Vol. 20, n. 1, febbraio 2021

PROGETTI E BUONE PRASSI

Una bimba che profuma di cous cous e spezie

L’esperienza scolastica di W.E.

Chiara Imperatori1

Sommario

Una scuola può essere un punto di incontro per superare l’isolamento. Le vulnerabilità sono un motivo per sentire l’appartenenza come sicurezza nell’organizzazione sociale. Una bambina solitaria e taciturna. Caparbia e decisa ad imparare, manifesta una grande motivazione. Regole chiare con un’impostazione da laboratorio. L’assunzione di responsabilità nelle conoscenze. Avere tutti un ruolo attivo in un progetto condiviso.

Parole chiave

Isolamento, incontro, difficoltà, volontà, responsabilità, fiducia nelle proprie capacità personali.

PROJECTS AND BEST PRACTICES

A child with cous cous and spices perfume

W.E school experience

Chiara Imperatori2

Abstract

A school can be a meeting point to overcome isolation. Vulnerabilities are a reason to feel membership as security in the social organization. A lonely, taciturn child. Stubborn and determined to learn, he manifests a great motivation. Clear rules with a lab setting. Taking responsibility for knowledge. All have an active role in a shared project.

Keywords

Insulation, meeting, difficulties, will, responsibility, trust in his personal abilities.

Prologo

L’esperienza che desidero raccontare avviene in una scuola primaria a Castelnovo ne’ Monti, comune di 10000 abitanti considerato il capoluogo dell’Appennino reggiano. Le scuole di questo comune accolgono bambini e ragazzi provenienti da aree limitrofe e rappresentano, come ci ricorda sempre la nostra preside G.G., per molte famiglie, l’unica opportunità di incontro e confronto. C’è un cinema-teatro, un istituto musicale, una scuola di danza, un circolo tennis, un centro per l’atletica, una piscina… ma molti abitanti non hanno le possibilità economiche o i mezzi per raggiungere fisicamente questi luoghi. La scuola rimane la sola occasione e, in questo periodo in cui il «virus incoronato», termine usato da Paolo Bosisio3 durante una sua conferenza teatrale online, incombe, rappresenta il miglior luogo in cui la relazione può manifestarsi nella sua totalità. La scuola si chiama Giovanni XXIII, la sezione è la prima B, composta da quattordici alunni. La storia è quella di W.E., capelli neri, occhi neri profondi che osservano con attenzione tutto ciò che la circonda. W. è una bella bimba che profuma di couscous e spezie. Tutte le mattine, si reca a scuola con il pullmino perché abita in una casa isolata in una piccola frazione: Regnola. La mamma ed il papà sono nati in Marocco, le mie colleghe ed io pensiamo che la mamma non conosca la lingua italiana perché al colloquio di inizio d’anno scolastico ha partecipato il papà. Quest’ultimo non parla bene l’italiano e ci è sorto il dubbio che non abbia capito tutto quello che gli abbiamo detto in quell’occasione. Lo abbiamo aiutato a trovare il sito della scuola con il suo cellulare ma gli abbiamo scritto su un foglio le informazioni necessarie, certe che, una volta uscito dalla porta della scuola, non sarebbe stato in grado di riuscire da solo a consultarlo.

