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La ricostruzione delle competenze nel bilancio, nella validazione e nella certificazione: risultati attesi, effetti, opportunità
The reconstruction of competences in self-assessment, validation and certification: anticipated results, effects and opportunities

Pier Giovanni Bresciani

Università di Urbino, Presidente SIPLO (Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione)



Sommario

Il presente contributo si focalizza sulla ricostruzione delle competenze nel bilancio, nella validazione e nella certificazione, sottolineando risultati attesi, effetti e opportunità. In particolare, dopo avere delineato lo scenario socio-economico e le caratteristiche del mercato del lavoro attuali, si definiscono gli ambiti in cui la ricostruzione dell’esperienza risulta una pratica emergente e si presentano le questioni metodologiche e le differenti accezioni di competenza. L’articolo si conclude con una riflessione sugli effetti inattesi e sulle nuove frontiere della ricostruzione e del riconoscimento delle competenze, considerando apprendimento e self-efficacy come elementi intenzionalmente (e non più solo incidentalmente) perseguibili e spingendosi oltre il bilancio, la validazione e la certificazione.

Parole chiave

competenze, bilancio di competenze, validazione delle competenze, certificazione delle competenze


Abstract

This contribution focuses on the reconstruction of competences in self-assessment, validation, and certification, underlining the anticipated results, effects and opportunities. In particular, after outlining the socio-economic scenario and the current characteristics of the labour market, the areas in which the reconstruction of the experience is an emerging practice are defined and methodological issues and the different meanings of competence are presented. The article concludes with a reflection on the unexpected effects and new frontiers of reconstruction and recognition of competences, considering learning and self-efficacy, and going beyond budget, validation and certification.

Keywords

competences; competence self-assessment; competence validation; competence certification.


 

Lo scenario attuale[1]

Nel dibattito corrente lo scenario socio-economico e di mercato del lavoro viene delineato, comprensibilmente, con espressioni che ne richiamano più la natura di minaccia e pericolo (per le persone, le imprese, la società, le istituzioni e le parti sociali) che non quelle di risorsa e di opportunità.

Come abbiamo altrove osservato (Bresciani, 2009)[2], l’orizzonte della crisi incombe e contribuisce in misura determinante ad influenzare lo stesso modo di “pensare” i cambiamenti in essere: che vengono definiti di volta in volta nella letteratura e nella pubblicistica corrente (Beck, 2013; Bresciani, 2012c; Bauman, 1999; Eherenberg, 2010; Gallino, 2007; Magatti, 2009)[3] come collocati nella società del rischio (che può diventare pericolo); nella società dell’incertezza (caratterizzata da scarsa decifrabilità, leggibilità, e difficoltà conseguente a prendere decisioni “giuste”); nella società delle transizioni (caratterizzata da mobilità, temporaneità, cambiamento di stato e quindi di identità professionale e quindi personale); nella società liquida (quindi fluida, poco “consistente”); nella società del disagio (termine che connota l’impatto emotivo ed esistenziale sulle persone); nel tempo della crisi (termine che evoca esclusione, vulnerabilità, precarietà, fallimento).

In questo scenario le imprese sono in modo particolarmente diffuso interessate da fenomeni di globalizzazione, delocalizzazione e ri-localizzazione, internazionalizzazione, merging & acquisition, downsizing e rightsizing, ristrutturazioni, fallimenti, cassa integrazione, licenziamenti.

Per le persone, ciò si traduce in fenomeni di mobilità aziendale, occupazionale, professionale, territoriale; in forme di flessibilità personale, professionale, contrattuale, organizzativa; in forme crescenti di precarizzazione; in quella “nuova” forma di esperienza professionale (ma anche tout court esistenziale) che è stata definita “transizione permanente” (Bresciani & Franchi, 2007)[4]; con casi di sovra e di sotto-qualificazione, e rischio di perdita del lavoro, e di esclusione sociale.

Anche in questo caso, la percezione diffusa è quella di una situazione di crescente rischio e di pericolo per i soggetti piuttosto che quella di un orizzonte di nuove opportunità.

La ricostruzione dell’esperienza come pratica emergente

In questo contesto, come abbiamo in altra sede argomentato (Bresciani, 2008)[5] in relazione a quella che a noi pare una “evidenza empirica”, e una fenomenologia ampiamente osservabile, assistiamo da qualche tempo, in ambiti diversi, al diffondersi si pratiche di intervento che adottano la ricostruzione della esperienza individuale (formativa, oppure professionale, oppure ‘di vita’ in senso lato) quale metodologia di lavoro, quale processo e/o dispositivo per “lavorare con le persone”, con finalità diverse.

Gli ambiti nei quali ciò è andato diffondendosi sono quantomeno i seguenti:

  • la formazione (con particolare enfasi ciò è avvenuto nell’educazione degli adulti; ma sempre più spesso sono state interessate da questa “tendenza” anche la formazione professionale e l’istruzione), dove sono stati sperimentati:

- l’utilizzo didattico delle biografie personali e delle storie di vita (in chiave di approccio metacognitivo piuttosto che di analisi del vissuto emotivo, ma pur sempre in una logica auto-riflessiva)

- l’impiego della ricostruzione di “segmenti” più o meno ampi dell’esperienza individuale (Vermersch, 2005)[6] (dalla ricostruzione di una semplice operazione; a quella di un episodio lavorativo; a quella della gestione del proprio ruolo lavorativo; a quella della propria intera vita formativa o professionale; in una prospettiva centrata di volta in volta sul contesto, sul processo o sul soggetto): per il riconoscimento di crediti; oppure per la personalizzazione e la individualizzazione dell’offerta; o per l’analisi dei fabbisogni formativi; o ancora per l’addestramento; per lo sviluppo di expertise; etc.

