Negli ultimi decenni il mercato del lavoro ha subìto sconvolgimenti tali da scardinare l’idea tradizionale di prestazione lavorativa. La velocità e la complessità dei profondi cambiamenti verificatisi in tempi recenti nel mondo del lavoro, tra cui il netto spostamento dal lavoro fisico al lavoro mentale, l’intensificazione del lavoro, il ricorso frequente a forme contrattuali temporanee, i cambiamenti organizzativi, ecc., hanno coinvolto tutte le sfere lavorative, dalle quali non è esente il mondo accademico.

Parallelamente è cresciuta l’attenzione per il malessere e lo stress nel mondo del lavoro in larga parte incrementata dall’emanazione del d.lgs. n. 81/08 (Testo unico sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro) che richiede ai datori di lavoro pubblici e privati una valutazione e gestione dei rischi psicosociali, compreso il rischio stress lavoro-correlato. La valutazione, nella fattispecie, costituisce un passaggio fondamentale per la riduzione del rischio e la promozione del benessere nell’organizzazione.

Nella letteratura dedicata, lo stress lavoro correlato è definito come “[…] una reazione psicofisica che occorre quando le richieste del lavoro superano le capacità o le risorse dell’individuo di farvi fronte si scontrano eccessivamente con i suoi bisogni […]” (Balducci, 2015 p. 15).

Numerosi studi condotti in diversi Paesi hanno mostrato che attualmente lo stress, in particolare nelle università, è un problema di proporzioni allarmanti (Conti, Angelis, Cooper, Faragher, & Gill, 2006). Le università, infatti, non sono più ambienti a basso impatto stressogeno come lo erano un tempo, ma hanno vissuto e continuano a sperimentare cambiamenti di sistema che rischiano di destabilizzare l’equilibrio lavorativo del personale docente e amministrativo.

L’introduzione dei contratti a termine, le difficoltà nel reperire fondi, la competizione con i colleghi, la precarietà della propria posizione lavorativa hanno portato lo staff accademico a essere molto più esposto a rischi quali stress lavoro-correlato (SLC) e burnout.

Diversi studi hanno dimostrato che i lavoratori e le lavoratrici nelle Università sono soggetti a consistenti pressioni organizzative e mancanza di supporto sociale e al disagio psicosociale che ne deriva. I lavoratori, infatti, negli ultimi cinque anni hanno percepito un aumento drammatico del loro livello di stress (Biron, Brun, Ivers, & Cooper, 2006).

In conclusione, tutti gli studi esaminati sono concordi nell’affermare che negli ultimi anni il livello di stress professionale è aumentato nel personale universitario (Kinman, 2001).

 

 

Framework teorico

 

Secondo una recente indagine europea sulle condizioni di vita e di lavoro (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, 2012), oltre un quarto dei lavoratori italiani riporta un basso livello di benessere mentale e alti livelli di stress lavorativo (Fraccaroli & Balducci, 2011); ciò rende evidente l’importanza di controllare lo stress psicologico generato dalle condizioni di lavoro.

Lo stress è un processo caratterizzato da tre momenti: lo stimolo, il processo di percezione e valutazione dello stimolo e, infine, la reazione dell’organismo a quella valutazione.

I tre principali approcci di studio dello stress sono:

  1. l’approccio fisiologico (Selye, 1974), che studia i presupposti fisiologici, descrive e misura le reazioni bioumorali rispetto ai fattori stressogeni secondo la sindrome generale di adattamento (teoria di Selye, 1974);

  2. l’approccio tecnico (Cox, 1987), focalizzato sullo studio delle caratteristiche degli stimoli;

  3. l’approccio psicologico (Cooper & Marshall, 1976), che vede lo stress come il prodotto dell’interazione problematica tra individuo e ambiente. Questo approccio comprende teorie incentrate sull’individuo (teorie interazionali) o sull’organizzazione (teorie sul benessere organizzativo).

Tra le teorie interazionali, gioca un ruolo di primaria importanza il demand control model, secondo cui lo stress lavorativo è un prodotto del rapporto tra richieste lavorative e capacità di controllo sul compito (Karasek, 1998).

Una richiesta lavorativa (job demand) elevata sottopone il soggetto a un’elevata pressione, che viene accentuata ulteriormente se è accompagnata da una bassa capacità di controllo sul compito. Al contrario, se il controllo sul compito e la richiesta lavorativa sono elevati, la situazione risulta mediamente stressante, ma più facilmente gestibile; la possibilità di controllo, infatti, attenua il rischio di esiti negativi dovuti a un carico di lavoro costantemente elevato. Secondo il modello, lo scenario migliore affinché non vi sia il rischio di stress lavoro correlato è quello in cui il carico di lavoro è basso e, al contrario, il controllo sul compito elevato (low-strain jobs), mentre un livello elevato di domande con un elevato controllo può rappresentare una condizione sfidante.