W. e la sua famiglia e il Piano Triennale dell’Offerta Formativa della scuola

La presenza del padre ai colloqui potrebbe anche essere dovuta al ruolo subordinato delle donne. Per tutti, e in particolare per W. E., la scuola rappresenta uno dei pochi luoghi di aggregazione, di appartenenza e socializzazione per chi cresce. E anche per i famigliari, mamma compresa. Le vulnerabilità possono essere un motivo per sentire l’appartenenza come un fattore di maggiore sicurezza nell’organizzazione sociale. Ma sembra invece che l’aria spiri in un’altra direzione. La vecchiaia è una colpa: i versamenti e le trattenute che dovrebbero costituire la possibilità di avere la pensione, non vengono considerate; sembra che le giovani generazioni debbano pagare per il sostentamento degli anziani. Le tasse — che un Primo Ministro, in Italia, ha consigliato di fare in modo di non pagare se vengono considerate dal singolo cittadino esagerate — non sono considerate un modo per ridistribuire servizi in termini di equità; sembra che ogni servizio debba essere capace di sostenersi facendo pagare le prestazioni. Le assicurazioni non coprono situazioni di rischio più alto di ciò che è ritenuto normale… E se ne può dedurre che la vulnerabilità non sia considerata un motivo di organizzazione sociale, ma una colpa personale, e quindi un motivo di insicurezza.

La vulnerabilità come fattore e difetto individuale può essere messa in relazione con l’assenza di controllo, e con sforzi, il più delle volte sbagliati, di riprendere il controllo. È in questa piega che si nascondono le fughe nel passato, le rinunce ad ogni iniziativa lasciandosi vivere, le dipendenze, le proteste che vogliono raggiungere il sensazionalismo, ecc.

La famiglia di W. E. è isolata. La scuola può attivare relazioni e senso di appartenenza. La scuola che ruolo può avere? Vediamo, nello specifico, il PTOF. L’Istituto Comprensivo «Bismantova», dove lavoro, si propone come ambiente di relazione e formazione, all’interno del quale si valorizzano le diversità e si opera per l’integrazione. Si pone come esperienza decisiva per lo sviluppo intellettuale, personale e sociale. Persegue i seguenti obiettivi: garantire il diritto allo studio ed il successo formativo ed educativo degli alunni consolidando le competenze culturali di base mirate a favorire il raggiungimento delle 8 Competenze chiave per l’apprendimento permanente definite dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea. Promuovere lo sviluppo di ogni alunno personalizzando la risposta didattico-formativa mantenendo un dialogo costante con il territorio e utilizzando le risorse che lo stesso può fornire. Promuovere la cultura della legalità come condizione necessaria per il rispetto reciproco, con percorsi specifici per gli studenti ed incontri di carattere culturale che coinvolgano le famiglie atti a favorire una crescita collettiva.

Aggiornare il curricolo verticale per raggiungere gli obiettivi formativi previsti dalle Nuove Indicazioni, in linea con le esigenze formative dei ragazzi.

Arricchire l’offerta formativa con progetti e percorsi personalizzati, sia in orario scolastico che extrascolastico. Dare la possibilità a tutti gli alunni di accedere ai laboratori e di usufruire degli strumenti innovativi.

Incentivare momenti d’incontro con le agenzie educative che operano sul territorio. Collaborare con altre scuole cercando di costruire una comunità territoriale.

Potenziare l’apprendimento delle lingue straniere per favorire l’apertura internazionale.

I sopracitati obiettivi formativi, presenti nel PTOF, vengono ampliati attraverso attività progettuali. Il nostro Istituto si prefigge il compito di attuare percorsi atti a motivare l’apprendimento e a sostenere le competenze interculturali per prevenire situazioni di disagio scolastico. Percorsi di recupero e rinforzo in ambito linguistico e logico matematico. L’attivazione dello sportello d’ascolto psicopedagogico aperto ai ragazzi ed alle loro famiglie, ai docenti e a tutto il personale della scuola. La nostra Dirigente ci ricorda sempre che è nostro compito attivare tutti i percorsi possibili per garantire il successo formativo di tutti, ponendo molta attenzione alle situazioni di fragilità e di disagio.

Nel suo ritratto, la volontà di W.

La bambina ha una grande responsabilità: il papà è sicuro che lei imparerà facilmente la lingua italiana ed aiuterà tutta la famiglia. Le aspettative sono alte: lei dovrà essere la loro voce, saper leggere e scrivere bene, restituire un significato al loro pensiero. Dovrà impadronirsi di quel codice che lui e sua moglie non sono riusciti ancora ad acquisire ed aiutarli ad esternare i loro bisogni. Loro che hanno lasciato certezze, colori e suoni noti, hanno bisogno di W. per esprimersi e concretizzare i loro sogni.