- infine (a partire dalle esperienze francesi del VAP-Validation des acquis professionelles oggi VAE-Validation des acquis de l’experience e da quelle anglosassoni dell’APL-Accreditation of prior learning e APEL-Accreditation of prior experiential learning), l’utilizzo di forme strutturate di validazione delle acquisizioni professionali a fini di riconoscimento formale delle competenze acquisite in contesti non formali. Per inciso, vale la pena di osservare come la grande enfasi che negli anni recenti ha caratterizzato (sia nei documenti di programmazione UE e nazionali, sia nelle pratiche formative) l’istanza della personalizzazione/individualizzazione dei percorsi formativi ha costituito un forte impulso alle pratiche volte a valorizzare tutte le competenze individuali, anche in funzione di una migliore tailorizzazione dei percorsi stessi alle diversificate caratteristiche ed esigenze di gruppi di utenti sempre più eterogenei (per provenienza geografica; per lingua e cultura; per esperienza pregressa; per conoscenze e competenze; per motivazioni e obiettivi; non di rado anche per età e per sesso; etc.)

  • l’orientamento e i servizi per l’impiego, dove in diversi tipi di servizi (ad esempio preselezione e incontro tra domanda e offerta di lavoro; consulenza orientativa e bilancio di competenze; ma anche nel c.d. “colloquio orientativo” integrato dalla compilazione della scheda professionale) la ricostruzione di segmenti più o meno ampi di esperienza dell’individuo viene considerata una attività essenziale per il raggiungimento degli obiettivi dei servizi stessi (inserimento occupazionale; elaborazione di un progetto formativo o professionale mirato; scelta formativa o professionale o occupazionale; accompagnamento al lavoro; creazione di auto-impresa; etc.). Senza contare che è proprio nell’ambito dei servizi per l’impiego che vengono di norma istituzionalmente collocate le competenze relative alla validazione e alla certificazione delle competenze, dopo il d. lgs. 13/2013.

  • la gestione delle risorse umane nelle imprese e nella pubblica amministrazione, dove in particolare nelle fasi di selezione in ingresso ma anche nelle fasi di assessment finalizzate alla analisi del potenziale, e negli interventi di supporto alla mobilità interna e alla stessa ricollocazione lavorativa (outplacement) hanno luogo da sempre pratiche (certo, di diversa struttura e qualità) di ricostruzione della esperienza professionale degli individui, e dove la pratica ormai da tempo emergente del coaching denota in realtà forme diverse di riflessione sull’azione (anche se a volte, a dire il vero, caratterizzate da poca riflessione e molta prescrizione).

  • il counseling e la terapia e individuale (nelle loro diverse configurazioni, e secondo i diversi orientamenti: psicoterapeutico; psicoanalitico; filosofico; etc. non di rado con i relativi sub-orientamenti in base alle diverse scuole di riferimento), dove la ricostruzione di specifici eventi sintomatici, piuttosto che di situazioni o di classi di situazioni problematiche, o di segmenti più o meno ampi della biografia individuale costituisce spesso sia il punto di partenza, sia lo strumento, sia l’oggetto della relazione di cura o comunque consulenziale.

Dalla esperienza alle competenze: questioni di metodo

Il focus della maggior parte di questi dispositivi (confermato anche dalla loro denominazione istituzionale) è quello della ricostruzione delle competenze come risultato atteso. Ma se ci si trova a valutare le proprie competenze, ciò significa che in qualche modo è stata definita una finalità, un obiettivo, uno scopo al quale la valutazione deve rispondere.

È importante ricordare che gli scopi della valutazione possono essere anche molto diversi tra loro, e che ciascuno di essi (in una logica di coerenza e di pertinenza) ha determinate implicazioni in termini di dimensioni di analisi da privilegiare, di metodologia e strumenti da adottare, di soggetti da coinvolgere, di tempi e modalità da rispettare.

Uno scopo della valutazione potrebbe essere quello “formativo”, come avviene in progress nei percorsi di istruzione e formazione: dove si tratta di valutare le competenze in corso di apprendimento, al fine di restituire un feedback individuale ai partecipanti e di riprogettare il percorso, quando necessario.

Uno scopo diverso potrebbe essere invece quello dell’accertamento/controllo legale-istituzionale dell’effettivo livello delle competenze in possesso di una persona: è il caso della certificazione che ha luogo in esito ai percorsi formativi formali, oppure a seguito di periodi di lavoro, oppure anche di percorsi di esperienza informale.

Un altro scopo potrebbe essere quello della incentivazione e/o della attribuzione di un premio per la produttività individuale: è il caso dei sistemi di valutazione delle prestazioni in via di diffusione nelle aziende o nella pubblica amministrazione, dove sempre più spesso l’erogazione di quote di reddito aggiuntive alla retribuzione di base è vincolata all’esito della valutazione del raggiungimento di determinati risultati oggettivi, e insieme a questo anche alla valutazione di alcune competenze correlabili ai comportamenti individuali.

