Vol. 22, n. 2, maggio 2023

TEMI APERTI

Lo strano caso dell’uomo elefante: «inquadrature» pedagogico-speciali, educazione ai media e formazione dei docenti1

Daniele Bullegas,2Gianmarco Bonavolontà,3Antioco Luigi Zurru3 e Antonello Mura3

Sommario

A cavallo fra l’Ottocento e il Novecento il fenomeno dei freak show diviene sempre più popolare, segnando la spettacolarizzazione della diversità umana: nani, donne con la barba, giganti e, soprattutto, uomini con evidenti deformità fisiche diventano un fenomeno di attrazione, tanto per le classi popolari quanto per quelle più colte e abbienti. In questo frangente assume rilevanza l’esperienza di Joseph (John) Merrick, conosciuto come l’uomo elefante a causa di una rara malattia che ne aveva deformato il viso e il corpo. Dai baracconi e dalle fiere nelle quali si esibiva, Joseph incontra il medico Frederick Treves che lo visiterà e si prenderà cura di lui all’interno del London Hospital. Si tratta di una vicenda che diventerà celebre soprattutto agli inizi degli anni Ottanta grazie al film The Elephant Man del regista statunitense David Lynch.

Attraverso la strutturazione di un’attività di educazione mediale che ha coinvolto gli studenti del corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria e l’analisi tematica di momenti significativi della pellicola, l’articolo propone e analizza alcuni nuclei tematici della riflessione pedagogico-speciale sul tema della disabilità e dei processi di inclusione sociale, evidenziando, altresì, la potenziale significatività dell’utilizzo dei prodotti filmici nella formazione dei docenti.

Parole chiave

Medicalizzazione, Pedagogia Speciale, Cura Educativa, Emancipazione identitaria, Media Education, Formazione dei docenti.

OPEN issues

The Strange Case of the Elephant Man: Special Pedagogical «framing», Media Education and Teacher Training

Daniele Bullegas,4Gianmarco Bonavolontà,5Antioco Luigi Zurru2 and Antonello Mura2

Abstract

Between the 19th and the 20th centuries, the phenomenon of freak shows became increasingly popular, marking the spectacularization of human diversity: dwarfs, bearded women, giants, and especially men with physical deformities became an attraction as much for the working classes as the upper classes. In this context, the experience of Joseph (John) Merrick, known as the Elephant Man due to a rare disease that deformed his face and body, becomes relevant. Among the fairground shacks in which he performed, Joseph met the doctor Frederick Treves, who visited him and took care of him at the London Hospital. This is a story that became famous in the early 1980s thanks to the film The Elephant Man, directed by David Lynch.

Through the structuring of a media education activity that involved students on the Master’s degree course in Primary Teacher Education, and the thematic analysis of significant moments of the film, the article proposes and analyses some core themes of special pedagogy on the theme of disability and social inclusion processes, also highlighting the potential significance of the use of cinematic products in teacher training.

Keywords

Medicalization, Special pedagogy, Educative Care, Identity emancipation, Media Education, Teacher training.

Lo spettacolo dei diversi: lo strano caso dell’uomo elefante

In epoca vittoriana, esibire a fini spettacolari persone con alcune deformità o anomalie corporee rappresentava un’usanza piuttosto frequente (Canevaro e Gaudreau, 1988; Durbach, 2010; Goussot, 2002; Tromp, 2008). Si trattava per lo più di donne e uomini etichettati come freaks of the nature (lusus naturae), un’espressione con la quale ci si riferiva a persone con caratteristiche difformi, aberranti e anomale, contraddistinte anche da un certo fascino (Bogdan, 1988; Errani, 2002).

Il freak, come violazione delle leggi della società e della natura (Foucault, 2000), è «un individuo che suscita sia un terrore soprannaturale sia una naturale simpatia, poiché, a differenza dei mostri mitologici, è uno di noi, un figlio umano di genitori umani, trasformato però da forze che noi non comprendiamo bene in qualcosa di mitico e di misterioso» (Fiedler, 2009, p. 20).

Questa duplice valenza, a tratti perturbante, ma al contempo seducente e affascinante, al di là della celebre esperienza umana del selvaggio dell’Aveyron, è divenuta, soprattutto a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, la caratteristica che ha decretato il successo dei carrozzoni, delle fiere popolari e dei freak show, cioè di quei luoghi nei quali la diversità è stata spettacolarizzata.

Nani, giganti, donne con la barba, gemelli siamesi, persone albine, uomini con evidenti deformità fisiche rappresentavano alcune delle «tipologie umane» rinvenibili all’interno di tali spettacoli: un interesse catalizzante e a tratti ossessivo per i «fenomeni da baraccone», capace di coinvolgere tanto le classi popolari quanto quelle più abbienti e colte.

Anche grazie all’opera del naturalista Étienne Geoffroy Saint-Hilare (1772-1844) e del suo Trattato di Teratologia (1837), l’impegno per la classificazione, la descrizione e lo studio delle deformità e delle anomalie è divenuto estremamente comune fra medici anatomisti e chirurghi dediti a uno studio più dettagliato delle irregolarità corporee: il freak, dunque, oltre a essere oggetto di spettacolo, ha assunto anche il carattere di fenomeno per l’osservazione da parte di medici e scienziati.