W. si presenta come una bambina solitaria e taciturna. Caparbia e decisa ad imparare, manifesta una grande motivazione. È disordinata. Spesso parte da destra quando scrive e occupa tutto lo spazio del foglio. Ci tiene a spiegare, a modo suo, che quello che ha fatto lo ha capito, anche se non ha incollato le immagini nella posizione convenzionale. Mette il dito sulla prima figura e alza un dito dell’altra mano, poi con la mano crea una linea immaginaria tra una figura e l’altra per collegarle e mostra due dita, in seguito si sposta sulla terza immagine e alza tre dita, e così via, fino a quando non ha spiegato come ha eseguito la richiesta. Ed è corretto. Nonostante i vocaboli che utilizza siano molto pochi, lei deve dimostrare che comprende. Non si distrae, non perde una parola. Non interviene ma se interpellata cerca una modalità per rispondere. Le piace quello che fa, le piace venire a scuola, le piace e riesce a raggiungere la meta desiderata. Una mattina ha cercato di spiegarmi un disegno che aveva fatto a casa nella sua lingua, era convinta che io la comprendessi. Quando i suoi compagni terminano un disegno, una verifica, incominciano a chiacchierare. Lei no, alza lo sguardo e mi osserva, cerca di capire cosa sto dicendo. Gli occhi neri non mi abbandonano mai, seguono ogni mio piccolo gesto, anche quello più insignificante. Catturano i miei movimenti e il suo corpo li ripropone. Se i suoi amici alzano il tono della voce in maniera eccessiva si porta il dito sulle labbra come faccio io quando li invito a parlare piano. Silenziosa, attenta. A fine giornata apre il diario e vuole che le legga le materie che ci saranno il giorno successivo. Non sbaglia mai i libri e quaderni che le occorrono e quando ha un dubbio li porta a scuola tutti. Esegue sempre i compiti che le vengono richiesti e vuole farmeli vedere.

L’aspetto che ci preme di più è la relazione perché, come ci insegna Bertolini (1988), è necessaria per l’affermazione dell’individualità di ciascuno di noi. In questo periodo che ci costringe a regole e precauzioni è bello vedere come i bambini siano molto rispettosi e nello stesso tempo riescano ad interagire con naturalezza. Non si toccano ma sono presenti gli uni agli altri. Lei no, rimane in disparte, gioca da sola, non si rapporta con nessuno.

W. vuole fare bene. Abbiamo capito che ha bisogno di ripetere per consolidare quello che apprende e di imitare quello che noi insegnanti proponiamo. Si percepisce la sua soddisfazione quando la gratifichiamo. È sufficiente dirle: «Brava W., hai scritto molto bene» ed i suoi occhi diventano più grandi, le pupille nere si dilatano, il viso si ravviva, magicamente tutto il corpo diventa radioso. Guarda il suo foglio con orgoglio e lo solleva come se volesse renderlo visibile ai compagni.

Ha uno zaino molto piccolo che contiene libri e quaderni a malapena. Nell’astuccio usurato c’è una forbice che non taglia ed un temperino che non svolge la sua funzione, i pastelli sono pochi e consumati ma ha la colla che suo papà le ha comperato al supermercato, la colla che tanti suoi compagni, che hanno un bellissimo astuccio nuovo, dimenticano a casa. E siccome la regola vuole che il materiale non si possa prestare lei la porge a me e mi chiede, con il suo linguaggio gestuale, di usarla per incollare le fotocopie delle storie sui quaderni dei suoi amici che non l’hanno portata.

