Vol. 22, n. 2, maggio 2023

Prospettive e modelli internazionali

Innovazione e inclusione possono coesistere?

Una ricerca esplorativa nelle scuole italiane e finlandesi

Matteo di Pietrantonio1 e Patrizia Sandri1

Sommario

La ricerca, di carattere esplorativo, prende spunto dal dibattito internazionale, sviluppatosi sul finire dello scorso secolo, sulla necessità di innovare il sistema educativo, in ottica di lifelong-learning, e favorire l’acquisizione delle competenze richieste nel XXI secolo. Le diverse indicazioni sollecitano una scuola intesa come Civic-center in grado di riconoscere gli apprendimenti extrascolastici, con spazi di apprendimento innovativi funzionali a didattiche learner-centred. A circa trent’anni dalla Dichiarazione di Salamanca riteniamo necessario chiederci se queste innovazioni garantiscano l’inclusione e il successo formativo di tutti. La ricerca si articola in quattro studi di caso relativi a due scuole secondarie di secondo grado innovative italiane e due finlandesi. Si propone di comprendere, sulla base delle percezioni di studenti, insegnanti e dirigenti, se tale modello di scuola favorisca anche l’inclusione e il benessere di tutti gli studenti. Dall’analisi dei risultati emerge come, in base alle percezioni di coloro che hanno partecipato alla ricerca, le scuole siano riuscite a far coesistere innovazione e inclusione. In particolare, l’utilizzo di spazi di apprendimento innovativi e il ricorso a didattiche learner-centred all’interno di una scuola aperta al territorio in grado di riconoscere le competenze extrascolastiche sembrano favorire effettivamente l’inclusione di tutti gli studenti. Nonostante gli aspetti innovativi, restano tuttavia presenti all’interno delle scuole analizzate ancora diverse criticità che non consentono di realizzare una piena inclusione for all.

Parole chiave

Inclusione, Innovazione, Educazione non formale, Spazi di apprendimento innovativi, Didattiche centrate sullo studente.

INTERNATIONAL MODELS AND PERSPECTIVES

Can innovation and inclusion co-exist?

An exploratory study in Italian and Finnish schools

Matteo di Pietrantonio2 e Patrizia Sandri1

Abstract

This exploratory research, has as a starting point the international debate, developed at the end of the last century, on the necessity of bringing innovation into the educational system both from a perspective of lifelong-learning and to favour the acquisition of 21st Century competences. Recommendations call for schools intended as Civic-centers able to recognise extra-school learning, and with innovative learning spaces designed for learner-centred didactics. Thirty years on from the Salamanca Declaration we ask the question of if these innovations guarantee inclusion and educational achievement for all. This research is articulated through the presentation of four case studies: two innovative high schools in Italy, and two in Finland. It intends to understand, through collecting the perceptions of the students, teachers, and principals, if these school models also favour the inclusion and well-being of all the students. Based on the analysis of the results it appears that, according the the perceptions of the research participants, the schools have achieved the co-existence of both innovation and inclusion. In particular the use of innovative learning spaces and learner-centred didactic, in a school that is also open to the territory/community and able to recognise extra-school skills, appear to favour the inclusion of all students. Innovative aspects notwithstanding, there nevertheless remain certain critical issues that do not allow the achievement of full inclusion for all.

Keywords

Inclusion, Innovation, Non-formal education, Innovative learning spaces, Learner-centred.

Introduzione

La ricerca3 qui presentata prende spunto dal dibattito, nato a partire dalla fine dello scorso secolo all’interno delle principali organizzazioni e istituzioni internazionali,4 riguardo alla necessità di un rinnovamento del sistema educativo per favorire l’acquisizione delle competenze richieste nel XXI secolo,5 alla luce delle rapide e continue trasformazioni tecnologiche e sociali, nell’ottica del lifelong learning.

Nelle diverse indicazioni che man mano si sono succedute sono emerse con forza diverse esigenze quali il bisogno di ripensare il sistema scolastico integrando le dimensioni formali, non formali e informali (Rogers, 2005) a favore di una scuola, intesa come Civic-center, che si apre alle proposte del territorio e riconosce gli apprendimenti extrascolastici includendoli nel suo curricolo. Allo stesso tempo per rispondere a tali istanze occorre ripensare gli spazi di apprendimento al fine di favorire l’utilizzo di didattiche attive, learner-centred, e delle nuove tecnologie (ICT).

A quasi trent’anni dalla Dichiarazione di Salamanca (1994) e dalla pubblicazione del report della Commissione Internazionale sull’educazione di Delors (1996) alla United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (UNESCO), riteniamo quindi necessario interrogarci in merito ai suddetti processi di innovazione sollecitati in ambito scolastico e rilevare, nelle scuole coinvolte nella ricerca, in Italia e in Finlandia, se questi si fondino su quelli inclusivi, realizzando scuole innovative che garantiscano il successo formativo di tutti e la piena partecipazione alla comunità di appartenenza.

Facendo un rapido excursus storico, la suddetta Dichiarazione ha avuto una notevole influenza sulle principali organizzazioni internazionali e su molti Paesi, sollecitandoli a rivedere le proprie politiche educative in una direzione maggiormente inclusiva (Ainscow, Booth e Dyson, 2006). Nel 2000 l’Unione Europea (UE) ha promulgato la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.6 Nel 2002, a conclusione del Congresso Europeo sulla disabilità è stata pubblicata la Dichiarazione di Madrid nella quale veniva ribadito che «le scuole devono assumere un ruolo rilevante nella diffusione del messaggio di comprensione e di accettazione dei diritti dei disabili, aiutando a sfatare timori, miti e pregiudizi, supportando lo sforzo di tutta la comunità».7

Nel 2006 l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha ratificato la «Convenzione sui diritti delle persone con disabilità», in cui all’art. 24 si sostiene che per realizzare il diritto all’istruzione «senza discriminazioni e su una base di uguaglianza di opportunità» occorre che gli Stati organizzino un sistema educativo «che preveda la loro integrazione scolastica a tutti i livelli».8

Nel 2010 l’European Agency for Development in Special Needs Education9 riconosceva l’educazione inclusiva come un diritto umano fondamentale e la base per costruire una società più giusta e più equa. Nella Dichiarazione dell’UNESCO del 2012 si affermava che non era più sufficiente accontentarsi del semplice accesso a scuola, ma occorreva agire anche per rimuovere tutte le barriere che potevano ostacolare il processo inclusivo.

Nel 2015 gli Stati membri dell’ONU hanno adottato l’Agenda 203010 per lo sviluppo sostenibile identificando 17 obiettivi (Sustainable Development Goals), tra cui in particolare il numero 4 è volto ad assicurare un’educazione di qualità, equa e inclusiva, per tutti. Nonostante i notevoli progressi sul piano legislativo e sociale, nel panorama internazionale il processo di inclusione degli studenti con Bisogni Educativi Speciali all’interno delle scuole «regolari» sembra tuttavia ancora lontano dall’essere pienamente realizzato.

Sintesi dei principali riferimenti teorici

L’Organization for Economic Cooperation and Development (OECD, 2013) definisce gli spazi di apprendimento innovativi come flessibili, tecnologici e multimodali, in grado di rispondere ai bisogni degli studenti del XXI secolo. Non si parla più di classe, termine proprio di un lessico pedagogico tradizionale teacher-centred, ma di ambiente o spazi di apprendimento, spostando il focus dall’insegnamento all’apprendimento (Woodman, 2010).

Non si fa dunque più riferimento esclusivamente a parametri e a caratteristiche fisiche ma si considerano, come sosteneva già Dewey (1974), anche gli elementi e le condizioni che rendono più o meno possibili le attività che si svolgono al loro interno (Marcarini, 2014). L’apprendimento non può essere separato dal contesto in cui avviene(Benade, 2019). Non si tratta semplicemente di organizzare degli spazi, ma di avere cura anche dei tempi, delle interazioni, dei contenuti, delle strategie di insegnamento, ecc.

Secondo Gregory Bateson (1972), il contesto è la «matrice dei significati» e può essere visto come una storia, una trama composta dal significato delle azioni di coloro che vi interagiscono, il frutto di processi simbolici e interattivi (Sandri e Marcarini, 2019). Alla base del concetto di ambiente di apprendimento innovativo possiamo ritrovare innanzitutto il contributo di Bronfenbrenner (1979) che, con il suo approccio ecologico sistemico, permise di far emergere anche la componente relazionale, ripresa poi dalle ricerche della geografia umana; come sostiene Lefebvre (Lefebvre e Ricci, 1978), infatti, gli spazi non sono contenitori vuoti, ma generano e danno forme alle relazioni sociali, e a loro volta le pratiche sociali influiscono sull’uso e sull’esperienza degli spazi stessi.

La prospettiva fenomenologica ritiene che lo spazio non sia un elemento neutro ma sempre in relazione con il soggetto e il mondo: riguarda l’esistere stesso in quanto l’essere è ciò che è dato nello spazio e nel tempo. Opponendosi all’idea di uno spazio geometrico vuoto e misurabile, recupera la dimensione emotiva dell’abitare, densa di vissuti e relazioni: un luogo diventa spazio quando si connota di relazioni affettive che lo rendono carico di stimoli per un apprendimento costruttivo (Borri, 2018).