Uno scopo ulteriore potrebbe poi essere quello della analisi dei fabbisogni formativi: come avviene nelle tante esperienze di analisi del gap che viene realizzata preliminarmente alla progettazione di interventi di formazione per effettuare un più adeguato fine tuning del progetto stesso rispetto ai fabbisogni dei destinatari specifici, e conseguentemente una personalizzazione, e a volte addirittura una individualizzazione, dei percorsi stessi.

C’è poi la valutazione delle competenze a scopo di selezione in ingresso o in uscita, e più in generale di matching tra persone e ruoli lavorativi/occupazioni: è ciò che avviene nell’assessment che ha luogo nell’ambito delle imprese o anche di certe modalità concorsuali pubbliche.

Occorre anche menzionare la valutazione che ha luogo nelle pratiche di orientamento/riorientamento al fine di supportare le persone nella definizione di un proprio progetto di sviluppo professionale o personale: è quella che avviene, ad esempio, nel bilancio di competenze che ha luogo nei centri di orientamento, oppure nell’assessment per l’autosviluppo che si manifesta nei development centre di alcune grandi imprese.

Tutti questi diversi tipi di contesto e di scopo presuppongono comunque una attività (logicamente, cronologicamente, funzionalmente), una pratica che viene in ogni caso definita “valutazione delle competenze”: ma ciò di cui, da professionisti riflessivi, dobbiamo essere consapevoli è che a finalità diversa devono corrispondere una diversa metodologia, diverse modalità, diversi strumenti per valutare.

Oltre alla questione dello scopo/finalità della valutazione, quando si valuta non ci si può esimere (se ne sia consapevoli o meno) dall’assumere a riferimento uno specifico modello di competenze. Valutare le competenze, infatti, implica in qualche modo “avere in testa” (che se ne sia consapevoli o meno) una specifica accezione di competenze: ciò implica quindi avere adottato un linguaggio, una tipologia, un modello di competenze, tra i tanti disponibili.

Se vogliamo essere (come dobbiamo) professionisti riflessivi, occorre acquisire consapevolezza del fatto che nel dibattito sono compresenti almeno tre modi diversi di intendere le competenze: è indispensabile dunque cercare di comprendere che cosa li differenzia, anche perché, anche in questo caso, tale differenza implica conseguenze importanti a livello di ciò che si valuta e di ciò che si certifica e riconosce, e a livello di ciò che occorre per farlo (dispositivi, metodi e strumenti, procedure, formati).

La prima accezione: le competenze (al plurale) come caratteristiche individuali

Nel linguaggio corrente, si attribuisce anche intuitivamente il termine di “competenze” a quell’insieme di caratteristiche individuali di diverso ordine che si considerano causalmente correlate a una performance lavorativa efficace, e che si ritiene costituiscano altrettanti prerequisiti della stessa.

Tale concezione intuitiva delle competenze è condivisa da buona parte del dibattito tecnico-specialistico e della manualistica per la gestione delle risorse umane e per l’istruzione e la formazione professionale, tanto che tutti i metodi di analisi delle competenze cercano di scomporre e ricostruire le prestazioni lavorative giudicate efficaci per individuare quali tipi di caratteristiche (alcuni le chiamano doti, altri risorse, altri appunto competenze) siano ad esse sottostanti. Come indicato, tali caratteristiche costituiscono un insieme eterogeneo, e a seconda degli approcci e degli autori vengono aggregate in tipologie diverse.

Per non complessificare troppo la questione, ci limiteremo a osservare che nella sostanza tutti coloro che si riconoscono in questo modo di intendere le competenze convengono che in una prestazione situazionalmente efficace entrano in gioco (a parità di condizioni di contesto) tre grandi categorie di elementi (e cioè di competenze):

- le conoscenze (dichiarative e procedurali) generali, specifiche e di contesto;

- le capacità (intese qui come disponibilità di tecniche e di metodologie operative);

- le caratteristiche personali (di vario ordine, e definite, a seconda degli approcci: doti, disposizioni, attitudini, risorse, work habits, etc.).

Le competenze intese in questo senso (al plurale) non esistono quindi “in natura”: come tanti altri oggetti che popolano la nostra esistenza e influiscono su di essa in modo rilevante (basti pensare a una serie di oggetti definiti dalla fisica, ad esempio), noi “non le vediamo”, mentre vediamo i loro effetti, e cioè i comportamenti lavorativi (attività svolte; azioni compiute; modalità di esercizio e stili di comportamento) dei quali tendiamo ad attribuire l’origine a una qualità-facoltà dell’individuo che definiamo “competenza”.

La competenza (al singolare) ci appare cioè in questo caso come il risultato aggregato, molare, olistico, composito che risulta dalla interazione sinergica di componenti che definiamo competenze (al plurale).

Le competenze sono dunque un costrutto, cioè sono entità delle quali noi inferiamo l’esistenza e la presenza solo indirettamente, osservando un comportamento lavorativo efficace: in questa prospettiva, noi non “vediamo” mai le competenze, ma ne vediamo sempre e solo la concretizzazione in comportamenti efficaci e cioè ne osserviamo le evidenze: sono tali evidenze a fornirci la conferma che quell’individuo “possiede” (come si dice con linguaggio poco felice) quella competenza.