È consapevole di non poterla passare direttamente a chi ne ha bisogno. Numerose sono state le indicazioni relative alle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 nella scuola e noi insegnanti le applichiamo con costanza perché la scuola possa continuare in presenza. Anche nel mio Istituto la prima circolare del 8/09/2020 conteneva il documento tecnico per la ripresa nel quale erano presenti le principali disposizioni generali di natura sanitaria, condivise con il Ministero della Salute ed il CTS a livello nazionale, e le relative indicazioni per i Dirigenti Scolastici nell’organizzazione delle misure di sicurezza specifiche anti-contagio da Covid-19. La nostra D.S. nella sezione «Disposizione relativa a pulizia ed igienizzazione di luoghi e attrezzature» ha ribadito: «sottoporre a regolare detergenza le superfici e gli oggetti (inclusi giocattoli, attrezzi da palestra e laboratorio, utensili vari…) destinati all’uso degli alunni». I bambini sono molto coscienziosi, rispettano le distanze, utilizzano la mascherina, sono più bravi di tanti adulti che sottovalutano l’importanza di un agire corretto al fine di tutelare la salute di tutti.

Le regole e l’impostazione laboratoriale

Chi cresce dovrebbe essere aiutato e incoraggiato dalle regole, chiare e sensate. Anche W. Siamo incapaci di poter pensare in piena autonomia tutto quello che si svolge nella nostra giornata quotidiana. Abbiamo bisogno sempre di riferirci ad una serie di notizie e di informazioni che fanno riferimento ad una società organizzata di cui ci fidiamo fino ad un certo punto.

Un soggetto deve mettersi in viaggio in automobile? Ipotizziamo che sia questo il mezzo di cui si servirà. Vorrebbe avere informazioni precise su un percorso che gli permetta di calcolare i tempi dello spostamento per poter organizzare la sua giornata di lavoro, di affari, di incontri. Accende la televisione, cerca nelle pagine le informazioni sulla strada, ascolta la radio per avere da Infostrada le informazioni sui percorsi stradali, si informa per quello che può; forse usa anche il telefono per avere notizie su una certa strada. Se è una persona molto ansiosa, rimane però sempre il dubbio che le informazioni siano tempestive, aggiornate e credibili. E ha il ricordo, diretto e personale o indiretto, di informazioni che in seguito si sono rivelate non del tutto credibili: di blocchi stradali, di incidenti intervenuti già da tempo e quindi già segnalabili e non intervenuti dopo aver assunto le informazioni.

Lo stesso dicasi se cambia il mezzo di trasporto e pensa al treno. Il treno ha un lungo percorso, lo prende in una certa stazione e il treno arriva da molto lontano. Il dubbio che arrivi con un ritardo notevole c’è, se poi deve mettere nel percorso anche una coincidenza in qualche stazione, passare da un treno ad un altro che dovrebbero seguire una certa indicazione di orario, il dubbio c’è, ed è alimentato da una quantità enorme di notizie, di voci, di lettere di protesta, di lamentele che circondano il servizio ferroviario. La certezza della propria autonomia non è scontata. Si può moltiplicarlo per mille altri servizi di cui ciascuno di noi ha bisogno e si capisce subito che l’autonomia non è un elemento facile in una società organizzata complessa.

Anche le autonomie amministrative hanno rivelato una certa fragilità del nostro modo di comportarci perché più si determinano le autonomie più si moltiplicano le necessità di garantirsi le regolarità e le responsabilità. Il soggetto che fa parte di un’amministrazione decentrata autonoma moltiplica le cautele per non sentirsi poi responsabile di eventuali errori: anziché garantire uno spazio d’azione più libero finisce per creare un vincolo più stretto alla stessa autonomia.

Qualcuno che ha studiato con più attenzione questi temi ci dice qualche cosa che può essere molto interessante anche per la dimensione educativa. Una buona autonomia amministrativa funziona se sono state stabilite le regole fondamentali su cui l’autonomia non deve interferire, vale a dire devono esserci regole certe che fanno parte della centralità; tutto un paese deve avere regole certe. Fuori da queste regole c’è l’autonomia, oltre a queste regole c’è la possibilità che ciascun soggetto amministrativo ma anche soggetto individuale sia capace di sviluppare delle proprie decisioni senza intaccare le regole comuni a tutti. Insegno storia, con un’impostazione laboratoriale.

