Negli ultimi anni, i repentini mutamenti socio-economici e l’avvento delle nuove tecnologie, sempre più innovative, hanno contribuito in modo significativo alla trasformazione del mercato del lavoro in un rapido ambiente di cambiamento (Brewer, 2013).

Il quadro occupazionale italiano, secondo i dati Istat più recenti, ha mostrato un lieve peggioramento in un contesto già caratterizzato da un aumento della disoccupazione e da un calo di inattività (ISTAT, 2019). L’occupazione permanente è divenuta un fenomeno meno frequente e la carriera è diventata ormai imprevedibile e senza confini (Lo Presti & Pluviano, 2016). La precarietà del lavoro e lo sviluppo di nuove forme di lavoro atipico si ripercuotono sullo sviluppo della carriera e sul benessere delle persone che affrontano continuamente l’incertezza e instabilità nella vita professionale (Gevaert, De Moortel, Wilkens & Vanroelen, 2018).

Tra coloro che rischiano l’emarginazione sociale, in quanto più facilmente esposti al rischio di disoccupazione, vi sono i cosiddetti NEET (Not in Education Employment or Training). Questi ultimi possono essere definiti come quella categoria eterogenea di giovani non impegnati nell’istruzione, nell’attività lavorativa e nella formazione. La loro collocazione all’interno dello status professionale si può classificare in disoccupati e inattivi: queste due categorie costituiscono il livello più cospicuo, e sono composte da coloro che non cercano lavoro ma sono propensi a lavorare e da quelli che lo cercano però non sono al momento disponibili (Contini, Filandri, & Pacelli, 2019). I NEET sono soggetti con profili molto differenti ma comunque problematici su cui le istituzioni, a livello europeo, hanno posto la loro attenzione e su cui sono state condotte diverse ricerche al fine di approfondire le motivazioni e le condizioni socio-culturali che caratterizzano lo stato nella transizione scuola-università-mondo della formazione e del lavoro (AIP, 2016; De Luca, Mazzocchi, Quintano & Rocca 2019).

Eurofound ha sviluppato un quadro longitudinale dell’analisi NEET individuando diverse categorie (Mascherini & Ledermaier, 2016): disoccupati di breve durata (per meno di un anno); disoccupati di lunga durata (da oltre un anno); indisponibilità a causa di malattia o disabilità (giovani con malattia o disabilità); non disponibili a causa di responsabilità familiari (coloro che si prendono cura dei bambini o degli adulti incapaci o hanno altre responsabilità familiari meno specifiche); lavoratori scoraggiati (giovani che hanno smesso di cercare lavoro perché credono che non ci siano opportunità di lavoro per loro); inattivi (categoria residuale); rientranti (giovani pronti a rientrare nel processo formativo o occupazionale) (Sergi, Cefalo & Kazepov, 2018).

I NEET, secondo le più recenti indagini (Sergi, Cefalo, & Kazepov, 2018) sono molto sfiduciati circa la possibilità di trovare un lavoro poiché ritengono che, non essendoci opportunità di alcun genere, è anche inutile impegnarsi in tal senso (Istat, 2019). Tale passività nella ricerca di un impiego (Blau, 1999) rappresenta una funzione personale, sociale e familiare.

Le ricerche condotte nelle università sul fenomeno dei NEET si sono focalizzate, in particolare, sulle strategie volte a gestire l’incertezza del mercato del lavoro (De Koning, Bourguignon, & Roques, 2015).

In linea con quanto affermato da Blau (1999), i comportamenti adottati dall’individuo nella ricerca di un impiego fanno parte di un processo caratterizzato da due diverse fasi: la prima (preparatoria) concerne l’utilizzo di differenti fonti (formali e informali) volte a individuare un insieme di alternative di lavoro. La seconda (attiva) invece consiste nella ricerca di informazioni e relativo sviluppo di azioni coerenti con la posizione lavorativa individuata nella precedente fase. È altresì importante l’insieme di valori, credenze e atteggiamenti che un individuo possiede nella ricerca e nell’effettivo conferimento di un lavoro.

Nel contesto di generale disoccupazione che coinvolge in modo particolare le fasce più deboli e i giovani,

inoltre, si assiste a un vero e proprio skill mismatch, ovvero un disallineamento tra competenze possedute dai lavoratori e competenze richieste dai datori di lavoro. Molte professioni di un tempo non esistono più e le aziende richiedono nuove figure professionali, oggi difficili da reperire, con abilità e competenze diverse da quelle certamente richieste dalle occupazioni del XX secolo (Brunello & Wruuck, 2019).

Diverse ricerche presenti in letteratura si sono focalizzate sugli esiti di tale disallineamento sulla salute e sul benessere psico-sociale nonché sulla soddisfazione lavorativa (Fregin, Bijlsma, & Van der Velden, 2018). È ormai assodato che il lavoro svolge un ruolo chiave per la salute e per il benessere dei lavoratori, ed è importante riconoscere l’impatto negativo della globalizzazione e dei progressi tecnologici sui lavoratori (Sparks, Faragher, & Cooper, 2001; Di Fabio, 2017). L’instabilità e l’insicurezza nel mondo del lavoro odierno richiedono la promozione di organizzazioni sane e di un business sano come parte di un approccio di prevenzione primaria (Hage, et al., 2007; Kenny & Hage, 2009; Di Fabio & Kenny, 2015). Una delle principali sfide del XXI secolo è quella di creare società più sane promuovendo organizzazioni sane (Di Fabio, 2017; Di Fabio, Palazzeschi, & Bucci, 2017).

