Vol. 20, n. 4, novembre 2021
PRECURSORI
L’attimo che segna il tempo
Janusz Korczak e Stefa Wilczyńska antesignani del valore assoluto dell’educazione inclusiva
Fabio Bocci1
Sommario
Janusz Korczak e Stefa Wilczyńska si offrono a noi come due figure dall’elevato valore pedagogico sia per la loro opera sia per la loro vita. In primo luogo per aver dato corpo a Varsavia, dai primi anni del Novecento fino ai primi anni Quaranta, segnati indelebilmente dalla guerra e dal nazifascismo, a un esperienza unica all’interno degli orfanotrofi della città, sviluppando un modello educativo che ancora oggi resta un punto di riferimento ineludibile anche nella prospettiva dell’inclusione. In secondo luogo, per quanto hanno vissuto durante l’occupazione nazista e per la decisione, nella tragica mattina del 5 agosto del 1942, di non abbandonare i loro fanciulli, pur avendone l’opportunità, e di salire sul treno per Treblinka dove hanno trovato, insieme ai loro amati bambini, la morte. In queste pagine, l’autore cerca dunque di riscostruire il loro profilo cercando di rintracciare anche le trame che li designano senza dubbio alcuno quali antesignani della visione inclusiva della società.
Parole chiave
Janusz Korczak, Stefania Wilczyńska, Inclusione, Infanzia, Nazifascismo.
PIONEERS
The moment that marks a crossroad in time
Janusz Korczak and Stefa Wilczyńska as forerunners of the inclusive vision of society
Fabio Bocci2
Abstract
Janusz Korczak and Stefa Wilczyńska offer themselves to us as two characters of high pedagogical value both for their work and for their life. First of all for having begun, in Warsaw, since the early years of the twentieth century to the early forties — years which were indelibly marked by war and Nazi-fascism — a unique experience within the orphanages of the city, developing an educational model that still remains today an unavoidable point of reference also from the perspective of inclusion. Secondly for what they have lived during the Nazi occupation and for the decision, on the tragic morning in the 5th August 1942, not to abandon their orphanages, even if they had the opportunity, and to get on the train to Treblinka where they died, together with their beloved children. Therefore, in these pages the author tries to reconstruct their profile by tracing also the plots that undoubtedly designate them as forerunners of the inclusive vision of society.
Keywords
Janusz Korczak, Stefania Wilczyńska, Inclusion, Childhood, Nazism and Fascism.
Il percorso della memoria / il tempo che incide la storia
mi lascia nel cuore l’eco di ieri / più forte di come credevo
le mie radici da dove vengo / l’eredità del passato […]
e in un attimo tornano / i ricordi più lucidi
e sembrano / della stessa materia dei sogni
(Tiromancino, Della stessa materia dei sogni)
It’s five o’clock / and I walk
through the empty streets
The night / is my friend
And in him / I find sympathy
He gives me day / gives me hope
and a little dream too
(The Aphrodite’s Child, It’s Five O Clock)
Premessa
È la mattina del 5 agosto del 1942. Un gruppo di bambini e di bambine, di ragazze e di ragazzi, cammina in corteo, cantando e sventolando una bandiera come vessillo. Ad accompagnare queste/i fanciulle/i, come erano definiti all’epoca, c’è un uomo di circa sessant’anni, magro, quasi del tutto calvo. Porta degli occhialetti tondi e ha la barba. Il suo è l’incedere di un uomo segnato, soprattutto dal dolore per ciò che sta accadendo, ma anche di una persona forte, indomita, non disposta a essere piegata dagli eventi cui sta assistendo e che vede lui e i/le suoi/sue fanciulli/e protagonisti/e. E così è lui a intonare la canzone, a invitare a cantarla, a sollecitare, a rassicurare, a calmare. Il gruppo giunge in un piazzale e, infine, alla stazione, dove li attende un treno merci sul quale sono costretti a salire. Mentre ciò accade, vediamo una persona con in mano un dispaccio o qualcosa di molto simile chiamare ad alta voce il nome dell’uomo per cercare di richiamare la sua attenzione. Ma questi, senza alcun indugio, sale sul treno.
Quella che abbiamo appena descritto è una delle sequenze finali del film Korczak realizzato da Andrzej Wajda nel 1990. Il regista, nel raccontare la storia dell’ultimo periodo di vita del medico e pedagogista Janusz Korczak (all’anagrafe Henryk Goldszmit) e del suo straordinario lavoro educativo presso alcuni orfanotrofi del ghetto di Varsavia, restituisce nella sua tragicità una delle vicende al tempo stesso più alte e più barbare della storia dell’umanità. Una vicenda che, come stiamo per vedere, segna, nell’attimo della scelta, in quel decidere/si, il tempo e, di conseguenza, la storia.