La nostra lezione ha inizio con l’appello, una routine importante durante la quale i bambini si riconoscono, nominano chi non c’è, si scambiano informazioni su chi è assente, se qualcuno ha notizie le condivide con il gruppo classe. È un momento in cui, chi lo desidera, può raccontare qualcosa di sé, un piccolo aneddoto, un problema, spesso nasce uno scambio di informazioni. Poi propongo quello su cui desidero lavorare, facendo riferimento al curricolo verticale di Istituto. Focalizzo la mia attenzione sugli obiettivi che i bambini della classe prima devono raggiungere alla fine dell’anno scolastico; il corretto utilizzo degli indicatori temporali, l’interiorizzazione dei concetti di successione, contemporaneità e durata (tempo psicologico e reale), il riordino di semplici racconti e di esperienze personali, la visualizzazione grafica dei concetti temporali (prima, dopo, infine), il riconoscimento del tempo ciclico e lineare. Leggo una favola, mi pongo come obiettivo di cercare una morale che possa essere utile ad una situazione che, uno o più bambini della classe, stanno vivendo e mi focalizzo su quello che si dovrebbe imparare da essa. Utilizzo racconti concisi, molto semplici. Presento storie con pochi personaggi che incarnano uno specifico tratto umano, un unico ambiente facilmente riconoscibile, azioni chiare, dialoghi che caratterizzano i personaggi. Lo scopo è che tutta la classe riesca a cogliere l’intera storia. Mi soffermo sul titolo, domando loro di provare ad immaginare di cosa tratterà il racconto. Dopo una prima lettura chiedo che siano loro a raccontarmela, cerco di coinvolgere tutti facendo domande o lasciandoli parlare a ruota libera. Se decido di fare delle domande, conoscendo bene il mio gruppo di bambini, formulo le richieste in modo tale che riescano a darmi una risposta, anche un semplice «sì» o un «no», un cenno con la testa. Partecipano tutti, ognuno con la propria modalità, a volte succede che chi è insicuro o chi non ha una buona dialettica annuisca semplicemente. Accolgo quello che ciascuno può dare. Poi invito i bambini ad interpretare la storia, a recitare. Si propongono subito i più audaci ma anche quelli più introversi si mettono in gioco. C’è chi non utilizza la voce, esegue i gesti del personaggio che ha scelto, c’è chi arricchisce il racconto con particolari. Penso che qualsiasi emozione, qualsiasi cambiamento possa esserci utile per scoprire aspetti nuovi. Dopo aver vissuto la favola con il corpo analizziamo i personaggi. Per esempio, nella favola La volpe ed il corvo di Esopo, prendendo in esame Il corvo, chiedo: «Cos’è un corvo?», «Com’è fatto?», «Quali sono le sue caratteristiche?». E la volpe: «Cosa dice?», «Cosa si aspetta che il corvo faccia?». Ciascuno condivide le proprie conoscenze. I bambini utilizzano la lavagna luminosa multimediale per disegnare i protagonisti, successivamente, tramite internet, aggiungiamo informazioni e verifichiamo la veridicità di quelle raccolte. In seguito, somministro un piccolo questionario. Distribuisco ad ogni bambino un foglio sul quale ho preparato alcune immagini e chiedo loro di indicarmi se quello che vedono è «vero» o «falso». Utilizzo questa tipologia di quiz con affermazioni del tipo: «Il corvo ha quattro zampe», «La storia si svolge nel deserto». Devono cerchiare V o F cercando di ricordare il racconto. La correzione viene effettuata collettivamente, sono i bambini stessi a scoprire eventuali errori ragionando, discutendo, raffrontandosi. Insieme proviamo ad esaminare i diversi punti di vista, cerchiamo di leggere la storia con gli occhi del compagno, proviamo ad unire tutti i piccoli pezzi per arrivare al nostro mosaico. Ogni opinione è un tesoro, è frutto di un ragionamento, di ogni singola esperienza. N. che ha due fratelli gemelli più piccoli è accudente nei confronti degli altri e le sue risposte sono in sintonia con il suo vissuto, in ogni favola cerca di risolvere il problema del più debole. G., che è abituata ad essere anticipata nei suoi bisogni, quando interpreta il personaggio che ha scelto, aspetta sempre che sia un compagno a dirle come deve fare. Infine, chiedo di mettere in ordine temporale le immagini nelle quali ho suddiviso la storia. Utilizzo al massimo sei sequenze, in alcuni casi solo due. Ho introdotto il fumetto, perché G. disegna sempre cecando di dar voce ai suoi personaggi usando i fumetti e gli altri bambini hanno gradito la sua modalità. Mi diverto molto a leggere le frasi che attribuiscono ai personaggi: l’uomo esclama «Ahi! Ridammelo» quando la pulce si nutre del suo sangue (La pulce e l’uomo di Esopo) o la tartaruga dice alla lepre che ha battuto: «Chi va piano va sano e va lontano! Tu vai come la Ferrari e sbatti contro gli alberi» (La tartaruga e la lepre di Esopo). Il mio fine è che le sequenze temporali vengano riordinate correttamente, tuttavia cerco di non perdere le occasioni che si presentano per ampliare le conoscenze. Valorizzo tutti, chiedo spiegazioni, cerco di estrapolare il loro sapere. Prendo appunti, riscrivo le frasi dette, le fotocopio e le incollo in ogni quaderno. Credo nel fascino delle parole, nella parola che assume volti diversi nella mente di chi la legge. Prima di fornire loro un’immagine definita lascio che essa prenda la forma che desiderano darle. La verifica mi consente di capire se ho consegnato ai bambini illustrazioni chiare, se hanno ascoltato e capito la successione del racconto, che ragionamento hanno fatto per decidere la posizione delle figure. Quello che mi piace di questa modalità è che coinvolge pienamente il gruppo classe, nessuno è escluso o si sente tale, tutti partecipano, tutti danno il loro contributo. Ogni volta, insieme, sviluppiamo il nostro pensiero critico.