Il problema della disoccupazione o della sotto-occupazione è ormai una questione sociale pervasiva e continua, che investe anche la sfera delle relazioni familiari contribuendo al deterioramento del benessere psicologico (Atkinson, Liem, & Liem, 1986; Liem & Liem, 1988; McKee-Ryan, Song, Wanberg, & Kinicki, 2005), i cui risvolti negativi sono ben documentabili e dimostrabili (Ingusci, Manuti, & Callea, 2016). I disoccupati, se confrontati con le persone occupate, manifestano livelli più alti di effetti depressivi (Feather & Davenport, 1981; Feather & O’Brien, 1986), livelli più bassi di autostima (Muller et al., 1993), e maggiore disagio psicologico (Banks & Jackson, 1982; Henwood & Miles, 1987).

Un’altra questione, oggi di estrema rilevanza, è il gap presente tra mondo accademico e realtà professionale. Si assiste, di frequente, alla cosiddetta overeducation (McGuinness, 2006), vale a dire il fenomeno della sovra-educazione secondo cui gli individui sono molto competenti e preparati ma nel contesto lavorativo tali potenzialità sono «sottoutilizzate» e «sottopagate» (Duncan & Hoffman, 1981). Il fenomeno appena descritto, secondo diversi studiosi (Berg, 1970; Duncan & Hoffman, 1981) è riconducibile a una mancata corrispondenza tra le conoscenze e competenze fornite dal sistema educativo e le richieste maturate nel periodo post-industriale (Bol, Ciocca Eller, van de Werfhorst, & DiPrete, 2019).

Questa condizione, oltre a provocare una disoccupazione intellettuale che si protrae nel tempo, induce soprattutto i giovani laureati e i dottori di ricerca al preoccupante rischio della dequalificazione. Secondo un’indagine condotta dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), il 35,6% dei laureati coinvolti sostiene che le proprie abilità lavorative siano più alte di quelle richieste dall’attuale profilo professionale ricoperto. Risulta paradossale inoltre che la modesta quota di laureati che il sistema di istruzione italiano produce sia già più che sufficiente a soddisfare la scarsa domanda di lavoro qualificato che il sistema economico richiede. Numerosi laureati o ricercatori, infatti, al fine di ottenere una stabilità economica dettata da un contratto di lavoro a tempo indeterminato, si trovano costretti ad accettare impieghi con qualifiche inferiori, divenendo di fatto, overskilled, cioè individui con competenze e abilità superiori a quelle richieste per l’attività che svolgono.

Non di rado, la formazione appare ancora parcellizzata o lontana dalla realtà professionale. Per le ragioni appena descritte, nasce non solo il bisogno di analizzare le esigenze aziendali, legate alla conseguente ristrutturazione imposta dalla globalizzazione e dall’innovazione digitale, ma soprattutto l’esigenza di rinnovare e integrare la formazione in ambito accademico, caratterizzata perlopiù da un modello tecnico applicativo, a quella esperienziale centrata sull’acquisizione di competenze dettate direttamente dall’osservazione sul campo nonché la necessità di supportare l’implementazione e lo sviluppo di centri di orientamento universitario che si configurino come «ponti», vale a dire strumenti di collegamento efficaci per transitare nel mondo del lavoro.

 

 

I giovani e il processo di transizione nel mercato del lavoro

 

Il passaggio dal mondo accademico al mondo professionale rappresenta un momento importante per lo studente universitario, il quale molto spesso appare disorientato e disinformato rispetto alle sue future quanto imminenti opportunità lavorative (Boffo & Gioli, 2017). L’ingresso lavorativo costituisce una fase critica e delicata di socializzazione dei giovani con il lavoro, e in questa fase agiscono intermediazioni di tipo sociale, ad esempio la famiglia o il gruppo dei pari, e di tipo istituzionale, come l’università e le imprese (Presti, Törnroos & Pluviano, 2018). Tali intermediazioni contribuiscono a potenziare o a indebolire le competenze più adatte per l’inserimento professionale. Questo processo si arricchisce dell’utilizzo di efficaci strategie di networking che l’individuo mette in atto (Tziner, Vered, & Ophir, 2004) all’interno di quella che viene definita intensità di ricerca del lavoro (Schwab, Rynes, & Aldag, 1987), la quale diventa parte centrale del processo di ricerca del lavoro insieme all’esplorazione di carriera (Werbel, 2000). Seppure quasi tutte le università dispongano di un servizio di placement interno, che non si sostituisce alle agenzie di servizio pubblico ma diventa parte fondamentale del processo, e vi siano numerose evidenze empiriche circa i temi del placement e dell’orientamento professionale nel perseguire esiti accademici positivi (Surridge, 2009) e un incremento occupazionale, le università italiane, ancora oggi, presentano non poche difficoltà. Innanzitutto, presentano un innegabile ritardo rispetto ai servizi offerti, riscontrano difficoltà di reperimento di fondi nonché di organico a disposizione con una conseguente scarsa interazione e coordinamento con altri atenei. Inoltre, quando istituzioni e individui non sono pronti a fronteggiare le richieste del mercato del lavoro, e i «tempi» della transizione dal mondo della formazione a quello delle professioni diventano eccessivamente lunghi, si innescano processi che talvolta inducono alla disoccupazione. Anche per questo motivo, le università spesso adottano strategie volte a migliorare l’occupabilità e l’utilità delle aree di competenza, motivazione e interessi dei giovani laureati e lavoratori. I laureati devono essere in grado di navigare in modo proattivo nel mondo del lavoro e di autogestire il processo di costruzione della carriera per ottenere risultati economici e sociali ottimali (Bridgstock, 2009).