Cleveland (2009) sostiene che l’attenzione agli spazi di apprendimento dipenda anche da un rinnovato interesse per le teorie costruttiviste, in cui per educazione non s’intende una passiva trasmissione di conoscenze astratte e frammentate ma, come sostiene Bruner (2002), un intreccio di molteplici strategie e pratiche riflessive, attività e problemi reali, autentici, contestualizzati nella complessità del mondo reale.

Secondo Hattie e Donoghue gli spazi innovativi sarebbero in grado di favorire un insegnamento orientato a facilitare esperienze cognitive, metacognitive, collaborative e un apprendimento più profondo (Imms e Kvan, 2021).

L’OECD, l’Unione Europea, la Gran Bretagna (UK), gli Stati Uniti e l’Oceania si sono contraddistinti nel promuovere ricerche e progetti sugli ambienti di apprendimento innovativi (Borri, 2018). Molti Paesi hanno investito notevoli risorse economiche; tuttavia, in diverse ricerche è emerso, come sostiene Hattie, che «cambiare la forma degli edifici non conduce gli insegnanti a insegnare in modo diverso» (Page e Davies, 2016, p. 89).

Come riportano Mahat et al. (Mahat e Imms, 2021), nonostante gli investimenti corposi, ad esempio, dei governi australiani e neozelandesi, quasi 3 scuole su 4 hanno mantenuto o sono tornate a un setting tradizionale. Lo spazio è una costruzione sociale, non basta soffermarsi esclusivamente sugli elementi fisici. L’inclusione o l’esclusione dipendono anche da altri fattori: lo spazio non crea automaticamente le relazioni di rispetto, di riconoscimento reciproco del valore dell’esistenza dell’altro.

Uno «spazio di apprendimento» diventa un «ambiente di apprendimento innovativo» solo quando il design «innovativo» è combinato con pratiche di insegnamento e apprendimento «innovative» (Benade, 2019, p. 147) e, a nostro parere, necessariamente inclusive. Le persone si collocano negli spazi e agiscono in essi come partecipanti attivi, per cui gli elementi fisici possono favorire l’inclusione, ma sono soprattutto le pratiche sociali che la rendono possibile o meno.

Gli spazi di apprendimento innovativi in Italia

Nel 2012, a seguito della ricerca «Quando lo spazio insegna» che confermò l’inadeguatezza degli spazi scolastici del nostro Paese rispetto all’acquisizione delle competenze necessarie per il XXI secolo, l’Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa (INDIRE) creò al suo interno un filone di ricerca sulle «architetture scolastiche»,11 al fine di avviare un processo di rinnovamento strutturale della scuola italiana.

Nel 2014, in collaborazione con 22 scuole «fondatrici» nacque il movimento delle Avanguardie Educative: insieme elaborarono un Manifesto12 fondato sul ripensamento degli spazi e dei tempi scolastici, delle metodologie didattiche e del rapporto con il territorio. Nel 2016 fu presentato il «Manifesto 1 + 4 spazi educativi per la scuola del terzo millennio» (Mosa e Tosi, 2016) rivolto a insegnanti, educatori e progettisti con l’intento di avviare una riflessione comune sulla progettazione dei nuovi spazi di apprendimento, ricollocando lo studente al centro e aiutandolo a svilupparsi in armonia con le sue caratteristiche, interessi e bisogni e non solo in vista di una «standardizzazione produttiva» (Borri, 2018).

A oggi ci sono oltre 1.280 istituti italiani che stanno sperimentando una o più di una delle idee del Manifesto, a cui si aggiungono numerose scuole polo che assicurano a livello regionale, insieme a esperti formatori presenti sul territorio di pertinenza, un’articolata serie di attività di informazione, formazione, diffusione e sostegno alle scuole del Movimento e ai processi d’innovazione.

Il report di Legambiente «Ecosistema Scuola» del 2021,13 che ha interessato 7.037 edifici in 98 comuni capoluogo e che ha coinvolto una popolazione scolastica di 1.424.322 studenti, ci restituisce tuttavia un quadro impietoso e allarmante rispetto allo stato delle nostre scuole: vecchie, prive di agibilità, esposte a rischi sismici e idrogeologici, con carenze igieniche e sanitarie. Secondo il documento ci sarebbe l’urgenza di intervenire su 3 strutture su 10.

A una prima lettura dei dati emergono vistose differenze sul territorio, e purtroppo soprattutto al sud sono ancora molti gli studenti che non hanno la possibilità di studiare in ambienti sicuri, accessibili e di qualità.14 Le nostre scuole somigliano a dei non luoghi, con spazi omologanti, provvisori, anonimi. Iori (1996) definisce le aule come «mono-luogo», spoglie, scarsamente e male arredate al punto di creare una sorta di «deprivazione sensoriale», soprattutto nei gradi scolastici superiori (Augé, 1993, p. 113).

Gli spazi di apprendimento innovativi in Finlandia

La Finlandia a partire dal 2014 ha intrapreso un imponente piano di trasformazione che prevedeva l’avvio della costruzione di oltre 100 nuove scuole (destinate soprattutto ai primi cicli dell’istruzione), adottando i principi dell’open-space.15 Secondo Tapaninen (O’Sullivan, 2017), tra le principali caratteristiche delle nuove scuole ci sono la varietà e la flessibilità degli spazi e degli arredi: «abbiamo abbandonato il vecchio modello con banchi e sedie a favore di una scuola senza scarpe, con ambienti flessibili, colorati e accoglienti, con divani, pareti mobili, cuscini, ecc.».16

Gli spazi possono stimolare i sensi e interagire con la crescita e lo sviluppo degli studenti, e scuole esteticamente attraenti possono migliorare il benessere e i risultati di questi ultimi.17 Per Rautiainen le nuove scuole sono già state costruite senza corridoi e in futuro non ci saranno necessariamente aule chiuse perché l’apprendimento avverrà ovunque (Nauman, 2018). È stata superata la visione tradizionale della scuola caserma/fabbrica con aule disposte lungo i corridoi e banchi allineati per file con una più in linea con le nuove pedagogie richieste per raggiungere le competenze del XXI secolo (OECD, 2017), costituita da spazi flessibili, multifunzionali e informali.

Nelle scuole secondarie ci sono meno sperimentazioni rispetto all’introduzione del modello open-plan, tuttavia è possibile cogliere numerosi elementi di innovazione nell’organizzazione e nell’arredamento dei diversi ambienti di apprendimento. Le scuole sono accoglienti, sicure, confortevoli al fine di favorire il benessere e l’inclusione (seppur non rivolta a tutti18). Gli ambienti sono luminosi e colorati, con la presenza di divani, armadietti e cabine per lo studio individuale e di gruppo lungo i corridoi, di spazi per il relax e la socializzazione, tavoli da ping-pong, biliardino e biliardo, strumenti musicali, laboratori, bar, mense, ecc. Anche gli spazi per gli insegnanti e il personale scolastico sono attrezzati per assicurare comfort e benessere fisico e mentale: oltre ai loro uffici hanno a disposizione luoghi arredati con cucina, sofà e poltrone massaggianti, in cui possono facilmente incontrarsi, condividere il pranzo o un caffè e nel frattempo scambiarsi informazioni e pianificare attività, o semplicemente chiacchierare e rilassarsi tra una lezione e l’altra.

Il piano di rinnovamento dell’architettura scolastica è stato concepito parallelamente alla riforma dell’educazione di base19 entrata in vigore nel 2016. Il curriculum prevede una visione di apprendimento phenomenon-based che enfatizza l’approccio interdisciplinare learner-centred, stimola attraverso il supporto della tecnologia un apprendimento più profondo (Arvaja, Sarja e Rönnberg, 2020), la curiosità, l’investigazione e il problem solving, l’autonomia dello studente e lo sviluppo della scuola come comunità di apprendimento.

Sahlberg20 attribuisce il successo del sistema educativo finlandese alla qualità del curriculum scolastico, all’equità nell’accesso all’istruzione e agli ambienti di apprendimento: le scuole sono mediamente di piccole dimensioni, molte ospitano meno di 300 studenti, solo il 4% ne ha più di 500. Le dimensioni ridotte permettono a suo avviso relazioni più forti e significative tra insegnanti e studenti; la scuola è come una grande comunità in cui tutti si conoscono, partecipano e condividono i momenti maggiormente significativi della vita scolastica, oltre che più solide relazioni con le famiglie, l’amministrazione pubblica e la comunità in generale.

L’integrazione dell’educazione formale e non formale

La scuola, in una società attraversata da continue e profonde trasformazioni, fa sempre più fatica a rispondere alle richieste del mercato del lavoro e a fornire le competenze necessarie per essere cittadini attivamente partecipi all’interno delle proprie comunità; di conseguenza le principali istituzioni internazionali sollecitano una sua apertura alla dimensione extrascolastica (Rogers, 2005), un ripensamento in generale dell’intero sistema educativo che preveda l’integrazione dell’educazione formale con quella non formale (Colardyn e Bjornavold, 2004).