Coerentemente, quando descriviamo una competenza secondo questo approccio (per stabilirla come obiettivo della istruzione o della formazione; oppure per valutarne l’acquisizione; oppure per certificarla), dobbiamo descrivere le conoscenze (conoscere…), le capacità (essere in grado di…), e le altre doti personali, o risorse psicosociali o caratteristiche individuali che abbiamo richiamato sopra (e nell’ambito delle quali vengono collocati, a seconda degli approcci, elementi quali tratti di personalità, work habits, competenze emotive, etc.): e quando la vogliamo valutare dobbiamo quindi predisporre una strumentazione e dei tipi di prove adatte a valutare questo tipo di oggetti e dimensioni.

Il vantaggio che sembra assicurato da un approccio “per competenze” è che se da un lato le competenze sono correlate all’efficace esercizio di un certo tipo di attività, esse, per loro natura (in quanto risorse dell’individuo), possono essere mobilitate anche in altri tipi di attività: in altre parole, se pure in misura diversa, le conoscenze, le capacità e soprattutto le altre doti/risorse/caratteristiche individuali mobilitate per realizzare un certo tipo di attività appaiono utilizzabili anche in altre (secondo questa prospettiva, le competenze sono sempre più o meno trasferibili da un contesto lavorativo a un altro, da un ruolo a un altro, da un compito professionale a un altro).

In questo modo, si ipotizza che conoscendo le competenze di un individuo (non tanto che cosa fa, quindi, ma che cosa sa e sa fare quando fa) si sia per ciò stesso in grado di formulare previsioni attendibili sulla efficacia con la quale potrà affrontare esperienze simili a quelle che ha già svolto in aula o in azienda, ma anche (e questo è ancora più importante, per le imprese, per i servizi per l’impiego ma anche per gli organismi di formazione) esperienze nuove e diverse, in ruoli e/o in aziende differenti (in fondo, in tale accezione è un concetto non molto dissimile da quello di potenziale).

Se da un lato appare infatti difficilmente contestabile che alcune attività lavorative siano trasversali (e cioè che ricorrano in modo simile, se non identico, in contesti professionali diversi), altrettanto difficilmente contestabile appare che in misura diversa le competenze (intese come finora argomentato) siano trasferibili.

Coerentemente, le competenze intese in questa accezione sono standardizzabili, nel senso che (almeno per ciò che riguarda conoscenze e capacità; ma c’è chi si spinge più oltre) esse sono descrivibili in modo omogeneo, come entità identiche delle quali al massimo varia il grado o livello di presenza, e cioè di prestazione individuale.

Le competenze costituiscono, secondo questo approccio, le risorse in input considerate necessarie per una prestazione lavorativa efficace: sono la fonte o meglio la causa di tale prestazione (secondo una delle definizioni più citate (Boyatzis, 1982; Mc Clelland, 1973; Spencer & Spencer, 1999)[7], infatti: “si definisce competenza… qualsiasi caratteristica individuale intrinseca… causalmente correlata a una performance superiore…”).

La seconda accezione: la competenza (al singolare) come processo di attivazione delle risorse individuali

Nello stesso tempo, e in parallelo, nel dibattito su questi temi si è venuta affermando anche la posizione di chi ritiene improprio e confusivo parlare di competenze al plurale, e afferma che occorrerebbe invece utilizzare tale termine solo al singolare.

Secondo questo approccio la competenza (che viene considerata come expertise; Frega, 2002; Lanzara, 1993; Meghnagi, 2005; Re, 1990[8]) costituisce in realtà non (come nel caso precedente) la fonte (la causa; l’origine) di un comportamento lavorativo efficace, bensì il processo mediante il quale un individuo, in un contesto lavorativo dato e a fronte di una richiesta che lo stesso esprime, si attiva, recupera, attiva e mobilizza le proprie risorse di vario tipo (conoscenze; capacità; doti; etc.).

In questa prospettiva, la competenza esprime la qualità del lavoro che un individuo svolge nel processare tutte le proprie risorse: che non vanno chiamate competenze, per un’evidente esigenza di rigore logico-formale ma anche per motivi sostanziali, trattandosi di distinguere tra risorse in input e processo di trasformazione delle stesse.

Secondo questo approccio non esistono due competenze “identiche”: la competenza è sempre idiosincratica, individuale, e costituisce il modo assolutamente personale e irripetibile con il quale un individuo seleziona, mobilita ed esprime le sue doti personali nell’ambito di una prestazione in un determinato contesto.

Volendo utilizzare una analogia con l’ambito informatico, si potrebbe affermare che, se nell’approccio precedente le competenze rappresentavano i dati inseriti nel computer individuale, e/o (nelle versioni più evolute) il software che ne consente il trattamento, in questo approccio la competenza rappresenta invece il sistema operativo dell’individuo, con la particolarità (rispetto ai computer) che ciascun individuo ha il proprio specifico sistema, diverso da tutti gli altri.

