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Studi e ricerche / Studies and research

La cultura del cambiamento e dell’innovazione tra scienza e coscienza
The culture of change and innovation between science and conscience

Paola Binetti

Università Campus Bio Medico di Roma



Sommario

Il presente contributo riflette sull'attuale cultura del cambiamento e dell’innovazione che pone nuovi ed inediti problemi nel rapporto tra scienza e coscienza. Il cambiamento e l’innovazione visti attraverso questa lente aprono alla dialettica tra scienza e morale, in quando l’essere umano ha per sua stessa natura un desiderio illimitato di verità e di bene. Dalla nostalgia della felicità come aspirazione umana, delineando la crisi del paradigma dominante nella conoscenza scientifica, il contributo afferma la rilevanza della coscienza, sottolineando come il progresso scientifico non abbia un valore in sé ma un valore di mezzo, il cui fine imprescindibile è riaffermare la dignità della persona umana e della vita.

Parole chiave

cultura del cambiamento; cultura dell’innovazione; scienza; coscienza.


Abstract

This contribution offers a valuable reflection on the theme of the culture of change and innovation in the relationship between science and conscience. The culture of change and innovation seen through this lens opens up a dialectic between science and morality, since human beings have in their nature an unlimited desire for truth and goodness. Starting from the nostalgia of happiness as a human aspiration and outlining the crisis of the dominant paradigm in scientific knowledge, the contribution affirms the relevance of the conscience, underlining how scientific progress has no value in itself but a value as a medium, whose purpose is essential to reaffirming the dignity of human beings and of life.

Keywords

culture of change; culture of innovation; science; conscience.


Premessa

 

Scienza e morale sono manifestazioni essenziali dell'umanità, perché l'uomo per sua stessa natura ha un desiderio infinito di verità e di bene e gran parte della cultura del cambiamento passa attraverso questa dialettica: la volontà di conoscere sempre più e sempre meglio il mondo che ci circonda, per renderlo migliore, più abitabile, più orientato al nostro benessere. L'uomo moderno, come l'uomo di sempre, desidera conoscere sempre più a fondo il mondo che lo circonda, e proprio per questo si pone domande sempre più incisive e coraggiose su di sé, sul senso delle cose, sul loro significato, cominciando da ciò che rappresentano per lui, dal suo vissuto. E in questo lungo itinerario sperimenta un bisogno di essere felice, che cambia nel tempo in quanto a modalità, ma resta sempre coerente nel suo agire verso ciò che è bene per sé e per gli altri. A questo proposito, Rodriguez Luño afferma: «La crescita del potere tecnico dell'uomo non costituirebbe di per sé un fatto inquietante se fosse stata accompagnata dall'accrescimento del sapere, in modo che l'apparato scientifico-tecnologico potesse essere orientato saggiamente verso il bene di tutto l'uomo e di tutti gli uomini. Per fare un esempio: se avessimo a disposizione un'idea precisa di che cosa sia, a tutti gli effetti, un uomo migliore, potremmo al limite avventurarci per difficili sentieri dell’ingegneria genetica migliorativa, purché fossimo capaci di prevedere tutte le eventuali conseguenze dei nostri interventi, cosa che difficilmente accadrà» (Rodríguez Luño & Bellocq, 2014). È facile in questi casi rendersi conto che il bene e il vero hanno dimensioni molto complesse, con infinite sfaccettature che rendono necessario riflettere, ragionare, valutare continuamente le deduzioni che si possono trarre dalle proprie conoscenze, ma anche le conseguenze che derivano dal proprio agire. Le une e le altre rendono possibile conoscere sempre più e sempre meglio la realtà che ci circonda e ricavare da questa conoscenza la felicità a cui aspiriamo, nonostante l'esperienza del dolore e della sofferenza che non mancano di irrompere per cause diverse nella nostra vita e in quella degli altri.

 

La nostalgia della felicità come aspirazione umana

 

Una buona conoscenza, oltre agli indispensabili aspetti speculativi, ha sempre una serie di implicazioni pratiche, a tal punto da poter affermare che non c'è niente di più pratico di una buona teoria. La conoscenza è una realtà composita, teorico-pratica, che nella sua struttura integrata garantisce obiettivi di efficacia e di utilità e aiuta a risolvere una serie di problemi che hanno molto a che vedere con la nostra qualità di vita. Basta pensare al progresso scientifico applicato alle scienze della salute; alle tante malattie in qualche modo sconfitte da farmaci di nuova generazione; al cambiamento radicale della storia naturale di tante malattie che ormai appartengono all'archeologia delle conoscenze mediche.