L’educazione non formale fu definita per la prima volta da Coombs, Prosser e Ahmed (Coombs e Ahmed, 1974) come un insieme di attività educative organizzate al di fuori del sistema scolastico, finalizzate a fornire determinati tipi di apprendimenti a particolari sottogruppi di persone. Si fonda sulla partecipazione volontaria, è intenzionale e persegue precisi obiettivi educativi, è learner-centred e ha un approccio olistico ed esperienziale focalizzato sul processo. Ciò la rende flessibile rispetto alle scelte di metodi e contenuti e in grado di adattarsi a gruppi eterogenei con diversi interessi e bisogni educativi (Romi e Schmida, 2009).

Inizialmente rivolta al mondo «sottosviluppato» (Fordham, 1979) e a coloro che erano fuoriusciti o esclusi dai classici percorsi formativi, è stata pensata come uno strumento bridging gap (Hamadache, 1991) che, grazie al suo potere emancipatorio e inclusivo, avrebbe potuto aiutare a vivere in un mondo a crescente complessità, soprattutto coloro che per diverse ragioni erano in condizioni di svantaggio, marginalità o fragilità. Sul finire dello scorso secolo anche i Paesi più industrializzati iniziarono a considerarla un elemento fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo della persona.

A partire dalla Conferenza di Lisbona21 (2000) il concetto di lifelong learning è diventato l’elemento imprescindibile delle principali politiche europee in ambito educativo, sociale e professionale. Da allora si sono succedute una serie di raccomandazioni e risoluzioni finalizzate a riconoscere e convalidare gli apprendimenti acquisiti in ambito non formale, migliorando l’occupabilità e la mobilità in particolare delle persone socialmente ed economicamente svantaggiate o meno qualificate.

Occorrevano un ripensamento e una riorganizzazione dei saperi in ottica interdisciplinare, un aggiornamento dei curricoli, delle metodologie e degli strumenti, funzionali a una nuova didattica, e la trasformazione delle scuole e dei centri di formazione in luoghi polivalenti (Civic-center) collegati con i servizi di comunità locali e il mondo del lavoro.

Il riconoscimento degli apprendimenti non formali da parte dell’Unione Europea ha previsto un investimento, in particolare, soprattutto sullo youth work22 al fine di rendere sempre più qualificate le attività educative proposte e visibili le competenze acquisite. Esso assume forme e definizioni diverse nei vari Stati europei a seconda delle tradizioni, pratiche e degli stakeholders coinvolti. Si colloca tra welfare, pedagogia e società civile e può davvero rappresentare la chiave per facilitare l’integrazione tra queste dimensioni in un’ottica di Sistema Formativo Integrato (SFI; Frabboni, 1988), offrendo maggiori opportunità per imparare attraverso l’utilizzo di metodologie e strumenti che invitano a una maggiore partecipazione, coinvolgimento e attenzione alle diverse caratteristiche di apprendimento, oltre a favorire la cooperazione tra le scuole, le famiglie e le comunità locali.

Può essere organizzata da educatori professionisti o volontari operanti in diversi contesti (organizzazioni della gioventù, centri giovanili, chiese, ecc.) e si caratterizza per l’offerta di attività strutturate, intenzionali, volte ad apprendimenti esperienziali all’interno di spazi sicuri e aperti in cui sperimentare le pratiche democratiche. Stimolando l’acquisizione di valori e diritti universali, facilita lo sviluppo e la responsabilità personale e collettiva, il coinvolgimento attivo e la creazione di nuove possibilità per l’inclusione sociale di tutti. Alla luce del quadro presentato, abbiamo realizzato quindi la ricerca di seguito descritta.

La ricerca

La ricerca descritta in questo contributo ha un carattere esplorativo ed è caratterizzata da un approccio qualitativo-interpretativo (Coggi e Ricchiardi, 2005; Cottini e Morganti, 2015) utile a comprendere la qualità e la natura del fenomeno analizzato, che utilizza un insieme eterogeneo di tecniche e strumenti, prevalentemente orientato a raccogliere informazioni in profondità e a far emergere la complessità dei processi oggetto di studio (Corbetta, 1999; Brantlinger et al., 2005). Più precisamente, si tratta di quattro studi di caso relativi a contesti scolastici innovativi, due italiani e due finlandesi, finalizzati a comprendere, sulla base delle percezioni di studenti, insegnanti, dirigenti e altro personale scolastico (counselor, assistenti sociali, youth workers), se tali scuole, aventi le seguenti caratteristiche:

  • aperte al territorio, intese come Civic-center, e che riconoscono gli apprendimenti non formali,
  • dotate di spazi di apprendimento innovativi in grado di facilitare l’utilizzo di didattiche attive e learner-centred,

favoriscano contemporaneamente l’inclusione e il benessere di tutti gli studenti, in particolare di coloro che presentano Bisogni Educativi Speciali.

Nello specifico, si è investigato su quattro scuole secondarie di secondo grado in quanto in esse si presentano ancora delle criticità legate alla scarsa formazione psico-pedagogica degli insegnanti (in Italia) e al centrare l’insegnamento prevalentemente sui contenuti, spesso a scapito degli aspetti emotivi-motivazionali-relazionali e inclusivi.

Seguendo le indicazioni di Flyvbjerg si è utilizzato un campionamento a scelta ragionata, ovvero sono stati selezionati «gruppi o categorie da studiare, sulla base della loro rilevanza rispetto alle domande di ricerca e alla posizione teorica» (Silverman e Marvasti, 2008, p. 305). In particolare, in Italia si è scelto di concentrarsi su quelle appartenenti al gruppo delle «Avanguardie Educative». All’interno del loro manifesto23 sono infatti presenti gli elementi che caratterizzano la ricerca, ovvero «trasformare il modello trasmissivo della scuola» a favore di una didattica attiva learner-centred, «creare nuovi spazi per l’apprendimento», «riconnettere i saperi della scuola e i saperi della società della conoscenza» e «investire sul capitale umano» ripensando i rapporti tra il dentro e fuori la scuola.

La scelta della Finlandia deriva invece dal fatto che quel Paese ha realizzato un sistema educativo considerato da anni tra i migliori del mondo, fondato sull’inclusione, sebbene parziale, e il benessere, con scuole caratterizzate da spazi di apprendimento innovativi, didattiche learner-centred, aperte alle risorse e alle offerte formative del territorio e al riconoscimento degli apprendimenti non formali. Tutti aspetti perfettamente in linea con il profilo delle «Avanguardie Educative» e con i parametri della ricerca. Considerate la complessità e la multidimensionalità del fenomeno esplorato, per la raccolta dei dati ci si è avvalsi di diversi strumenti, sia qualitativi che quantitativi (griglie di osservazione, focus group, interviste semi-strutturate e questionari).

Prima di svolgere le ricerche su campo, al fine di raccogliere elementi e informazioni utili a circoscrivere l’indagine, sono stati condotti:

  • 5 focus group nelle scuole italiane che hanno coinvolto 35 insegnanti (18 curricolari e 17 di sostegno);
  • 27 interviste semi-strutturate, di cui 8 nelle due scuole italiane, a cui hanno partecipato 2 dirigenti scolastici e 8 insegnanti, e 19 in quelle finlandesi rivolte a 2 dirigenti scolastici, 4 counselor, 1 assistente sociale, 2 educatrici, 10 insegnanti, di cui 2 di sostegno, e 6 studenti rappresentanti del Consiglio studentesco di una delle scuole.

Per le osservazioni è stata utilizzata come griglia uno schema di categorie (Asquini, 2018), validato in un’indagine sulle pratiche didattiche degli insegnanti e già utilizzato in altre ricerche (Asquini, Benvenuto e Cesareni, 2017), al fine di rilevare se l’organizzazione degli spazi influiva sull’utilizzo di didattiche attive e se entrambe favorivano l’inclusione degli studenti, in particolare di quelli con Bisogni Educativi Speciali.

Nelle 2 scuole italiane sono state osservate 70 lezioni (per un totale di 4.180 minuti) in 3 classi, in quelle finlandese 20 (per un totale di 1.500 minuti).

Sono stati infine somministrati due questionari: il primo, Scala di Valutazione dei Processi Inclusivi (Cottini et al., 2016),24 destinato agli insegnanti; il secondo, rivolto agli studenti, è stato elaborato sulla base di quello distribuito ogni due anni nelle scuole della Finlandia di ogni ordine e grado, dal Finnish Institute for Health and Welfare,25 nell’ambito del progetto School Health Promotion (SHP) finalizzato al monitoraggio del benessere, della salute e dei risultati scolastici dei bambini e degli adolescenti finlandesi. Ai questionari hanno partecipato 653 studenti (475 in Italia e 178 in Finlandia) e 65 insegnanti (tutti in Italia, di cui 17 di sostegno).

Riflessioni sui dati rilevati

Rispetto agli spazi di apprendimento innovativi, le percezioni di tutti i soggetti che hanno partecipato alla ricerca, sia italiani che finlandesi, sembrano confermare che effettivamente essi favoriscano sia l’inclusione e il benessere degli studenti (e degli insegnanti) sia la realizzazione di metodologie didattiche centrate su chi apprende.

