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Rubriche / Columns

Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni e Counseling
Work and organizational psychology and counseling

a cura di Pier Giovanni Bresciani

Presidente SIPLO (Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione)



 

Politica e governo locale: quali competenze? Il contributo della psicologia del lavoro

Osservata dal punto di vista di uno psicologo del lavoro e delle organizzazioni, la discussione di questi anni sulla politica e sul governo locale (non di rado, è giusto riconoscerlo, caratterizzata da una banalità disarmante) si arricchisce di elementi di riflessione e di indicazioni operative che sembrano potere apportare un effettivo valore aggiunto alle pratiche con le quali i partiti, i movimenti e le istituzioni affrontano (meglio sarebbe dire, stante la situazione, “non affrontano”) la questione, essenziale da molti punti vista, del ruolo che le attività di socializzazione in ingresso, di formazione, di accompagnamento e di sviluppo professionale (e, perché no, di valutazione) che avvengono al proprio interno possono offrire al necessario miglioramento della qualità dell’azione politica e di governo nel nostro Paese.

È in effetti alquanto paradossale che quella stessa politica che mediante le istituzioni di governo europeo, nazionale e regionale ormai da diversi anni in modo sempre più vincolante e strutturato sta nei fatti “imponendo” al sistema scolastico (fino all’università), a quello della formazione professionale, al sistema di orientamento e dei servizi per il lavoro e anche per molti versi al mondo delle imprese di adottare modelli e metodologie di analisi e di intervento “per competenze” (elaborando curricoli e obiettivi didattici espressi “per competenze”; descrivendo processi di lavoro, aree di attività, figure e profili professionali articolati “per competenze”; ricostruendo esperienze personali e professionali degli individui rileggendole in termini di “competenze”, opportunamente valutate, validate, certificate; realizzando il matching tra domanda e offerta di lavoro mediante il confronto tra competenze richieste e competenze disponibili), quando si tratta invece di riflettere su se stessa, sulle proprie performance, sui propri risultati, sui propri limiti e sulle relative prospettive di miglioramento, rifiuti risolutamente di adottare questo tipo di approccio e di linguaggio, e di trarne con coerenza le relative conseguenze.

Come abbiamo osservato qualche tempo fa in esito a un lavoro di ricerca empirica su questo tema[1], è come se si accettasse implicitamente l’assunto che nella politica e nel governo della cosa pubblica non si tratta di competenze: al termine “competenza” si associa, infatti, intuitivamente un significato di expertise in qualche modo “tecnica” e la politica ha tradizionalmente un rapporto alquanto ambivalente con la tecnica (fino alla banalizzazione dell’intendance suivrà).

Da un lato, dai principali stakeholder, il termine “competente” quando viene associato a un dirigente di partito o a un amministratore locale è in genere vissuto come riduttivo e in qualche modo improprio: l’orizzonte dei valori, della passione politica, di quelle che possono essere definite “virtù civili” (solidarietà, equità, onestà, integrità morale, etc.) sembra più consono alla identità di tali ruoli sociali (nella propria auto-rappresentazione) di quanto non lo sia l’orizzonte delle “competenze”.

Dall’altro lato, in qualche modo all’opposto, vi è la posizione di coloro che con “disincanto” sostengono che nella politica e nel governo locale non è questione di competenze né di onestà, ma piuttosto di dimensioni definite con locuzioni alquanto naive eppure sufficientemente auto-esplicative, quali ad esempio: “il carattere”, il “pelo sullo stomaco”, “la doppiezza”, etc. (con ciò mostrando di non essere consapevoli che la “traduzione” del linguaggio naive dei propri interlocutori in un linguaggio tecnico-scientifico che sia “operabile” sul piano professionale è propriamente una delle “competenze distintive” di uno psicologo del lavoro).

Naturalmente, in entrambi i casi l’alternativa è mal posta, e gli psicologi del lavoro sanno da tempo che il costrutto di competenza ha progressivamente acquisito connotazioni assai ampie, in particolare negli approcci che definiscono la competenza come “qualsiasi tipo di risorsa” (conoscenza, capacità, abilità, tratto, habit, disposizione, dote: a seconda dei linguaggi, delle teorie e dei modelli di riferimento) che un individuo attiva e mobilita nell’esercizio di un ruolo socio-professionale, e di qualsiasi attività ad esso correlata[2].

Se ciò è vero, come è vero (e al netto delle aporìe che noi stessi riconosciamo in questa specifica accezione della competenza), allora non è improprio analizzare il lavoro del politico e dell’amministratore pubblico in termini di competenze: anzi, come mostrano con evidenza i pochi contributi al riguardo, questo “sguardo” particolare obbliga semmai ad arricchire la modellistica con la quale di norma si analizzano le “competenze al lavoro”, per ricomprendervi tutte quelle “caratteristiche” di diversa natura (non solo conoscenze e capacità tecniche, ma anche qualità e doti personali, risorse, attitudini e disposizioni, motivazioni e interessi, e altro ancora) che, come ormai sappiamo bene, entrano sempre in gioco nel farsi dell’esercizio di un ruolo sociale e nel renderlo efficace, qualitativamente apprezzabile, appropriato, contestualmente “giusto” ed efficace.

In altre parole, ragionare di competenze nella politica e nella amministrazione pubblica costringe ad allargare lo sguardo “oltre la tecnica”, come i migliori approcci avevano già iniziato a fare da tempo pure con riferimento al mondo del lavoro, anche se non si può certo ancora dire che ciò costituisca una pratica corrente: e questo ci appare un motivo in più perché la politica decida, una buona volta, di “guardarsi allo specchio della competenza”.

Per ciò che ne conosciamo, abbiamo tra l’altro buone ragioni per ritenere che le non numerose esperienze (se pure in fase di sviluppo quantitativo, dopo un oblìo progressivo durato alcuni anni) di “formazione della dirigenza politica” e di “formazione degli amministratori locali” che i partiti stanno faticosamente cominciando a intraprendere, ne risulterebbero salutarmente sconvolte nei loro modelli e nelle loro metodologie.

La psicologia del lavoro, infatti, con alcuni dei suoi “temi-oggetti” specifici da un lato (organizzazioni, ruoli, attività, prestazioni lavorative e competenze; condizioni organizzative in cui si concretizzano; strategie e dispositivi di socializzazione organizzativa e culturale; etc.), e dei suoi strumenti di analisi e intervento dall’altro (si pensi, solo per fare qualche esempio, agli strumenti di analisi del lavoro, di job design, di competence analysis, di analisi dei fabbisogni formativi, di sviluppo personale e professionale, di change management, etc.) può offrire alla politica e al governo locale un patrimonio sia tecnico-scientifico che metodologico-profesionale che sarebbe letteralmente in-sensato (per la psicologia del lavoro, per la politica, per il Paese) continuare a non valorizzare.

Per questo motivo, nel 2017 la SIPLO si propone di porre all’attenzione dei propri interlocutori la questione del rapporto psicologia del lavoro, politica e governo locale (con particolare focalizzazione sul tema delle competenze), a partire da un momento di confronto pubblico da cui possa poi svilupparsi un percorso di lavoro specifico, per favorire un confronto strutturato e permanente degli psicologi del lavoro con i partiti e le amministrazioni che ne condividano l’interesse.

 

Note.

[1] P.G. Bresciani, Competenze, politica, governo locale. Appunti per un dibattito cruciale, in Professionalità, 86, 2007.

[2] Per una sintetica rassegna cfr. P.G. Bresciani, Capire la competenza. Teorie, modelli, esperienze dalla analisi alla certificazione, Milano, FrancoAngeli, 2012.




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