Certamente Korczak non è il solo e non è solo. Non è il solo perché in quel 5 agosto del 1942 sono migliaia gli ebrei deportati nei campi di sterminio, soprattutto i bambini degli orfanotrofi di Varsavia (circa 4000, insieme ai loro educatori). E non è solo anche perché lo affianca una donna, altrettanto straordinaria, il cui nome è Stefania (Stefa) Wilczyńska. Ne abbiamo una nitida descrizione da Nicholas Stargardt ne La Guerra dei bambini: «la colazione era appena terminata all’orfanotrofio in via Chlodna […] quando risuonò attraverso l’edificio il grido a lungo temuto: “Alle Juden raus!” (Tutti gli ebrei fuori). Stefa Wilczyńska e Janusz Korczak si mossero insieme per calmare i bambini e indurli a raccogliere le loro cose come era stato loro mostrato [...] Centonovantadue bambini e dieci adulti uscirono e furono selezionati. Mentre si allineavano in cinquanta file da quattro, Korczak si incamminò in testa con i bambini più piccoli, in modo che non fossero distanziati dai più grandi [...] Quel giorno tutti gli orfanotrofi del ghetto furono sgombrati dai tedeschi; come sempre, tuttavia, fu la notizia dell’istituto di Korczak a fare scalpore [...] I più grandi fecero a turno a portare la loro bandiera: su un lato vi sventolava la stella azzurra di David [...] sull’altro la bandiera dell’orfanotrofio era verde, come la bandiera di re Matt, un mitico eroe inventato da Korczak ventidue anni prima. Finché camminarono dietro la bandiera verde, i bambini restarono uniti in gruppo, seguendo i passi del re degli orfani di cui Korczak aveva parlato così spesso [...] Anche dopo avere oltrepassato la porta del ghetto e attraversato la strada, raggiungendo il piazzale di raccolta, con le sue guardie, lituane e delle SS, e le sue migliaia di deportati sconvolti che con i loro fagotti attendevano sulla terra battuta riarsa dal sole di salire a bordo dei treni per l’Est, i bambini di Korczak continuarono a distinguersi. Il dottore si rifiutò di lasciarli anche solo per un attimo, temendo che fossero travolti dal panico. Nathun Remba, un funzionario del Consiglio che quel giorno si trovava lì addetto a un posto di pronto soccorso, poté soltanto rimanere a guardare la polizia del ghetto che liberava un varco per far salire i bambini a bordo del treno merci [...] Korczak prese il primo gruppo, Stefa Wilczyńska il secondo. Quando un tedesco gli domandò chi fosse quell’uomo, Remba scoppiò in lacrime» (Stargardt, 2006, pp. 202-204).
Come evidenzia Laura Quercioli Mincer, «la marcia del Vecchio Dottore, di Stefania Wilczyńska e degli altri educatori alla testa dei duecento bambini dell’orfanotrofio attraverso le strade del ghetto è giustamente entrata nell’iconografia e nella leggenda» (Quercioli Mincer, 2014, p. 252). E ciò è senza alcun dubbio accaduto soprattutto per l’atto compiuto da Korczak, per la sua decisione nell’ora più tragica, di accettare con tenerezza e con forza il proprio destino. Lo spiega in modo inequivocabile Alexander Lewin nell’introduzione all’edizione italiana del volume Come amare il bambino, che raccoglie i principali scritti del medico-pedagogista. Scrive Lewin: «la questione del destino di Korczak assume una dimensione ancora più tragica se prendiamo in considerazione il fatto che egli aveva avuto proposte concrete per lasciare il ghetto sia prima dell’inizio della completa liquidazione di quel quartiere chiuso, sia al momento di salire sul treno della morte. Korczak sapeva che non aveva bisogno di scegliere. Non prese neanche in considerazione un’alternativa del genere. Restò là dove erano i suoi bambini. Il loro destino diventò il suo destino. Tutti questi fatti fissati nelle testimonianze delle persone e nei documenti fanno sì che la figura di Korczak assuma sempre più le dimensioni di una delle maggiori autorità morali dell’umanità» (Lewin, 1979, pp. 8-9).
E lo stesso dicasi per Stefania Wilczyńska. Nel volume di Chris Webb e Michal Chocholaty, The Treblinka Death Camp: History, Biographies, Remembrance, gli autori fanno esplicito riferimento al fatto che Stefa, al pari di Korczak, ebbe l’opportunità sia prima, sia durante l’operazione Kinder Aktion, di mettersi in salvo. Ma, come il Dottore, lei respinse categoricamente questa possibilità.
Ebbene, per quanto eroica possa apparire nell’immaginario collettivo, la scelta di queste due figure straordinarie, il loro decidere e decidersi nell’attimo che ha segnato indelebilmente il tempo della loro vita (e del senso del vivere e dell’essere nel mondo), va contestualizzata. In altri termini, non va tanto rapportata a quella che potremmo definire una sorta di vocazione al martirio, ma deve essere letta quale conseguenza ineludibile della loro comune visione pedagogica della vita e del ruolo educativo dell’adulto che hanno cercato di incarnare (il senso del vivere che hanno consegnato in modo indelebile ai posteri).
Come afferma giustamente Giuseppe Annacontini, in riferimento a Korczak ma vale anche per Stefania Wilczyńska, siamo in presenza di una «vita che, come accade soprattutto nei frangenti di estrema crisi e pericolo per i valori umani, diventa emblema, esempio, monito alla memoria delle tragedie ma parallelamente anche incitamento ad aver fiducia e ad avere il coraggio di non sottovalutare quanto la storia sia fatta di uomini che possono, anche singolarmente, riuscire a modificarne il corso» (Annacontini, 2018, p. 14).
Cercheremo di inquadrare meglio quanto appena affermato analizzando, seppur brevemente, sia il loro profilo biografico sia il loro pensiero pedagogico.