I due istituti italiani oggetto di studio, seppur con le specifiche differenze strutturali, sono riusciti a creare aule e ambienti innovativi e a ripensare la classica disposizione degli arredi interni in modo da renderli funzionali a un tipo di didattica learner-centred, che sembra in grado di favorire l’inclusione di tutti gli studenti, attraverso il ricorso, ad esempio, a forme di apprendimento collaborativo o esperienziale. In un caso hanno anche istituito le aule di materia che consentono di personalizzare la classe con strumenti e materiale didattico, trasformandole in una sorta di laboratorio disciplinare.

Seguendo le indicazioni dell’architetto olandese Herman Hertzberg (2008) e la sua visione di ambienti scolastici intesi come Learning Landscapes, i quattro istituti coinvolti hanno ripensato i propri spazi superando il concetto di aula tradizionale a favore di una scuola organizzata come una città con piazze, strade e luoghi dove potersi incontrare, in cui atri e corridoi, ad esempio, non sono più considerati semplici luoghi di passaggio e collegamento ma delle learning street, in cui poter studiare da soli, in piccoli gruppi, o condividere momenti di socializzazione e di relax con gli altri. Cabine, armadietti, sofà e tavolini, ma anche biliardini, tavoli da ping-pong contribuiscono alla creazione di un ambiente ospitale, bello e gradevole, in cui ci si può sentire bene e accolti, come a casa propria.

Da quanto si è avuto modo di osservare, gli studenti effettivamente utilizzano e sembrano apprezzare molto queste soluzioni. In particolare, nelle due scuole finlandesi si è registrata una forte attenzione a questi elementi: gli spazi sono accoglienti, ci sono alcuni ambienti in cui si accede scalzi e in generale non è così inusuale vedere insegnanti e studenti in ciabatte. In una scuola ci sono anche delle saune, a disposizione sia degli alunni che degli insegnanti.

In tutte e quattro le scuole osservate sono presenti banchi e sedie con le rotelle, facili da spostare e da combinare tra loro a seconda delle necessità, molto funzionali, ad esempio, allo svolgimento di attività di gruppo. Nel corso delle osservazioni nelle scuole italiane è stato rilevato come, nella classe in cui i banchi erano disposti a isola, l’utilizzo di metodologie cooperative e il lavoro in piccoli gruppi fossero molto più frequenti rispetto alle classiche lezioni frontali.

Organizzare gli spazi e gli arredi, applicare diverse metodologie didattiche può favorire sia una maggiore responsabilità e possibilità di autodeterminazione, in un’ottica coevolutiva (Miato, 2014), sia la realizzazione di una scuola democratica (Dewey, 1974), sebbene tutto ciò non garantisca naturalmente una maggiore inclusione. Resta comunque indispensabile che il docente si ponga in un atteggiamento di riflessione e di «riposizionamento» rispetto alle proprie modalità didattiche (Canevaro, 2006, p. 22), aprendosi verso l’individuazione di nuove situazioni e soluzioni che coinvolgano maggiormente e positivamente gli allievi.

Utile a tal proposito è fare proprio l’approccio dell’Universal Design for Learning (Caprino et al., 2022), che ha ampliato il concetto di accessibilità con quello di fruibilità, equità, facilità e flessibilità d’uso degli spazi e che ha individuato 7 principi26 da applicare in fase di progettazione, in modo da realizzare edifici e ambienti che possano soddisfare le esigenze di tutte le persone, indipendentemente dalla loro condizione fisica o mentale.

Occorre sin dall’inizio una visione che parta dall’assunto che la diversità rappresenta la normalità: non è l’alunno con disabilità, infatti, a doversi adattare a degli spazi strutturati per gli alunni «a sviluppo tipico» (Dovigo, 2008). Secondo la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF; OMS, 2013) lo spazio è uno dei fattori ambientali che, interagendo con la persona, può più o meno limitarne la partecipazione alle diverse attività e costituire una barriera alla piena espressione delle opportunità educative.

La sfida è quella di progettare soluzioni flessibili in modo da favorire l’attuazione di una metodologia didattica attiva e inclusiva mediante un lavoro interdisciplinare condiviso tra architetti, ingegneri, pedagogisti e membri della comunità scolastica. I diversi contributi dovrebbero essere integrati in un quadro teorico coerente che ponga, come suoi principi fondamentali, la valorizzazione delle potenzialità di ogni persona, anche se con deficit grave, e la costruzione di un contesto inclusivo basato sul rispetto reciproco e sulla coevoluzione (Sandri e Marcarini, 2019).

Trasformare le differenze in risorse è l’obiettivo primario e rappresenta nel Nuovo Index per l’inclusione (Booth e Ainscow, 2014) la direzione da intraprendere perché la scuola possa diventare una comunità inclusiva. L’autismo, ad esempio, può comportare diversi modi di percepire, pensare e interpretare la realtà, e dunque di apprendere.

Alcuni studenti con questo disturbo potrebbero manifestare inizialmente delle difficoltà a lavorare in gruppo e, in assenza di un progetto educativo adeguato, reazioni ansiogene o atteggiamenti problematici (Page e Davis, 2016) che potrebbero indicare un’esigenza di «ritirarsi» in uno spazio tranquillo.

Per questi soggetti, ma non necessariamente solo per loro, sembra utile allestire all’interno delle aule tradizionali delle quiet zone, all’interno delle quali tutti possano accedere in modo regolato e responsabile per svolgere attività individualmente, in coppia o in piccolo o grande gruppo, o semplicemente per rilassarsi, evitando le cosiddette «aule di sostegno», luoghi che possono dare adito a fenomeni di stigmatizzazione ed esclusione (Sandri e Marcarini, 2019; Demo, 2015).

Sebbene in Italia non ci siano più classi differenziali questo non significa che ci sia inclusione: l’esclusione, infatti, come afferma D’Alessio (2012), può a volte nascondersi anche dietro pratiche pensate come inclusive. Mentre in altri Paesi avviene separando gli alunni con disabilità in edifici diversi, nel nostro si manifesta separandone i curricoli. Al fine di «aiutare» gli studenti con deficit che non riescono a seguire gli obiettivi standard, è previsto un curricolo speciale, il più delle volte affidato esclusivamente all’insegnante di sostegno in uno spazio separato, in modo da non disturbare lo svolgimento del programma «regolare» da parte dell’insegnante curricolare.

Nelle due scuole italiane si sono osservate 3 classi all’interno delle quali erano presenti rispettivamente un alunno con disturbo dello spettro dell’autismo ad alto funzionamento, uno con sindrome di Down e uno con un grave disabilità intellettiva. Nel primo caso, la disposizione dei banchi a isola (3 da 3 alunni e 1 da 4, prerogativa del corso) si è rivelata molto funzionale allo svolgimento di didattiche cooperative e lavori di gruppo, che hanno favorito il coinvolgimento attivo e l’inclusione di tutti gli studenti nei processi di apprendimento. Nel secondo caso l’alunno era seduto in prima fila davanti a tutti i suoi compagni, con l’educatore o l’insegnante di sostegno al suo fianco. La forma dell’aula rendeva difficile, sebbene non impossibile, modificare la disposizione dei banchi e favorire le interazioni di gruppo: lo studente, dando le spalle alla classe, non riusciva a interagire con i compagni. Anche nel terzo caso lo studente era seduto in prima fila con a fianco l’insegnante di sostegno o l’educatore e la disposizione dei banchi era quella tradizionale a file parallele.

Al di là delle diverse caratteristiche che possono contraddistinguere il funzionamento delle persone con disabilità e che richiedono soluzioni e interventi differenti tra loro, la condivisione dei principi e dei valori dell’inclusione da parte degli insegnanti, la loro competenza pedagogica, didattica e nell’organizzazione degli spazi incidono molto sulle possibilità di coinvolgere anche allievi con un grave deficit durante le lezioni e di farli collaborare con i propri compagni, individuando momenti di contatto tra la programmazione individualizzata/personalizzata e quella della classe.

Nel primo caso lo studente di fatto condivide gli stessi obiettivi di apprendimento ed è sempre presente in aula, nel secondo segue una programmazione differenziata e trascorre circa il 55% del tempo fuori dalla classe. Nel terzo, infine, grazie alla competenza e alla determinazione dell’insegnante di sostegno e dell’educatore, si è riusciti, con la collaborazione di alcuni docenti curricolari, a trovare dei momenti comuni tra le due programmazioni.

Pur trascorrendo la maggior parte della lezione distante dai compagni, essendo in prima fila in un banco lontano dagli altri, questa disposizione ha consentito comunque lo svolgimento di una didattica differenziata (ma non banale, interrogazioni e valutazione comprese), e di restare in classe per la maggior parte del tempo (circa l’82% delle lezioni). Sicuramente un esempio positivo (pur con diverse criticità), che tuttavia non rappresenta la norma all’interno dell’istituto e che, più che su pratiche consolidate e strutturate, si fonda sulla volontà e sulla passione di un gruppo di docenti che condividono i principi dell’educazione inclusiva.

Occorrerebbe evitare una separazione tra spazi riservati alla «normalità» e spazi per la «diversità» e rimuovere definitivamente le aule di sostegno dal panorama delle nostre scuole, l’ultima «riserva indiana» (Medeghini et al., 2009) in cui confinare il «diverso», con la «complicità» spesso, purtroppo, degli insegnanti di sostegno, per non disturbare il «normale» lavoro della classe.