Faccio incollare sul quaderno la favola o fiaba che leggiamo in classe perché possano farsela rileggere dai loro genitori e un domani leggerla loro. Il racconto è un pretesto per imparare la successione degli eventi ed un ponte scuola-famiglia. Così io prendo la colla e la disinfetto, la utilizzo per attaccare le fotocopie, la disinfetto nuovamente e la restituisco a lei che sorride illuminando l’aula. Questo rituale mattutino mi ha permesso di stabilire un rapporto di fiducia. Dopo un mese di scuola, da bimba taciturna, è diventata una bimba che ha trovato una sua modalità per interagire e si serve dell’adulto per entrare in relazione con i compagni.

Come ci insegna Piaget (1958), è importante che i bambini facciano esperienza con il corpo, per interiorizzare ed utilizzare pienamente tutti quei concetti astratti che gli vengono richiesti di rappresentare e fare propri nella vita quotidiana. Alla fine di ogni lettura W. si propone e quando interpreta Cenerentola, la volpe, la cicogna si trasforma. Il «mettersi nei panni di» le ha aperto la porta all’incontro con l’altro. Non è più introversa e silenziosa ma simpatica, un’autentica intrattenitrice. Ha imparato tanti vocaboli e soprattutto cerca i compagni ed è cercata. Al seguito della mia richiesta di riordinare le sequenze di un racconto rispettando l’ordine cronologico A.T. ha copiato il compito eseguito da W. Ho consapevolmente lasciato che accadesse. W. ha attaccato le immagini partendo da destra ed anche A. Quando hanno visto che le stesse immagini gli altri bambini le avevano incollate partendo da sinistra sono scoppiati a ridere. Lei mi ha guardata e ha detto: «Lui come me». Dietro l’errore, come ci hanno insegnato Gianni Rodari e Loris Malaguzzi, c’è il possibile (Rodari, 1964; Malaguzzi, 2017).