Janusz Korczak e Stefania Wilczyńska: un breve profilo
Janusz Korczak, nome d’arte di Henryk Goldszmit, nasce a Varsavia il 22 luglio 1878 all’interno di una famiglia ebraica agiata, benché segnata dal disturbo mentale che accompagna il padre, un noto avvocato, fino alla sua scomparsa nel 1896. Spetta quindi al giovane Henryk prendersi cura della madre (alla quale resta molto legato fino alla sua morte nel 1920 a causa del tifo) e, forse, è anche questa condizione di sofferenza a suscitare in lui la grande attenzione verso l’infanzia abbandonata che caratterizzerà la sua intera esistenza e, probabilmente, anche a dettare la decisione di non sposarsi.
Nel 1899 intraprende gli studi di Medicina presso l’Università di Varsavia ma, al tempo stesso, coltiva l’altra grande passione che lo anima: la letteratura. Nasce così il suo alter ego, appunto Janusz Korczak, con il quale firma racconti e romanzi, ma anche opere teatrali. La scelta di quello che, com’è noto, diverrà qualcosa di più e di diverso da un semplice pseudonimo, ci dice molto della sua personalità. Come rileva ancora Laura Quercioli Mincer, Korczak «è per molti versi una figura di raccordo, un trait d’union fra la cultura ebraica e quella polacca, una combinazione unica dell’atteggiamento di sfida caratteristico della polonità e di ironia ebraica» (Quercioli Mincer, 2014, p. 251).
Proseguendo questo percorso di vita e formazione, tra medicina e letteratura, nel 1901 pubblica Bambini di strada e tre anni dopo Il bambino da salotto, opera che gli fa ottenere una certa popolarità. Sono questi anche gli anni dei viaggi di studio nelle grandi capitali della cultura e della scienza, come Londra, Parigi e Berlino. Caratterizzato da uno spirito indomito, nel 1909 mentre è in carcere — a seguito di un arresto conseguente al suo appoggio alla causa dell’indipendenza polacca — entra in contatto con il sociologo, antropologo ed economista socialista Ludwik Krzywicki (1859-1941). È questo un ulteriore passo verso la definizione del suo campo di azione. Si iscrive alla Società di aiuto agli orfani, entrandone presto nel direttivo, e si dedica alla costruzione di un orfanotrofio per i bambini ebrei, un istituto innovativo nella concezione e nelle prassi. Come rileva Grazia Honegger Fresco, Korczak, infatti, desidera «scuotere le coscienze rivelando agli adulti ciò che ha visto dell’animo infantile e per questo scrive libri che si ispirano a quel clima di aiuto reciproco e all’idea di maestro autorevole ma al tempo stesso paziente, affettuoso, che aveva contrassegnato l’impegno educativo di Pestalozzi, soprattutto nella celebre pensione di Yverdon nel 1805. Qui, con decine e decine di ragazzi l’educatore svizzero aveva messo le basi all’educazione moderna, cogliendo il valore dell’attenzione personale nell’attività (pari alla concentrazione, cara alla Montessori) e insieme l’importanza dello scambio: i ragazzi più grandi, cresciuti in condizioni di affettuosa comprensione da parte del loro maestro, si rivelavano capaci di dare altrettanto ai loro compagni minori, sia nelle relazioni quotidiane, sia negli apprendimenti» (Honegger Fresco, 2014, p. 23)
L’impresa di aprire un orfanotrofio vede i suoi frutti il 7 ottobre del 1912. La sede è quella di via Krochmalna, al civico 92, nel pieno centro del quartiere ebraico, un contesto al tempo stesso popolare ma anche culturalmente molto attivo. Lo accompagna in questa avventura Stefania Wilczyńska, che ha incontrato nel 1909 e con la quale ha dato vita a un sodalizio indissolubile.
Segue nel febbraio del 1913 l’apertura della Casa degli orfani. Si tratta di un luogo dove Janusz e Stefa danno corpo a una vera e propria società dei bambini, basata sull’assunto del valore assoluto assegnato alla reciprocità e alla fiducia nella capacità di bambine e bambini di autodeterminarsi (lo approfondiremo più avanti).
Chiamato alle armi nel 1914 lascia a Stefa la direzione delle attività educative. Tra il 1915 e il 1917 si trova a Kiev e presta servizio in un istituto ucraino per bambini, mentre nel 1919, anche a seguito dell’indipendenza della Polonia e al rientro in patria, lavora in un ospedale per le malattie infettive presso Łódz. Nel 1921 fonda a Gocławek, vicino a Varsavia, il Centro per le vacanze estive per i ragazzi della Casa dell’Orfano, coinvolgendo bambine/i e ragazze/i in attività pratiche come il giardinaggio e l’agricoltura. Risalgono invece al periodo 1923-1925 la pubblicazione di tre delle sue opere più note. Si tratta di Re Matteuccio I (1923), di Król Marcius na Wyspie Bezludnej (Re Matteuccio sull’isola deserta, 1923, mai tradotto in Italia) e Quando tornerò bambino (1925). Nel 1926 crea un inserto per bambini all’interno del giornale ebraico. Sempre attivo sul piano culturale, oltre che su quello dell’educazione, nel 1929 dà alle stampe il celebre manifesto Il diritto del bambino al rispetto. Nominato docente di Pedagogia presso la Libera Università di Varsavia, pubblica Le regole della vita. Nel 1934 compie un viaggio in Palestina, dove incontra alcuni suoi ex alunni e collaboratori e, a partire dallo stesso anno, tiene la rubrica radiofonica Piccole chiacchiere di un vecchio dottore.