L’occupabilità, in questo quadro, riveste una connotazione molto peculiare per i giovani. Per far ciò hanno chiaramente bisogno di informazioni dettagliate e pertinenti circa la conoscenza dei trend occupazionali di riferimento. Il più delle volte però insorgono problemi relativi ai costi di informazione, opacità di imprese e aziende, che influiscono sulla possibilità di trovare un’occupazione. In linea con quanto sopra asserito, risulta quindi importante la mobilitazione degli individui nella ricerca del lavoro e l’utilizzo delle proprie risorse personali: capacità di prendere decisioni adeguate in un dato contesto (self-efficacy decision making) (Taylor & Betz, 1983); networking (abilità di ricevere informazioni grazie alle reti di relazione familiare e sociale); attitudini personali e capitale sociale attivo.

Nello scenario attuale, diventa determinante il concetto di trasferibilità delle competenze, inteso come la capacità di trasferire le competenze, acquisite e apprese all’interno di un determinato contesto, per renderle efficaci in contesti diversi e in continuo cambiamento (Ingusci, 2015). È opportuno che i giovani sviluppino le capacità di adattamento per fronteggiare le nuove necessità di domanda e offerta affinché riescano a ridefinire e regolare armonicamente le proprie competenze all’interno delle organizzazioni. Infatti, uno degli anelli di congiunzione tra mondo accademico e mondo del lavoro è il possesso della meta-competenza che concerne la capacità di apprendimento e di trasferimento di competenze già conseguite in base a obiettivi e priorità ritenuti specifici in quelle circostanze e che possono essere differenti come la ricerca di una posizione lavorativa, il desiderio di specializzarsi, ecc. Dunque, il possesso di un titolo come il diploma o la laurea, è considerato soltanto come il primo gradino verso la strada che conduce all’occupabilità di una persona.

 

 

Il ruolo dell’employability nella ricerca attiva di lavoro

 

L’occupabilità (employability) diviene un concetto chiave in quanto consente di navigare le acque del turbolento mercato lavorativo, di assicurarsi una continuità al suo interno e la possibilità di sviluppare eventuali percorsi di carriera (Lo Presti & Pluviano, 2017). Van Dam (2004) ha studiato l’orientamento dell’occupabilità, inteso come un insieme di atteggiamenti e attività volte a rafforzare, sviluppare e mantenere l’occupabilità individuale. Quest’ultima è considerata una variabile cruciale nella comprensione del comportamento attivo della ricerca di lavoro in quanto potrebbe consentire alle persone di migliorare ogni esperienza personale e professionale in vista del miglioramento e del conseguimento professionale (Button, Mathieu, & Zajac, 1996). Tuttavia, la costruzione dell’occupabilità diventa più concreta fino a raggiungere lo sforzo continuo e il coinvolgimento in iniziative volte a migliorare l’apprendimento e lo sviluppo. Per attività di occupabilità si definisce quindi una serie di comportamenti proattivi e adattativi che consentono una migliore corrispondenza tra individuo e organizzazione (Crant, 1995; Ingusci, Manuti, & Callea, 2016). Lo Presti e Pluviano hanno definito l’employability come «risorsa personale che gli individui sviluppano nel corso della loro vita lavorativa allo scopo di incrementare il proprio successo di carriera, sia attribuendo importanza (i.e., orientamento all’employability) che impegnandosi in attività (i.e., attività di employability) quali: dare un senso alle esperienze professionali pregresse e pre-figurarsi il proprio futuro professionale, sviluppare importanti competenze e abilità, incrementare i propri network lavorativi sia formali che informali, esplorare il contesto sociale alla ricerca di opportunità e limiti al proprio percorso di carriera» (Lo Presti & Pluviano, 2016, p. 196). L’applicazione del concetto di occupabilitá ai giovani ha sollevato non poche e importanti questioni. Il termine employabilty è usato di frequente, ma non sempre inteso (Philpott, 1998). In effetti, per alcuni, è una nozione sfocata, spesso mal definita e talvolta non definita affatto (Gazier, 1999). Il termine certamente ha significati mutevoli ma, ad oggi, le evidenze dimostrano che non si tratta semplicemente di un concetto significativo, bensì di un tema caldo per l’attuale mondo del lavoro (McQuaid & Lindsay, 2005). Fugate et al. (2004) hanno concettualizzato che l’employability è una forma di adattabilità attiva specifica per il lavoro e che consente ai lavoratori di identificare e realizzare opportunità di carriera, facilitando così il movimento tra lavoro, sia all’interno (occupabilità interna) che tra organizzazioni (occupabilità esterna). Rothwell e Arnold (2007) definiscono l’employability come «la capacità di mantenere il lavoro che si ha o di ottenere il lavoro che si desidera» (Rothwell e Arnold, 2007 p. 25). Interessante è anche la definizione di Yorke e Knight (2006) a lungo anche la più pregnante: «un set di risultati – abilità, competenze e attributi personali – che rendono i laureati più propensi a ottenere un impiego e ad avere successo nelle occupazioni scelte, a vantaggio di se stessi, della forza lavoro, della comunità e dell’economia» (Yorke & Knight, 2006 p. 6). Ciò che soggiace al lavoro del gruppo di ricerca dell’Higher Education Academy è la considerazione di un nesso tra formazione all’employability e buoni risultati in termini di apprendimento, di insegnamento, di valutazione didattica (Yorke & Knight, 2006) non genericamente definiti, ma indirizzati all’obiettivo di una crescita più consapevole di ogni studente e delle proprie capacità (Boffo, & Terzaroli, 2017).