Più difficile da definire è la dimensione etica di molte delle nostre conoscenze; questa può venir meno in riferimento alle nuove conoscenze, perché inizialmente disponiamo di dati che sembrano risolvere problemi, ma in realtà con il trascorrere del tempo ci rendiamo conto che ne creano di più pesanti e di più difficili da affrontare. In questi casi, spesso dopo aver raggiunto un determinato scopo, che speravamo ci desse pace e serenità, una legittima soddisfazione per gli sforzi investiti, ci rendiamo conto che lungi dal renderci felici è causa di dolore e di sofferenza per sé e per altri. L'ambito morale risponde infatti soprattutto a un’esigenza di giustizia. La necessità che il nostro agire sia giusto rappresenta per tutti noi un dovere morale. Ma non sempre, a priori, è facile capire cosa sia giusto e cosa non lo sia; i principi morali hanno una dimensione talmente profonda ed estensiva che sfugge alla nostra percezione e sono le conseguenze a mostrare se la nostra condotta aveva o meno la sua reale eticità. Rendersi conto che abbiamo agito in maniera sbagliata significa capire che il nostro modo di fare ci ha messo in contraddizione con quel "principio" che volevamo tradurre in azioni concrete, ma che non abbiamo saputo interpretare correttamente.

L'aspirazione alla felicità rappresenta nella cultura contemporanea un vero e proprio diritto umano, su cui si modella l'impianto della coesione sociale. Là, dove il bene comune diventa itinerario di responsabilità, si crea una felicità condivisa, che richiede a tutti un diverso modi di conoscere la realtà, di leggerla dal di dentro, per interpretarla come specchio della condizione umana: «Al centro dell’esperienza democratica del nostro tempo c’è una costante riflessione sul tema dei diritti umani, sulla loro universalità e sull’obbligatorietà con cui s’impongono all’attenzione di chi governa, perché ne garantisca la piena tutela. La Polis, centro e radice di una politica rettamente intesa, si fonda sul rispetto dei diritti di tutti i cittadini e il lungo itinerario verso la democrazia percorso dall’Occidente è marcato proprio da un progressivo riconoscimento di questi diritti e dalla loro tutela. Nell’elaborazione politica i diritti umani hanno la forza del dovere, perché il diritto di qualcuno in realtà costituisce l’affermazione di un dovere per qualcun altro. In questa dialettica interna, ogni persona sa di essere tutelata nei propri diritti perché c’è chi si assume precisi doveri nei suoi confronti» (Binetti, 2012).

È il mistero della nostra stessa umanità: cercare qualcosa che già abbiamo; voler sapere qualcosa che già sappiamo "Qualcosa" che è dentro di noi; che ci appartiene intimamente, ma non pienamente, per cui alla sua piena realizzazione aspiriamo con tutte le nostre forze. Sperimentiamo qualcosa che abbiamo solo in parte, mentre vorremmo averla totalmente. Sentiamo nello stesso tempo che ci manca profondamente e la desideriamo, come un bene capace di assicurare felicità: a noi e agli altri. È in questa dialettica tra ciò che abbiamo e ciò che ci manca, in riferimento allo stesso oggetto, vale a dire la nostra felicità, che diventa possibile la piena realizzazione della persona nella sua singolarità e la pienezza di senso della condizione umana. Scienza e coscienza, progresso tecnico-scientifico da un lato e coscienza morale dall'altro, definiscono il lungo itinerario che l'uomo e la donna percorrono nella loro vita alla ricerca della felicità, di quella felicità che vorrebbero assicurare alle persone che si amano. Un itinerario che va percorso con la massima libertà, ma anche con la responsabilità di chi si interroga sistematicamente sugli sviluppi delle proprie conoscenze e sulle conseguenze delle proprie azioni. La scienza e la tecnica diventano in questa logica parte integrante del lungo itinerario dell'uomo verso la felicità e per questo vanno misurate anche lungo la dorsale della loro eticità. È il grado di verità posseduto che rende più o meno etica una conoscenza: una conoscenza falsa, oltre a essere una non-conoscenza, è anche priva di eticità; ma è poi l'uso che si fa di questa conoscenza a connotarne intimamente l'aspetto etico. Il nostro tempo è tempo di crisi sia sotto il profilo scientifico che su quello morale, entrambi percorsi da un relativismo insidioso e destrutturante.