Con l’avvio della Seconda Guerra Mondiale iniziano le sollecitazioni a Korczak di lasciare la Polonia e di trasferirsi altrove per mettersi in salvo da quella che si preannuncia come (e sarà) una imminente tragedia. Il Dottore però rifiuta categoricamente e nell’ottobre del 1940, nonostante le sue rimostranze, è costretto dai nazisti a trasferirsi con i/le suoi/sue orfani/e nel ghetto di Varsavia.
La sede in cui trovano dimora è la Scuola di Commercio dove Janusz e Stefa, nonostante le pessime condizioni, cercano di proteggere le/i fanciulle/i e non far troppo pesare su di loro quanto sta accadendo. In modo particolare il problema riguarda il cibo, che Korczak cerca di procurare al mercato nero. Nel 1941 l’orfanatrofio viene trasferito in un altro edificio e si cominciano a intravedere i prodromi del tragico epilogo cui sono tutti destinati. Le retate sono all’ordine del giorno ed è ormai palese che i nazisti considerano il ghetto come il luogo di contenimento che anticipa la deportazione nei lager. Korczak, all’estremo delle sue forze, cerca con Stefa di organizzare al meglio la vita dei circa 600 bambini loro affidati. Siamo ormai nel 1942 e a partire dal mese di maggio il Vecchio Dottore comincia a scrivere un diario che ultimerà poche ore prima della sua deportazione. Si tratta di 70 pagine incredibili, miracolosamente giunte fino a noi, sembra grazie a un ragazzo dai capelli rossi che è riuscito a consegnare di nascosto il quaderno a un amico residente nella «parte ariana» della città (Stargardt, 2006).
Proprio dal Diario emergono gli ultimi gesti di senso all’interno di un contesto, quello della barbarie nazista, che ha ormai perso il senso e il senno. Così l’8 giugno, rinchiusi nella Casa, bambine/i, ragazze/i e adulti fanno un giuramento solenne: «coltivare l’amore per gli esseri umani, per la giustizia, per la verità e per il lavoro». E, ancora, il 18 luglio, consapevoli dell’imminenza della fine, Korczak e Stefa danno vita con i/le loro fanciulli/e alla rappresentazione dell’opera teatrale L’ufficio postale di Tagore (autore peraltro proibito dagli occupanti). Vi si narra la storia di un bambino malato, costretto a restare rinchiuso nella propria camera e che muore sognando di correre nei campi. Una immagine commovente — sulla quale torneremo alla fine del nostro contributo — che i due educatori e i/le loro collaboratori/trici mettono in scena con l’intento di accompagnare i/le bambini/e e i/le ragazzi/e a confrontarsi con l’idea della loro morte.
Come non ha mancato di rammentare, anche con una scrittura commovente, Alessandro Vaccarelli, possiamo affermare che quanto agito con determinazione da Janusz e Stefa, in un contesto tragico e senza speranza come quello che stavano vivendo, costituisce «uno dei massimi esempi di pedagogia della resilienza e della resistenza della storia dell’educazione […] Nell’esperienza del pre-lager, possiamo intendere l’operato di Korczak e dei suoi collaboratori come un dignitosissimo atto di resistenza e di umanizzazione, vale a dire di conservazione di quell’umanità che, come ci ha insegnato Primo Levi in Se questo è un uomo (1981), è il primo bersaglio nell’atto di annullamento, non solo fisico, ma anche morale, se non addirittura ontologico, dell’uomo e della donna, nonché dell’infanzia, all’interno degli universi concentrazionari e di sterminio nazisti» (Vaccarelli, 2016, pp. 85-86).
Il 5 agosto, come già detto, durante la deportazione decide, nonostante abbia altre possibilità, di salire sul treno per Treblinka come tutte/i le/gli altre/i. Le cronache ci dicono che muore durante il viaggio, stroncato da un immenso dolore.
Stefania Wilczyńska nasce a Varsavia il 26 maggio 1886 in una famiglia benestante e dopo gli studi di base completa la propria formazione in Belgio conseguendo il baccalaureato in Biologia. Figura femminile forte e indipendente fin dalla giovane età, sceglie — a differenza delle donne del tempo e sfidando la cultura del tempo — di non sposarsi e di dedicare la propria vita a quella che ben presto diverrà una vera e propria missione. Così a soli ventitré anni, nel 1909, inizia a collaborare — non per necessità economiche ma per un preciso interesse pedagogico (Mazur e Pawlak, 2014) — con l’orfanotrofio della Società Ebraica per l’aiuto agli orfani ubicato nella via Franciszkańska di Varsavia, al civico 2. È qui che incontra Korczak, più anziano di lei di otto anni e già noto per le sue opere letterarie. Come scrive Ida Merżan, Stefania Wilczyńska «di solito rimane nell’ombra del Vecchio Dottore, ma chiunque abbia conosciuto la Casa degli orfani (Dom Sierot) sa che Korczak non avrebbe mai potuto scrivere e lavorare così tanto se la signora Stefa non si fosse presa l’onere di occuparsi dell’esistenza dell’orfanotrofio e del suo funzionamento quotidiano» (Merzan, 1977, p. 71). E, in effetti, l’elaborazione della visione pedagogica che contraddistinguerà le varie esperienze degli «orfanotrofi di Korczak» è da attribuire, pari merito, anche a Stefa. Non a caso, quando verrà aperta, dopo due anni di lavori, la casa di via Krochmalna, se al Dottore ne viene affidata la direzione, a Stefa viene assegnato il ruolo di «Capo Tutor». A lei si devono moltissime iniziative e idee innovative. Sua, infatti, è la proposta di attivare un sistema di turni di servizio che coinvolga tutti/e i/le fanciulli/e dell’orfanotrofio. A lei è anche assegnata la cura dell’igiene, dell’ordine e dell’organizzazione quotidiana, azioni che cura con dedizione totale e, soprattutto, sempre all’interno di una precisa visione pedagogica: quella della corresponsabilità, della valorizzazione dell’altro, della fiducia reciproca.