È in tale contesto storico-culturale che Frederick Treves (1853-1923), un giovane chirurgo del London Hospital, incontra per la prima volta Joseph Carey Merrick (1862-1890), noto come l’uomo elefante a causa delle gravi deformazioni corporee, verosimilmente causate da una rarissima malattia genetica, oggi conosciuta come sindrome di Proteo. Nel 1884, infatti, Treves viene a sapere dell’esistenza dell’uomo elefante, che si esibiva all’interno di una bottega in Whitechapel Road.

Colpito dalle condizioni di Merrick, si accorda con il suo impresario per poterlo esaminare all’interno dell’ospedale. Nonostante la pubblicazione negli atti della Pathological Society come caso clinico intitolato A case of Congenital Deformity (1885), la visita non produce esiti particolarmente significativi: Treves, infatti, non è in grado di diagnosticare la sua condizione, né tantomeno di curarla.

Nel 1886, abbandonato dal suo nuovo impresario, Merrick ritrova fortunosamente il medico londinese che, grazie a delle sottoscrizioni private e senza pesare sui bilanci dell’ospedale, riesce a fargli assegnare due stanze isolate sul retro del London Hospital, nelle quali Joseph vivrà fino alla sua morte nel 1890.

Oramai ritiratosi da tempo dalla professione per dedicarsi alla scrittura, Treves pubblica, nel 1923, una raccolta di ricordi della sua esperienza di medico. Si tratta di un memoir che ricostruisce, in forma narrativa, l’incontro con Joseph Merrick, intitolato The Elephant Man and Other Reminescences.6

È sulla base di quest’opera che circa sessant’anni dopo la figura dell’uomo elefante riacquista visibilità presso il grande pubblico grazie alla drammatizzazione teatrale di Bernard Promenance del 1977 e al film di David Lynch, The Elephant Man7 (GB/USA, b/n, 125’) del 1980. Quest’ultimo, prodotto da Jonathan Sanger e Mel Brooks, oltre a lanciare la carriera del regista, ottiene un grande successo commerciale e di critica, ricevendo otto nominations agli Oscar.

Il lungometraggio, basato sulle memorie di Treves e sul libro dell’antropologo Ashley Montagu The Elephant Man: A Study on Human Dignity (1971), descrive le vicende di John Merrick, il cui corpo è significativamente deformato. Dai baracconi delle fiere dove si esibisce, alla conoscenza del medico Treves che lo accoglie, ricoverandolo al London Hospital, John (Joseph Merrick) diviene popolare anche grazie all’amicizia con l’attrice Magde Kendall, attirando la curiosità dell’aristocrazia e della borghesia inglese e rivelando grande intelligenza e sensibilità d’animo. Dopo alcune peripezie, l’uomo si ritroverà nuovamente rinchiuso in un freak show e sfruttato dal suo padrone, dal quale riuscirà poi a svincolarsi e scappare grazie all’aiuto di alcuni amici, per fare ritorno a Londra presso l’ospedale.

Nonostante le evidenti divergenze con la vicenda reale, The Elephant Man rappresenta un interessante prodotto filmico che mostra, in maniera estremamente chiara e puntuale, alcuni temi cardine della riflessione pedagogico-speciale sul tema della disabilità e dei processi di inclusione sociale. Il presente lavoro è orientato all’esplorazione di tali concettualità, al fine di evidenziarne le potenziali finalità didattiche nella formazione dei docenti. I contenuti emersi, infatti, sono il risultato di un’attività di approfondimento che ha coinvolto, nella visione del lungometraggio e nell’elaborazione di prodotti multimediali, le studentesse e gli studenti di Pedagogia Speciale del corso di Laurea Magistrale in Scienze della Formazione Primaria. Attraverso attività di analisi critica e di approfondimento, mediate dai ricercatori, i corsisti sono stati guidati a rilevare le differenti prospettive sulla disabilità e sul deficit rinvenibili nella pellicola, selezionando alcune scene particolarmente significative.

The Elephant Man: tra medicalizzazione, cura pedagogica ed emancipazione identitaria

Alcuni nuclei concettuali fondanti il discorso pedagogico-speciale hanno guidato l’analisi tematica dei prodotti multimediali, elaborati dai corsisti a partire dall’individuazione di fotogrammi e di stralci di sceneggiatura. Si tratta di una scelta che, per sua natura, prevede e implica l’esclusione di altre scene o frammenti che, tuttavia, si sarebbero potuti prestare a un’indagine approfondita.

Il primo tema è rappresentato dai processi di medicalizzazione che contraddistinguono soprattutto la prima parte dell’opera. Si tratta, per lo più, di azioni e dialoghi che rimandano a dinamiche spersonalizzanti di oggettivazione del corpo che, spogliato delle dimensioni propriamente identitarie, diviene oggetto di studio e di analisi da parte dei medici (Gaspari, 2016; Mura, 2009, 2016; Zurru, 2017). La vicenda raccontata nella pellicola si apre con un accordo, sancito attraverso il pagamento di una somma di denaro, fra Treves e Bytes, l’impresario/padrone senza scrupoli, per condurre John Merrick all’interno del London Hospital, al fine di visitarlo.

L’analisi medica descrive una «messa in scena» del corpo del paziente di fronte a una platea di medici interessati prevalentemente all’osservazione delle deformità. Si tratta di una prospettiva che combina l’insegnamento, da una parte, e l’intrattenimento, dall’altra, e che ha come risultato finale la trasfigurazione di John in «oggetto» da esibire. L’uomo elefante, spogliato di qualsiasi dimensione identitaria e soggettiva, diviene un caso clinico da mostrare ai colleghi, a causa della sua eccezionalità. L’ingresso nella scena è caratteristico di questo atteggiamento: il paziente viene condotto nell’aula/teatro protetto da un separè, che si aprirà per mostrare ai medici lo «spettacolo» della diversità.