Per inciso, è interessante osservare come in coerenza con questo approccio si dovrebbe riconoscere come, per migliorare la qualità di un risultato (una prestazione scolastica; una performance lavorativa), non vi sia in effetti necessariamente bisogno di immettere più dati (conoscenze), come invece troppo spesso le strutture formative tendono a pensare, quanto piuttosto che venga modificato qualcosa dell’ordine della capacità di funzionamento e per così dire strutturale dell’individuo (il suo software o ancor meglio, piuttosto, il suo sistema operativo, per restare nella analogia).

Naturalmente, ciò non esclude che l’efficacia della prestazione possa essere migliorata anche intervenendo sulla ecologia della prestazione, e cioè sulle condizioni di lavoro nelle quali la prestazione viene svolta: ma questo è un altro discorso.

Ciò che preme qui osservare è che descrivere la competenza, in questo secondo approccio, significa soprattutto descrivere le strategie operatorie dell’individuo, spiegando insieme sia ciò che fa (che cosa), sia i criteri che egli adotta di volta in volta per sue scelte d’azione e le modalità di esercizio dell’attività (con quali scopi/finalità; per quali motivi; come).

A tale fine, occorre adottare metodi di descrizione qualitativi, e dare ampio spazio alla autodescrizione e alla autovalutazione (utilizzando metodi autobiografico-narrativi, o “tecniche quali ad esempio le istruzioni al sosia, oppure il thinking aloud).

Si tratta di una accezione in un certo senso simile a quella di stile professionale: e la sua conseguenza coerente è la sua non standardizzabilità, e la impossibilità di descrivere due volte nello stesso modo l’approccio assolutamente specifico con cui le persone si mobilitano per integrare in condotte (e cioè in corsi di azione intenzionalmente agiti) tutti i diversi tipi di risorse (interne ed esterne) a propria disposizione in un contesto dato.

Quanto alle questioni della trasversalità e della trasferibilità, in questa prospettiva il problema non si pone: la competenza infatti è per definizione trasversale, in quanto coincide con la modalità operatoria dell’individuo, che certo sarà di volta in volta influenzata dalle condizioni del contesto, ma che altrettanto certamente (come risulta con assoluta evidenza dalla esperienza quotidiana di ciascuno) sarà caratterizzata da alcune costanti: nella maggior parte delle situazioni professionali e di vita, infatti, è evidente come non avvenga mai che si riparte da zero ogni volta che si cambia contesto, comunità e gruppo di lavoro, e che in realtà i contesti (organizzativi, tecnologici, logistici, socio-culturali) costituiscono potenti catalizzatori del comportamento (vincolo e risorsa: ma non tanto in sé, quanto piuttosto a seconda di come l’individuo si pone in relazione con essi, sulla base della sua storia e di ciò che essa gli ha fino ad allora consentito di consolidare come dote e come disposizione).

Ciò significa anche che questo tipo di trasversalità (che come ho altrove osservato (Bresciani, 2002)[9] è worker based, e attiene alla modalità di condotta individuale, ispirata a principi di regolazione e di funzionamento che sono gli stessi, poiché costituiscono – per tornare alla analogia precedente - il sistema operativo degli esseri umani), dovrebbe più propriamente definirsi come trasferibilità; poiché in questo caso è l’individuo, mediante il suo processo di attivazione e mobilizzazione (la sua competenza al singolare) a trasferire da un contesto a un altro, da una situazione sociale a un’altra, da un tempo a un altro le proprie risorse (le sue competenze al plurale).

Per inciso (ma a questo occorrerebbe dedicare maggiore spazio, visti gli equivoci che ancora permangono, sia in parte dei formatori impegnati sul campo sia in alcuni degli esperti che intervengono nel dibattito tecnico-specialistico) vale la pena di osservare come questa seconda (e non la prima, come erroneamente molti mostrano di ritenere, che ho definito work based, e che si fonda invece sulla effettiva e riscontrabile omogeneità di parti di attività professionale in diversi ruoli, contesti, settori e sulla conseguente omogeneità delle conoscenze e delle capacità ad esse associate), sia in realtà la concezione più congruente con l’approccio che è andato in questi anni nel nostro Paese affermandosi nel dibattito formativo e socio-istituzionale sotto la evocativa locuzione, per quanto un poco fuorviante, di modello delle competenze trasversali, sulla base del contributo originario dell’ISFOL (Bresciani, 2004)[10].

In estrema sintesi, la competenza al singolare (ad esempio quella richiamata da Le Boterf, 1994[11]; o quella degli studi sull’expertise) coincide proprio con le competenze trasversali dell’ISFOL, e con la loro interazione con le risorse psicosociali (Sarchielli, 2002)[12].

La terza accezione: le competenze (al plurale) come performance, e cioè come “esecuzione di attività”

Più recentemente, infine, anche per reazione da un lato al livello di sofisticatezza intellettuale cui sono sembrati spesso approdare gli approcci indicati, dall’altro alla difficile “traducibilità di tale sofisticatezza in pratiche sostenibili (nella gestione delle risorse umane in impresa; ma anche nella istruzione e nella formazione professionale), e dall’altro ancora agli effetti non particolarmente rilevanti delle esperienze finora realizzate, si è venuta affermando una ulteriore prospettiva, un altro modo di considerare la questione-competenze, che appare in un certo senso semplificarla e renderla maggiormente trattabile, anche se (come vedremo) al prezzo di fondarsi a partire da una aporia essenziale.