Infine, quando il carico di lavoro e il controllo sul compito risultano bassi, il lavoratore sperimenta un lavoro passivo (passive job). In questo caso si presenta uno scenario lavorativo mediamente stressante ma alquanto demotivante poiché viene meno la stimolazione determinata da un moderato livello di carico di lavoro.

Successivamente il modello sopracitato è stato ampliato considerando anche la variabile supporto sociale: bassi livelli di supporto da parte dei colleghi e dei superiori sono fonti di stress per l’individuo.

La presenza di un ambiente supportivo ha effetti positivi per la salute psicologica dei lavoratori sia direttamente che attraverso una riduzione delle esperienze negative originate in particolare dai lavori del tipo high-strain.

I precedenti modelli sono stati integrati considerando con maggiore attenzione i meccanismi psicologici che rafforzano l’interazione tra l’individuo e il proprio ambiente di lavoro nell’ambito delle teorie transazionali. Queste ultime si concentrano sugli aspetti psicosociali e in particolare su quelli legati alla relazione persona-ambiente.

Un importante esempio di questo filone teorico e di ricerca è il modello Effort-Reward Imbalance di Siegrist (1996). Secondo l’autore, lo stress deriverebbe dall’elevato sforzo richiesto dal lavoro, in particolare quando questo non è riequilibrato da un’adeguata ricompensa. Quest’ultima non riguarda solo la retribuzione, che dovrebbe comunque essere idonea al lavoro svolto, ma anche altri elementi, quali la stabilità e la sicurezza del lavoro, che permettono di pianificare la propria vita professionale e personale, le possibilità di avanzamento di carriera, le chances di migliorare le proprie conoscenze professionali, nonché la stima ricevuta da colleghi e superiori.

Quando lo sforzo è alto e la remunerazione discutibile, l’insicurezza elevata, le possibilità di carriera scarse e la stima ricevuta da colleghi e superiori bassa, il rischio di stress risulta elevato.

A partire da questi due modelli (il demand-control model di Karasek e l’Effort-Reward Imbalance di Siegrist), è stato sviluppato il Job-Demand Resource Model.

Il modello richieste-risorse lavorative (Job Demands Resources Model, o semplicemente JD-R Model) è stato elaborato da Demerouti, Bakker, Nachreiner e Schaufeli nel 2001, sulla linea delle precedenti teorie sullo stress lavorativo, con lo scopo di cercare di comprendere gli antecedenti del disagio psicologico ‒ operazionalizzato come burnout o come strain ‒, e al tempo stesso prevedere il livello di benessere dei lavoratori (in termini di salute e investimento di energie fisiche e mentali) e la loro futura performance lavorativa. Gli autori affermano che tutto ciò derivi dall’equilibrio tra caratteristiche positive (risorse) e caratteristiche negative (richieste) che qualificano il particolare lavoro svolto dagli individui. Inoltre, definiscono le richieste lavorative come quegli aspetti fisici, sociali o organizzativi del lavoro che richiedono uno sforzo fisico o mentale, e che sono quindi associati ad alcuni costi fisiologici e psicologici (Demerouti et al., 2001), come i conflitti o il sovraccarico di lavoro.

Secondo tale modello il benessere deriverebbe dall’equilibrio tra risorse e richieste lavorative, che originano due processi indipendenti. Il primo è il processo di indebolimento della salute (health impairment): eccessive richieste lavorative, che non permettono al lavoratore di recuperare le proprie energie, a lungo termine portano a un’attivazione costante e all’eccessivo consumo di risorse energetiche, finendo per condurre all’esaurimento emotivo (componente energetica del burnout), sintomi psicosomatici e danni alla salute. Il secondo processo è quello motivazionale: le risorse lavorative soddisfano i bisogni psicologici dell’individuo, come quelli di autonomia o di competenza, e dunque sostengono l’impegno e la soddisfazione per il proprio lavoro. In sintesi, in mancanza di risorse l’individuo non riesce a fare fronte alle richieste e a raggiungere i suoi obiettivi, perché le risorse lavorative svolgono un ruolo di protezione del lavoratore, attenuando l’effetto negativo delle richieste lavorative.

Più nel dettaglio, il modello JD-R distingue due diverse classi di richieste lavorative: le challenge demands (per esempio la responsabilità o la pressione del tempo), che portano alla crescita e aumentano l’energia, l’impegno e il vigore, pur richiedendo uno sforzo da parte del lavoratore, e le hindrance demands, che richiedono sforzo, ma ostacolano la crescita e l’apprendimento, causando danni alla salute e alla motivazione del lavoratore (per esempio i conflitti interpersonali o le ambiguità di ruolo). Entrambi i tipi di richieste correlano positivamente con la presenza di burnout tra i lavoratori. Tuttavia, solo le challenge demands portano allo sviluppo di impegno e coinvolgimento (engagement), mentre le hindrance demands esercitano un’influenza opposta.

