatrocarcere.it/ (consultato il 10 maggio 2020).

International Network Theatre in Prison (INTiP), https://www.theatreinprison.org/ (consultato il 10 maggio 2020)

Protocollo d’Intesa per la Promozione del Teatro in Carcere in Italia tra Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, http://www.teatrocarcere.it/tcwp/wp-content/uploads/2019/06/PROTOCOLLO-dintesa-DAP-DGMC-CNTiC-DAMS-RomaTre-del-5-giugno-2019-2.pdf (consultato il 10 maggio 2020).


1 Università degli studi di Urbino Carlo Bo.

2 Università degli studi di Urbino Carlo Bo.

3 Nel 1985 nel progetto Beckett directs Beckett, lo stesso autore diresse gli attori del San Quentin Drama Workshop in tre sue opere, Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp, con sempre Cluchey come protagonista.

4 Nel 2011 nasce il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (CNTiC) che riunisce oltre 50 esperienze da 15 regioni italiane differenti. Sulla scia del lavoro italiano, riconosciuto dall’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco (ITI-Unesco) viene attivato il lavoro dell’International Network Theatre in Prison (INTiP).

5 In Premessa al Protocollo d’Intesa per la Promozione del Teatro in Carcere in Italia tra Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo.

6 Si vedano le analisi di Laurence Tocci (2007) e Caoimhe McAvinchey (2011).

7 Si veda il lavoro della Rivista europea «Catarsi, teatri delle diversità» fondata all’Università di Urbino nel 1996 da Emilio Pozzi e Vito Minoia con il coinvolgimento di un comitato scientifico di studiosi di teatro e altre discipline umanistiche e sociali, tra i quali Andrea Canevaro, Claudio Meldolesi, Piero Ricci, Giuliano Scabia.

8 E.S.C.O. (Educare a Scuola per Conoscere e Orientare).

9 Tra gli altri Alfred Jarry, Antonio Gramsci, Franco Basaglia, Federico Garcìa Lorca, Franz Kafka. E ancora Janusz Korczack, ripercorrendo il vissuto del medico educatore e poeta nell’orfanotrofio ebraico di Varsavia (e l’ultimo viaggio insieme ai suoi bambini nel campo di sterminio di Treblinka) e Alejandro Finzi (drammaturgo argentino con il quale i ragazzi sono entrati in contatto via email), aiutando a tradurre e mettere in scena il racconto Martin Bresler, insieme a detenuti e detenute di origine ispanica. Gli esiti sono stati alla fine mostrati a Finzi, in visita per la prima volta in Italia dopo l’esilio della propria famiglia in Sud America a causa delle leggi razziali del 1938.

Vol. 19, Issue 2, May 2020

 

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