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Interviste / Interviews

Interviste
Interviews

a cura di Annamaria Di Fabio

Responsabile del Laboratorio internazionale di Ricerca e Intervento in Psicologia per l’orientamento professionale, il career counseling e i Talenti (LabOProCCareer&T) e del Laboratorio internazionale di ricerca e intervento in Psicologia Positiva, Prevenzione e Sostenibilità (PosPsychP&S), Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia, Università degli Studi di Firenze, http://www.scifopsi.unifi.it/vp-30-laboratori.html



Intervista a Fabio Lucidi, Presidente Associazione Italiana di Psicologia; Professore Ordinario, Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza – Università di Roma

Transizione e mondo del lavoro: quali le principali sfide con cui confrontarsi dal Suo punto di vista?

Siamo oggi certamente chiamati a rispondere a urgenti istanze trasformative a seguito dei cambiamenti socio-politici , economici, demografici, tecnologici, culturali , politici e valoriali che hanno cambiato bisogni e prospettive di questo paese ed altri paesi.

La crisi economica ha cambiato la domanda e l’offerta lavorativa, definendo nuovi bisogni formativi, nuovi interlocutori, nuove transizioni, nuovi rischi e differenti tutele, interpretate e definite da nuove regole, come quelle scritte nelle riforme del lavoro.

Le trasformazioni avvenute sul piano politico internazionale e la cosiddetta globalizzazione hanno investito direttamente il mondo del lavoro, spostando il piano della competizione, ponendo al centro nuove competenze, siano esse soft o hard skills, sfidando i sistemi formativi, tipicamente più lenti e riflessivi, a rispondere a richieste che cambiano continuamente, rapidamente e talvolta in modo cataclismatico.

Le trasformazioni tecnologiche offrono nuove opportunità, si pensi alle enormi potenzialità legate alla cosiddetta azienda 4.0 ma anche al fatto che le aziende non avranno le capacità necessarie per avere successo nell’era digitale se non prenderanno in seria considerazione i bisogni trasformativi dei propri dipendenti, ne i sistemi sociali potranno tollerare un mondo del lavoro senza lavoratori.

Le trasformazioni demografiche e l’invecchiamento della popolazione, insieme con la crescente instabilità dei percorsi professionali richiedono nuove tutele e nuove flessibilità: da una parte sembrano richiedere forme di accompagnamento alla popolazione senza lavoro in età lavorativa, dall’altra portano a stimolare un maggiore tasso di partecipazione al mercato del lavoro degli ultra 65enni, spinti a accumulare montante contributivo anche dopo che hanno iniziato a percepire la pensione.

E’ evidente che si tratta di temi che possono essere affrontati esclusivamente in una prospettiva che è non solo multidisciplinare ma più probabilmente trans-disciplinare. E’ altrettanto evidente che però questa prospettiva è a forte implicanza psicologica. 

Quali domande dunque deve porsi la psicologia di fronte a questo scenario di cambiamento?

Le trasformazioni in atto e la crisi economica appaiono causa, effetto e contesto di eventi che coinvolgono ambiti diversi della psicologia e guardano, a seconda dei casi, al singolo, al gruppo, o alla comunità più ampia. Le trasformazioni avvenute portano la psicologia a confrontarsi con nuovi interlocutori e nuove istanze, alcune delle quali chiaramente messe a fuoco mentre altre ancora vanno delineandosi sullo sfondo – si pensi, ad esempio, ai cambiamenti che la robotica porterà sul piano occupazionale e nell’organizzazione del lavoro –, a studiare metodi per supportare individui e sistemi in situazioni di trasformazione.

Sino a pochi anni fa, la psicologia dialogava con il mondo del lavoro prevalentemente in fase di valutazione e selezione del personale. Poi furono messi a fuoco i temi della formazione, dell’empowerment, della convivenza e del benessere organizzativo. Quelli dell’orientamento e dell’accompagnamento nella transizione scuola lavoro. Oggi le domande a cui rispondere sono ancora più complesse. Come può la psicologia contribuire alla crescita delle risorse individuali e collettive per far fronte alla costante richiesta di cambiamento, alle nuove insicurezze, ai bisogni e alle difficoltà individuali e collettive che susseguono alla crescente disoccupazione? Come può fornire nuovi strumenti e metodi per superare gli ostacoli alla mediazione dei conflitti, a una nuova ricerca d’identità professionale personale e collettiva che non può più essere basata sull’identificazione del lavoratore con il suo posto di lavoro, la sua mansione e la sua azienda? Come può accompagnare individui e sistemi nelle fasi di maggiore criticità alimentando sul piano individuale la resilienza e, su quello collettivo, la capacità di riconoscere e contrastare le nuove povertà, le nuove diseguaglianze, le nuove emarginazioni?

Cosa deve fare la comunità accademica degli psicologi per contribuire a rispondere a queste domande?

Sono, a mio parere domande che richiedono un costante sforzo di ricerca, perché le risposte siano basate su analisi solide, pur in scenari costantemente mutevoli. Richiedono formazione, affinché quelle risposte siano patrimonio comune di tutti coloro che, a diverso titolo, operano nei sistemi organizzativi. Richiedono la costruzione di prassi e opportunità di intervento consolidate ed efficaci e professionisti pronti ad agirle. Richiedono valutazione, affinché ad affermarsi siano solo le prassi che dispongono di evidenza di efficacia. La comunità accademica non deve dunque rinunciare al suo mandato primo, che è quello di fare ricerca, e nemmeno a quello di mettere a disposizione le nuove conoscenze attraverso la formazione di nuovi professionisti pronti a intervenire. Deve invece aumentare l’attenzione con cui accompagna questi professionisti verso il mondo del lavoro, rimanendo a sua volta da essi in costante contatto con le richieste di conoscenza che dal mondo del lavoro provengono, decidendo poi nella sua autonomia se accogliere o meno queste richieste. Attualmente si distingue tra una prima missione dell’università (la ricerca), una seconda missione (la formazione), una terza missione (il dialogo col territorio). Personalmente non vedo la separazione tra le missioni e penso a una ricerca che diventa occasione formativa per dei professionisti che ne devono garantire la traslazione. Di certo però l’università, non deve in nessun modo rinunciare al mandato fondamentale di esplorare in modo autonomo gli spazi della ricerca di base e deve mantenere elevato il rigore teorico metodologico che rappresenta un patrimonio anche e soprattutto per chi fruisce delle conoscenze sviluppate un ambito universitario. Deve però rendersi disponibile a sviluppare nuove alleanze sul territorio, sul piano scientifico, culturale, organizzativo, a trovare nuove occasioni di incontro e dialogo non solo nella ricerca e nella didattica nei corsi di laurea ma anche nei percorsi professionalizzanti di terzo livello (master, specializzazioni e anche dottorati che non formano solo alle carriere accademiche) e nei processi di long life learning. Sono percorsi che richiedono alla comunità accademica non solo la capacità di contribuire alla lettura e allo studio delle rappresentazioni sociali dei temi in oggetto, ma di cambiare dall’interno la rappresentazione sociale della disciplina psicologica, chiarendone i confini, che sono – a mio parere – molto più ampi di quelli fino ad oggi esplorati.




Note

1 A

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