 

Il progresso scientifico e la crisi del paradigma dominante nella conoscenza scientifica

 

L'evoluzione scientifica, che molto spesso definisce il cosiddetto progresso scientifico, è caratterizzata da un cambiamento di paradigma, che modifica profondamente lo schema interpretativo dei fatti, secondo l'espressione coniata da Kuhn (1957). Nella sua teoria il progresso scientifico non è determinato dalla naturale evoluzione di un insieme di conoscenze strutturate, indispensabili per descrivere un fenomeno, ma piuttosto dalla loro incapacità di descrivere compiutamente quel fenomeno stesso, per cui si rende necessario riferirsi a un diverso modello di conoscenza. Il progresso scientifico, secondo Kuhn (1957), avviene più per rottura che per continuità. Si rompe uno schema consolidato perché lo si ritiene inadeguato a descrivere nuovi fatti emersi o a spiegare compiutamente fatti già noti.

In altri termini la cosiddetta "rivoluzioni scientifiche” si caratterizza di volta in volta per l'emergere di un nuovo paradigma, indispensabile per comprendere e spiegare la natura delle cose, l'evolvere dei processi, la previsione di nuove e più precise cause dei fenomeni in corso. Secondo Kuhn (1957), siamo in presenza di una rivoluzione scientifica quando gli scienziati incontrano anomalie tali che non possono essere spiegate dai paradigmi fino ad allora universalmente accettati e all'interno dei quali si è sviluppato, fino ad allora, il progresso scientifico. Sono l'insoddisfazione, la curiosità senza risposte, che obbliga a percorrere nuove strade, fino ad allora rimaste nell'ombra. Il paradigma scientifico quindi non è semplicemente una teoria dominante, ma parte integrante di una visione del mondo nel quale la teoria si colloca, interfacciandosi con le implicazioni che ne derivino sotto molti altri aspetti, apparentemente estranei ai fatti su cui la teoria si pronuncia.

In un certo senso il nuovo paradigma rende giustizia a molte delle cose che, non potendo essere spiegate con il paradigma dominante, sono state accantonate, ignorate, nonostante fossero lì sotto i nostri occhi e reclamassero la nostra attenzione (Gattei, 2000). Attenzione che non abbiamo voluto dare loro perché non sapevamo come affrontarle: il nuovo paradigma rende loro giustizia. Ovviamente con il nuovo paradigma altre conoscenze resteranno nell'ombra, in attesa del paradigma successivo, in una lunga staffetta in cui ci si passa il testimone di generazione in generazione, superando continuamente nuovi ostacoli, ma senza mai esaurirli tutti. Occorre prendere atto che, per elaborare una nuova teoria con le conoscenze disponibili in quel momento, gli scienziati tendono a ignorare le contraddizioni che emergono o i fatti che comunque restano inspiegabili anche con la nuova teoria. Non a caso l'umiltà intellettuale è la prima qualità morale dello scienziato: la consapevolezza che il suo sapere non è mai esaustivo. Infatti è questa continua tensione verso il progresso scientifico che rende prudentemente umile lo scienziato; proprio per la sua specifica identità di scienziato di una sola cosa deve essere sempre convinto: che presto o tardi qualcuno metterà in dubbio le sue conclusioni e ne avanzerà di nuove. Saranno ipotesi, paradigmi, più inclusivi rispetto alle nuove scoperte della scienza, ma anche più critici rispetto alle precedenti interpretazioni dei fenomeni. Diceva Leonardo: «Triste è quel discepolo che non avanza il suo maestro». Ed è questo anche il valore della formazione che deve impregnare la relazione tra maestro e allievo: il non sapere dell'allievo presto o tardi diventerà un saperne di più del maestro.

Ma Kuhn evidenzia un altro aspetto di particolare interesse in questo nostro tempo caratterizzato da una comunicazione sempre più veloce e sempre più globalizzata, come i nuovi media evidenziano (Oliveri, 2007). Un paradigma si afferma sugli altri non solo per la razionalità delle sue argomentazioni, ma anche per la forza persuasiva di chi lo propone e per il grado di consenso di cui quel determinato gruppo scientifico gode all'interno della comunità scientifica. Nel bilancio tra fatti che una teoria riesce a spigare e fatti che sfuggono alla sua codifica si innesta un processo dialettico tra scuole di pensiero diverse; e la sfida non si vince solo a livello razionale, ma dipende anche dal potere comunicativo, e non di rado dall'impatto emotivo che la sua narrazione evoca.