Le ricerche, svolte a partire dal 2004, hanno permesso di inserire il work engagement come fattore che influenza la relazione tra risorse e prestazione lavorativa. Il work engagement è una variabile organizzativa, definita come uno stato mentale collegato al lavoro, caratterizzato da vigore (alti livelli di energia e resilienza), dedizione (percezione di significatività, entusiasmo, stimolazione) e assorbimento (focalizzazione e coinvolgimento positivi) (Schaufeli & Taris, 2014). Alcuni correlati del work engagement sono, ad esempio, la salute fisica, il comportamento proattivo dei lavoratori, ovvero un maggiore commitment, e la facilitazione nel rapporto lavoro-famiglia, con conseguente maggior benessere anche del partner. Tali correlati facilitano il miglioramento della performance, riducono l’assenteismo, contribuiscono ad un maggior coinvolgimento dei colleghi, nonché a una maggiore soddisfazione dei clienti (o utenti) (Cortese et al., 2016).

Un’altra estensione del modello JD-R è l’introduzione delle risorse personali (o risorse individuali), definite come “autovalutazioni positive che influenzano positivamente la percezione delle proprie abilità e capacità di controllare e agire con successo sul proprio ambiente” (Bakker & Demerouti, 2014, p. 12; Hobfoll, Johnson, Ennis, & Jackson, 2003): ad esempio l’autoefficacia, l’ottimismo e la resilienza. Queste autovalutazioni hanno un impatto positivo sulla motivazione e sulla soddisfazione degli individui e producono prestazioni elevate.

Il modello richieste-risorse lavorative (Job Demands-Resources Model) sta ottenendo un crescente interesse sia nel mondo accademico che nei progetti di intervento (Cortese et al., 2016). La ragione di tale successo va attribuita alla possibilità che il modello offre di compiere un’approfondita analisi delle dinamiche di benessere e di motivazione lavorativa, che da un lato risulta orientata dai medesimi costrutti (richieste, risorse, work engagement, prestazione, job crafting, esaurimento, burnout e indicatori di malessere), ma dall’altro può essere declinata “su misura” rispetto agli specifici contesti (le richieste, le risorse e gli indicatori di prestazione/di malessere vengono infatti definiti in funzione delle caratteristiche del lavoro, dei lavoratori e dell’organizzazione).

 

 

Antecedenti dello SLC

 

Gli antecedenti dello stress lavoro correlato corrispondono ai fattori di rischio psicosociale (Dollard, Skinner, Tuckey, & Bailey, 2007; Taris & Kampier, 2005), che rappresentano alcuni degli elementi centrali per la prevenzione della salute e per la sicurezza lavorativa (Guglielmi, Paplomatas, Simbula, & Depolo, 2011).

Alcuni autori (Dollard, LaMontagne, Caulfield, Blewett, & Shaw, 2007) hanno identificato i fattori di rischio psicosociale e i loro effetti attraverso una ricognizione dei sistemi di sorveglianza nazionali (Austria, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Olanda, Paesi baltici, Spagna, Svizzera, Regno Unito e USA) partendo dal modello di Cox, Griffiths, Barlowe, Randall, Thomson & Rial-Gonzalez (2000), che utilizza ampie categorie inerenti le caratteristiche la natura del lavoro, nonché del contesto organizzativo e sociale.

Le prime riguardano:

  • i contenuti del lavoro e le richieste, vale a dire richieste emozionali, richieste cognitive, mancanza di varietà, cicli di lavoro brevi, lavoro frammentato e interruzioni, lavoro insignificante, integrazione tra lavoro e competenza, elevata incertezza e cambiamento frequente, continua esposizione alle persone, richieste conflittuali, assenza di feedback;

  • il carico e il ritmo di lavoro, nonché l’orario di lavoro, ad esempio lavoro a turni, orario inflessibile, orari imprevedibili, reperibilità, ore di lavoro, conflitto lavoro-famiglia;

  • il (mancato) controllo sul lavoro come scarsa autonomia e la partecipazione nella presa di decisioni, carenza di controllo sui carichi di lavoro.

Le seconde fanno riferimento al contesto organizzativo e sociale del lavoro, come la cultura e la funzione organizzativa, le relazioni interpersonali, il ruolo nell’organizzazione, lo sviluppo di carriera, il mobbing/violenza, la giustizia organizzativa. Infatti, aspetti quali una comunicazione povera, staff insufficiente, discriminazioni, cambiamento organizzativo, leadership e supervisione inadeguate, conflitti interpersonali, comportamenti incivili e molestie personali, scarsa percezione di supporto sociale, ambiguità di ruolo, conflitto di ruolo, insicurezza sul lavoro, mancanza di opportunità di promozioni, scarse possibilità di sviluppo personale e apprendimento, o ancora, violenza e mancanza di giustizia organizzativa (tra cui stipendi non equi, promozioni discrezionali, inaffidabilità del management) rappresentano i principali fattori di rischio per la salute e il benessere all’interno di un’organizzazione (Cox et al., 2000), alterando significativamente, in senso peggiorativo, la condizione psicofisica dei lavoratori (Deitinger, Nardella, Bentivenga, Ghelli, Persechino, & Iavicoli, 2009).