Dallo studio di Yorke e Knight è emerso il modello USEM, che prende in esame quattro componenti: understanding (appropriata conoscenza e apprendimento), skills (abilità specifiche e generiche), efficacy beliefs (consapevolezza delle proprie abilità), metacognition (consapevolezza di sé riguardo all’apprendimento e la capacità di riflettere su e per l’azione) (Yorke & Knight, 2006). Questo modello focalizza l’attenzione sulla responsabilità dello studente o del giovane laureato dell’acquisizione di employability, e in più sulle didattiche work-related (Pegg, Waldock, Hendy-Isaac, & Lawton, 2012).

Un ulteriore quanto recente modello è quello conosciuto come Career EDGE e lo si deve a Dacree Pool e Sewell nel 2007. Nel modello citato, l’innovazione risiede nella consapevolezza circa il ruolo e l’importanza dell’intelligenza emotiva nella fase di transizione e nell’ingresso nel mondo professionale (Dacre Pool & Sewell, 2007). I modelli analizzati in letteratura confermano, in ogni caso, l’importanza dello sviluppo di employability nei luoghi dell’apprendimento e della formazione (Boffo, & Terzaroli, 2017). Appare in modo evidente che l’employability sia legata ai risultati degli apprendimenti universitari come anche ai programmi dei corsi di laurea (Finch, Hamilton, Baldwin, & Zehner, 2013). L’implementazione di pratiche per la costruzione di competenze professionali legate all’employability risulta una tendenza in progressivo aumento (Boffo, & Terzaroli, 2017).

 

 

Strumenti per ridurre il match tra università e mondo del lavoro

 

Le riforme universitarie, negli ultimi anni, hanno subito importanti modifiche e aggiornamenti. I vari atenei italiani si sono allargati, aumentando il numero dei corsi di laurea relativi ai vari settori specialistici, in linea con le esigenze del mercato. Questo però ha comportato per i giovani una vera e propria difficoltà nella scelta del percorso di studi, compatibile alle personali aspirazioni e attitudini.

I servizi di orientamento nelle università, che permettono di sostenere e supportare i percorsi di carriera degli studenti, si sono sviluppati attorno a tre aspetti importanti:

–     orientamento in entrata (passaggio dalla scuola media superiore all’università);

–     orientamento in itinere (tutor che facilitano gli studenti sui percorsi didattici);

–     orientamento in uscita (attività orientate alla ricerca del lavoro).

Tali servizi molto spesso non sono strettamente connessi tra loro e presentano non poche criticità per quanto concerne l’interazione e la comunicazione. Quanto appena asserito, si riscontra nella mancata informazione o disinformazione degli studenti circa i servizi offerti dal proprio ateneo o, in generale, da tutti coloro che vogliono interfacciarsi con il mondo accademico (scuole, aziende, enti di vario tipo, ecc.). Al fine di ridurre il divario tra due realtà apparentemente distinte (mondo accademico e mondo professionale), i governi e gli enti istituzionali hanno avviato varie procedure (D.lgs. 81/2015 e la L. 107/2015 cd. della Buona scuola) per avvicinare i giovani, con opportuni strumenti, alle imprese presenti sul territorio. Si tratta ad esempio di misure e percorsi per lo sviluppo di competenze trasversali e di orientamento quali alternanza scuola-lavoro, apprendistato professionalizzante, apprendistato di alta formazione di ricerca, tirocini formativi curriculari ed extracurriculari (stage). In linea con ciò, molti corsi di laurea hanno attivato tirocini di vario tipo: si tratta di esperienze formative in cui i giovani possono concretizzare ciò che di teorico hanno appreso sui libri durante il percorso universitario. L’apprendistato è un ulteriore strumento comprovato per costruire ponti tra il mondo dell’istruzione, della formazione e del lavoro. In molti paesi, i programmi di apprendistato sono stati implementati nel settore dei servizi e, più recentemente, nei settori dei media e delle tecnologie dell’informazione. L’apprendistato, inoltre, nell’economia informale costituisce una pratica diffusa per trasmettere competenze da una generazione all’altra. Uno degli elementi caratterizzanti dell’apprendistato è l’erogazione da parte del datore di lavoro di un corrispettivo per la prestazione di lavoro; quest’ultimo include non solo la retribuzione, ma anche la formazione necessaria all’acquisizione delle competenze professionali o alla riqualificazione di una professionalità. La formazione professionale è fondamentale per un lavoratore poiché consente di aggiornare e ampliare le proprie competenze. Se per l’apprendista risulta conveniente conoscere una professione, il datore di lavoro ha la possibilità di beneficiare di agevolazioni di tipo normativo, contributivo ed economico (Cortini, Galanti, & Fantinelli, 2017) (legge n. 196 del 24/6/1997 - legge Treu). Inoltre, per mezzo dell’apprendistato professionalizzante, è possibile assumere anche lavoratori in mobilità o percettori di un trattamento di disoccupazione. Dunque, la formazione integrata in un contratto di lavoro può essere utile, non solo per i giovani, ma anche per coloro che intendono acquisire nuove competenze per re-inserirsi nel mondo del lavoro.