Ogni paradigma ha quindi una componente di arbitrarietà, in cui razionalità ed emotività si mescolano, insieme ad ambizione e volontà di potere. L'espressione cambio di paradigma si riferisce quindi a una nuova e complessa interpretazione degli aspetti fondamentali con cui la scienza, ma non solo la scienza, cerca di modellizzare l'esperienza umana. Tutto ciò si accentua quando si tratta di scienze umane, in cui la soggettività gioca un ruolo ancora più ampio e incisivo. Lo studioso umanista ha davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare soprattutto con la sua coscienza e la sua personale responsabilità.

 

Agire in scienza e coscienza: essere persona di coscienza

 

Il sentire popolare riconosce la sacralità della coscienza, al punto da riassumere le qualità di una persona dalla sua coscienza. Il più grande complimento che si può fare a una persona è dire: è un uomo e una donna che ha una coscienza, che agisce in coscienza. Si tratta di una persona che quando è necessario sa fare Obiezione di coscienza per rifiutarsi di compiere azioni che lo pongono in conflitto con la sua coscienza. Parallelamente, il giudizio più negativo si esprime in termini simili: «Quest’uomo o questa donna è senza coscienza; si comporta da incosciente». L’importanza della coscienza personale si riflette nelle espressioni come «non permetto che qualcuno si intrometta nella mia coscienza», «esigo che si rispetti la mia coscienza», «questo la mia coscienza non lo permette», «è una cosa che devo fare in coscienza», ecc.

Data l’importanza della coscienza personale, solenni Dichiarazioni dei diritti dell’uomo riconoscono la «libertà di coscienza» come uno dei diritti fondamentali, il quale, a sua volta, è il punto di partenza di molti altri diritti (Palazzani, 2018). Eppure oggi in molti casi ci troviamo davanti a una vera e propria Crisi della coscienza. Dobbiamo prendere atto che molti contemporanei negano l’esistenza della coscienza. Com’è possibile che, in un’epoca culturale in cui si dà alla coscienza un valore enorme, alcuni s’impegnino a negarla? L’argomento più convincente dell’esistenza della coscienza – oltre alla convinzione universale di tutti i tempi e delle più diverse culture – è la propria esperienza personale che testimonia l’esistenza della coscienza in ogni persona. Tutti sperimentiamo la capacità di riflettere su noi stessi, che ci fa rendere conto di quello che facciamo, giudicandone la bontà e la malizia.

Se è chiaro che la riflessione intellettuale è alla base della conoscenza teorica, non possiamo negare che la riflessione sul proprio agire ci avverte della qualità morale dei nostri giudizi sulle azioni compiute o che ci disponiamo a compiere. Alcuni esempi concreti sulla difficoltà di agire in scienza e coscienza derivano dalla generale consapevolezza dei pericoli degli ultimi sviluppi della biomedicina e il consenso sulla necessità di una regolamentazione etica e deontologica. Dal punto di vista etico e deontologico, la discussione sulle norme di comportamento dovrebbe mirare alla loro fondazione in base ai principi chiari, ragionevoli ed equi. I medici sanno bene che l'apertura di nuove vie, il superamento di barriere biologiche e psicologiche, non costituisce necessariamente un vero progresso. Altrimenti si dovrebbe affermare che le sperimentazioni genetiche e biologiche realizzate in alcuni campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale costituiscono delle pagine gloriose della storia della medicina, e che le attuali tecniche di tortura psicologica vanno annoverate tra i trionfi della psichiatria moderna. Chi ammette che non è ragionevole né equo giungere a tali estremi deve riconoscere che il semplice superamento di certe barriere biologiche non costituisce di per sé, e necessariamente, un principio atto a fondare una norma di comportamento in medicina.

