Vol. 19, n. 2, maggio 2020

Monografia

Detenzione e uscita dal carcere

L’accompagnamento socio-educativo per l’inclusione comunitaria

Luca Decembrotto1

Sommario

Gli interventi finalizzati al reinserimento sociale delle persone recluse sono uno dei nodi irrisolti del sistema detentivo. Questa criticità, attribuibile alle pratiche, insufficienti o assenti, ha origine anche nell’ambiguità che il termine «rieducazione» comporta, essendo tuttora maggiormente indirizzata a indurre un cambiamento attraverso la disciplina, che a strutturare opportunità di emancipazione personale e di ricostruzione dei legami comunitari. Questo articolo presenta in forma sintetica i risultati di un’indagine esplorativa svolta a Bologna tra le persone senza dimora, mostrando un legame fra l’uscita dal carcere senza progettualità e la successiva condizione di vita. Sono inoltre suggerite alcune coordinate di progettazione inclusiva orientata alla comunità.

Parole chiave

Educazione, risocializzazione, detenuti, carcere, comunità.

MONOGRAPHY

Detention and exit from prison

Social and educational coordinates for a better community inclusion

Luca Decembrotto2

Abstract

The interventions aimed at the social reintegration of people in prison are one of the unresolved issues of the detention system. This criticality of practices, insufficient or absent, also originates in the ambiguity that the term «reeducation» involves, still more directed to induce a change through discipline than structure opportunities for personal emancipation and construction of community ties. This paper presents the results obtained of an exploratory research held in Bologna among the homeless, showing a link between the exit from prison without planning and the subsequent condition of life. Some community-oriented and inclusive design coordinates are also suggested.

Keywords

Education, re-socialization, prisoners, prison, community.

Introduzione

Nel panorama delle sfide che l’attuale sistema detentivo presenta si può certamente inserire la formulazione e la pianificazione dei processi di uscita. Le transizioni dal carcere alla comunità, i percorsi di reinserimento sociale e il progressivo accompagnamento verso il territorio, pare non offrano risposte soddisfacenti, sebbene la letteratura italiana a riguardo sia insufficiente, in quanto la ricerca trova numerosi ostacoli nella produzione di dati aggiornati (Sbraccia, 2020). Si tratta di un vero e proprio nodo irrisolto, in quanto il reinserimento sociale, pur essendo considerato una priorità dell’Ordinamento Penitenziario — secondo cui nei confronti del condannato si dovrebbero strutturare «un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale» (art. 1) — non pare avere rilevanza al momento della costruzione delle pratiche detentive, le quali, al contrario, continuano ad aderire ad altre istanze, come quelle di natura securitaria, di ripristino della funzione afflittiva o di mero contenimento sociale.

Educazione e risocializzazione: inquadramento teorico

L’istanza della risocializzazione ha origine nel paradigma positivista del XIX secolo (Vianello, 2014). A questa si fa risalire la formulazione del principio rieducativo della pena come strumento per incidere sul futuro del criminale (Migliori, 2008) e sulla sua riabilitazione sociale. I termini erano quelli di una rieducazione in grado di «restituire forza lavoro alla comunità sociale» (Migliori, 2008, p. 88), dando importanza all’utilità della pena. Durante la costruzione della Costituzione italiana, l’Assemblea Costituente recepì l’indirizzo di questa corrente, indicando al suo interno la sola funzione rieducativa della pena (art. 27, c. 3, Costituzione della Repubblica italiana), mentre nell’Ordinamento Penitenziario fu compiuto un ulteriore passo in questa direzione, esplicitando come finalità della rieducazione il reinserimento sociale (art. 1, Ordinamento Penitenziario), attribuendo così alla pena detentiva una specifica funzione risocializzativa.