La figura 1 mostra chiaramente la disposizione spaziale della platea, che favorisce una convergenza di sguardi sull’oggetto di osservazione. Nell’aula/teatro, la performance di Merrick non è dissimile da quella svolta nelle fiere e nei baracconi. In tale frangente, il paziente diviene un’istanza nosografica, fatta di segni e di sintomi da categorizzare secondo un modello «endogeno» e «ontologico» di rappresentazione della disabilità (Gardou, 2006). Una pratica semeiotica in cui il soggetto è «trattato» come mera espressione di un meccanismo patogenetico (elefantiasi, neurofibromatosi, sindrome di Proteo) e viene identificato con le proprie presunte mancanze, in un processo orientato alla spersonalizzazione. Anche l’assetto relazionale rimarca la differenza e la distanza fra il medico e il paziente: una disposizione fortemente connotata in senso asimmetrico e unidirezionale che contribuisce a generare uno spazio liminale (Murphy, 1986) nel quale il (s)oggetto non è né malato (non esiste cura) né sano e il cui corpo deforme, mostruoso e malfunzionante ne mette in dubbio la piena umanità, che si disvelerà solo successivamente nel corso della pellicola.

Al contempo, l’indagine condotta rappresenta il tentativo di normalizzare l’anormale, attraverso processi di descrizione, di misurazione, di comparazione, propri del sapere medico e condensati nella costruzione del caso clinico (Foucault, 1976).

Figura 1

Immagine che contiene musica, arpa, organo Descrizione generata automaticamente

La lezione pubblica. Immagine tratta dal film The Elephant Man (1980).

È in tale postura medicalizzante che Treves, senza mai rivolgersi direttamente al suo giovane paziente, descrive ai colleghi i segni fisici e le caratteristiche morfologiche della condizione di John:

Treves: Notiamo, per primo, l’ingrossamento del cranio, la protuberanza che gli deforma la fronte, l’eccessiva curvatura della spina dorsale […]. La pelle è inesistente a causa dei tumori fibrosi che coprono il 90% del corpo. C’è da pensare che queste affezioni tumorali fossero presenti fin dalla nascita. Ebbene, signori, a causa di queste anomalie congenite, l’enormità della scatola cranica, l’estesa escrescenza frontale, la massa carnosa che forma il braccio destro, la deformazione del labbro superiore che gli stravolge il volto, la distorsione della spina dorsale e l’estesa area coperta da escrescenze tumorali, il paziente è stato chiamato l’uomo elefante.

Lo stralcio di sceneggiatura descrive una prospettiva sulla disabilità orientata in senso cartesiano e segnata da logiche meccanicistiche e materialistiche, che genera molteplici conseguenze: da un lato la rimozione delle dimensioni mentale, biografica e identitaria del paziente, dall’altro una focalizzazione esclusiva sul negativo, sull’assente, che genera un’interpretazione del corpo deforme e della disabilità come luogo di sofferenza e dolore (Gaspari, 2020; Martiny, 2015; Reynolds, 2017; Zurru, 2017).

Il difetto, allora, diviene l’universo semantico con il quale la persona si confronta e si identifica attraverso un processo unidimensionale di costruzione identitaria «colonizzato» dal disturbo e dal danno fisico o mentale.

La visita medica e la successiva lezione pubblica nell’aula del London Hospital non producono esiti particolarmente significativi per John: le conoscenze scientifiche non sono sufficienti e il dottor Treves non è in grado di guarire il suo paziente. Si tratta di un momento chiave nel film, che segna una trasformazione interna di entrambi i protagonisti:

Merrick: Signor Treves, c’è qualcosa che avrei voluto chiederle già da molto tempo.

Treves: Cos’è?

Merrick: Lei può guarirmi?

Treves: No. No, noi possiamo avere cura di te, ma non guarirti.

Merrick: Lo immaginavo.

Il dialogo riportato si inserisce all’interno di un secondo tema cardine del discorso pedagogico-speciale, quello relativo alla cura educativa come risposta, in contrapposizione alle pratiche terapeutiche proprie della prospettiva medicalizzante.

Se Treves conosce l’uomo elefante per le anomalie che contraddistinguono il suo corpo, è l’incontro autentico fra i due che consente al chirurgo londinese di adottare una postura relazionale capace di andare oltre gli stereotipi e i pregiudizi, di superare i processi di categorizzazione e terapia, aprendosi alla dimensione del patico (Zurru, 2015).

Si tratta di una dinamica trasformativa che permette al medico e agli altri personaggi di prendersi realmente cura di Merrick, accogliendolo incondizionatamente e valorizzando gli elementi che costituiscono la sua dimensione identitaria.

Al contempo, anche John cambia profondamente: dalla costante paura, che caratterizza il suo modo d’essere nel mondo, inizia a riconoscere se stesso non solo per l’immagine mostruosa riflessa nello sguardo degli altri.

L’uso della parola per esprimersi, il piacere di vestirsi elegantemente, la vivacità d’animo, la gentilezza e la sensibilità rappresentano qualità sopite che gradualmente (ri)acquistano spazio nella sua personalità.