Nelle scuole secondarie di secondo grado ordinarie finlandesi non sono presenti alunni con gravi deficit e non esistono le aule di sostegno. Gli alunni seguono le lezioni con i propri compagni, coloro che presentano difficoltà di apprendimento possono richiedere il supporto dell’insegnante di sostegno, che si svolge comunque in tempi e spazi al di fuori delle lezioni.

Rispetto alle didattiche attive e learner-centred, sulla base delle percezioni degli insegnanti e dei dirigenti scolastici che hanno partecipato alla ricerca, sembra che gli spazi di apprendimento innovativi siano funzionali alla loro implementazione, consentendo una maggiore partecipazione e inclusione durante le lezioni anche da parte degli studenti con Bisogni Educativi Speciali.

Nelle interviste e nei focus group gli insegnanti concordano con molti ricercatori (Lumsden, 1994; Cooper, Robinson e Ball, 2003; Kagan, 1989; Slavin, 1989) nel ritenere che il cooperative learning sia una delle modalità più efficaci per favorire i processi inclusivi, promuovendo la collaborazione, l’utilizzo di didattiche laboratoriali e un tipo di apprendimento esperienziale. Quest’ultimo rappresenta una parte importante delle pedagogie learner-centred, poiché consente agli studenti di acquisire competenze più approfondite attraverso attività che li coinvolgono in situazioni di vita reale (Cottini, 2017) o mediante simulazioni di essa (Parpala et al., 2010).

Da quanto si è avuto modo di osservare durante le lezioni, in 2 classi italiane su 3, quando l’insegnante utilizza modalità di insegnamento cooperativo o che prevedono il lavoro in piccoli gruppi, si conferma che gli studenti con Bisogni Educativi Speciali sono stati resi in grado di dare il proprio contributo, in base alle proprie possibilità. Ciò non si è osservato nel caso della classe in cui è inserito l’allievo con Sindrome di Down, dove comunque le attività di cooperative learning sono limitate per tutti.

In merito al questionario rivolto agli studenti, la maggioranza delle risposte evidenziano una preferenza per le lezioni interattive e coinvolgenti rispetto a quelle frontali; tuttavia, sembrerebbe che tali modalità siano usate solo occasionalmente, soprattutto nelle 2 scuole italiane. Queste percezioni sono in parte confermate dalle osservazioni: nelle 3 classi all’interno delle 2 scuole italiane le lezioni di tipo cooperativo rappresentano rispettivamente il 40%, il 25% e il 14,8% del totale di quelle osservate, mentre quelle frontali il 18%, il 25% e il 24%.

Nelle 2 finlandesi il ricorso alle lezioni frontali è decisamente meno frequente (10%) e risulta finalizzato soprattutto a consolidare alcuni concetti o a pianificare ed esplicitare le attività realizzate o da realizzare: gli insegnanti promuovono modalità di apprendimento prevalentemente di tipo cooperativo e strutturato in attività in piccoli gruppi anche quando devono introdurre nuove conoscenze.

Il terzo fattore che si è considerato riguarda le percezioni dei dirigenti, dei docenti e degli allievi su quanto l’inclusione venga promossa da una scuola intesa come Civic-center e che riconosce gli apprendimenti non formali. Dalle percezioni rilevate, sia in ambito italiano che finlandese, sembra che effettivamente l’integrazione dell’educazione formale e non formale, attraverso l’apertura della scuola alle offerte formative del territorio, contribuisca all’inclusione di tutti gli studenti, consentendo in particolare a coloro che sono più in difficoltà di acquisire e di esprimere competenze utili non solo a livello scolastico, ma anche per la realizzazione del proprio progetto di vita; competenze che difficilmente riescono a mostrare durante le lezioni.

Booth e Ainscow (2014) sostengono che la scuola dovrebbe essere la «casa di tutti» affinché ogni membro della comunità (studenti, aderenti ad associazioni del terzo settore, ecc.) possa sentirsi coinvolto e partecipe. L’acquisizione delle competenze utili nel XXI secolo richiede del resto di ripensare il modello di insegnamento, di educazione e, come abbiamo visto, di riconoscere anche gli apprendimenti che avvengono al di fuori della scuola (Scott, 2009). Ciò significa rinunciare alla pretesa del monopolio esclusivo della conoscenza, aprirsi alle opportunità formative e integrarsi al sistema dei servizi culturali, sociali e ludico-ricreativi presenti sul territorio.

Nella visione del Sistema Formativo Integrativo (SFI) la scuola non perde, ma rafforza e arricchisce la sua posizione condividendo le responsabilità formative con le altre agenzie educative presenti sul territorio attraverso un vero patto di collaborazione (Frabboni, 1988).

Le quattro scuole oggetto di studio si pongono come Civic-center, punto di riferimento per la comunità: sono aperte anche in orario extrascolastico, offrono una ricca offerta formativa agli studenti e accolgono eventi e iniziative culturali rivolte a tutta la cittadinanza (attività socio-culturali e ricreative, convegni, corsi di formazione per adulti, concerti, eventi sportivi, ecc). Collaborano con diverse istituzioni e associazioni e risultano essere pienamente inserite nel tessuto urbano, integrate nella rete di servizi della comunità.

Per realizzare scuole inclusive è necessaria la collaborazione di tutti, sia dentro che fuori la scuola (Pavone, 2004). Oggigiorno le esperienze educative avvengono sempre più in contesti differenziati; sono poi molte le ricerche che evidenziano come la partecipazione ad attività extracurricolari favorisca lo sviluppo emotivo, intellettuale, sociale e interpersonale, contribuisca a incrementare il benessere e la vita attiva degli studenti, lo sviluppo del pensiero critico, ad acquisire autonomia, rispetto e comprensione per le altrui differenze, oltre a diminuire il rischio di fallimenti e abbandono scolastico (Acar e Gündüz, 2017).

In particolare, in Finlandia gli studenti sono incoraggiati sin dai primi anni a praticare attività sportive e ricreative di vario genere, nella convinzione che siano fondamentali per completare il percorso di crescita attraverso l’acquisizione di competenze trasversali. Le percezioni degli insegnanti confermano queste evidenze, ritenendo molto positivo che la scuola non sia focalizzata solo sui contenuti.

Entrambe le scuole sono accreditate all’interno del programma europeo Erasmus+ che già nel suo atto costitutivo, integrando l’educazione formale, non formale e informale, si propone di migliorare il livello delle competenze chiave dei giovani, compresi quelli con minori opportunità o con Bisogni Educativi Speciali, nonché di promuovere la loro mobilità e partecipazione alla vita democratica e al mercato del lavoro in Europa, attraverso il dialogo interculturale e l’inclusione sociale.

All’interno delle 2 scuole italiane oggetto della ricerca, oltre all’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro (PCTO), a partire dal terzo anno gli studenti, attraverso la partecipazione ad alcune attività al di fuori della scuola, possono ottenere dei crediti formativi; tuttavia, da quanto emerso dalle interviste e dai focus group, gli insegnanti stessi dichiarano che incidono in minima parte nella valutazione complessiva.

In Finlandia per completare il proprio percorso scolastico ogni studente deve acquisire 150 crediti, scegliendo tra corsi obbligatori o facoltativi. Gli studenti sono chiamati a costruire il proprio piano di studio agendo come protagonisti attivi nella gestione del proprio apprendimento. La flessibilità del sistema permette di ottenere circa un terzo dei crediti di quelli previsti, attraverso la partecipazione ad attività extrascolastiche. Ciò riveste particolare importanza, in un’ottica inclusiva, per coloro che per varie ragioni hanno maggiori difficoltà nel raggiungere buoni risultati ed esprimere le proprie competenze in classe, in quanto vengono valorizzate performance espresse mediante attività più pratiche e per loro più interessanti e coinvolgenti, considerate ugualmente formative.

Gli studenti possono vedersi riconosciuta un’ampia gamma di esperienze: dai corsi di prima emergenza a quelli di igiene necessari, ad esempio, per lavorare in bar e ristoranti, a quelli di volontariato presso associazioni religiose, boy-scout, ma anche ottenere la patente di guida, ecc. (di solito è richiesto un impegno di almeno 30 ore, a seconda delle varie attività). Il riconoscimento delle competenze non formali è particolarmente utile e importante nei corsi preparatori, frequentati da studenti provenienti da altri Paesi e culture e con difficoltà linguistiche, che hanno dunque maggiori problemi nel superare compiti che richiedono ad esempio la comprensione di un testo, rispetto allo svolgimento di attività pratiche.

Nel questionario rivolto agli studenti delle 4 scuole, oltre i 3 quarti di coloro che hanno risposto ritengono che, quando sono impegnati in attività extra-scolastiche imparano più facilmente, con più piacere e coinvolgimento, riescono a esprimere meglio le proprie potenzialità, e reputano che le competenze acquisite in questi contesti siano importanti almeno quanto quelle apprese a scuola (purtroppo, però, in Italia fanno ancora fatica a essere accolte e riconosciute).