Tali istanze rieducative e risocializzative, oggetto di ampio dibattito all’interno delle diverse correnti giuridiche, possono essere problematizzate anche sotto il profilo pedagogico, in quanto aprono interessanti interrogativi, a partire dal senso e dall’uso di quei termini. Prendendo a riferimento il termine «rieducazione», il prefisso «ri-» precisa qualcosa del significato della parola «educare» che, oltre a rimandare all’educare di nuovo, considerando la possibilità che qualcosa nel processo educativo passato non abbia funzionato (Torlone, 2016b), può anche modificarne il significato indicando il processo per indurre un cambiamento nella persona in senso coercitivo (com’è avvenuto nella prima parte del secolo passato), correzionale (Brunetti, 2005) o emendativo (cioè di riparazione a un errore). C’è, in altre parole, una certa ambiguità nell’uso del termine «rieducazione», che può essere inteso come mera rieducazione etica, funzionale al «ripristino di atteggiamenti eticamente e socialmente accettati» (Migliori, 2008, p. 234), anziché come acquisizione di maggiori strumenti, consapevolezza e crescita personale, sviluppati in un processo di lifelong learning (Migliori, 2008; Torlone, 2016a), che permettano alla persona di maturare in autonomia i cambiamenti ritenuti più opportuni per il ritorno al contesto sociale libero.

Tenendo conto di ciò, educare significa tanto promuovere il pieno sviluppo della persona, quanto facilitare la relazione tra la persona e la comunità, sebbene all’interno del paradosso dato dalla condizione di privazione della libertà caratterizzante il contesto. Secondo questa prospettiva, per certi versi controintuitiva, il carcere — qualora necessario e inevitabile — non è più uno strumento finalizzato a separare, disciplinare, correggere e opprimere, bensì in grado di fornire occasioni di emancipazione (come ogni altra agenzia educativa) e di (ri)costruzione dei legami.3 In questo senso si comprende la centralità del reinserimento sociale (realizzato anche e soprattutto attraverso l’accesso a misure alternative al carcere), da cui discendono altre priorità, come la sua programmazione e l’accompagnamento nella realizzazione di quel percorso, soprattutto qualora esistano condizioni personali di fragilità e di vulnerabilità sociale.

Lo sguardo degli Stati Generali

Gli Stati Generali sull’Esecuzione Penale (2016), interrogandosi sul principio rieducativo e sul finalismo risocializzativo della pena detentiva, hanno individuato come elementi necessari per la loro realizzazione una pre-condizione negativa — «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» (art. 27, c. 3, Costituzione della Repubblica italiana) «essendo impossibile rieducare alla legalità un soggetto illecitamente umiliato nella sua dignità di uomo» (Stati Generali sull’Esecuzione Penale, 2016, p. 9) — e una serie di presupposti positivi. Qui se ne richiamano due: il considerare l’uomo come fine o «meglio, come responsabile e «libero» artefice di quel fine — mai come mezzo di una strategia politica (sia essa di sicurezza sociale, di governo dell’immigrazione, di contrasto al terrorismo)» (p. 9) e l’operare non solo affinché il trattamento penitenziario non determini forme di «inabilitazione sociale», ma anche allo scopo di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto le opportunità di risocializzazione del condannato, impediscono alla pena di svolgere la funzione che la Costituzione le assegna» (p. 10). In riferimento a quest’ultimo presupposto, le possibili condizioni personali vissute dal soggetto detenuto non possono in alcun modo costituire un elemento discriminante e di esclusione dalle opportunità di reinserimento sociale (si pensi a titolo esemplificativo alle persone senza dimora, a chi è dipendente da sostanze psicotrope, a chi vive un disturbo psichico o una disabilità), ma, al contrario, il trattamento rieducativo deve rispondere ai bisogni di ciascun soggetto (art. 13, Ordinamento Penitenziario), andando ad affrontare quelle situazioni penalizzanti, per eliminare ogni possibile discriminazione, secondo quanto previsto dal principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, c. 2, Costituzione della Repubblica italiana).