 

 

Il ruolo delle istituzioni formative: Job Placement e Career Service

 

La riforma del mercato del lavoro, introdotta con la legge Biagi, dal 2003 ha assegnato alle università l’importante funzione di intermediazione tra mondo del lavoro e giovani adulti, demandata agli uffici Career Service e ai servizi di Job Placement. La più recente riforma del Jobs Act ha rilanciato il ruolo di questi servizi universitari nel quadro della rete dei servizi per il lavoro (ANPAL Servizi, 2017). Prima degli anni Duemila, le università hanno ricoperto un ruolo analogo a quello del collocamento. Difatti era pratica diffusa e comune segnalare gli studenti o i laureati più meritevoli. Il legislatore ha pertanto ritenuto opportuno legittimare tale contesto con la duplice conseguenza di regolare, per l’appunto, il fenomeno e contribuire a una maggiore trasparenza del mercato del lavoro (Bellezza, Caragnano, Massagli, Spattini, & Tiraboschi, 2011). La Terza Missione è stata definita dall’ANVUR come «la propensione delle strutture accademiche all’apertura verso il contesto socio-economico, esercitata mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze» (ANPAL, 2017). Tratto distintivo è proprio la diretta interazione con la società a differenza delle attività di insegnamento (Prima Missione) e di ricerca (Seconda Missione) (ANVUR, Documento preparatorio del Workshop sulla Terza Missione, 2013). Nell’ambito della Terza Missione sono compresi: la conoscenza verso la società e il territorio, la gestione della proprietà intellettuale, l’imprenditorialità accademica e la presenza di strutture di intermediazione come gli incubatori e gli uffici Job Placement (ANVUR, 2015).

Il ruolo principale dei servizi di Job Placement e dei Career Service universitari è quello di colmare il gap tra sistema di istruzione e formazione e mondo del lavoro, valorizzando le risorse umane e fornendo un contributo agli studenti in relazione alle capacità di gestione della carriera e al miglioramento dell’occupabilità (Montefalcone, 2016). La funzione di intermediazione, svolta grazie ai servizi di Job Placement, permette di agevolare i giovani adulti nella transizione verso il mercato del lavoro e costituisce un importante strumento per la costruzione di employability. I servizi del Job Placement e dei Career service universitari, riportano un lungo elenco di attività tra cui recruitment, formazione al lavoro, consulenza psicologica per il sostegno della progettualità e pianificazione della carriera e sviluppo di intraprendenza (Boffo & Terzaroli, 2017; Candia & Cumbo, 2015; Montefalcone, 2016). Secondo Montefalcone (2016), il modello tradizionale inteso semplicemente come centro di orientamento o placement è ormai superato, mentre si sta via via affermando un nuovo modello di servizio che coinvolge non solo il personale dei Career Service ma tutti coloro che gravitano nell’ecosistema universitario, vale a dire tutta la rete di studenti, ex studenti, docenti, operatori di scuole, dipartimenti e altri uffici accademici, datori di lavoro, famiglie degli studenti e comunità circostanti (Montefalcone, 2016). All’interno del Career Service, nelle relazioni tra percorsi di studio e imprese, si concentrano le direttive del futuro della didattica. Nel contesto anglosassone il Career Service e i servizi di Job Placement si configurano come centro di creazione di legami tra mondo del lavoro e soggetti che a vario titolo gravitano intorno all’università (Boffo & Terzaroli, 2017).