È in tale dinamica che viene a configurarsi, per Merrick, un percorso di cura capace di supportare l’espressione e la realizzazione di sé, attraverso processi di crescita e di graduale emancipazione (Goussot, 2015; Mura, 2011, 2016).

Per i due protagonisti si tratta di una trasformazione reciproca e dialogica, in cui non è possibile stabilire chi tragga più beneficio, e dalla quale emerge un processo capace di generare cambiamenti nell’intera istituzione ospedaliera. Ne è un esempio l’atteggiamento di Madre Shead, la capo infermiera, dapprima scettico e sbrigativo («questo capisce soltanto le maniere forti»; «le consiglio di non perderci tempo signore») e, successivamente, protettivo e accogliente (figura 2) («benvenuto a casa ragazzo»).

Figura 2

Immagine che contiene persona, uomo, parete, inpiedi Descrizione generata automaticamente

Benvenuto a casa caro. Immagine tratta dal film The Elephant Man (1980).

Un terzo tema della pellicola descrive il processo di riappropriazione identitaria dell’uomo elefante che, attraverso le avversità e grazie ad alcuni incontri significativi, riscopre se stesso. In tal senso, la trasposizione filmica e le vicissitudini del protagonista possono essere lette con una duplice chiave interpretativa, sia individuale che universale. Da un lato, rappresentano John Merrick che gradualmente si riappropria della sua dimensione umana, in un processo di crescita ed emancipazione identitaria. Dall’altro, possono raffigurare la condizione delle persone con disabilità, dapprima escluse dalla comunità sociale e, successivamente, attraverso spinte liberatrici e percorsi di coscientizzazione personale e collettiva, riconosciute come parti integranti di una società più consapevole e inclusiva.

La coscienza di sé come individuo distinto da tutti gli altri è il frutto di una costruzione relazionale, ovvero di un processo di negoziazione e di riconoscimento operato con gli altri. In quest’ottica, la pellicola tratteggia un processo di produzione socioculturale dello svantaggio e della discriminazione a cui John, riconosciuto come «mostro», «creatura», «aborto», «degradata versione dell’essere umano», tende a conformarsi, introiettando e identificandosi con ciò che gli altri gli rimandano.

Il mutismo che contraddistingue il suo personaggio, soprattutto nella prima parte della pellicola, così come il cappuccio che ne cela il volto, rappresentano due forme di interiorizzazione dello stigma, frutto delle esperienze di vita vissute. John si nasconde: è annichilito e terrorizzato dallo sguardo disgustato e impaurito di chi lo osserva.

L’incontro tra Merrick e Treves costituisce un punto di svolta: è quest’ultimo che favorisce un primo slancio emancipativo. Pur essendo inizialmente «oggetto» di curiosità scientifica e voyerismo, Merrick, attraverso il ricovero al London Hospital, fa progressiva esperienza di che cosa voglia dire essere circondato da persone che hanno cura di lui e che reggono la vista del suo corpo deformato. Lo sguardo — tema centrale della pellicola di Lynch — diviene interessato e compassionevole, consentendo al protagonista di ritrovare nuovamente fiducia nell’umanità.

È interessante osservare come tale metamorfosi si verifichi nel momento esatto in cui John sceglie di dare voce a se stesso in maniera autentica, recitando il Salmo 23(4): «Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza».

Si tratta di un momento centrale del film, in cui il protagonista mostra le sue qualità più intime, che ridefiniscono radicalmente l’immagine di sé proiettata all’esterno e consentono a quasi tutti i personaggi che gli ruotano intorno di riposizionarsi: si assiste al passaggio da «corpo malato incurabile» a essere umano con una sua interiorità da scoprire.

L’individuazione della dimensione soggettiva e ideografica — anche se celata dalla deformità — rappresenta l’elemento chiave per transitare da un rapporto connotato in senso medicalizzante a una relazione autentica, capace di generare crescita, consapevolezza, individuazione ed emancipazione.

Sono molteplici i passaggi del film in cui si declinano tali dimensioni, ma alcuni meritano una particolare attenzione. La relazione empatica che si crea progressivamente tra Merrick e Treves, le cure della capo infermiera, l’amicizia con l’attrice Madge Kendal rappresentano il riconoscimento di cui John ha bisogno per trovare il coraggio di affermare la propria identità.

È esplicita testimonianza del compiersi di tale trasformazione anche l’episodio della fuga in stazione, quando nel momento di maggiore difficoltà, circondato da una folla di persone che vuole sopraffarlo, si ribella urlando con tutto il suo fiato: «Io non sono un elefante, non sono un animale, sono un essere umano».

Anche la scelta di firmare la minuziosa creazione del modellino della cattedrale (figura 3), che il protagonista intravede dalla finestra delle sue stanze al London Hospital, segna il raggiungimento di una nuova consapevolezza esistenziale: infatti indica la volontà, da parte del protagonista, di lasciare un segno del suo passaggio e rappresenta un sentimento d’identità e di individualità oramai raggiunto. È proprio in questa scena che, appagato e riconoscente, poiché amato e riconosciuto, in funzione di uno dei suoi più grandi desideri, mai realizzato a causa della sua patologia, il protagonista sceglie di «dormire come la gente normale». È l’ultimo atto di un uomo che si autodetermina.

Figura 3

Immagine che contiene testo Descrizione generata automaticamente

La cattedrale. Immagine tratta dal film The Elephant Man (1980).