Responsabilità richiama un autore di grande spessore, di enorme importanza, ed è Hans Jonas (1993). Il suo principio «responsabilità» può essere ripreso nella lettura di queste esperienze didattiche e educative, per capire quanto il mettere in moto un processo di conoscenza permetta di responsabilizzare senza correre il rischio, o correndo il rischio di fare degli errori. Si può assumere responsabilità, si può, prima ancora, conoscere senza sbagliare? Probabilmente si può ma c’è da domandarsi se è una reale conoscenza, e se è, quindi, una reale responsabilità. Su questi aspetti hanno riflettuto studiosi come Piero Bertolini (1996), Michele Pellerey. Quest’ultimo ha riportato una citazione di Popper che nel 1972 scriveva: «Evitare gli errori è un ideale meschino. Se noi non osiamo affrontare problemi che siano così difficili (per noi) da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà, allora, sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa più importante è imparare da essi» (Pellerey, 1998, p. 27). L’interessante è quindi non tanto soffermarsi sulla necessità di non fare errori quanto quella di permetterci un’assunzione di responsabilità che faccia dell’errore una fonte di apprendimento. Nei rapporti con situazioni marcate dalla differenza questo è inevitabile.

Nella nostra esperienza vi è stata e vi è sempre una resistenza, ad esempio, ad ammettere, come prospettiva, l’integrazione di persone che sono vistosamente diverse, si pensi agli handicappati, ritenendo necessaria una previsione che escluda ogni possibilità di errore. E questo rinvia continuamente i processi d’integrazione. Certo, bisogna considerare la necessità di salvaguardarsi da errori che compromettano in maniera tragica le possibilità di correggere.

Una buona parte, però, degli errori che noi dobbiamo affrontare sono dovuti proprio al processo dell’assunzione di responsabilità nelle conoscenze. Ed è allora interessante considerare la conoscenza che si sviluppa dai percorsi verso le lontananze come qualcosa che assume la responsabilità degli errori fatti da coloro che si sono mossi prima di noi, quindi anche gli errori degli aiuti umanitari e internazionali che non hanno seguito una logica d’interdipendenza e di cooperazione ma hanno marcato ancor più le differenze in termini di dominio. Ci assumiamo anche quegli errori, non tanto per rimanerne schiacciati, quanto per contribuire allo sviluppo di una responsabilità che permetta di assumere responsabilità. La nostra è quindi un’educazione in cui la nostra responsabilità è perché l’altro possa assumersi responsabilità. La dinamica degli aiuti e le dinamiche della conoscenza legate agli aiuti unilaterali sono spesso governate dal presupposto che la responsabilità sia coincidente col dominio. Io assumo le mie responsabilità e quindi assumo anche il ruolo del padrone. Condiziono, invece, la mia assunzione di responsabilità ad un progetto, che è quello di permettere che anche tu diventi responsabile. Ed è allora questa la dinamica dell’educarsi alla responsabilità, che richiama gli educatori della cooperazione.

Educare educandosi

Chi, emigrando, lascia un contesto culturale per un altro che conosce malamente, vive in qualche modo un trauma. E le situazioni di aiuto intervengono in contesti che hanno vissuto un trauma, ovvero la perdita di una condizione in cui ciascuno aveva la percezione di sé «completo», indipendentemente dal fatto di avere raggiunto la piena possibilità dei propri mezzi. Un trauma interrompe, riduce, comprime. E quando uno è schiacciato deve ritrovare lo spazio (fisico, mentale, ecc.) per ritrovare la propria forma. Questa dinamica ha un nome: resilienza (Cyrulnik e Malaguti, 2005). Per i materiali, è una proprietà. Per gli umani, è una sorta di organizzazione. È educarsi ed educare alla resilienza. Siccome ci occupiamo di educazione e di cooperazione, qualche volta con implicazioni internazionali, ovvero interculturali, utilizziamo il termine «progetto» per indicare un lavoro che si fa insieme ad altri per raggiungere un certo risultato. Dovrebbe essere chiaro — non sappiamo se lo è realmente — che il primo risultato da cercare di raggiungere è quello che nessuno sia schiacciato, oppresso. Questo dovrebbe essere il motivo conduttore di ogni progetto. E dovrebbe esserlo per tutti. Non è semplice. Anche se fosse chiaro per tutti, non lo è per tutti nello stesso tempo e con gli stessi modi.

