Vol. 19, n. 2, maggio 2020 — pp. 1-2

EDITORIALE

Il carcere nel tempo della pandemia

Nelson Mandela ci ricorda che uno non conosce davvero un paese finché non è stato nelle sue carceri. Un popolo dovrebbe essere giudicato per come tratta gli esseri umani che sono più in basso. Fedor Dostoevskij dice che una società si valuta dalle sue carceri. Partire dagli esclusi può essere importante per far contare tutti.

Perché una rivista come questa dedica un intero numero al carcere? Perché l’integrazione è una parola che ci è cara ed è la nostra storia. È accogliente: si è evoluta nell’inclusione, che deve essere un progetto di un’intera società. Diversamente non è. Per verificare lo stato dell’arte, Mandela e Dostoevskij ci autorizzano, ci sollecitano, a questo tema monografico. Che si realizza nel tempo della pandemia, dei confinamenti, delle prigionie casalinghe per tutti. Un tempo che viviamo drammaticamente, e che potrebbe permettere di capire se quei richiami inascoltati da decenni sui sovraffollamenti delle carceri era davvero trascurabile perché sarebbe stato fatto da moralisti sognatori; o non sarebbe stato meglio ascoltarlo per evitare che il carcere diventasse un luogo di conferma del destino segnato, fatto di marginalità ed esclusione. Dalla pandemia usciremo cambiati. Peggiori o migliori?

La recidiva, la ripetizione di un reato da parte di chi è stato in precedenza condannato con sentenza irrevocabile, costa molto, umanamente ed economicamente. È il segno di un marchio che sembrerebbe ormai indelebile. Non è così. La prigione può essere il luogo che apre orizzonti più ampi. Non abbattendo le sue mura di pietra, ma quelle che fanno da ostacolo, anche a chi non è in prigione, alla cultura, all’arte, alla scienza, alla bellezza, all’armonia. Per qualcuno, non pochi, può essere l’occasione di un riscatto. Che viene dopo una vita di violenze, di emarginazione. Questo se la prigione non è proposta come un luogo umiliante che deve punire col degrado anche ambientale chi merita solo questo. Ripetiamo: per non pochi la prigione potrebbe essere la prima volta della vita in cui far parte di una comunità organizzata, scoprendo che ordine, pulizia, operosità possono aprire ad arte, tradizioni, cultura.

Ma la prigione che stiamo indicando diventa un college… chi ha rapinato, spacciato, ucciso, merita un college? Gattabuia e buttar via la chiave! Ragioniamo tornando all’inclusione. Che ha una dinamica di reciprocità. Basaglia, a proposito dell’ospedale psichiatrico, disse: «Allora, giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente, trovavamo le maniere di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro».1 Lo sviluppo inclusivo. È conveniente. I buchi nel tessuto sociale rivelati dalla pandemia costano cari. Lo sviluppo inclusivo può rimediare rinnovando e attivando due aspetti importanti:

  • la prevenzione, che è anche lungimiranza;
  • l’integrazione, l’intreccio fra discipline, fra categorie.

Possiamo operare nella scuola, e trovare risorse e indicazioni in chi opera nel sistema carcerario. Così come potremmo avere studi e preparazione specifica per chi ha una certa diagnosi, e ricavarne risorse e indicazioni per chi ha ben altra diagnosi.

Non chiudiamoci nello specialismo. È lo sviluppo inclusivo, bellezza!

Andrea Canevaro


1 Basaglia F. (2018), Conferenze brasiliane. Nuova edizione, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 12.

 

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