Uno sguardo attento tra soggettiva e oggettiva

I contenuti del film passano attraverso una molteplicità di codici espressivi e comunicativi, consentendo allo spettatore di andare oltre la superficie e passare dalla visione a un’osservazione profonda, che richiede attenzione nel fare emergere e percepire i significati impliciti della narrazione.

Partendo da questa prospettiva, si può notare che il potere degli occhi ricorre fin dalla prima sequenza di immagini: sono gli occhi della donna più amata da John, di colei che sin dal primo momento l’ha accettato e amato per quello che è: la madre. Il film si chiude allo stesso modo, con il ritorno al volto, a quegli occhi ai quali John non si rassegna d’essere apparso così sgradevole e per i quali deve essere stato, secondo le sue stesse parole, «una grande delusione».

L’opera di Lynch può diventare così una riflessione sullo sguardo, perché la vita di John è narrata attraverso una pseudosoggettiva, rappresentata dalla visione dis-abilitante degli altri (Boyd, 2016): quelli crudeli del popolo, che continua a vedere in lui un fenomeno da baraccone; quelli scientifici e opportunistici dei medici, i quali non differiscono di molto dai primi, poiché perdura in loro un atteggiamento oggettivante; quelli commiserevoli e compassionevoli della buona società londinese, che concede a Merrick tempo e doni, ma solo come opportunità di salvezza per la propria anima.

Naturalmente non mancano gli sguardi amorevoli di chi ha cura di lui in quanto persona, riconoscendolo come soggetto. Infine, è il film dello sguardo di Merrick, che si nasconde perché ha paura di spaventare e trova il coraggio di mostrarsi agli altri e a se stesso solo quando ritrova fiducia nell’essere umano.

Un altro aspetto importante nella costruzione dei significati dell’opera è la scenografia, che rappresenta, evidenzia ed esplicita l’identità del protagonista. I luoghi abitati da John vanno oltre la mera spazialità. Si passa dal baraccone di Bytes alla stanza d’ospedale, per poi trovarsi al circo in Belgio e nuovamente al London Hospital, eppure ogni luogo apparentemente diverso è sempre un palcoscenico, una finestra che si affaccia all’esterno per lo spettacolo del Sé (Justus, 2012).

In tal senso, la finestra nella camera di John svolge un ruolo centrale: è lo schermo attraverso cui il protagonista guarda fuori, ma è anche lo schermo attraverso cui il mondo lo osserva con curiosità e ribrezzo. È il luogo della condizione umana che oscilla costantemente tra ciò che si è e ciò che viene visto dagli altri. La finestra, inoltre, rappresenta il riscatto, perché John può costruire, attingendo alla sua immaginazione, la cattedrale, simbolo della propria identità.

Tali aspetti sottolineano e rafforzano i temi pedagogici individuati nel paragrafo precedente. Difatti, molte sono le scene nelle quali, in nuce, sono presenti gli aspetti relativi alla medicalizzazione, alla cura e all’emancipazione identitaria che, successivamente, si esplicitano e raggiungono l’apice dell’evidenza in alcune specifiche sequenze della pellicola. In particolare, alcuni fotogrammi, analizzati dal punto di vista cinematografico, fanno emergere tali tematiche.

In tal senso, la scena dell’esposizione del corpo di John alla Pathological Society di Londra rappresenta uno di questi momenti. Infatti, nelle scelte registiche si ritrovano elementi che, visti attraverso la lente della Pedagogia Speciale, riportano in modo significativo al concetto di medicalizzazione.

Nello specifico, si fa riferimento alla prima inquadratura con la quale si apre la scena, dove lo spettatore è abbagliato da una luce intensa, che brilla direttamente nella macchina da presa; lenta carrellata indietro e ci si accorge che è la luce di un proiettore in primo piano e sullo sfondo ci sono i medici seduti in sala impegnati a parlare tra loro (figura 4). La luce che entra in macchina da presa, oltre a dare un senso di disturbo e fastidio, rappresenta l’azione del puntare l’attenzione verso un qualcosa che successivamente si scoprirà essere il corpo di John. Una luce forte e intensa che richiama metaforicamente lo sguardo egemonico della medicina disumanizzante (Zurru, 2011). Inoltre, si può ipotizzare un tentativo da parte del regista di fare immedesimare lo spettatore con l’uomo elefante attraverso una soggettiva che permette di vedere ciò che il protagonista osserva, e sentire il suo stesso vissuto emotivo.

Figura 4

Immagine che contiene persona, uomo, folla Descrizione generata automaticamente

La prima inquadratura della lezione pubblica. Immagine tratta dal film The Elephant Man (1980).

Nel prosieguo della scena, Treves, utilizzando un linguaggio medico contrassegnato da una fortissima proliferazione terminologica, presenta ai medici astanti l’oggetto uomo elefante. Il quadro è composto da un campo totale, dove troviamo l’ombra del corpo di Merrick proiettata sulla tenda medica in primo piano sulla destra, mentre sulla sinistra intravediamo Treves intento a spiegare ai suoi colleghi la brillante scoperta (figura 1).

Gli elementi compositivi di questa inquadratura fanno emergere in modo evidente una contrapposizione tra le due parti, con una voluta sproporzione di dimensioni tra l’ombra-sagoma di John e la figura di Treves, quasi a sottolineare la presenza del mostro. Tutto ciò viene amplificato dalla scelta del regista di riprendere la sequenza dal basso.