Nella misura in cui rieducare significhi ricostruire relazioni, assume sempre più importanza la preparazione di tutte le persone detenute che si accingono a tornare alla vita libera, anche attraverso un sostegno adeguato nel periodo immediatamente precedente e successivo alla scarcerazione (art. 46, Ordinamento Penitenziario), dedicando particolari attenzioni a coloro che sono fragili o vulnerabili, con un forte coinvolgimento del territorio. Troppo spesso, infatti, il periodo detentivo si conclude con un’uscita improvvisa, che vede la persona abbandonata a se stessa fuori dall’istituto, con un sacco contenente i beni personali e nessuna destinazione, a meno che non ci sia una famiglia ad attenderla. Diverso sarebbe aver sperimentato gradualmente il ritorno nella società o, quantomeno, aver programmato quel momento, riprendendo (o costruendo) i contatti relazionali personali, professionali e più ampiamente comunitari, ma anche prendendo «le misure» con un contesto territoriale che inevitabilmente, durante la detenzione, è mutato.

Uno studio di caso

Per comprendere la presenza di un intreccio tra l’uscita dal carcere e le forme più gravi di esclusione sociale, in una crescente correlazione tra i fenomeni di povertà estrema (Bergamaschi, 2017), già evidenziata dalla Commissione d’indagine sull’esclusione sociale (2003), è stato svolto uno studio di caso che ha coinvolto alcuni servizi di prossimità dedicati alle persone senza dimora nella città di Bologna (Decembrotto, 2017; 2019) nell’inverno 2015/2016 e l’inverno 2016/2017, in coincidenza al Piano Freddo.4 L’indagine, di tipo esplorativo e non generalizzabile, è stata funzionale alla comprensione di un fenomeno di difficile misurazione, perché in larga parte sommerso e riguardante persone socialmente invisibili.

Le interviste hanno coinvolto 132 persone nel 2015/2016 e 55 persone nel 2016/2017, tutte incontrate durante l’apertura dei servizi di prossimità, senza ulteriori criteri selettivi. Tra gli intervistati 31 persone (23,5%) nel 2015/2016 e 11 persone (20,0%) nel 2016/2017 avevano avuto esperienze detentive in passato, in prevalenza a Bologna o altri istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna, alcune delle quali molto recenti o appena avvenute, avvalorando l’ipotesi che tra le traiettorie di vita all’uscita dal carcere di una persona priva di residenza, con un’elevata vulnerabilità sociale e personale,5 ci possa essere la strada.

Ciò che è emerso in modo significativo dal passato delle persone senza dimora intervistate è che, per alcune il percorso detentivo non ha rimosso (e forse nemmeno affrontato) gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto le opportunità di risocializzazione, facendole tornare alla condizione vissuta in precedenza, mentre per altre è la stessa esperienza detentiva a essere stata causa (o concausa) delle attuali condizioni di vita in strada, avendo prodotto degli effetti desocializzanti e incapacitanti nella vita della persona reclusa, che perdurano al termine della detenzione.

Coordinate di progettazione inclusiva orientata alla comunità, oltre la detenzione

L’uscita dal carcere è un momento delicato, in cui la persona si trova a misurarsi con i propri cambiamenti personali, con i mutamenti del contesto e con gli effetti che la detenzione ha avuto sulla propria vita (sia nei termini di «ciò che è rimasto» rispetto al passato, sia di «ciò che è ancora possibile» nell’orizzonte futuro). In molti casi il rientro alla vita libera significa varcare le soglie del carcere soli (in assenza di risorse) o con l’unico sostegno della famiglia (nodo principale della rete relazionale, se non unica risorsa disponibile).

Rispetto all’uscita dal carcere occorre tornare a quanto indicato dagli Stati Generali (2016), i quali suggeriscono di predisporre «un protocollo di dimissione che sia in grado di raccogliere dati utili per tracciare i punti di forza e quelli di debolezza delle biografie di ognuno dei detenuti in dimissione e la sua applicazione sistematica nel periodo precedente alla scarcerazione» (p. 39), consentendo così di programmare misure utili ad attenuare l’impatto dell’uscita, soprattutto per coloro che vivono fragilità e vulnerabilità. Tuttavia, questi protocolli non sono ancora diffusi sul territorio nazionale, così come stentano a formarsi le collaborazioni che dovrebbero renderle operative, riguardanti gli istituti penitenziari, gli uffici di esecuzione penale esterna (UEPE) e i servizi territoriali, del privato sociale e pubblici, inclusi quelli sanitari.