Le potenziali cause di stress hanno una duplice valenza in quanto da un lato determinano la percezione della persona circa le condizioni di lavoro, dall’altro sono aspetti fondamentali della valutazione dei rischi psicosociali (Nardella, Deitinger, & Aiello, 2007).

Gli antecedenti dello stress sono influenzati sia da fattori esterni che da fattori interni all’organizzazione.

L’insicurezza ambientale, le richieste dei clienti/utenti, la tecnologia disponibile, le norme sociali, la cultura del lavoro, le circostanze economiche, la natura del mercato del lavoro, la politica e l’operato degli istituti di lavoro sono aspetti esterni all’organizzazione che di fatto influiscono sullo stress dei lavoratori.

Di contro, lo stile di gestione, la tecnologia, la natura dei compiti, il disegno dell’organizzazione, i sistemi di ricompensa, i sistemi informativi, le pratiche delle risorse umane, la strategia, la storia e la cultura sono aspetti intrinseci all’organizzazione (Parker, Wall, & Cordery, 2001).

Anche l’analisi degli antecedenti contestuali consente di prevedere i cambiamenti più ampi che si verificano nelle organizzazioni moderne e che potrebbero avere delle ripercussioni sul lavoro (Parker et al., 2001).

Alcuni ricercatori, inoltre, hanno sottolineato il ruolo delle risorse personali come antecedenti dello stress lavoro correlato, e così ad esempio le autovalutazioni positive di base, come le risorse personali, sono ritenute le principali determinanti dell'adattamento dei lavoratori (Judge & Cable, 1997). I risultati delle ricerche empiriche supportano l’effetto della reciproca influenza tra le risorse personali e le caratteristiche del lavoro (Kohn & Schooler, 1982). È stato rivelato che i lavoratori fiduciosi nelle loro capacità e ottimisti riguardo al loro futuro possono identificare, o persino creare, le condizioni ambientali tali da facilitare il raggiungimento degli obiettivi lavorativi (Xanthopoulou, Bakker, Demerouti, & Schaufeli, 2007) e, di conseguenza, il benessere personale e organizzativo.

Altri risultati di ricerca (Bakker & Demerouti, 2007) mostrano che i lavoratori maggiormente dotati di risorse personali, pur percependo il carico di lavoro come i colleghi meno equipaggiati, presentano sistematicamente livelli di esaurimento inferiori, e ciò denota una più spiccata capacità di resistere alle condizioni avverse (Hobfoll, 1989).

Ulteriormente, Peeters e Rutte (2005) hanno rilevato che tra gli insegnanti che operano in un ambiente con elevate esigenze lavorative e bassa autonomia, coloro che sono in grado di gestire in modo appropriato il proprio tempo presentano livelli inferiori di esaurimento rispetto ai colleghi con basse capacità di gestione temporale.

L'evidenza empirica della mediazione delle risorse personali nella relazione tra risorse lavorative e impegno lavorativo contribuisce in modo significativo a spiegare i meccanismi psicologici sottostanti il processo motivazionale del modello JD-R. Tradizionalmente, le risorse lavorative sono considerate strumentali per i dipendenti al fine di svolgere i compiti lavorativi, il che consente ai dipendenti di mantenere costanti l’interesse e l’impegno nei confronti del proprio lavoro (Hakanen, Bakker, & Schaufeli, 2006; Schaufeli & Bakker, 2004). Inoltre, è emerso che fattori individuali come le credenze di autoefficacia dei lavoratori, una personalità proattiva e la fiducia interpersonale influiscono positivamente limitando il rischio di sviluppare condizioni di malessere (Parker, Wall, & Cordery, 2001). L'autostima e l'ottimismo permettono ai lavoratori di sentirsi più capaci e di controllare il loro ambiente di lavoro (Luthans, Avey, Avolio, Norman, & Combs, 2006). Si presume che tale percezione influenzi anche la concezione di fiducia e orgoglio nei confronti del proprio lavoro (Oldham & Hackman, 1981).

Studi relativi al modello JD-R riguardavano il ruolo delle risorse lavorative nella prevenzione dell'esaurimento, enfatizzando principalmente il loro potenziale moderatore nel processo di deterioramento della salute del modello (Bakker, Demerouti, & Euwema, 2005). Più di recente, i risultati degli studi condotti da Xanthopoulou, Bakker, Demerouti e Schaufeli (2007) suggeriscono che le risorse lavorative possono svolgere un ruolo più attivo nella prevenzione dell'esaurimento poiché, attraverso l'attivazione della resilienza dei lavoratori, possono portare a valutazioni meno negative delle situazioni di stress (Makikangas, Kinnunen, & Feldt, 2004). In altri termini, i professionisti che operano in un ambiente richiedente, ma ricco di risorse, si percepiscono capaci di svolgere i loro compiti senza investire sforzi eccessivi.