Secondo questo approccio, la competenza non viene definita come causa di una prestazione efficace (la sua “onte; l’insieme delle risorse in input necessarie per il comportamento), né come processo di costruzione di tale efficacia (la attivazione e la mobilizzazione di tutte le risorse individuali a disposizione dell’individuo, in una situazione data); ma è invece, piuttosto, risultato stesso della attivazione individuale (la performance; l’attività lavorativa ben eseguita).

La competenza non è quindi, in questo caso, un costrutto in sé invisibile agli occhi (come era nella prima accezione, ed anche nella seconda), per confermare la presenza del quale occorrono evidenze comportamentali che ne costituiscano la traccia visibile, ma coincide invece essa stessa con i comportamenti che la indicano: in questo approccio, la competenza si descrive quindi come un insieme di attività che l’individuo è in grado di realizzare con efficacia, secondo standard di prestazione definiti.

In questo approccio, quindi, alla fine ciò che interessa è il prodotto-risultato; in una prospettiva meno speculativa e più operativo-applicativa, ciò sembra in effetti risolvere molti dei problemi sia concettuali che operativi che gli altri due approcci presentano: soprattutto quello della definizione intersoggettivamente condivisa del tipo di prestazioni che ci si può attendere da un soggetto al quale vengano concordemente riconosciute determinate competenze.

La pratica della gestione delle risorse umane in impresa (nella selezione, nella valutazione delle prestazioni, nella valutazione del potenziale) e quella della valutazione nella istruzione scolastica e universitaria, e nella formazione professionale, e sempre più spesso anche le pratiche di sostegno all’incontro tra domanda e offerta di lavoro nei servizi per l’impiego mostrano infatti con grande evidenza quanta distanza possa permanere tra soggetti diversi (una volta anche riconosciute concordemente a un individuo determinate competenze) nel giudizio sul livello di prestazione cui tali competenze possano dare effettivamente luogo.

I modi per temperare questa “intoglibile dimensione di soggettività del giudizio (di un docente, di un tutor, di un collega di lavoro, di un imprenditore, di un consulente individuale, di un imprenditore, di un operatore dei servizi di incontro domanda/offerta, etc.) sono diversi: dal mettere a confronto tutti questi stessi giudizi operandone una sintesi (metodi di valutazione a 180° e a 360°; peer review, etc.), fino al fare esprimere tali giudizi sulla base di una tabella che contiene la descrizione di esempi di comportamenti che rappresentano ciascuno un livello di prestazione e cioè un grado determinato di possesso/esercizio di quella competenza.

Il salto logico che questo terzo approccio propone è esattamente questo: affermare che la competenza “è” lo svolgimento di una determinata attività con un certo livello di prestazione.

Per descrivere la competenza, in questo caso, non occorre fare altro che descrivere la performance, e cioè l’attività professionale che deve essere svolta in modo efficace (in modo competente, potremmo affermare); non occorre quindi descrivere gli input necessari per la prestazione (conoscenze, capacità, etc.), né tantomeno il processo di trasformazione di tali input (modalità di attivazione, motivazioni e scopi, strategie operatorie, stili di coping, etc.) in condotte lavorative, bensì, più semplicemente, l’output (il prodotto-risultato), e cioè che cosa un individuo deve fare per dimostrarsi competente.

In questo approccio gli input (nei termini delle conoscenze e delle capacità ritenute necessarie per fare) e il processo (nei termini delle strategie e delle modalità di attivazione adottate nel fare) vengono considerati elementi utili per la progettazione dei curricoli e dei percorsi di istruzione e formazione, ma non rilevanti o comunque non decisivi in funzione della definizione intersoggettiva di che cosa sia da intendersi per competenza: la competenza è considerata sempre una entità dotata di una sua autoconsistenza (pe cui non sarà mai troppo micro) e corrisponde sempre al presidio efficace di una parte di attività lavorativa (definita, a seconda degli approcci, area di attività, processo, sub-processo, ambito di attività, o in altro modo).

La competenza, in questo approccio, si articola in unità di competenza, che costituiscono il modo intersoggettivamente condiviso di segmentare il complesso delle attività lavorative fino al limite della loro riconoscibilità.

Naturalmente, diversi sono i criteri che possono essere adottati per definire la soglia dimensionale della attività che corrisponde a una unità di competenza: il fatto che tutte le attività facenti parte di quella unità concorrano alla realizzazione di un prodotto o servizio intermedio riconoscibile e apprezzabile; il fatto che tale unità aggreghi un insieme di attività funzionale e modulare rispetto al processo più ampio in cui si inscrive; il fatto che ad essa corrisponda un insieme di conoscenze, capacità e metodologie professionali omogenee; il fatto che essa rappresenti una soglia di responsabilità e autonomia; il fatto che le attività in essa ricomprese rappresentino un aggregato riconosciuto come tale e spendibile in ambito professionale; etc.

Sul piano del rigore logico, naturalmente, il corto-circuito per il quale la competenza viene descritta come l’attività che risulta dal suo esercizio non fa che aggirare il problema, e appare come un elegante modalità di uscire dalla impasse nella quale sembrano avere condotto anni di riflessioni e di confronto sui linguaggi e sui modelli.