La sua presenza e il suo ruolo fondamentale si evidenziano certamente quando Korczak è chiamato al fronte, ma non solo. Nel 1925, ad esempio, Stefa Wilczyńska diviene responsabile della Bursa, termine con la quale nella Casa degli orfani è indicato il programma di formazione degli aspiranti insegnanti ed educatori. Ideato per studenti sopra i quattordici anni per dare loro la possibilità di completare il ciclo di istruzione e di imparare una professione, si apre gradualmente anche all’esterno. In tale contesto Stefa Wilczyńska supervisiona il lavoro e lo studio dei giovani tirocinanti, guidandoli, incoraggiandoli e insegnando loro le pratiche osservative e di intervento educativo. Conduce anche seminari settimanali insieme a Korczak e contribuisce con le sue riflessioni alle pubblicazioni curate dal Dottore. Come evidenzia ancora Ida Merzan, Stefa era con gli studenti della Bursa tutto il giorno: «si alzava prima di noi, era l’ultima ad andare a letto, continuava a lavorare anche quando era malata. Era presente a ogni pasto, ci insegnava come fare le bende, fare il bagno ai bambini, tagliare i capelli, ecc. Alta, con un grembiule nero, con un taglio di capelli corto e maschile, sempre attenta e vigile, anche durante il tempo di riposo era attenta a ogni bambino e studente della Bursa […]. Durante i pasti si sedeva dove poteva tenere d’occhio tutti i bambini e spesso lasciava il suo tavolo per insegnare a un nuovo bambino come tenere una fetta di pane o un cucchiaio, cosa usare per pulire la minestra rovesciata. Di notte si alzava per rimboccare le coperte ai bambini, portare in bagno quelli che potevano bagnare il letto, scoprire perché qualcuno si lamentava nel sonno. La casa era piena della signora Stefa. Potevamo sempre sentire il suo riguardo, la sua attenzione […] amava la natura e sapeva come contagiare i bambini con questo amore. La casa in via Krochmalna era piena di piante in vaso. A Gocławek, dove i bambini di via Krochmalna e di altri orfanotrofi passavano l’estate, la signora Stefa organizzava passeggiate al crepuscolo (dopo il bagno) intorno al campo o nel bosco per mostrare ai bambini la bellezza della natura e insegnare loro ad apprezzarla» (Merzan, 1977, p. 72).
In altri termini, una figura altrettanto straordinaria come quella di Korczak e che, tuttavia, non ha trovato, pure avendone condiviso la medesima avventura educativa e la tragica fine, il medesimo riconoscimento. Come non hanno mancato di sottolineare Elżbieta Mazur e Grażyna Pawlak: «L’opera scritta della Wilczyńska è scarsa. Ha lasciato più di un centinaio di lettere a/e da amici per i quali era la “cara signorina Stefa”, alcune decine di testi pubblicati nella stampa pedagogica in Polonia e in Palestina, alcuni commenti registrati nei verbali delle riunioni dei kibbutz in Palestina. La “dimenticata Stefa” non è diventata il soggetto di una biografia più profonda e dettagliata. L’unica pubblicazione dedicata alla sua vita e al suo lavoro è la meravigliosa raccolta di lettere e articoli curata da Barbara Puszkin e Marta Ciesielska, entrambe al Korczakianum a Varsavia per molti anni. A Word to Children and Tutors rappresenta un meraviglioso inizio per ulteriori e più approfonditi studi non solo della vita della Wilczyńska, ma anche delle sue idee e dei suoi metodi di lavoro con i bambini. Il nostro scopo è quello di incoraggiare storici e scrittori a presentare le realizzazioni della Wilczyńska, che non era solo sensibile alla miseria dei bambini e fedele a Korczak, ma era soprattutto una persona creativa, che ha contribuito con le proprie idee originali alla teoria della pedagogia. Questo lo dobbiamo a Wilczyńska come a Korczak. Lo dobbiamo a noi stessi» (Mazur e Pawlak, 2014, pp. 137-138).
Lo dobbiamo certamente a Stefa, che muore anche lei a Treblinka, presumibilmente il 6 agosto del 1942, a poche ore di distanza dal suo inseparabile compagno di viaggio.
La visione pedagogica inclusiva di Janusz e Stefa
L’opera pedagogica di Janusz Korczak e di Stefania Wilczyńska è attraversata da un filo conduttore che è quello di umanizzare l’umano e di farlo (e qui un richiamo anche a Maria Montessori è quanto meno doveroso) puntando sull’educazione dei/delle fanciulli/e. Una educazione, però, non meramente istruttiva, verticale (dall’alto verso il basso, da un sapere a un non sapere) ma — come ben evidenzia Annacontini (2018) tessendo un legame con il pensiero di John Stuart Mill — fondata sulla creativa libertà del soggetto. Si tratta di un aspetto fondamentale che Korczak nei suoi scritti, quale esito di una costante riflessione sul lavoro che lui e Stefa stanno portando avanti, rimarca con forza: «Non esistono i bambini, esistono gli individui, esistono gli individui ma con una diversa scala concettuale, un diverso bagaglio di esperienze, diversi istinti, un diverso gioco di sentimenti. Tieni sempre presente che noi non li conosciamo» (Korczak, 1979, p. 76).