 

 

Esiti dello SLC

 

Le reazioni negative allo stress sono molteplici e di varia natura. Tipicamente si distinguono tre classi di reazioni: psicologiche, fisiche e comportamentali (Quick, 1997; Quick, Wright, Adkins, Nelson, & Quick, 2013; Quillian-Wolever, & Wolever, 2003).

Le reazioni psicologiche, a loro volta, possono essere distinte in reazioni di tipo emotivo, come ansia (tensione), depressione, rabbia (frustrazione, irritabilità), paura, insoddisfazione e disgusto, e reazioni di tipo cognitivo, come difficoltà di concentrazione e rievocazione, deficit dell’attenzione, tendenza a focalizzarsi su pensieri negativi, ecc.

Chiaramente, le reazioni psicologiche, fisiche e comportamentali, sebbene presentino, in alcuni casi, sintomi di carattere differente, sono da considerarsi come strettamente interconnesse.

La sensazione di tensione o ansia emerge, in genere, quando prevale la credenza di non avere il controllo della situazione (Fraccaroli & Balducci, 2011). Tale condizione, con il passare del tempo, può portare allo sviluppo di patologie conclamate di entità ben più grave: dolore al petto, vertigini, sensazione di agitazione, fatica, disturbi del sonno, difficoltà nella concentrazione, pensieri catastrofici più o meno ricorrenti, ecc.

Come accennato precedentemente, un’altra reazione a carico della sfera psicologica è l’insoddisfazione lavorativa, che riguarda sia aspetti di carattere cognitivo che di tipo emotivo. La ricerca di Ahsan, Abdullah, Fie e Alam (2009) ha rilevato una correlazione negativa tra stress e soddisfazione lavorativa.

Tra le reazioni fisiche riscontriamo sintomi di mal di testa, emicrania, disturbi del sonno, aumento/perdita peso, aumento malattie cardiovascolari, disturbi gastrointestinali, allergie, disturbi di varia entità, ecc.

Tra i sintomi comportamentali sono stati riscontrati: eccessivo consumo di alcol e tabacco, eccessivo consumo di farmaci, disturbi della sfera sessuale, disturbi dell’alimentazione, comportamento aggressivo, isolamento sociale, assenteismo e presenteismo (presenziare al lavoro ma con produttività ed efficienza scarsa o altamente improduttiva), turnover, ecc.

Le reazioni allo stress comportano rilevanti conseguenze in termini di costi e produttività per l’organizzazione, oltre a recare danno sia all’individuo vittima di stress che alla sua sfera familiare e, più in generale, al tessuto socioeconomico locale e globale.

Una reazione che ha ricevuto moltissima attenzione è il burnout, ovvero una sindrome psicologica che il lavoratore può giungere a sperimentare come esito di un’esposizione prolungata a situazioni lavorative stressanti (Jackson & Maslach, 1982). La sindrome del burnout si manifesta per mezzo di tre tipi di sintomi, prevalentemente di tipo emotivo e cognitivo (Maslach, Schaufeli, & Leiter, 2001): l’esaurimento, ovvero la sensazione di fatica e di svuotamento emotivo; la disaffezione emotiva o cinismo, vale a dire una sensazione di distacco nei confronti del lavoro; la ridotta efficacia professionale, ovvero la sensazione di non essere in grado di contribuire efficacemente al lavoro (Fraccaroli & Balducci, 2011). Il burnout, in particolare, si verifica nelle professioni che comportano la relazione continua con un’utenza molto richiedente (professioni sanitarie, educative, assistenziali).

Una conseguenza dello stress con manifestazione comportamentale che ha sortito molto interesse sono i comportamenti controproduttivi (counterproductive work behaviors), cioè comportamenti intenzionali che violano le norme sociali e organizzative (Bennett & Robinson, 2003; Fida et al., 2015; Sackett, 2002; Vardi & Weitz, 2004). I comportamenti controproduttivi sono atti che causano deficit alla produttività, creano disagio a persone o gruppi, compromettono la vita organizzativa e arrecano un danno, sia materiale che di immagine, all’organizzazione (Spector & Fox, 2005). Alcuni esempi di questi comportamenti sono: furti e sabotaggi, violenza di vario genere, abusi nella gestione del tempo, ecc.

Studi sul tema (Spector et al., 2006) hanno messo in evidenza la relazione tra caratteristiche del lavoro (ruolo ambiguo e indefinito, ingiustizia organizzativa, coinvolgimento in situazioni di conflittualità interpersonale al lavoro) e comportamenti controproduttivi. In tale contesto, le emozioni giocano un ruolo di fondamentale importanza: gli stati emotivi negativi, quali rabbia, ansia, paura, ecc., riflettono una condizione di stress e agiscono come elementi di innesco dei comportamenti sopra citati.