Etica e medicina hanno da sempre costituito un connubio inscindibile, anche se attualmente il progresso scientifico sembra entrare in rotta di collisione con i fondamenti etici che da sempre caratterizzano l'agire medico. L'attuale predominio dello scientismo risponde alla logica dell'utilità e dell'efficacia, a cui segue sul piano etico la morale utilitaristica. Per questa morale la soddisfazione del desiderio è, per eccellenza, il valore da promuovere. A questo scopo l'utilitarismo porta avanti un processo di ottimizzazione del sistema sociale, che fa astrazione dalla natura delle cose prese come mezzo o come scopo. Per l'utilitarismo, infatti, ogni possibile comportamento deve considerarsi disponibile, in linea di principio, per l'attuazione della strategia che, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, sembri promuovere una maggiore utilità delle conoscenze in funzione del benessere individuale. Nasce così nella nostra società una logica finalistica del desiderio, che non è altro che utilitarismo. Il mio desiderio costituisce un diritto e il mio diritto va soddisfatto a ogni costo, mettendolo, se possibile a carico dello stato e del SSN. Ma questo principio è fortemente ambiguo sul piano della ragionevolezza e dell'equità. Ma il mio desiderio non può trasformarsi in un diritto a scapito di altri e questo è uno dei canoni elementari dell'Etica: la persona non può mai essere trattata – né da se stessa né dagli altri – come semplice mezzo, non può essere strumentalizzata.

Quando parliamo della persona intendiamo riferirci alla sua totalità, cioè a tutte le dimensioni essenzialmente legate alla personalità dell'uomo, nel suo spirito e nel suo corpo: la libertà, il linguaggio, la vita fisica, la sessualità, ecc. (Di Fabio, 2014). Queste e altre dimensioni partecipano, integrano o esprimono la dignità personale, e perciò sono oggetto di rispetto e non ammettono un trattamento puramente strumentale, e non possono essere considerate come un mezzo interamente disponibile per una strategia volta alla massimizzazione dell'utile o del piacevole, fosse anche il progresso scientifico e l'ansia di sapere sempre più dell'uomo. La persona deve essere rispettata nel suo valore e nelle sue finalità intrinseche, e non può essere considerata come uno strumento per il progresso sociale o scientifico (Russo, 2017). La persona deve essere riconosciuta per ciò che è e per ciò che vale in se stessa: va quindi rispettata e amata. È un principio che richiede due chiarimenti: uno riguarda la sua fondazione e l'altro la sua applicazione. Il principio si fonda immediatamente sul fatto che la persona umana possiede un senso e un destino in se stessa. Ma il valore di questo senso e di questo destino non è ultimamente fondato finché non si riconosce che si tratta di un senso e di un destino riferiti a Dio: uomo come immagine di Dio e destinato alla comunione con Dio. Questo principio pone dei limiti evidenti alla sperimentazione scientifica sull'uomo. La conoscenza umana non costituisce vero progresso se non risponde al criterio etico-antropologico del rispetto per l'uomo stesso.

 

Conclusioni

 

Per molto tempo si è creduto che la dignità personale fosse un valore evidente per tutti, indipendentemente dalle concezioni filosofiche o religiose. Ed è vero che si tratta di un valore comprensibile per la ragione umana, ma oggi noi assistiamo ad una sorta di deificazione della conoscenza. All’assolutizzazione del progresso scientifico come valore in sé, mentre il suo è pur sempre un valore di mezzo il cui fine fondamentale è riaffermare la dignità della persona umana, il valore della vita, di ogni vita, al cui servizio scienza e tecnica, ma anche diritto e politica si pongono senza eccezioni.

 

Bibliografia

 

Binetti, P. (2012). Etica e Democrazia. Milano: Lindau.

Di Fabio, A. (2009). Counseling e relazione d’aiuto. Firenze: Giunti.

Gattei, S. (2000). Dogma contro critica. Mondi possibili nella storia della scienza. Milano: Raffaello Cortina.

Kuhn, T. (1957). The Copernican revolution: Planetary astronomy in the development of western thought, Cambridge, MA: Harvard University Press.

Oliveri, R. (2007). A partire da Thomas Kuhn. Viaggio nel concetto di legge, di natura e sociale. Roma: Aracne.

Palazzani, L, (2018). Bioethics and biolaw: From theory to practice. Torino: Giappichelli.

Rodríguez Luño, Á, & Bellocq, A. (2014). Ética General. Pamplona: Eunsa.  

Russo, M. T. (2017). Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono. Torino: Bollati Boringhieri.


Autore per la corrispondenza

P. Binetti. Telefono/fax 06.6706.3027.
Indirizzo e-mail: p.binetti@unicampus.it
Lungotevere delle Armi 12 - 00195 Roma



Note

1 A

DOI: 10.14605/CS1131804


© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2202. Counseling.
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