Come evidenzia Lamberto Borghi, uno dei nostri più prestigiosi e attualmente meno frequentati studiosi nel campo pedagogico, questa «coscienza della diversità costituisce la Shibboleth di ogni genuino educatore. L’educatore che non si preoccupa di individuare le caratteristiche singolari e irripetibili di ciascuno dei suoi alunni, che invece di concepire e condurre il suo lavoro come un apprendistato perenne e vivere nella sua scuola e nella sua classe come un “laboratorio”, adagiandosi invece nella bambagia delle idee generali, si colloca nel chiuso di una provincia pedagogica dove trasmissione di nozioni e di abiti di comportamento omogeneizzante, conformismo, livellamento, sono le forme strumentali, idonee alla conservazione dello stato di cose esistente, al servizio della perpetuazione del dominio, della società adulta» (Borghi, 2000, p. 103).
I richiami ai principi che oggi riconduciamo al paradigma dell’inclusione sono a dir poco evidenti. E lo sono nella misura in cui il Vecchio Dottore e Stefa li riconducono a una radicale riconfigurazione del contesto educativo e della rete di relazioni che lo caratterizzano in senso umanizzante (ossia tendente all’autodeterminazione dei singoli e delle collettività) oppure conformizzante (i processi di assimilazione e normalizzazione che oggi ben conosciamo).
Ecco, allora, venirsi a delineare questa concettualizzazione del contesto educativo realizzato dai due educatori nella Casa, la quale è organizzata sulla base di principi che sono ancora per noi oggi fondamentali ai fini del raggiungimento di una società inclusiva: la giustizia, l’equità, la fraternità, il rispetto, la reciprocità, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri (soprattutto tra bambini/e e adulti).
Janusz e Stefa realizzano un modello di educazione autogestionaria, che richiama alla nostra mente anche una certa visione della pedagogia libertaria (Bocci, Gueli e Puglielli, 2020). Un modello che si fonda su alcune strutture, quali quella del Consiglio (anche detto Parlamento), nel quale una figura adulta e due bambini/e-ragazzi/e, su base elettiva da parte degli ospiti della Casa, elaborano le regole di vita quotidiana e quella del Tribunale, composta da cinque giudici — sempre eletti dai bambini/e e ragazze/i — che cambiano ogni settimana secondo alcune regole condivise (es. non avere delle pendenze con il Tribunale stesso). Questo, però, al di là del nome che lo denota, non ha finalità punitive. Il principio guida è, infatti, quello del perdono e della difesa del più debole (chiunque esso sia). Non a caso Korczak e Wilczyńska hanno messo al bando qualsiasi tipo di punizione, a partire da quelle corporali o di deprivazione di qualcosa (ad esempio il cibo), pratiche definite dal Dottore come vere e proprie azioni criminali degli adulti.
In tal senso, come rileva ancora Grazia Honegger Fresco, la Casa «è un esempio di nonviolenza allo stato puro, è il potere condiviso con i bambini. Che cos’è l’amore, si chiede Korczak in uno dei suoi libri destinato agli adulti. A parole la domanda non trova risposte, eppure nei fatti ecco il negozietto interno dove si possono acquistare piccole cose, non in denaro, ma in modo egualmente serio, annotando chi ha comprato e che cosa; la mensola delle proposte concrete o anche la vetrina degli oggetti perduti — una piuma, un turacciolo, un sasso, un nastro — così importanti per bambini che hanno perso tutto e non possiedono nient’altro che il calore della grande Casa. Proposte che certo emergono da idee o da commenti dei suoi giovani abitanti. C’è inoltre l’attenzione a ciò che può recare felicità attraverso l’espressione di sé — la musica, con il gusto di inventare e di suonare insieme o il teatro, con la sua grande forza espressiva che li proteggerà anche nei terribili giorni del ghetto» (Honegger Fresco, 2014, p. 27).
Un altro aspetto da porre in rilievo rispetto alla concezione pedagogica elaborata dal Dottore e da Stefa attiene alla visione congiunta — che ritroviamo sia volgendo lo sguardo indietro, ad esempio a Edouard Séguin, sia in avanti, pensando a Giovanni Bollea — tra esperienza clinica e riflessione/azione pedagogica. Si tratta di una interrelazione (oggi parliamo di interdisciplinarità) fruttuosa, laddove però si esca dalla mera visione di quanto l’una (come disciplina) sia utile all’altra (di solito la prima per la seconda) e si approdi, invece, a una ridefinizione paradigmatica del loro rapportarsi. In altri termini, occorre chiarire come il contributo che deriva dallo sforzo di comprensione dei funzionamenti umani (diremmo oggi) non sia ad appannaggio della sola esperienza clinica — che ne detta le linee — e non sia preziosa solo per l’apporto conoscitivo che introduce, ma per il ragionamento che permea tale contributo/sforzo e che lo guida.