In Italia, si può̀ osservare come i servizi di Job Placement abbiano iniziato a costituirsi solo a partire dal 2005, come reazione strategica delle università nel solco della Legge Biagi del 2003 (Candia & Cumbo, 2015). Inoltre, si segnala la presenza di una grande fetta di atenei (circa il 50% di quelli indagati) che ha strutturato un proprio ufficio tra il 2006 e il 2009, e per di più, si nota come molti altri abbiano messo in atto tali direttive soltanto dal 2010 in poi, manifestando conseguentemente alcuni comprensibili ritardi nella struttura organizzativa (Boffo & Terzaroli, 2017). Il modello più utilizzato di Career Service è ancora quello del Placement inteso come persecutore del match tra domanda e offerta di lavoro, ma il più apprezzato è comunque quello del networking, attraverso la progettazione di attività e iniziative che implementino la rete relazionale attorno alle università, con il proposito di migliorare la comunicazione tra servizi di Placement e tessuto produttivo, e in generale con i diversi soggetti che possono offrire opportunità formative e lavorative degli studenti. Sono proprio le iniziative, come La Settimana del Lavoro, ormai realtà consolidate in molte delle università italiane, a permettere l’incontro e il confronto fra studenti e laureati e possibili datori di lavoro. Queste attività hanno la duplice funzione di permettere ai ragazzi di cimentarsi in possibili colloqui di lavoro, creando le opportunità di crescita e sviluppo professionale e alle aziende di entrare in contatto con giovani talenti universitari. Altro elemento che non deve essere trascurato è che grazie a queste iniziative l’università può acquisire preziosissime informazioni circa il tessuto imprenditoriale e produttivo del territorio.

A questo proposito, quindi, il termine «Placement» è riduttivo; è preferibile utilizzare la denominazione di Career Service in quanto pone in evidenza un percorso di accompagnamento e sostegno che si sviluppa lungo l’intero percorso universitario (Candia & Cumbo, 2015). Un documento elaborato da ANPAL Servizi concernente le linee guida di sviluppo e implementazione dei Career Service, ha identificato una road map comprendente dieci fattori di successo dei Career Service Universitari. Tra questi fattori di successo si possono annoverare:

  1. il coinvolgimento e l’impegno della governance, comprendenti il rettore e i suoi delegati, arrivando alla definizione e all’attuazione di piani strategici di ateneo con il coinvolgimento degli stakeholder interni ed esterni all’università (imprese, parti sociali, studenti, docenti, ecc);

  2. la necessità di «fare rete» attivando partnership strategiche con le imprese, i datori di lavoro e i vari attori coinvolti per soddisfare la conoscenza del mercato del lavoro e i fabbisogni professionali del territorio, assicurare l’aggiornamento dei piani di studio e dei programmi formativi, sostenere l’occupabilità, fornendo opportunità ai giovani adulti;

  3. la conoscenza della domanda del mercato del lavoro che appunto consente la programmazione di servizi alle aziende e agli studenti;

  4. il marketing, che prevede una puntuale comunicazione e personalizzazione dei servizi rispondendo ai diversi fabbisogni;

  5. la personalizzazione, ovvero la creazione di percorsi di sviluppo creati ad hoc per i diversi studenti e laureati, coerenti rispetto al background di provenienza e alle skills possedute;

  6. la garanzia di servizi attrattivi e funzionali rispetto alle aspettative ed esigenze dei potenziali datori di lavoro target e alle tipologie di imprese maggiormente diffuse nel contesto di riferimento;

  7. la promozione di un sistema duale, che valorizzi l’integrazione tra formazione e lavoro per favorire una rapida transizione dei ragazzi nel mondo del lavoro;

  8. politiche di fundraising per assicurare risorse economiche necessarie alla sostenibilità dei Career Service e consentire l’offerta di servizi di qualità;

  9. formazione e rafforzamento degli operatori dei servizi di orientamento universitari;

  10. monitoraggio e valutazione delle attività svolte come efficace processo di apprendimento dalle esperienze maturate e miglioramento continuo rispetto alle azioni realizzate (ANPAL, 2017).

Tali fattori di successo sono stati identificati grazie allo sforzo collettivo e alla condivisione di spunti d’azione da parte dei servizi di Career Service, nazionali e internazionali, per lo sviluppo di una missione, che oggi più che mai, diviene così pregnante per le università e per il mondo delle imprese. Rendere più agevole e meno traumatico il passaggio tra formazione e mercato del lavoro, per i giovani laureati e studenti universitari, può e deve essere sintomo di una società che mira bramosa a una sostenibilità sociale, intesa come diritto di vivere in un contesto che esprima le potenzialità di ogni individuo e il perseguimento di un benessere psico-sociale che passa anche attraverso la propria realizzazione professionale e lavorativa.

 

 

L’esperienza presso l’Università del Salento: i Career Lab e La Settimana del lavoro

 

Al fine di comprendere quali siano i percorsi di ricerca efficaci nel trovare un lavoro, l’Università del Salento si è dotata, da vari anni, di strumenti e risorse per fornire agli studenti le competenze nella ricerca attiva del lavoro, in modo da creare un ambiente universitario più vicino ai loro bisogni. In particolare, è stato avviato un programma di orientamento e accompagnamento al lavoro in favore di studenti, laureandi e laureati, attraverso la creazione di opportunità di incontro con imprese ed enti potenziali datori di lavoro. Nell’arco del biennio 2017-2018 sono state organizzate sette edizioni dell’evento La Settimana del lavoro, nel 2019 è stata attuata l’ottava edizione e contestualmente sono stati organizzati numerosi Career Day. Questi ultimi (Career Day o Recruiting Day) sono momenti molto importanti sia per conoscere i contesti di lavoro, sia per trovare opportunità di carriera.