L’Emilia-Romagna ne ha approvato uno nel 2014,6 per agevolare azioni di supporto durante la fase di dimissione (art. 6) attraverso la preparazione e l’accompagnamento della persona detenuta nella fase di reinserimento sociale in tutti i suoi aspetti (casa, lavoro, salute, ecc.). A Bologna questa collaborazione tra Amministrazione penitenziaria e territorio ha preso il nome di «Progetto dimittendi», un servizio nato nel 2014 come supporto propriamente sociale durante la sua fase sperimentale e, successivamente, con il consolidamento del progetto, spostatosi verso una più ampia azione socio-educativa. La funzione principale del «Progetto dimittendi» è quella di costruire relazioni tra chi si trova all’interno della Casa circondariale «Rocco d’Amato» di Bologna e la comunità, con particolare attenzione alla rete dei servizi pubblici e privati presenti sul territorio bolognese, oltre al raccordo con le realtà di altri territori regionali. Sin dalla sua nascita il progetto si è rivolto esclusivamente ai detenuti con pena definitiva, tenendo come arco temporale di riferimento i 12 mesi precedenti alla scarcerazione e i 6 mesi successivi, sviluppando l’intervento su quattro assi: l’accoglienza, il lavoro, la continuità terapeutica e il rientro verso un luogo d’elezione o di residenza. Rispetto ai risultati, se da una parte questo approccio ha dato risposta immediata ai bisogni delle persone più in difficoltà nel momento dell’uscita dal carcere, dall’altra mostra la sua fragilità nel dare risposta a tutti (o anche solo individuare i soggetti che potrebbero averne necessità), in quanto il sovraffollamento e il numero professionisti in ambito educativo in sotto organico (con un rapporto di circa 1 a 170) raramente permettono di agire in un contesto in cui i bisogni sono già noti o affrontati all’interno di un percorso individualizzato già attivo, al quale dare continuità all’esterno. Inoltre, una progettualità efficace dovrebbe passare dai soli bisogni (spesso primari) ai desideri, in una prospettiva più ampia, di progettualità complessa e di promozione del benessere complessivo della persona, la quale è chiamata a così a interrogarsi e a responsabilizzarsi nella costruzione del proprio futuro, esercitandosi anche a individuare obiettivi intermedi da condividere in fase progettuale, per raggiungere scopi più a lungo termine.

Una possibile risposta metodologica viene da una prospettiva progettuale inclusiva (Decembrotto, 2019): questa si sviluppa in più azioni a supporto delle diverse dimensioni della vita umana, privata e pubblica, affettiva, professionale, politica, di cittadinanza, ecc., intervenendo trasversalmente in varie aree (casa, lavoro, sostentamento/reddito, istruzione e formazione, salute, socialità, cultura, sport, svago, ecc.). Fulcro della progettazione è la promozione dell’essere umano e del suo benessere attraverso l’accesso ai diritti, nella valorizzazione di competenze e conoscenze già acquisite e sviluppo di quelle potenziali, ma all’interno di un’ottica comunitaria e non più meramente individuale, intessendo relazioni con la realtà locale nella quale questi diritti saranno vissuti e riconosciuti reciprocamente (assieme ai doveri). Un percorso di empowerment individuale, di cittadinanza attiva e di empowerment di comunità (Branca e Colombo, 2003), per la costruzione di un benessere collettivo, anche attraverso strumenti riflessivi collettivi come la presa di coscienza e l’educazione problematizzante (Freire, 2002), aprendo domande sull’attribuzione di significato e di senso rispetto alla propria esistenza, alle esperienze, alle reazioni (Sbraccia, 2020) e alle relazioni. Affianco alla co-costruzione di risposte ai bisogni e ai desideri della persona, possono così essere affrontati e contenuti gli effetti dei processi di marginalizzazione, che continuamente producono «vite di scarto» (Bauman, 2005): soggetti in esubero, ritenuti inutili, posizionati al di fuori dei circuiti produttivi, messi da parte dai centri di potere e progressivamente privati dei mezzi necessari alla sopravvivenza. Limitarsi alla costruzione di una progettazione individualizzata e personalizzata, centrata esclusivamente sulla persona senza tener conto del contesto sociale, rischia infatti di attribuire responsabilità sproporzionate al singolo, addossando a questi e alle sue azioni (o talvolta alle sue inazioni) le ragioni della propria condizione o dei propri fallimenti (es. la mancanza o la perdita lavoro), evitando così di affrontare le altre cause presenti nel fenomeno, riconducibili al contesto sociale oltre che alle carenze individuali.