Una questione ben chiara a Korczak quando scrive: «Come medico e come educatore non conosco cose di nessun conto e attentamente seguo ciò che sembra casuale e privo di valore» (Korczak, 1929, p. 120). E ancora, più avanti: «Un educatore dice: “Il mio metodo, il mio punto di vista”. Anche se avesse una scarsa preparazione teorica, pochi anni di lavoro alle spalle, sarebbe autorizzato a parlare così. Ma egli deve sempre ricordarsi che questo metodo o punto di vista gli è stato suggerito dall’esperienza di lavoro in certe condizioni, in un certo luogo, con un certo materiale umano. Dovrebbe motivare la sua posizione, produrre degli esempi, sostenerli con una casistica. Gli concedo pure il diritto di inoltrarsi sul terreno più difficile e rischioso: pronosticare, congetturare cosa ne sarà di un dato bambino. Ma che sia sempre consapevole di potersi sbagliare. Nessun parere deve diventare una convinzione assoluta o una convinzione per sempre […] Solo a queste condizioni il lavoro dell’educatore non sarà né monotono, né privo di speranza. Ogni giorno gli porterà qualcosa di nuovo, di inaspettato, di eccezionale, ogni giorno sarà più ricco di un nuovo contributo [...] E solo allora egli amerà ogni bambino di un saggio amore, si interesserà della sua vita spirituale, dei suoi bisogni, del suo destino. Più si avvicinerà al bambino, più si accorgerà di caratteristiche degne di attenzione. Nella ricerca troverà sia la ricompensa che lo stimolo per ulteriori ricerche, per ulteriori sforzi» (Korczak, 1979, pp. 123-124).
Come evidenzia ancora Lamberto Borghi, quella di Korczak (e di Stefa Wilczyńska, aggiungiamo) è una prospettiva antiautoritaria dell’educazione, che ha per fulcro «la conoscenza come prerequisito del pensiero, cioè del dubbio, dell’ipotesi che lo rimuova, di un sapere logoro fatto di “idee inerti” che si trasforma, a opera dell’esperienza e della ragione, in sapere che costantemente si arricchisce di inedite prospettive. Ciò che ammiriamo nella metodologia pedagogica di Korczak — continua Borghi — è soprattutto questo motivo euristico, antidogmatico, questa apertura sperimentale che si riflette nello stile denso, rapido, incalzante, col suo breve periodare che mai si adagia nel luogo comune» (Borghi, 2000, p. 102).
In conclusione, come non hanno mancato di evidenziare ora Honegger Fresco (2014), ora Lewin (1979), l’opera del vecchio Dottore (e di Stefa, continuiamo ad aggiungere, anche se al primo va la visibilità di chi ha redatto le pagine che sono giunte fino a noi), frutto di una originale combinazione di vita e pensiero, di teoria e prassi, va posta alla pari con quella delle grandi figure a cui è oggi riconosciuto il merito di aver elaborato teorie pedagogiche che hanno lasciato il segno (si pensi a Comenio, Pestalozzi, Tolstoj, Montessori, Makarenko, Decroly, Freinet, Vygotskij, Dewey…). Figure queste che, non a caso, sono ancora un punto di riferimento nell’attuale panorama della riflessione pedagogica impegnata a delineare e a dare corpo all’educazione inclusiva. Una riflessione che continua a trovare appiglio e a nutrirsi di un principio che Janusz Korczak e Stefania Wilczyńska ci hanno consegnato e che noi abbiamo il dovere morale di perseguire con tutte le nostre forze: Non bisogna lasciare il Mondo qual è!3
Epilogo
Nel film di Wajda citato in avvio abbiamo lasciato il Vecchio Dottore che sale sul treno, decidendo insieme a Stefa (che non si vede nella sequenza ma noi sappiamo essere stata lì con lui) la loro sorte. Ebbene, il regista — probabilmente facendo proprio riferimento alla rappresentazione teatrale che i due educatori avevano allestito sul testo di Tagore nei giorni più bui, per aiutare fanciulle/i a fronteggiare l’imminente tragico e barbaro epilogo delle loro vite — affida la chiusura a una immagine di rara potenza e commozione. Una immagine che risuona come un grido di dolore ma che, al tempo stesso, diviene anche un invito agli spettatori (a tutti noi) a provare un moto di repulsione e di ribellione dinanzi a ciò che è disumano e ci disumanizza, non solo per mezzo della sua accettazione ma anche assumendo (ieri come oggi) atteggiamenti di noncuranza.
Il vagone nel quale sono rinchiusi gli educatori e le/i fanciulli/e improvvisamente si sgancia dal resto del convoglio e, piano piano, rallenta la corsa per poi fermarsi in cima a una radura. E così, mentre gli abiti di adulti e bambini/e sembrano ammantarsi di un bianco lucente (della stessa materia dei sogni,4 ci viene da dire) tutte/i possono scendere e fuggire verso una sorte benevola e un futuro diverso.
Come sappiamo la storia è andata diversamente e, come abbiamo ricordato in un nostro precedente contributo nel quale abbiamo cercato di delineare la figura del Vecchio Dottore (Bocci, 2011) la realtà, per un tragico gioco del destino, si è sovrapposta alla narrazione di una delle opere più conosciute e care a Korczak: Re Matteuccio. E così, quello che era un personaggio di finzione, ideato per essere un mediatore letterario per favorire l’incontro tra adulti e bambini/e, si eleva a metafora della vita stessa e della tragica fine di Korczak, di Stefa, degli/delle altri/e educatori/trici e delle/degli orfane/i.