Tali eventi, dal punto di vista degli studenti/laureati partecipanti, favoriscono l’apprendimento di nuove conoscenze sul mercato del lavoro, forniscono consulenze su come scrivere il curriculum vitae e su come gestire eventuali colloqui di lavoro, e ancora, incrementano l’opportunità di avvalersi di strumenti quali tirocini extracurriculari o contratti di apprendistato di alta formazione e ricerca. Per le aziende partecipanti, invece, costituiscono la possibilità di selezionare personale altamente qualificato da inserire nel proprio organico mediante strumenti giuridici che prevedono notevoli vantaggi contributivi e fiscali per i datori di lavoro. Infine, consentono all’università di perseguire la concreta occupazione dei propri laureati, proponendosi come soggetto legittimato e riconosciuto nelle relazioni con gli operatori economici del territorio.

Dopo aver descritto in maniera generale le iniziative che possono essere messe in atto per agevolare la ricerca del lavoro e il match tra competenze ed esperienze professionali disponibili, di seguito vengono riportate analisi descrittive sull’esperienza maturata presso l’Università del Salento riguardante i Career Lab e La Settimana del lavoro.

 

 

Career Lab

 

I laboratori sono stati svolti nell’anno accademico 2018-2019. Di seguito vengono riportate le principali statistiche descrittive con i relativi grafici. Il numero di soggetti che hanno compilato i questionari, afferenti ad aree tematiche eterogenee, è stato di n = 225.

 

Tabella 1 - Età e numero di figli del campione

 

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I partecipanti ai Career Lab hanno una media di età pari a 23, con un minimo di 18 e un massimo di 42. In media, i rispondenti al questionario non possiedono figli, con un range che varia da 0 a 2 (Tabella 1).

 

Tabella 2 - Genere, Stato civile, Educazione e Area di provenienza del campione

 

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La Tabella 2 e i successivi grafici in Figura 1 evidenziano come il genere prevalente nei rispondenti al questionario sia quello femminile, con una percentuale pari al 60.3%. In termini di stato civile, unendo le categorie celibe e nubile, coloro che non sono sposati raggiungono il 90.2% del campione intervistato tramite questionario. La maggioranza dei soggetti possiede un diploma di scuola superiore (62.3%), e afferisce ad aree prevalentemente umanistiche (Beni culturali e Studi umanistici al 20.4% ciascuno).

 

Figura 1 - Grafici a torta su genere, stato civile, educazione e area di provenienza dei partecipanti al Career Lab.

 

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La Settimana del lavoro

 

Il campione analizzato relativo ai partecipanti della Settimana del lavoro promossa dall’Università del Salento nel mese di aprile 2019 è di n = 139. Come si evince dalla Tabella 3, l’82% dei soggetti risulta essere laureato. Per quanto riguarda la provenienza dei partecipanti, le percentuali maggiori riguardano i corsi di Laurea in Ingegneria (25%) e in Economia (27%). Il 53.4% del campione non è iscritto all’Università del Salento, mentre circa il 65% non ha partecipato alle edizioni precedenti. Il 78.3% non ha ricevuto contatti dalle aziende. Per quanto riguarda la valutazione dell’evento, il 97.7% ritiene l’iniziativa tra utile (51.5%) e molto utile (46.2%). Il 98.4%, infine, parteciperebbe o vorrebbe essere informato su ulteriori proposte di questa tipologia.

 

Tabella 3 - Frequenze percentuali dei partecipanti alla Settimana del lavoro

 

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Dei partecipanti all’evento, conosciuto prevalentemente tramite sito di ateneo (48%), news (22%) e locandine e brochure (17%), il 46% circa presenta un’esperienza di tirocinio curricolare/extracurricolare, seguita con percentuali minori da un contratto a tempo determinato (21%) e nessuna esperienza (16%).

 

Tabella 4 - Item di risposta per i partecipanti alla Settimana del lavoro

 

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La Tabella 4 analizza i profili di risposta a item relativi a diversi costrutti, come la formazione continua, il job crafting, le attività di employability e l’esperienza. Come è possibile evincere dalle risposte fornite e dai range delle scale, la quasi totalità di esse si avvicina al polo estremo positivo, mostrando quindi una proattività e una volontà propositiva nell’orientamento a migliorare la formazione, ricerca di informazioni su nuove opportunità lavorative, sviluppo di nuove conoscenze e competenze e gestione del proprio lavoro.

 

Tabella 5 - Correlazioni

 

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La Tabella 5 consente di evidenziare come tra i partecipanti alla Settimana del lavoro esista una positiva e forte associazione in termini di formazioni acquisite, volontà di migliorare la propria formazione (formazione continua) in maniera continua (formazione continua), ricerca di nuove sfide (dimensione del seeking challenges del costrutto del job crafting) e attività di employability, ovvero di spendibilità attiva del proprio profilo. Ancora una volta, tale dato sottolinea la forte tendenza alla proattività dei soggetti partecipanti. Tutte le correlazioni sono statisticamente significative.