È evidente che le emozioni svolgono un ruolo di estrema importanza nel processo di stress lavorativo, poiché rappresentano le reazioni immediate alle situazioni di stress percepito (Lazarus, 1999; Payne & Cooper, 2001) e facilitano le risposte comportamentali. Per queste ragioni, le emozioni negative mediano la relazione tra fattori di stress e CWB (Fida, Paciello, Tramontano, Barbaranelli & Fontaine, 2012; Rodell & Judge, 2009).

In sintesi, i comportamenti controproduttivi possono essere considerati una risposta ai fattori di stress organizzativi percepiti dal lavoratore o, più in generale, a qualsiasi condizione frustrante che interferisca con gli obiettivi di lavoro, le attività e/o le prestazioni lavorative (Fida et al., 2015).

Per concludere, secondo il modello di Dollard et al. (2007) – adattato da Cox et al. (2000), gli effetti dello stress possono incidere su:

- soddisfazione sul lavoro (soddisfazione per il lavoro, per l’orario, per il salario, per le condizioni di lavoro);

- salute mentale (condizioni specifiche di salute mentale, pensieri suicidi e tentativi, senso di coerenza, disturbi dell’umore, della memoria, dei sentimenti, ansia e depressione);

- salute fisica (condizioni specifiche di salute fisica, problemi di salute in corso, dolore e disturbi fisici, malattie croniche);

- impegno organizzativo (impegno verso il posto di lavoro e lealtà verso il datore di lavoro);

- stress comportamentale, somatico, cognitivo e generale;

- intenzioni di cambiare o lasciare il lavoro, ricerca di impieghi alternativi.

- assenze per malattia (giorni di malattia, risarcimenti per i lavoratori, assenze dovute alla malattia);

- burnout.

 

Figura 1. Antecedenti e conseguenze dello stress lavoro correlato.

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Stress lavoro correlato in ambito universitario: una rassegna sul personale docente accademico

 

Lo stress lavoro-correlato e il burnout sono stati analizzati e misurati nel corso degli ultimi anni da ricerche nazionali e, soprattutto, internazionali che hanno indagato il benessere organizzativo all’interno delle comunità accademiche. Sebbene in ambito internazionale vi siano numerose ricerche volte a misurare lo stress nello staff accademico, a livello nazionale la ricerca risulta ancora in fase di definizione. Vi sono, infatti, poche evidenze che permettono di identificare uno strumento efficace nella misura dello stress accademico del personale italiano.

Nonostante ciò, è utile citare la ricerca condotta da Marcatto, Sclip, Di Blas & Ferrante (2016) intitolata La misura dello stress e la valutazione soggettiva: un’indagine sul personale docente dell’Università degli Studi di Trieste, che ha mostrato una buona validità strumentale, ma con dei limiti inerenti la misurazione dello stress accademico basato sulla versione italiana dell’HSE-MS IT (Health and Safety Executive Indicator Tool) di origine britannica (Cousins et al., 2004). In particolare, i risultati emersi sono in linea con le ricerche internazionali: le donne sono risultate maggiormente esposte a fattori di rischio da stress (nelle relazioni, nel carico di lavoro e nel supporto dei colleghi) e vivono di conseguenza una situazione di maggiore sofferenza rispetto ai loro colleghi uomini. Inoltre, i professori ordinari, sebbene rivestano ruoli di maggiore responsabilità, ricevono anche maggiori ricompense lavorative e sono globalmente più soddisfatti della loro vita.

Recentemente è stata condotta una ricerca all’interno del personale accademico della Facoltà di Medicina e Farmacia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” dal titolo Reliability and Use of Copenhagen Burnout Inventory in Italian Sample of University Professor (Sestili et al., 2018). La ricerca ha utilizzato il Copenhagen Burnout Inventory (CBI), dimostrando come quest’ultimo abbia raggiunto un ottimo grado di affidabilità della misurazione del burnout nel campione preso in analisi. In generale, i risultati emersi hanno mostrato come il personale accademico femminile sperimenti alti livelli di burnout, e ciò secondo gli autori potrebbe derivare dalla disuguaglianza di genere al lavoro o al ruolo in generale più debole delle donne nella nostra società. Inoltre, gli accademici che appartengono ai corsi di Medicina e Farmacia sembrano sperimentare livelli di burnout decisamente maggiori rispetto ai colleghi, probabilmente a causa del carico di lavoro a cui sono sottoposti dovendosi occupare della cura del paziente. In sintesi, i risultati emersi da questo studio hanno dimostrato coerenza con la letteratura internazionale, promuovendo l’utilizzo della versione italiana del CBI quale strumento valido e affidabile.

La ricerca in ambito internazionale risulta molto più ampia rispetto a quella nazionale, tant’è che al suo interno è possibile identificare diversi filoni, ognuno dei quali ha analizzato determinati costrutti dello stress lavoro-correlato in ambito accademico.