Re Matteuccio, che ha offerto ai bambini la possibilità di autogovernarsi, dopo innumerevoli vicissitudini viene in ultimo sconfitto dai nemici. È quindi arrestato e condotto, scortato dai suoi carcerieri e carnefici, nelle vie del regno fino al luogo dove sarà eseguita la sua condanna. Scrive Korczak:
Era una bella giornata. Il sole splendeva. Tutti vennero a vedere per l’ultima volta il loro re. Molti avevano le lacrime agli occhi. Ma Matt non vide le lacrime... Stava guardando il cielo, il sole. Raggiunto il luogo dell’esecuzione, Re Matt rifiutò di farsi bendare, per mostrare che gli eroi muoiono magnificamente (Korczak, 1978).
Bibliografia
Annacontini G. (2018), Dal riconoscimento al diritto al rispetto. Passaggi esperenziali per la fondazione pedagogica del pensiero di Korczak. In A.M. Colaci (a cura di), I bambini e la società. Percorsi di ricerca storico-educativa, Lecce, Pensa Multimedia.
Bocci F. (2011), Una mirabile avventura. Storia dell’educazione dei disabili da Jean Itard a Giovanni Bollea, Firenze, Le Lettere.
Bocci F., Gueli C. e Puglielli E. (2020), Educazione libertaria. Tre saggi su Bakunin, Robin e Lapassade, Roma, RomaTre-Press.
Borghi L. (2000), La città e la scuola, Milano, Elèuthera.
Honegger Fresco G. (2014), Introduzione a Janusz Korczak. In L. Quercioli Mincer e L. Battaglia (a cura di), Janusz Korczak, un’utopia per il tempo presente, «Quaderni di Palazzo Serra», vol. 24, pp. 22-34.
Korczak J. (1978), Re Matteuccio I, Milano, Emme.
Korczak J. (1979), Come amare il bambino. I principali scritti pedagogici del grande autore polacco, Milano, Emme.
Lewin A. (1979). Prefazione. In J. Korczak, Come amare il bambino. I principali scritti pedagogici del grande autore polacco, Milano, Emme.
Mazur E. e Pawlak G. (2014), Stefania Wilczyńska – a companion in Janusz Korczak’s struggle. In L. Quercioli Mincer e L. Battaglia (a cura di), Janusz Korczak, un’utopia per il tempo presente, «Quaderni di Palazzo Serra», vol. 24, pp. 128-140.
Merzan I. (1977), Mrs. Stefania – Janusz Korczak’s closest associate, «Biuletyn Żydowskiego Instytutu Historycznego» [Jewish Historical Institute’s Bulletin], vol. 4, n. 104, pp. 71-74.
Quercioli Mincer L. (2014), “Un manicomio o un carcere?”. Il diario del ghetto di Janusz Korczak. In L. Quercioli Mincer e L. Battaglia (a cura di), Janusz Korczak, un’utopia per il tempo presente, «Quaderni di Palazzo Serra», vol. 24, pp. 251-278.
Stargardt N. (2006), La guerra dei bambini. Infanzia e vita quotidiana durante il nazismo, Milano, Mondadori.
Vaccarelli A. (2016), Le prove della vita. Promuovere la resilienza nella relazione educativa, Milano, FrancoAngeli.
Webb C. e Chocholaty M. (2014), The Treblinka Death Camp: History, Biographies, Remembrance, Hannover, ibidem-Verlag.
Principali opere di Janusz Korczak
Korczak J. (1979), Come amare il bambino. I principali scritti pedagogici del grande autore polacco, Milano, Emme.
Korczak J. (1987), I bambini della Bibbia, Roma, Carocci.
Korczak J. (1994), Il diritto del bambino al rispetto, Milano, Luni.
Korczak J. (1996), Quando ridiventerò bambino, Milano, Luni.
Korczak J. (1997), Diario del ghetto, Milano, Luni.
Opere di Stefania Wilczyńska
Wilczyńska S. (2204), Słowo do dzieci i wychowawców, Warszawa, Muzeum Historyczne Warszawy.
Alcune indicazioni per l’approfondimento
AA.VV. (2019), Janusz Korczak. Dalla parte dei bambini. Sempre, Torino, Il Leone Verde Edizioni.
Arkel D. (2009), Ascoltare la luce. Vita e pedagogia di Janusz Korczak, Milano, Atì.
Artifoni R. (2004), Janusz Korczak, una vita dedicata al bambino che c’è in ognuno di noi, «Viene il tempo», vol. 24, pp. 1-4.
Bellerate B. (1986), L’impegno educativo di Janusz Korczak. Scrittore, medico, educatore polacco (1878-1942), Bari, Cacucci.
Limiti G. (1980), La figura e il messaggio di Janusz Korczak, Firenze, Le Monnier.
Limiti G. (2006), I diritti del bambino. La figura di Janusz Korczak, Milano, Proedi.
Veerman P.E. (aprile, 1990), In the Shadow of Janusz Korczak — The Story of Stefania Wilczyńska, «The Melton Journal», pp. 8-15.
1 Dipartimento di Scienze della Formazione, Università degli Studi Roma Tre.
2 Università degli Studi Roma Tre.
3 Janusz Korczak, Lettera a J. Arnon del 30 dicembre 1937, Archivio Korczak dell’Istituto di Ricerche Pedagogiche di Varsavia (Lewin, 1979, p. 14).
4 Il verso della canzone dei Tiromancino, richiamato anche in esergo, fa certamente riferimento al più celebre verso di William Shakespeare, «Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita» (La tempesta, Atto IV, Scena I).
Vol. 20, Issue 4, November 2021