 

 

Riflessioni Conclusive

 

In conclusione, come è emerso dagli studi presenti in letteratura, rispetto a coloro che devono reinserirsi nel mercato del lavoro (disoccupati o fasce deboli), il problema che caratterizza il target dei neo-laureati è proprio l’inadeguata corrispondenza tra la nuova offerta e la domanda di lavoro. Alla luce di ciò si spiegano le strategie avviate dalle università, orientate al miglioramento dell’occupabilità e della spendibilità di aree di competenza, motivazioni e interessi dei giovani laureati e lavoratori. Come si è visto, sono soprattutto i giovani, in questo quadro, ad essere continuamente sfidati dall’imprevedibilità del mercato del lavoro (Lo Presti & Pluviano, 2016), gli stessi, per fronteggiare l’attuale crisi occupazionale, devono adoperarsi per sostenere il processo di cambiamento e innovazione.

Le università, quasi sempre, offrono aiuto agli studenti e ai neo-laureati nella ricerca di lavoro e nella pianificazione della carriera. Le tipologie di servizio offerte, mirano a sviluppare un approccio proattivo alla ricerca di lavoro basato sul livello di istruzione, abilità e risorse personali. Il difficile passaggio dalla scuola e dall’università al lavoro è stato a lungo un problema, che indubbiamente la crisi economica ha contribuito ad aggravare (Boffo, Gioli, & Terzaroli, 2017). L’ ingresso problematico dei giovani nel mercato del lavoro ha evidenziato la necessità di attuare politiche e pratiche volte a sostenere questa transizione.

Le università hanno allargato il loro focus di interesse, non concentrandosi solo ed esclusivamente sulle conoscenze teoriche, ma anche su aspetti pratici e concreti che permettono allo studente di entrare in contatto con il mercato lavorativo e di ottenere un determinato impiego professionale. Occorre valorizzare e potenziare le buone prassi al fine di incrementare i processi comunicativi e favorire momenti di scambio tra i vari sistemi coinvolti, rimanendo al passo con gli sviluppi tecnologici nell’era dell’industria 4.0. I social media possono arricchire il processo di formazione e facilitare la gestione di stage e Placement della gioventù in lavori formali. Coerentemente con quanto riportato sopra, all’interno delle università, inoltre, negli ultimi anni si stanno formando gruppi di ricerca psicologici, in particolare operanti nell’ambito della psicologia sociale e delle organizzazioni, già presenti in diversi atenei nazionali, (AIP, 2016 ) il cui obiettivo è quello di definire un modello teorico di occupabilità nonché valutare la relazione tra la soddisfazione accademica e tutta una serie di variabili individuali e situazionali volte a valutare l’occupabilità e su come questa si rifletta sul successo professionale e sul benessere psico-sociale. Il presente articolo ha avuto come principale obiettivo quello di analizzare i principali modelli di employability e di indagare i sistemi di avvicinamento tra mondo formativo e mondo professionale. Prendere consapevolezza che i Servizi di Job Placement sono parte integrante dei percorsi curriculari (Boffo, Fedeli, Melacarne, Lo Presti, & Vianello, 2017) e che i Career Service sono strumenti fondamentali su cui investire, consente di costruire dei ponti e ridurre le distanze tra giovani e organizzazioni.

L’employability è un percorso in divenire e si costruisce nei percorsi di studio, nei corsi disciplinari, nel tirocinio, non solo agli esordi della carriera formativa di ogni laureato (Boffo, Gioli, & Terzaroli, 2017).

In estrema sintesi, il presente lavoro si configura non solo come spunto di riflessione per avviare nuove prassi e potenziare i sistemi di istruzione e formazione, ma anche per promuovere l’interazione tra i vari sistemi e le varie istituzioni.

Siamo consapevoli che un lavoro di questo tipo richiede un’attenta analisi dei bisogni formativi delle aziende e degli individui e uno sforzo congiunto di collaborazione tra le varie parti coinvolte al fine di fronteggiare l’incerto mercato del lavoro e, in una prospettiva più generale, sostenere lo sviluppo socio-economico e l’incremento di opportunità professionali.

Migliorare le risorse, i punti di forza e i talenti dei lavoratori e dei gruppi è il modo migliore per raggiungere il benessere e la strutturazione di ambienti di lavoro sani. Ciò richiede il riconoscimento dell’importanza delle relazioni e del significato (Blustein, 2006; Di Fabio & Blustein, 2016) nella costruzione di narrative organizzative positive e, quindi, nella promozione di organizzazioni sane.

Inoltre, siamo convinti che le università promotrici della salute, trasformino la salute e la sostenibilità delle nostre società attuali e future, rafforzando le comunità e contribuendo al benessere delle persone. Le Healthy Universities, migliorano il successo delle istituzioni, promuovono l’equità e la giustizia sociale; migliorano la salute delle persone che vivono, imparano, lavorano nei campus e rafforzano la sostenibilità ecologica, sociale ed economica delle nostre comunità e della società in generale (https://healthyuniversities.ac.uk/).

Nel contesto delineato, appare evidente, l’importanza di riconoscere, rispettare e utilizzare il significato del lavoro nonché promuovere la sostenibilità (Di Fabio & Blustein, 2016) dei progetti di vita lavorativa come chiave per il successo.

 

 

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