In ambito europeo alcune delle ricerche condotte in Inghilterra (Tytherleigh, Webb, Cooper & Ricketts, 2005; Watts & Robertson, 2011) e in Spagna (Moreno et al., 2010) si sono focalizzate sull’analisi del burnout e delle sue declinazioni, quali esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta efficacia professionale.

Nello specifico, da un’analisi sullo stress lavorativo condotta in 14 università inglesi è emerso che l’insicurezza lavorativa rappresenta la fonte più alta di stress accademico (Tytherleigh, Webb, Cooper, & Ricketts, 2005).

Inoltre, l’esposizione a un numero molto alto di studenti da parte dello staff docente sembrerebbe predire il burnout, che oltretutto si manifesterebbe in modo diverso in ragione del genere: maggior depersonalizzazione del personale docente maschile e maggior rischio di esaurimento emotivo per il personale docente femminile (Watts & Robertson, 2011).

Contrariamente a quanto dimostrato dalle ricerche inglesi, l’indagine condotta in Spagna da Moreno et al. (2010) su un piccolo campione di docenti dell’Università di Saragoza ha evidenziato bassi livelli di stress e burnout nel personale accademico, bassi livelli di depersonalizzazione ed esaurimento emotivo associati a un’elevata autostima. Sebbene non vi siano ancora chiare evidenze, questo risultato è coerente con quanto riscontrato nella ricerca di Watts & Robertson (2011) e può ragionevolmente far pensare che le dimensioni di un’organizzazione accademica universitaria, così come il numero di studenti a cui i docenti sono esposti, tendano a influenzare la qualità del lavoro del personale docente e amministrativo, ovvero la vulnerabilità a stress e burnout.

In ambito extraeuropeo sono state principalmente indagate le relazioni tra stress, soddisfazione e insicurezza lavorativa, talvolta con un’attenzione particolare nei confronti delle differenze di genere e dei fattori personali coinvolti nello stress lavorativo.

In particolare, in seguito a una revisione sistematica della recente letteratura è emerso che: l’insicurezza lavorativa influenza significativamente lo stress ed entrambi i costrutti sono spesso moderati dalle capacità di coping (Safaria, bin Othman, & Wahab, 2010); fattori di stress quali tempo, quantità di informazioni, supervisione, ambiente di lavoro, staff, paga e carriera sono risultati essere fortemente connessi con la riduzione della soddisfazione lavorativa (Pick, Teo, & Yeung, 2012).

Un importante dato, emerso da una ricerca condotta in sei università sudafricane, riguarda il personale più anziano, il quale sembra detenere capacità di gestione dello stress maggiori, al contrario dei giovani docenti, che paiono essere più esposti al rischio di burnout (Rothmann & Barkhuizen, 2008).

Da uno studio condotto in Turchia da Toker (2011) volto a indagare i livelli di soddisfazione lavorativa tra lo staff accademico delle università, è emerso che la soddisfazione era mediamente alta, con importanti differenze di ruolo all’interno dell’università. In dettaglio, rispetto ai colleghi di grado inferiore (ricercatori e professori con contratti a tempo determinato), i professori ordinari riportavano livelli più alti di soddisfazione lavorativa. In aggiunta, coerentemente, la soddisfazione lavorativa era influenzata positivamente da età e anni di servizio e istruzione superiore.

Un’ulteriore ricerca condotta in Turchia ha invece mostrato che le attività di coworking e le promozioni lavorative sono i fattori che più significativamente incrementano la soddisfazione lavorativa, persino più degli aspetti legati alla remunerazione (Saygi, Tolon, & Tekogul, 2011).

Degno di nota è il filone di ricerche condotte in alcune università nigeriane, in cui è stata studiata l’influenza di genere e stato civile sulle esperienze di burnout e stress lavorativo. Da tali ricerche è emerso che non vi sono sostanziali differenze di genere a livello di depersonalizzazione ed esaurimento emotivo, sebbene lo staff femminile sperimenti maggiori livelli di insicurezza relativa alla realizzazione personale rispetto agli uomini (Adekola, 2010).

Restando in Africa, altri studi hanno evidenziato che i docenti non coniugati sperimentano un più alto stress lavorativo rispetto a quelli coniugati (Omoniyi & Ogunsanmi, 2012) e, più in generale, lo sviluppo di carriera, il rapporto con gli studenti e la difficoltà nel reperire fondi per la ricerca vengono vissute dal personale docente come le fonti più intense di stress lavorativo (Archibong, Bassey, & Effiom, 2010).

Un ulteriore interessante contributo è rappresentato da un recente studio condotto in Cina, dedicato a indagare il conflitto di ruolo docente-ricercatore e i livelli di burnout tra i docenti universitari (Xu, 2017), da cui emerge che i docenti cinesi sembrano sperimentare moderati livelli di burnout, tuttavia erosi dall’influenza negativa del conflitto di ruolo docente-ricercatore su depersonalizzazione ed esaurimento emotivo a carico sia dei docenti che dei ricercatori.