In Finlandia, sembra che il credito formativo possa essere lo strumento, la chiave di volta nell’integrazione dell’educazione formale e non formale, quel meccanismo in grado di permettere alla scuola di accreditare/istituzionalizzare all’interno della programmazione e della valutazione quelle esperienze educative, sociali e culturali che avvengono al suo esterno, riconoscendo pari dignità e valore alla dimensione cognitiva e metacognitiva. Esso può essere inteso come un ponte tra i percorsi formativi scolastici ed extrascolastici e, per evitare improvvisazioni e dilettantismo, trova il suo fondamento metodologico nella programmazione (Frabboni, 1988).

Alcuni elementi di criticità

I dirigenti e i docenti delle quattro scuole oggetto della ricerca dichiarano con convinzione di essere riusciti a far convivere al loro interno innovazione e inclusione. Spazi innovativi, didattiche learner-centred e integrazione dell’educazione formale e non formale sembrano dunque aver effettivamente contribuito al miglioramento dell’inclusione e del benessere degli studenti; tuttavia, all’interno dei due sistemi scolastici permangono secondo gli intervistati diverse criticità che ne minano il potenziale.

Negli ultimi anni, ad esempio, per ragioni legate al calo demografico e alla scarsità di risorse economiche da investire nell’educazione, c’è la tendenza ad accorpare tra di loro le scuole secondarie di secondo grado. Ciò sta diventando un problema secondo le percezioni in particolare di insegnanti e dirigenti scolastici finlandesi, secondo i quali scuole più grandi offrono sicuramente maggiori opportunità formative; tuttavia, minacciano di compromettere proprio le caratteristiche, a loro avviso fondamentali per il benessere di tutti, tipiche delle scuole della Finlandia.

In un sistema molto competitivo, come è il loro, in cui non esistono le classi, ci sono maggiori responsabilità individuali rispetto all’apprendimento e può essere più difficile fare amicizia o trovare compagni con cui condividere il proprio percorso. Ciò inoltre rischia di mettere in discussione il sistema delle aule disciplinari (come accade in una delle due scuole italiane): nonostante più spazi a disposizione, la presenza di un maggior numero di studenti non consente a tutti gli insegnanti di disporre di una propria aula.

L’organizzazione dei corsi così strutturata rende estremamente variabile le presenze; durante il periodo di osservazione in Finlandia si è potuto constatare come si passasse, a seconda delle materie, da lezioni con 5 alunni ad altre con 35, fattore che a sua volta rende difficile l’applicazione di didattiche attive e learner-centred e, stando anche alle percezioni degli studenti emerse nel questionario a loro rivolto, non è così raro (seppur con minor frequenza rispetto alle scuole italiane) imbattersi in lezioni frontali.

Un altro aspetto innovativo che meriterebbe un approfondimento in chiave inclusiva è la presenza di ambienti scolastici sempre più multimediali. Le nuove tecnologie possono sicuramente migliorare alcuni aspetti della didattica: consentono, ad esempio, agli insegnanti di ampliare le modalità di presentazione dei contenuti integrandoli con video, immagini e grafici. Ciò può rendere le lezioni meno noiose e interattive e consente di rispondere meglio ai diversi stili di apprendimento degli studenti; tuttavia, occorre trovare soluzioni adeguate affinché gli strumenti digitali non finiscano per incidere negativamente sulla didattica e sugli apprendimenti, come, secondo la percezione degli insegnanti, sembra accadere.

Nelle quattro scuole oggetto d’indagine, gli studenti utilizzano ormai regolarmente il computer durante le lezioni. All’interno delle due scuole italiane, i professori, come si è potuto constatare durante il periodo di osservazione, integrano spesso le spiegazioni con materiale multimediale e utilizzano programmi che permettono di renderle più interattive e stimolanti.

A partire dall’agosto 2021 in Finlandia, con la recente riforma delle scuole secondarie di secondo grado, che ha esteso l’obbligo scolastico fino ai 18 anni, gli e-book hanno sostituito (gratuitamente) i libri cartacei, che restano comunque a disposizione ma a pagamento. Tuttavia, in entrambi i contesti, si è avuto modo di rilevare che gli insegnanti trascorrono mediamente circa l’89% della lezione seduti dietro la cattedra o in piedi vicino le lavagne multimediali.

L’utilizzo degli strumenti digitali sembra abbia ridotto le loro possibilità di muoversi all’interno della classe e ciò si traduce nel fatto che la maggior parte degli studenti, soprattutto quelli che sono seduti nelle ultime file, trascorrono gran parte del loro tempo sui social media, guardando video o giocando ai videogame. La minore mobilità degli insegnanti all’interno della classe riduce la qualità delle relazioni, le possibilità di interagire da vicino con gli studenti e tenere viva la loro partecipazione effettiva alla lezione (d’Alonzo, 2002).

Gli insegnanti hanno la percezione che l’uso degli strumenti e dei materiali digitali stia influendo negativamente sulle capacità di attenzione e concentrazione degli studenti, ma anche sulla qualità del loro apprendimento. Ad esempio, gli e-book sono a loro avviso difficili da utilizzare in quanto ci sono molti contenuti ed esercizi a disposizione ma non è semplice capire quali siano maggiormente rilevanti, oltre alla presenza di mille opportunità per distrarsi e perdersi nei diversi link attivi.

Dalle interviste raccolte, anche la maggioranza degli alunni ha percezioni contrastanti e non proprio positive sull’uso degli e-book: gli studenti apprezzano l’interattività e la possibilità di utilizzare diverse risorse tecnologiche, tuttavia lamentano, ad esempio, più difficoltà a restare concentrati e una maggiore fatica ad apprendere (stanchezza e affaticamento visivo e mentale).

Si deve considerare del resto che la didattica digitale comporta necessariamente un ulteriore tempo da trascorrere di fronte a uno schermo da parte di una generazione che già tendenzialmente vive sempre connessa e si relaziona con gli altri, per lo più attraverso il monitor di un computer o di un cellulare (excess screen time; Lissak, 2018).

In ottica inclusiva, occorre inoltre chiedersi quanto questi strumenti e software siano in grado effettivamente di favorire la partecipazione e l’apprendimento degli studenti con Bisogni Educativi Speciali. Indubbiamente ci sono delle notevoli potenzialità, ma occorrerebbero ulteriori ricerche sul tema; certo è che, come si è avuto modo di osservare durante il periodo pandemico con la didattica a distanza, la relazione, il contatto e la vicinanza fisica restano elementi insostituibili nella prassi educativa (Sandri e Ghiddi, 2020).

Didattiche attive, spazi di apprendimento innovativi e riconoscimento delle competenze non formali possono sicuramente contribuire a migliorare l’inclusione degli studenti, in particolare di quelli che hanno Bisogni Educativi Speciali; tuttavia è giusto chiedersi chi sta guidando questo rinnovamento e a quali fini, e se l’organizzazione e le finalità educative rispondano ancora a principi pedagogici o siano guidati principalmente dagli interessi di un mercato sempre più globalizzato.

Smardon e colleghi (2015), ad esempio, discutono sull’influenza dell’OECD sulla costruzione di nuove scuole open plan. Gli esperti e i ricercatori spesso lavorano all’interno di progetti politici che perseguono interessi economici globali come ad esempio gli ILEs, il programma per la valutazione degli studenti (PISA) e quello di sviluppo delle competenze del XXI secolo. Lo stesso dicasi per l’introduzione delle nuove tecnologie (ICT) a supporto della didattica e per il riconoscimento delle competenze acquisite in ambito extrascolastico che rischia di iperformalizzare e snaturare le caratteristiche peculiari dell’educazione non formale in favore dei bisogni del mercato del lavoro.

Assicurare un’istruzione di qualità alle nuove generazioni può essere una garanzia per lo sviluppo e il progresso della società; occorrerebbe però chiedersi se tutti condividiamo la stessa idea di progresso e il ruolo previsto per coloro che hanno maggiori difficoltà e vivono ai margini.

Conclusioni

Al termine di questa ricerca si può affermare che, secondo le percezioni dei dirigenti scolastici, degli insegnanti e degli studenti coinvolti negli studi di caso, le quattro scuole oggetto d’indagine siano sia innovative sia inclusive. In particolare, rispetto alle tre domande di ricerca, sembra che sia in Italia, sia in Finlandia gli spazi di apprendimento innovativi favoriscano l’inclusione e il benessere degli studenti grazie alla presenza di ambienti accessibili, flessibili, sicuri, belli e accoglienti, che allo stesso modo sembrano in grado di facilitare un approccio metodologico learner-centred, in grado di coinvolgere attivamente gli studenti, inclusi quelli con Bisogni Educativi Speciali, in particolare attraverso attività di apprendimento cooperativo ed esperienziale.

Le percezioni dei protagonisti della ricerca sembrano inoltre confermare che una scuola intesa come Civic-center aperta alle proposte del territorio, integrata all’interno del sistema delle offerte educative e dei servizi della comunità e, in particolare, nelle due scuole finlandesi, in grado di riconosce gli apprendimenti acquisiti in ambito non formale all’interno del curricolo scolastico, promuova l’inclusione di tutti gli studenti, soprattutto di quelli con Bisogni Educativi Speciali.