Gli attori protagonisti di questo percorso sono, pertanto, due: la persona in uscita dal carcere, intenta a costruire una propria progettualità di vita, e la comunità, come collettività composta da diversi gruppi (familiari, amicali, lavorativi, di quartiere, di condominio, del volontariato, ecc.), all’interno della quale si costruiscono relazioni interpersonali, si sviluppano attività, interessi e cultura o semplicemente si condivide un pezzo di vita quotidiana, poiché si condivide uno stesso territorio. A costoro si affiancano i professionisti che lavorano per facilitare i processi di inclusione e di partecipazione comunitari, attraverso cui promuovere l’empowerment di comunità per il miglioramento collettivo della vita di ognuno, attraverso una più profonda consapevolezza dei problemi e un maggior potere di generare opportunità e alternative, anche per chi è in uscita dal carcere, costruendo assieme un oltre.

Bibliografia

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1 Università di Bologna.

2 Università di Bologna.

3 Ciò troverebbe riscontro negli studi sul re-entry, in cui si evidenzia l’importanza della mediazione familiare e comunitaria come fattore in grado di supportare positivamente la transizione dal carcere alla comunità, evitando la ripetizione di reati (Visher e Travis, 2003).

4 Il sistema d’accoglienza che si attiva durante il Piano Freddo permette a chiunque — anche privo di permesso di soggiorno — di accedere ai servizi notturni cittadini, perché considerati salvavita durante i mesi invernali.

5 Una persona priva di residenza, anche se cittadina italiana, non può esercitare alcuni suoi diritti o accedere a diversi servizi: il diritto all’uguaglianza (art. 3, Cost.); il diritto all’abitazione (art. 25, Dichiarazione universale dei diritti umani), poiché la casa è riconosciuta come bene primario di fondamentale importanza (Corte Costituzionale, sent. n. 252/1983), requisito essenziale caratterizzante la socialità (Corte Costituzionale, sent. n. 217/1988), da tutelare collettivamente (Corte Costituzionale, sent. n. 49/1987); il diritto al lavoro (art. 4, Cost.); il diritto alla difesa legale (art. 24, Cost.), non potendo accedere al gratuito patrocinio; il diritto alla salute (art. 32, Cost.), potendo accedere ai servizi sanitari in misura limitata (a quelli emergenziali o salvavita); il diritto all’assistenza e alla previdenza sociale (art. 38, Cost.); il diritto al voto (art. 48, Cost.). Tra le limitazioni si ricorda l’ottenimento di un documento d’identità (es. carta d’identità), vincolato alla presenza di una residenza anagrafica, sebbene sia obbligatorio per tantissimi servizi pubblici e scritture private.

6 Protocollo Operativo integrativo del Protocollo d’Intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Emilia-Romagna per l’attuazione di misure volte all’umanizzazione della pena e al reperimento sociale delle persone detenute — RPI.2014.0000008 del 22 gennaio 2014.

Vol. 19, Issue 2, May 2020

 

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