Paradossalmente, e probabilmente proprio per questo, sul piano delle pratiche formative e istituzionali invece, se pure in misura diversa a seconda della storia e delle esperienze sedimentate nei diversi sub-sistemi di education (scuola, formazione professionale, università, formazione aziendale), l’introduzione di un riferimento cogente alle attività professionali attese in output favorisce l’innovazione, in quanto orienta le pratiche di progettazione dei curricoli (e comunque degli interventi) e la programmazione didattica, a una finalizzazione molto più esplicita di quanto non sia finora avvenuto, contribuendo a definire l’orizzonte di senso delle materie-discipline.

Effetti inattesi e nuove frontiere della ricostruzione e del riconoscimento delle competenze: apprendimento e self-efficacy oltre il bilancio, la validazione e la certificazione

In tutte le situazioni professionali in cui abbia luogo la ricostruzione dell’esperienza delle persone al fine di individuare le competenze che questa ha consentito di acquisire (quando tali situazioni siano agìte da operatori competenti, in condizioni organizzativo-strutturali favorevoli e adottando approcci, metodi e procedure adeguati e consistenti) l’esperienza mostra che oltre al perseguimento dei risultati attesi (output: che nel caso della validazione coincide con la ricostruzione delle esperienze, la loro messa in trasparenza, la loro documentazione tramite evidenze e, infine, con la validazione degli apprendimenti e delle competenze che vi corrispondono, in funzione del riconoscimento di crediti formativi) si riscontrano sempre in esito anche alcuni effetti (outcome) all’inizio inattesi: in particolare, effetti di auto-consapevolezza, di fiducia in se stessi, di self-efficacy e di self-empowerment, di attivazione e di progettualità, ma anche di apprendimento e sviluppo di competenze (e di competenza, al singolare).

In altre parole, al termine di un “buon percorso di bilancio di competenze, di validazione, di counseling, di coaching riflessivo, le persone verbalizzano e restituiscono generalmente all’operatore che li ha accompagnati e supportati un vissuto di sorpresa e di gratitudine non solo per ciò che di nuovo e spesso di inatteso hanno imparato su di sé in termini professionali (e anche non di rado in termini identitari ed esistenziali, per come le diverse dimensioni risultano intrecciate), ma anche per ciò che hanno imparato tout court: la ricostruzione, razionalizzazione, classificazione e sistematizzazione delle proprie conoscenze e capacità agisce infatti da un lato quale potente meccanismo di attivazione e sviluppo delle risorse personali (auto-consapevolezza, autostima, self-confidence, etc.) e quindi complessivamente delle competenze al plurale, ma dall’altro anche quale acquisizione di una “chiave per mobilizzare le proprie strategie cognitive e di fronteggiamento delle situazioni, e quindi quelle che abbiamo altrove definito costituire la competenza al singolare (Bresciani, 2012a, 2014)[13].

Se tutto questo è vero (e anche i riscontri empirici di tante e diverse pratiche professionali sul campo in ambiti diversi lo confermano), la ricostruzione delle competenze acquisite in contesti non formali e informali non rappresenta soltanto una efficace pratica di accompagnamento alla progettazione di sé, alla convalida (ed eventualmente alla certificazione), ma anche una pratica a tutti gli effetti formativa, in esito alla quale le persone oltre a capitalizzare il risultato “bilancio/validazione/certificazione capitalizzano anche il risultato “apprendimento/sviluppo di competenze.

Sotto questo profilo, alcuni limiti “intrinseci (Bresciani, 2012b, 2012-2013)[14] a questi processi, che abbiamo altrove richiamato, configurano altrettanti punti di attenzione ma non inficiano il valore e la validità delle considerazioni appena svolte: ci riferiamo ad esempio ai limiti della verbalizzazione (con il rischio che quantità e qualità della ricostruzione dell’esperienza che le persone elaborano e formalizzano siano correlati essenzialmente alla competenza verbale dei soggetti coinvolti, penalizzando quindi a un lato quelli con minor livello di istruzione formale e dall’altro quelli con più limitata competenza argomentativa e relazionale); oppure a quello che può essere definito come il paradosso della certificazione (il rischio che lo stesso atto con il quale si riconosce, convalida e certifica qualche tipo di competenza rappresenti, sia soggettivamente che oggettivamente, anche perciò stesso un atto che sancisce e quindi sanziona tutte le competenze che non ci sono, e che da quella ricostruzione non emergono: con effetti paradossalmente di diminuzione dell’autostima, depressione, dis-attivazione personale, nonché di svalorizzazione sociale).

Se quindi questi rischi, ai quali occorre comunque sempre prestare attenzione, non diminuiscono per nulla la consistenza ed il valore delle considerazioni svolte sugli effetti (vs risultati attesi), allora è il momento di fare in modo che questo prezioso effetto preter-intenzionale del processo di ricostruzione delle competenze (e in particolare della validazione) venga assunto intenzionalmente quale innovativo obiettivo delle policy istituzionali volte a favorire l’occupabilità (ma noi vorremmo dire più in generale il benessere personale e l’equità sociale).