La scena si conclude con la stessa inquadratura utilizzata in apertura, ma invertita: una lenta carrellata in avanti sul proiettore di luce che si spegne, dando così un senso di ciclicità e chiusura all’unità narrativa, richiamando in qualche modo il mito della caverna di Platone, dove lo sguardo dei medici è imprigionato dentro alla dimensione medicalizzante, che non riesce ad andare oltre l’ombra del corpo di John, ovvero la superficie apparente di un essere umano.

Il secondo nucleo tematico su cui focalizzare l’attenzione è quello della cura, un tema che attraversa tutta la narrazione, esplicitandosi nelle azioni e nei dialoghi dei personaggi. Un concetto che, partendo da un’accezione puramente medica, si evolve in un rapporto dialogico e significativo e gradualmente diviene un sentimento di amicizia. Ciò significa predisporre tutti gli accorgimenti organizzativi, fisici e relazionali per consentire a John di condurre una vita piena e significativa. Una relazione caratterizzata da «accoglienza incondizionata», «riconoscimento e valorizzazione della diversità» e da «accompagnamento e orientamento verso la trasformazione emancipatrice» (Mura, 2016), intesa come atteggiamento di rispetto verso un uomo, la cui dignità va oltre l’aspetto e le condizioni psico-fisiche (Mura e Zurru, 2015).

La dinamica relazionale diviene, quindi, la sola che possa aiutare Merrick ad avere nuovamente fiducia nell’umanità e aprirsi al mondo. L’incontro empatico con Treves, le attenzioni delle infermiere, le visite di Madge Kendal, la nuova socialità venutasi a creare, nonché l’invito a teatro e il suo essere presentato davanti alla collettività come un «amico caro», sanano le profonde ferite emotive di John, che acquisisce, infine, consapevolezza di potersi dire un uomo felice perché amato. La scelta registica di mettere John in primo piano e il dottor Treves sfuocato sullo sfondo proietta lo spettatore nell’intimità del protagonista, caricando di sincerità quelle parole quasi sussurrate al medico, che risuonano come un gesto di profonda gratitudine (figura 5):

Merrick: [...] io sono felice ogni ora del giorno, amico mio, anche se dovessi sapere di morire domani. La mia vita è bella perché so di essere amato. Io sono fortunato... e non potrei dirlo se non fosse stato per lei.

Figura 5

Immagine che contiene persona, uomo, interni, tuta Descrizione generata automaticamente

Dialogo fra Treves e Merrick. Immagine tratta dal film The Elephant Man (1980).

Terzo e ultimo tema affrontato è quello dell’emancipazione identitaria. La costruzione dell’identità di Merrick si sviluppa e si disvela durante tutta la pellicola di Lynch, ma è la scena finale del film a rappresentare nel modo più completo questo tema.

John è all’interno della sua stanza e rivive emozionato alcuni momenti dello spettacolo a cui ha partecipato con Treves, che gli promette di portarlo di nuovo a teatro. Quando Frederick se ne va, John prende posto vicino alla finestra e firma la sua opera, il modello della cattedrale (figura 6). La macchina da presa inizia una carrellata sui magnifici archi, sulle finestre e sulle guglie create dal protagonista, prima che quest’ultimo si alzi, guardi due volte il quadro raffigurante una ragazza che dorme sul fianco e si sdrai nel proprio letto, ponendo fine alla sua vita. A questo punto, un movimento lento di macchina scorge le fotografie della signora Kendal e della madre, si solleva sulla cattedrale e si ferma sulla finestra aperta. La dissolvenza porta su un cielo stellato, in cui appare il volto della madre che recita una parte della poesia Nothing Will Die di Alfred Lord Tennyson, con la quale accoglie il ritrovato figlio: «Mai, oh! Mai, niente morirà mai; l’acqua scorre; il vento soffia; le nuvole fluttuano; il cuore batte... niente muore».

Figura 6

Immagine che contiene persona, scuro Descrizione generata automaticamente

Sequenza finale. Immagine tratta dal film The Elephant Man (1980).

All’interno della scena si ritrovano tutti i simboli che richiamano le tappe fondamentali del processo di emancipazione di John: la fotografia di Madge Kendal, quella della madre, la cattedrale firmata con il suo nome e infine la finestra, tutti elementi evidenziati dai movimenti lenti della macchina da presa che fanno ripercorrere la storia del protagonista: dall’uomo elefante all’atto finale di autodeterminazione che lo porterà a ricongiungersi, da essere umano, con la madre.

Educare attraverso lo sguardo del cinelinguaggio: esperienze didattiche per la formazione dei docenti

Fin dalla nascita negli anni Settanta del secolo scorso, la media education è stata considerata un ambito di studi interdisciplinare che si concentra sull’uso e sull’impatto delle varie forme di media, compresi quelli tradizionali e digitali, sugli individui e sulla società, e di come essi plasmino la comunicazione e la comprensione della realtà. Si tratta di un approccio ecologico all’apprendimento che non solo si prefigge di insegnare le competenze tecniche, ma promuove anche il pensiero critico, la responsabilità etica e la creatività, attraverso più direttrici: educare con i media, ai media, attraverso e per i media (Bonaiuti, Calvani e Ranieri, 2007; Rivoltella, 2019). L’obiettivo è quello di mettere gli individui in condizione di comprendere e navigare nel panorama mediatico e di utilizzare questi strumenti in modo consapevole ed efficace, imparando ad analizzare, valutare e creare i testi mediatici, anche nella prospettiva di una cittadinanza attiva e responsabile.