La difficoltà è nel mantenere questa reciprocità fondamentale che permette in tempi diversi a chi aiuta di assumere un potere a cui, aimè, ci si affeziona; e a chi è aiutato, di assumere la condizione utilitaristica che chiamiamo «vittimismo»: nella condizione di vittima, si trovano vantaggi che conviene non perdere, e quindi è meglio rimanere vittima (aiutata).

Il lavoro educativo consiste nell’individuare gli oggetti e le condizioni in cui e attraverso cui un soggetto può esercitare un ruolo attivo in un progetto condiviso. La condivisione può contenere momenti di conflittualità costruttiva. Questo, che chiamiamo «lavoro educativo», non si esaurisce nel binomio «adulto/bambino», o «insegnante/allievo», o «chi aiuta/chi è aiutato». Non è «educare»: è educarsi. E associare ed associarsi progressivamente alla progettualità che comporta distinguere ciò che è negoziabile e ciò che non lo è; imparare continuamente ad agire o ad attendere. E imparare a prendere decisioni partecipate. Ma anche a prendere decisioni a rischio di assumere la propria responsabilità individuale nella prospettiva di salvare la possibilità di decisioni partecipate. In questa prospettiva, vi può essere continuità, con le discontinuità significative ed utili, fra le varie fasi della vita, che chiamiamo educazione alla cittadinanza. Educarsi, e non: educare. W. è una bambina: si educa e ci educa.

La fiducia nelle sue capacità personali ha fatto in modo che realmente emergessero. W. che non ha ancora padronanza della lingua italiana, che scrive da destra verso sinistra, ha portato sé stessa, ha condiviso il suo vissuto e ora è parte della classe. Ci ha regalato il «suo mondo». Perché «la cosa più personale è la più universale» (Carl Rogers).4

Bibliografia

Bauman Z. (2003), Una nuova condizione umana, Milano, Vita e pensiero.

Bertolini P. (1988), L’esistere Pedagogico, Scandicci-Firenze, La Nuova Italia.

Bertolini P. (1996), La responsabilità educativa. Studi di pedagogia speciale, Torino, Il Segnalibro.

Castel R. (2003), L’insécurité sociale. Qu’est-ce qu’être protegé?, Paris, Seuil.

Cyrulnik B. e Malaguti E. (2005), Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi, Trento, Erickson.

Jonas H. (1993), Il principio responsabilità, Torino, Einaudi.

Malaguzzi L. (2017), I cento linguaggi, Reggio Emilia, Edizioni Junior.

Pellerey M. (1998), L’agire educativo, Roma, LAS.

Piaget J. (1958), Giudizio e ragionamento nel bambino, Firenze, La Nuova Italia.

Rodari G. (1964), Il libro degli errori, Torino, Einaudi ragazzi.


1 Insegnante.

2 Teacher.

3 Commento e lettura del romanzo Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern da parte di Paolo Bosisio, in occasione del progetto Racconti in tempo di peste di Sergio Maifredi e Corrado d’Elia (26 Marzo 2020) su Facebook, www.teatroligure.it, www.corradodelia.

4 Caramagna F. (2017), Le più belle frasi di Carl Rogers, https://aforisticamente.com/le-piu-belle-frasi-di-carl-rogers/ (consultato il 22 gennaio 2021).

Vol. 20, Issue 1, February 2021

 

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