Nel nostro Paese manca ancora invece una collaborazione effettiva tra scuola, Enti locali, servizi e terzo settore in grado di costruire percorsi didattici che prevedano il coinvolgimento di servizi e istituzioni (musei, biblioteche, centri di aggregazione giovanile, ecc.) del territorio e occorre che tali attività vengano inserite all’interno dei curricoli, e non utilizzate in modo estemporaneo e occasionale.

Sembra tuttavia che in entrambi i Paesi questi elementi da soli, senza un ripensamento organico del sistema educativo, non siano sufficienti a migliorare significativamente e a garantire un’effettiva inclusione di tutti.

Il modello italiano rappresenta da oltre 40 anni uno dei sistemi scolastici più inclusivi in grado di consentire, grazie alla presenza anche di allievi con gravi deficit all’interno delle classi, di attivare processi di coevoluzione a beneficio di tutti (Canevaro, 2015); tuttavia, come dimostrano numerose ricerche e i dati raccolti, affinché l’inclusione non rimanga esclusivamente nelle buone intenzioni dei legislatori e di qualche insegnante, occorre che i protagonisti siano adeguatamente formati e valutati, al fine di collaborare proficuamente nel tradurre le teorie e le indicazioni ministeriali di riferimento nelle pratiche educative e didattiche quotidiane.

In Finlandia sembra esserci meno attenzione rispetto all’inclusione sociale e all’approccio co-evolutivo. Nonostante le idee progressiste e le numerose innovazioni, soprattutto negli ultimi gradi, il sistema scolastico è molto selettivo e non prevede la presenza di studenti con gravi disabilità intellettive al suo interno. Per loro esistono ancora le scuole speciali. Al termine delle Comprehensive school (all’età di 15 anni) è presente, inoltre, un meccanismo di selezione che divide ulteriormente gli alunni migliori da quelli «meno bravi», i primi destinati ai Lukio, i secondi alle Vocational School.

Le scuole secondarie generali o Lukio (oggetto della mia ricerca) sono molto performanti e competitive, ciò comporta che gli studenti con maggiori difficoltà di apprendimento, quelli provenienti da contesti socioculturali diversi ed economicamente svantaggiati finiscano il più delle volte o nelle scuole speciali o per iscriversi, volenti o nolenti, nelle scuole professionali, dove i programmi prevedono attività meno teoriche e più pratiche, e possono ricevere maggiori attenzioni.

Il modello italiano sembrerebbe un esempio da esportare; tuttavia emergono importanti criticità strutturali da quanto rilevato all’interno delle scuole. Il sistema, come sostengono anche Ianes e Augello (2019), sembra reggersi più sull’autoreferenzialità legata ai valori, ai principi ideali, che a un’effettiva inclusione, e ciò non consente un’analisi approfondita dei suoi punti di forza e delle criticità. Le politiche e le pratiche inclusive implicano la radicale trasformazione della professionalità docente (Sandri, 2015) e delle competenze teorico-operative caratterizzanti l’intervento educativo.

L’attuale contesto scolastico in cui sono presenti sempre più studenti che necessitano di attenzioni speciali richiede l’acquisizione di una formazione aperta e pluralistica (Pavone, 2003) in grado di comprendere i bisogni e rispondere con soluzioni adeguate.

Nonostante le due scuole oggetto di studio siano molto attive sul tema della formazione inclusiva non riescono comunque a raggiungere tutti gli insegnanti curricolari, i quali tra l’altro spesso, secondo la percezione degli stessi docenti e dirigenti scolastici, risultano carenti anche rispetto alle competenze psicologiche, pedagogiche e socio-relazionali. Anche gli insegnanti di sostegno risultano essere poco qualificati e professionali e gli insegnanti specializzati risultano meno del 50%.

La progettazione di itinerari educativo-formativi individualizzati, personalizzati e differenziati, presuppone la competenza, l’umanità e la collaborazione di tutti coloro che abitano la scuola in un’ottica relazionale di reciprocità e coevoluzione, e un confronto che li vede intenzionalmente orientati a realizzare concretamente i diritti inclusivi e di autodeterminazione di ogni singolo alunno, superando l’aleatorietà di un’offerta formativa legata ancora troppo spesso all’impegno personale del singolo docente, e garantendo invece che essa sia una prassi condivisa da tutto il personale della scuola, sottoposta a valutazione grazie all’individuazione di chiari indicatori strutturali, di processo e di risultato (Sandri, 2014, 2015).

Non è pensabile delegare questo compito solo ad alcune figure: Canevaro parlava di «delega paradossa», mentre la scuola ha bisogno più che mai di «una delega inclusiva, una delega che allontani per avvicinare» (Canevaro, 2006, p. 50). In questo quadro diventa molto difficile sia l’attivazione di percorsi che, mirando a trovare punti di contatto tra gli obiettivi della classe e quelli degli studenti con Bisogni Educativi Speciali, non si traducano in una banalizzazione delle attività, sia costruire un Piano Educativo Individualizzato (PEI) realmente funzionale al progetto di vita degli allievi con deficit.

Eppure il PEI rappresenta il cuore della progettazione educativa, dovrebbe essere il risultato della corresponsabilità di tutti i docenti (superando la logica della delega), della famiglia e della rete dei servizi coinvolta, attraverso un sistema di sostegni e di aiuti da realizzare sia all’interno della classe sia nel contesto sociale in cui è inserito(D’Alonzo, 2006, 2020; Pavone, 2004; DI 182/2020).

Da quanto emerso nella ricerca, il PEI al di là delle buone intenzioni del legislatore, resta a carico degli insegnanti di sostegno, i quali lamentano la scarsa collaborazione con i colleghi curricolari che continuano a considerarli come una sorta di insegnanti di «serie B», e raccontano la fatica quotidiana del tentativo di promuovere l’inclusione non solo degli studenti con disabilità ma anche della propria figura all’interno della classe.

Il sistema scolastico finlandese si definisce, nonostante i limiti precedentemente sottolineati, inclusivo per definizione dato che ogni alunno è considerato speciale. La recente estensione dell’obbligo scolastico a 18 anni ha fatto sì che tutti gli studenti fino al compimento della maggiore età abbiano accesso in modo gratuito a libri e materiale didattico, colazione, pranzo e trasporti.

Sempre in un’ottica inclusiva gli studenti hanno la possibilità di accedere all’Università, a prescindere dal fatto che abbiano frequentato un Lukio o una Vocational School, e la libertà (e responsabilità) di costruire il proprio percorso di studi in base ai propri ritmi, interessi ed esigenze: ciò permette una personalizzazione degli apprendimenti, anche grazie alla possibilità di vedersi riconosciute e valorizzate le competenze acquisite in ambiti non formali, collegando gli apprendimenti scolastici alla vita reale e alle opportunità offerte dal territorio.

Come già riportato questo rappresenta una notevole opportunità soprattutto per coloro che, per diverse ragioni, faticano a esprimere le proprie potenzialità durante le attività scolastiche. Anche l’assenza di bocciature consente di ridurre marginalizzazioni, etichettamenti, demotivazione e abbandoni scolastici, e rende possibile riflettere e lavorare sui propri punti di forza e di criticità, e rafforzare l’autostima e la fiducia in sé.

Le competenze e la preparazione degli insegnanti e la presenza di un team di professionisti dedicati al benessere e all’inclusione degli studenti aumentano la possibilità che ognuno si senta accolto e in grado di esprimere le proprie potenzialità. La recente riforma dell’obbligo scolastico prevede che le scuole organizzino dei servizi di orientamento al fine di sostenere lo studente nello studio, nella crescita e nello sviluppo, di promuovere l’uguaglianza e l’inclusione, di combattere le discriminazioni e l’esclusione sociale.

Il lavoro di orientamento li supporta nella pianificazione del percorso di studio tenendo conto delle loro caratteristiche, bisogni, interessi, passioni, hobby, competenze e altri fattori che possono incidere sulle loro condizioni di vita. I docenti sono molto preparati e riconosciuti socialmente e professionalmente, hanno tutti almeno una laurea specialistica e una formazione pedagogica di base.

Mediamente solo il 10% riesce ad accedere ai corsi di specializzazione per insegnare e, al termine, devono comunque superare una serie di colloqui con i dirigenti scolastici prima di ottenere il posto di lavoro; solo i migliori e i più motivati ce la fanno. Oltre a insegnare, quasi tutti sono anche tutor di gruppi mediamente di 20/25 studenti, con i quali si incontrano ogni 2 settimane, per parlare del loro andamento scolastico, dei loro interessi, bisogni e difficoltà. Sono le sentinelle che per prime hanno il compito di intercettare eventuali problematiche e riportarle ai colleghi del team «benessere e inclusione», di cui fanno parte e con i quali si incontrano regolarmente. Per far funzionare bene questo meccanismo di aiuto e supporto, e la comunicazione tra i diversi servizi, la collaborazione tra tutte le parti è fondamentale e almeno nel caso delle due scuole oggetto d’indagine si ritiene venga realizzata a pieno. Sembrerebbe quindi che, almeno per coloro che riescono ad accedere alle due scuole, in quanto l’inclusione nei Lukio non si realizza pienamente per coloro che presentano deficit intellettivi, ci siano tutte le condizioni per sentirsi accolti e inclusi, e per riuscire a raggiungere i propri obiettivi formativi.