All’interno di questo quadro si inserisce il cinelinguaggio come mediatore educativo-didattico che si caratterizza per la straordinaria duttilità e flessibilità di applicazione in diversi ambiti e per affrontare temi, argomenti e contenuti tra i più disparati, soprattutto quando mette al centro una delicata tematica sociale come, ad esempio, la disabilità (Bocci, 2020; Pavone, 2011; Zurru, 2022). Il cinema, infatti, ancora più delle altre arti, si pone come mezzo che veicola e rappresenta valori e disvalori.

Di conseguenza in ambito didattico l’uso dell’audiovisivo, oltre a dare l’opportunità di esplorare culture, valori e prospettive differenti, è un modo efficace per coinvolgere gli insegnanti in formazione, migliorando i processi di partecipazione attiva, l’espressione delle proprie idee, il pensiero critico, così come l’autoconsapevolezza rispetto alle implicite contraddizioni con le quali spesso ci si approccia al tema della disabilità. Inoltre, diventa uno strumento per lo sviluppo delle capacità di analisi, di interpretazione e di valutazione, nonché per la promozione della creatività e dell’innovazione, stimolando gli studenti alla realizzazione di prodotti e dispositivi didattici.

Muovendo da queste premesse e considerate la rilevanza e la significatività dei temi rinvenibili all’interno del lungometraggio di David Lynch, si è scelto di costruire un modulo di approfondimento con le studentesse e gli studenti del corso di Pedagogia Speciale in Scienze della Formazione Primaria.

All’interno di una prospettiva metodologica di apprendimento attivo, il prodotto filmico è stato utilizzato come dispositivo formativo per facilitare, stimolare e implementare nei corsisti l’assunzione di punti di vista decentrati su alcune tematiche fondanti il discorso pedagogico-speciale. Data la sua capacità di sollecitare attivamente le componenti emotive e cognitive, il film è divenuto un efficace mediatore che ha coinvolto gli studenti, offrendo loro la possibilità di analizzare criticamente, sintetizzare e sviluppare alcune concettualità affrontate durante il corso, elicitando riflessioni e considerazioni sulle differenti prospettive sul tema della disabilità, veicolate in The Elephant Man.

A partire da questi propositi e guidati da diverse domande-stimolo, i partecipanti sono stati suddivisi in piccoli gruppi, per l’organizzazione/realizzazione di distinti momenti didattici:

  1. rintracciare nella visione del film gli elementi maggiormente significativi rispetto ai temi affrontati;
  2. elaborare delle presentazioni multimediali con cui rilevare gli elementi salienti dal punto di vista pedagogico-speciale, ancorandoli al linguaggio cinematografico;
  3. discutere attivamente in aula i prodotti elaborati, per strutturare una visione complessiva e ampia dei temi individuati;
  4. predisporre un elaborato scritto attraverso il quale riflettere criticamente e condensare gli elementi maggiormente significativi emersi dalla visione del film e dalle discussioni collettive.

Si tratta di attività che, opportunamente orientate e sostenute, hanno consentito ai partecipanti di divenire gradualmente più consapevoli dei molteplici elementi attraverso i quali si struttura il concetto di disabilità. La possibilità di visionare un prodotto filmico, l’opportunità di analizzarlo attraverso gli strumenti propri del linguaggio audiovisivo e l’occasione di poterne discutere collettivamente hanno rappresentato delle azioni chiave per sostenere la trasformazione delle prospettive con le quali guardare alla complessità del costrutto della disabilità, osservando alcuni dei differenti fenomeni che lo innervano, quali il meccanismo spersonalizzante del deficit, i processi di cura medica e pedagogica, la costruzione identitaria, le dinamiche di inclusione/esclusione.

Bibliografia

Bocci F. (2020), Cinema, disabilità e diversità. Possibili percorsi didattici e formativi. In A. Galanti e M. Pavone (a cura di), Didattiche da scoprire. Linguaggi, diversità, inclusione, Milano, Mondadori, pp. 268-283.

Bogdan R. (1988), Freak Show: Presenting Human Oddities for Amusement and Profit, Chicago, University Chicago Press.

Bonaiuti G., Calvani A. e Ranieri M. (2007), Fondamenti di didattica. Teoria e prassi dei dispositivi formativi, Roma, Carocci.

Boyd N. (2016), The warped mirror: The reflection of the ableist stare in David Lynch’s The Elephant Man, «Disability and Society», vol. 31, n. 10, pp. 1321-1332, https://doi.org/10.1080/09687599.2016.1257421.

Canevaro A. e Gaudreau J. (1988), L’educazione degli handicappati. Dai primi tentativi alla pedagogia moderna, Roma, NIS.

Durbach N. (2010), Spectacle of deformity: Freak shows and modern British culture, California, University of California Press.

Errani A. (2002), Le immagini degli handicappati nella storia. Permanenze e cambiamenti. In A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati, Roma, Carocci, pp. 189-236.

Fiedler L. (2009), Freaks. Miti e immagini dell’Io segreto, Milano, il Saggiatore.

Foucault M. (1976), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi.

Foucault M. (2000), Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Milano, Feltrinelli.

Gardou C. (2006), Handicap, corps blessé et cultures, «Recherches en Psychanalyse», vol. 6, n. 2, pp. 29-40.

Gaspari P. (2016), Lo «sguardo» educativo contro i rischi della medicalizzazione: Il contributo dell’approccio narrativo, «L’integrazione scolastica e sociale», vol. 15, n. 4, pp. 419-427.