In conclusione, dai risultati appena descritti, appare evidente la generale associazione che intercorre tra insicurezza lavorativa e soddisfazione lavorativa e del modo in cui lo stress spesso abbia una notevole influenza nell’alimentare comportamenti legati al burnout.

La gestione delle risorse umane dovrebbe pertanto concorrere a prevenire e limitare tali prospettive, focalizzandosi sull’analisi dei contesti universitari e promuovendo un ambiente lavorativo più equo e motivante.

 

 

Riflessioni conclusive

 

In conclusione, come evidenziato finora, le organizzazioni, al fine di predire il rischio di fenomeni quali stress lavoro correlato e burnout, dovrebbero favorire l'empowerment delle risorse personali dei dipendenti ed evitare richieste di lavoro eccessive.

In linea con le ricerche condotte da Bakker e Demerouti (2014), l’organizzazione può migliorare il benessere dei lavoratori, fornendo dei feedback sulle loro risorse e sulla loro capacità di metterle in atto nelle proprie attività. Qualora si dovesse presentare la condizione secondo cui il lavoratore, nonostante i feedback ricevuti, non riesca a valorizzare le proprie risorse, l’organizzazione potrà fornirgli percorsi specifici per comprendere e utilizzare nel miglior modo possibile le risorse di cui dispone (Cortese et al., 2016).

Gli stessi autori, inoltre, hanno proposto degli interventi a livello individuale (interventi strength-based) orientati al potenziamento delle risorse personali, come quelli sul job crafting.

Il job crafting riguarda “i cambiamenti fisici (forma, scopo, numero di attività) e cognitivi (come viene percepito il compito) che gli individui apportano al loro compito e alle barriere relazionali” (Bakker & Demerouti, 2014, p. 15; Tims, Bakker, & Derks, 2012; Wrzesniewski & Dutton, 2001).

Nello specifico, si tratta di un’operazione che i singoli lavoratori attuano nei confronti delle loro attività, modificando proattivamente le richieste e le risorse lavorative e aumentando così il loro benessere e la loro soddisfazione.

Un intervento di questo tipo risulta utile anche e soprattutto nell’ambito della didattica, così come dimostrato da una ricerca condotta su un campione di 263 docenti di scuole pubbliche del Sud Italia (Ingusci, Callea, Chirumbolo, & Urbini, 2016). Questo studio ha sottolineato come gli interventi sul job crafting siano importanti sia per i docenti che per gli studenti, rimarcando l’importanza della soddisfazione lavorativa finalizzata al benessere comune. Infatti, un’implicazione emersa dallo studio sopracitato è la seguente: i dirigenti scolastici dovrebbero prestare più attenzione al supporto organizzativo degli insegnanti e alla soddisfazione lavorativa, così come alle risorse personali degli stessi, sviluppando interventi ad essi rivolti (ad esempio, formazione, team work, ecc.) (Ingusci, Callea, Chirumbolo, & Urbini, 2016). I lavoratori, in tal senso, possono imparare a utilizzare al meglio i loro punti di forza per reagire alle situazioni avverse con ottimismo sviluppando così una maggiore stabilità, requisito fondamentale per un adattamento soddisfacente, condizione necessaria per il miglioramento delle prestazioni lavorative.

Si ritiene quindi auspicabile che anche le università, in qualità di organizzazioni, pongano maggiore attenzione ai propri dipendenti, promuovendo interventi di formazione orientati non solo all’apprendimento di nuove conoscenze e capacità professionali, ma anche all’accrescimento delle risorse personali come autoefficacia, ottimismo e resilienza fondamentali per prevenire il rischio di stress lavoro correlato.

Il tema dello stress lavoro correlato, come è stato ampiamente dimostrato e discusso nel presente lavoro, al di là dell’intenzione adempitiva delle norme introdotte a partire dal 2008 (D. lgs 81/08), ha portato a una maggiore sensibilità rispetto ai fattori di rischio psicosociale e alle modalità di gestione e prevenzione dello stress.

Di fatto, diverse organizzazioni utilizzano la valutazione dello stress lavoro correlato come momento di crescita e sviluppo, valicando la contrapposizione tra indicatori di benessere e malessere organizzativo. Tale concezione è in linea con l’impegno intrapreso dal più ampio gruppo tematico QoL@Work (Quality of Life at Work), costituito nell’ambito dell’Associazione Italiana di Psicologia (AIP) (Loera et al., 2018).

Il contributo della psicologia, secondo tale visione, è quello di creare strumenti di valutazione validi e attendibili, rigorosamente formulati a partire da costrutti teoricamente fondati, dal punto di vista dell’attenzione ai processi di cambiamento che, inevitabilmente, la valutazione comporta.

 

 

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