Come già evidenziato in precedenza, tuttavia la tendenza a costituire scuole sempre più grandi rischia di mettere a rischio questo delicato processo: nei Lukio in genere è presente un solo insegnante di sostegno. Gli studenti che ne hanno bisogno possono prendere appuntamento e organizzare un piano di supporto individualizzato limitato comunque nel tempo e relativo e specifiche difficoltà.

È evidente che, in una scuola di 1.400 studenti, diventa impossibile riuscire a seguire e supportare tutti nell’apprendimento, lo stesso dicasi per il resto del team «benessere e inclusione»: ogni counselor ha mediamente 250/300 studenti, rendendo complesso anche per loro svolgere un lavoro in profondità e con continuità.

Dal punto di vista inclusivo, merita una considerazione finale, la presenza «inattesa» di educatori all’interno di una delle due scuole in Finlandia, emersa nel corso delle osservazioni. La sperimentazione riguardante questa figura, effettuata in alcune municipalità ormai da oltre 10 anni, si è andata man mano consolidando soprattutto in seguito all’emergenza pandemica, anche se manca ancora una legge di riferimento nazionale. Nelle diverse esperienze si sta rivelando una figura chiave all’interno del processo di inclusione non solo degli studenti con bisogni educativi speciali.

Dalle interviste realizzate nelle scuole la percezione di insegnanti e dirigenti scolastici è molto positiva: gli educatori sono ritenti preparati, competenti e in grado quindi di comunicare con lo stesso linguaggio dei giovani e interagire meglio con gli studenti. Gli youth workers contribuiscono al miglioramento delle relazioni e della comunicazione tra i vari servizi all’interno della scuola, ma anche con l’esterno, rappresentando un vero e proprio ponte capace di collegare la dimensione formale e quella non formale.

Attraverso un ascolto attivo dei bisogni e degli interessi e degli studenti (sessualità e identità di genere, uso di sostanze, problemi relazionali) li aiutano a sentirsi parte della comunità scolastica, agendo anche come sentinelle pronte a rilevare eventuali episodi di bullismo. Possono essere chiamati dagli insegnanti durante le lezioni nelle diverse classi, soprattutto nel periodo iniziale, per svolgere attività di conoscenza reciproca, team building o semplicemente per introdursi e presentare il proprio ruolo. In alcune realtà hanno a disposizione un proprio spazio, una sorta di «centro di aggregazione giovanile» all’interno della scuola, uno spazio informale e sicuro in cui gli studenti possono rilassarsi tra una lezione e l’altra, prendersi una piccola pausa, stare con i propri amici.

Concludendo, dai dati emersi, non generalizzabili, ma utili comunque per generare riflessioni e ulteriori ricerche, sembra che il modello finlandese, qui esplicitato nelle due scuole prese in esame, realizzi un tipo di «inclusione esclusiva», in quanto rivolta a un’élite di studenti, relegando quelli considerati «meno meritevoli» negli istituti professionali e quelli con gravi disabilità in contesti altamente specializzati, ma segreganti, mentre quello italiano persegua un’«inclusione teorica», sicuramente più in linea con i principi e i valori delle diverse dichiarazioni internazionali, che tuttavia stenta ad attivare processi inclusivi realmente coevolutivi a beneficio sia degli studenti con Bisogni Educativi Speciali che dei loro compagni.

A quasi trent’anni dalla Dichiarazione di Salamanca, all’interno delle quattro scuole osservate c’è ancora molta strada da fare verso la realizzazione dei suoi principi.

Bibliografia

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1 Dipartimento di Scienze dell’Educazione «G.M. Bertin», Università di Bologna.

2 Department of Education Sciences «G.M. Bertin», University of Bologna.

3 Argomento di una tesi del 35 dottorato di ricerca in Scienze Pedagogiche del Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna, la ricerca è stata esposta all’interno della conferenza internazionale «Injustice», che si è svolta in Finlandia dal 28 al 31 marzo 2023.

4 Organizzazione delle Nazioni Unite, United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, Unione Europea, Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico, ecc.

5 Secondo l’OECD «lo sviluppo della società e dell’economia richiede che il sistema educativo fornisca ai giovani nuove competenze, che permettano loro di beneficiare delle nuove emergenti forme di socializzazione, e contribuire attivamente allo sviluppo economico, in un sistema in cui la risorsa più importante è la conoscenza. Queste sono chiamate competenze del XXI secolo, al fine di indicare che sono maggiormente rispondenti ai modelli economici e di sviluppo sociale emergenti rispetto a quelle del secolo scorso, più funzionali a un sistema di produzione di tipo industriale» (Ananiadou e Claro, 2009, p. 6).

6 https://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf (consultato il 27 aprile 2023).

7 https://www.un.org/esa/socdev/documents/ageing/MIPAA/political-declaration-en.pdf (consultato il 27 aprile 2023).

8 Organizzazione delle Nazioni Unite (2006), Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, Assemblea Generale dell’ONU.

9 European Agency for Development in Special Needs Education (2010), Inclusive Education in Action. Project Framework and Rationale, Odense, Denmark, European Agency for Development in Special Needs Education, https://www.sess.ie/sites/default/files/inclusive%20education%20framework%202011.pdf (consultato il 27 aprile 2023).

10 https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000245656 (consultato il 27 aprile 2023).

11 https://www.indire.it/progetto/architetture-scolastiche/ (consultato il 27 aprile 2023).

12 https://innovazione.indire.it/avanguardieeducative/il-manifesto (consultato il 27 aprile 2023).

13 https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/10/rapporto-Ecosistema-Scuola_2021.pdf (consultato il 27 aprile 2023).

14 Le scuole del Centro-Nord che hanno bisogno di interventi urgenti sono il 36%, mentre al sud e sulle isole sono il 56%, e per giunta situate in aree sismiche nel 74% dei casi!

15 Per maggiori approfondimenti vedi Eberle R.F. (1969), The open space school, «The Clearing House: A Journal of Educational Strategies, Issues and Ideas», vol. 44, n. 1, pp. 23-28.

16 O’Sullivan F. (2017), Why Finland Is Embracing Open-Plan School Design, Bloomberg, 18/08/2017, https://www.bloomberg.com/news/articles/2017-08-18/do-fewer-walls-make-for-better-schools (consultato il 27 aprile 2023)..

17 Innovative learning environments in Finland’s schools, https://www.nora.com/global/en/project-references/education/fi/finland_schools (consultato il 27 aprile 2023).

18 Secondo Rizvi e Lingard (Sirkko, Sutela e Takala, 2022), il sistema scolastico finlandese riflette un’ideologia neoliberista indirizzata al raggiungimento dei risultati e della responsabilità individuale, alla competizione e all’efficienza e attualmente prevede ancora l’esistenza di scuole speciali. Come sottolineano Pihlaja e Silvennoinen (Sirkko, Sutela e Takala 2022) nel Core Curriculum (CC), la parola inclusion è citata solo una volta: «compulsory education should be developed according to inclusive principles» (CC 2014, p. 18). Nel documento i principi inclusivi non vengono definiti, sebbene vengano enfatizzati i valori associati all’educazione inclusiva come l’equità, la partecipazione e la solidarietà. Resta implicitamente escluso uno dei valori chiave, ovvero la valorizzazione della diversità (Sirkko, Sutela e Takala, 2022).

19 https://www.oph.fi/en/statistics-and-publications/publications/new-national-core-curriculum-basic-education-focus-school (consultato il 27 aprile 2023).

20 O’Sullivan F. (2017), Why Finland Is Embracing Open-Plan School Design, Bloomberg, 18/08/2017, https://www.bloomberg.com/news/articles/2017-08-18/do-fewer-walls-make-for-better-schools (consultato il 27 aprile 2023).

21 https://www.europarl.europa.eu/summits/lis1_it.htm (consultato il 27 aprile 2023).

22 Lo youth work è riconosciuto come una pratica sociale: si rivolge, infatti, ai giovani e alla società in cui questi vivono. In Italia, nei documenti ufficiali il termine youth work è stato tradotto con «animazione socioeducativa» e lo youth worker è quindi un «animatore di attività socioeducative». Tale traduzione rischia di ridurre la professionalità e il suo ruolo a funzioni ludico-ricreative a scapito invece di interventi educativi più ampi, volti anche all’acquisizione di competenze specifiche.

23 https://innovazione.indire.it/avanguardieeducative/il-manifesto (ultimo accesso 22/04 2023)

24 Si tratta di un progetto di ricerca triennale (2014-2017) finanziato all’interno del Programma Erasmus+, KA2 Strategic Partnership for Schools, dal titolo Evidence Based Education: European Strategic Model for School Inclusion (EBE-EUSMOSI), Ref. n. 2014-1-IT02-KA201-003578.

25 https://thl.fi/en/web/thlfi-en/research-and-development/research-and-projects/school-health-promotion-study/questionnaires (consultato il 22 aprile 2023).

26 https://universaldesign.ie/what-is-universal-design/the-7-principles/ (consultato il 22 aprile 2023).

Vol. 22, Issue 2, May 2023

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