Gaspari P. (2020), Medicina e Pedagogia speciale. La ricerca di un dialogo paritario, «L’integrazione scolastica e sociale», vol. 19, n. 4, pp. 9-23.

Goussot A. (2002), Storia e handicap: Fonti, concetti e problematiche. In A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati, Roma, Carocci, pp. 27-93.

Goussot A. (2015), I rischi di medicalizzazione nella scuola. Paradigma clinico-terapeutico o pedagogico?, «Educazione Democratica», vol. 5, n. 9, pp. 15-47.

Justus N. (2012), David Lynch. In Contemporary Film Directors, Illinois, University of Illinois Press.

Lynch D. (1980), The Elephant Man, Brooks Film.

Martiny K.M. (2015), How to develop a phenomenological model of disability, «Medicine, Health Care and Philosophy», vol. 18, n. 4, pp. 553-565.

Montagu A. (1971), The Elephant Man. A Study in Human Dignity, Lafayette, LA, Acadian House Publishing.

Mura A. (2009), Pregiudizi e sfide dell’inclusione: Le attività motorie e sportive integrate. In L. de Anna (a cura di), Processi formativi e percorsi di integrazione nelle scienze motorie. ricerca, teorie, prassi, Milano, FrancoAngeli, pp. 111-137.

Mura A. (2011), Pedagogia Speciale oltre la scuola. Dimensioni emergenti nel processo di integrazione, Milano, FrancoAngeli.

Mura A. (2016), Diversità e inclusione. Prospettive di cittadinanza tra processi storico-culturali e questioni aperte, Milano, FrancoAngeli.

Mura A. e Zurru A.L. (2015), Integralità della persona e cura educativa nell’opera di Édouard Séguin, «L’integrazione scolastica e sociale», vol. 14, n. 2, pp. 170-182.

Murphy R.F. (1986), Cultural and social antropology. An ouverture, Englewood Cliffs (NJ), Prentice-Hall.

Pavone M. (2011), Cinema e disabilità. In A. Mura (a cura di), Pedagogia Speciale oltre la scuola. Dimensioni emergenti nel processo di integrazione, Milano, FrancoAngeli, pp. 113-120.

Reynolds J.M. (2017), «I’d rather be dead than disabled». The ableist conflation and the meanings of disability, «Review of Communication», vol. 17, n. 3, pp. 149-163.

Rivoltella P.C. (2019), Media Education. Idea, Metodo, Ricerca, Brescia, Scholé.

Tromp M. (2008), Victorian freaks: the social context of freakery in Britain, Ohio, Ohio State University Press.

Zurru A.L. (2011), Bioetica e disabilità: Una riflessione etica sulle condizioni della vita. In A. Mura (a cura di), Pedagogia Speciale oltre la scuola. Dimensioni emergenti nel processo di integrazione, Milano, FrancoAngeli, pp. 158-173.

Zurru A.L. (2015), La dimensione identitaria nella persona disabile. Lo sguardo della Pedagogia Speciale sulle dinamiche della cura medica., Milano, FrancoAngeli.

Zurru A.L. (2017), Disabilità e soggettività. Costruire un dialogo interdisciplinare attraverso l’ICF, «Ricerche di Pedagogia e Didattica Journal of Theories and Research in Education», vol. 12, n. 2, pp. 23-40.

Zurru A.L. (2022), Disabilità e pubblicità in tv. Cosa sta accadendo?, «Italian Journal of Special Education for Inclusion», vol. 10, n. 1, pp. 42-51.


1 L’intero contributo è frutto della riflessione condivisa e del lavoro congiunto degli autori. Daniele Bullegas è autore del secondo paragrafo «The Elephant Man: tra medicalizzazione, cura pedagogica ed emancipazione identitaria»; Gianmarco Bonavolontà è autore del terzo paragrafo «Uno sguardo attento tra soggettiva e oggettiva»; Antioco Luigi Zurru è autore del quarto paragrafo «Educare attraverso lo sguardo del cinelinguaggio: esperienze didattiche per la formazione dei docenti»; Antonello Mura è autore del primo paragrafo «Lo spettacolo dei diversi: lo strano caso dell’uomo elefante».

2 Università di Siena.

3 Università di Cagliari.

4 University of Siena.

5 University of Cagliari.

6 Rispetto alle vicende realmente accadute, il testo scritto da Frederick Treves presenta significative modifiche di cui non è possibile stabilire l’intenzionalità o la casualità da parte dell’autore. Ad esempio, il London Hospital non si trova in Mile End Road, come viene affermato nell’incipit del racconto, ma in Whitechapel Road. L’aspetto più rilevante e curioso, tuttavia, è che, nell’unico passaggio del memoir in cui Treves introduce con il nome di battesimo Merrick, lo chiama John anziché Joseph. Una modifica significativa, che ha influenzato, successivamente, anche le sceneggiature dell’opera teatrale di Bernard Promenance e del lungometraggio di David Lynch.

7 Il film ha come interprete l’attore John Hurt nel ruolo del protagonista (John Merrick), con un cast di supporto che include Anthony Hopkins (Frederick Treves), Anne Bancroft (Madge Kendal), Sir John Gielgud (Carr Gomm), Wendy Hiller (madre Shead, la capo infermiera), Freddie Jones (Bytes), Michael Elphick (Jim, il guardiano notturno), Hannah Gordon (Mrs Treves) e altri.

Vol. 22, Issue 2, May 2023

Indietro