E’ il momento di realizzare più validazione e meno formazione (o meglio, che una parte sempre maggiore della formazione che si fa abbia la forma della validazione) per il semplice fatto che, come abbiamo argomentato, la validazione costituisce già, di per sé, un processo formativo: questo implica naturalmente una serie di considerazioni e di decisioni relative alla strutturazione dei dispositivi e dei relativi standard qualitativi della validazione stessa, alla professionalità e alle competenze degli operatori, etc.

E per evitare malintesi, crediamo opportuno precisare che riteniamo che tale parziale riconversione delle forme dell’apprendimento (perché di questo si tratta) possa essere affrontata con il coinvolgimento e il protagonismo di molti dei soggetti e delle professionalità attualmente impegnate nell’insegnamento, nella docenza, nella consulenza orientativa e per il lavoro: questa costituirebbe anzi una soluzione di alto profilo per l’emergente mismatch tra risorse finanziarie in prospettiva disponibili per la formazione e quantità e qualità dei formatori attualmente impegnati in tale ambito.

Se osserviamo con disincanto la evoluzione negli anni delle politiche della formazione, dell’orientamento e del lavoro, possiamo riscontrare la mancanza di scelte forti, e la tendenza a rinviare le decisioni a favore di una sperimentazione continua e diffusa mai davvero considerata come tale e dalla quale quasi mai si sono tratte indicazioni cogenti e tempestive per la messa a regime di sistemi, dispositivi, norme, procedure.

Per quanto ci riguarda, siamo arrivati a ritenere che oggi la profonda crisi che investe il nostro Paese (e che investe anche gli ambiti dei quali ci siamo occupati in questo contributo: se ciò avvenga come effetto o come causa, costituisce un ulteriore interessante elemento di riflessione) rappresenti in realtà la principale chance che abbiamo a disposizione per il l’innovazione e il cambiamento necessari: non abbiamo più tempo, e per la cultura che il Paese ha espresso in questi anni la crisi questo è forse l’unico antidoto a continuare il “gioco della procrastinazione continua e della in-decisione.

Come abbiamo osservato in tempi in cui questo non era ancora divenuto uno slogan caratterizzato politicamente: se non ora, quando? (Bresciani, 2009)[15]

Perché, a differenza di quanto provocatoriamente si chiedeva retoricamente H. Bjornavold oltre dieci anni fa (Bjornavold, 1999)[16], oggi we have huge problems, looking for solutions: e la ricostruzione delle competenze (nella forma del bilancio, della validazione, del career counseling, etc.) costituisce una soluzione particolarmente multifunzionale, in grado di produrre risultati ed effetti particolarmente preziosi per le persone, per le imprese, per la società.

Ma come abbiamo osservato, per rendere davvero disponibile e praticare tale soluzione per le potenzialità che è in grado di esprimere, occorre che gli stakeholders ritrovino il coraggio, l’orgoglio e la capacità di un pensiero alto, e cessino finalmente di tenersi di tenersi “reciprocamente prigionieri, come da troppo tempo avviene.

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Note

[1] [1] Il presente contributo è il risultato dell’integrazione di alcuni contributi dell’autore pubblicati negli ultimi anni, parzialmente rielaborati.

[2] P.G. Bresciani, L’orientamento al tempo della crisi, e oltre, in Rapporto Orientamento (2009), ISFOL (2010).

[3] Molti sono gli autori che hanno messo a tema queste caratteristiche dello scenario (tra gli altri: U. Beck, Z. Bauman, L. Gallino, A. Eherenberg, M. Magatti).

[4] P.G. Bresciani e M. Franchi, Biografie in transizione. I progetti lavorativi nell’epoca della flessibilità, Milano, FrancoAngeli, 2007.

[5] cfr. P.G. Bresciani, Ricostruire l’esperienza. Finalità, contesti, effetti, in G. Di Francesco (a cura di), Il capitale esperienza. Ricostruirlo. Valorizzarlo. Piste di lavoro e implicazioni operative, ISFOL, 2008.

[6] L’ampiezza dei “segmenti di esperienza individuale costituisce un criterio di distinzione utilizzabile, così come quello (ad esso complementare) che P. Vermersch definisce “granularità della descrizione, nel suo volume Descrivere il lavoro. Nuovi strumenti per la formazione e la ricerca: l’intervista di esplicitazione,  Roma, Carocci, 2005.

[7] Si tratta della pluricitata definizione di D.C. Mc Clelland (non priva di una sua intrinseca aporia, a mio avviso), sulla cui base sia R. Boyatzis che D. Spencer e L. Spencer (nel loro Competenza nel lavoro, Milano, FrancoAngeli, 1999) hanno costruito il modello noto come modello delle “competenze di successo, che tanta diffusione ha avuto sia in letteratura che nelle pratiche aziendali, anche nel nostro Paese.

[8] Anche in questo caso, numerosi sono i contributi che, nella letteratura tecnico-specialistica, hanno indagato sul “farsi dell’expertise e sulle “caratteristiche di un soggetto “esperto. Uno di questi è, ad esempio, A. Re, Psicologia e soggetto esperto, Torino, Tirrenia Stampatori, 1990. Nel dibattito, una concezione di questo tipo sembra ispirare S. Meghnagi, Il sapere professionale. Competenze, diritti, democrazia, Milano, Feltrinelli, 2005. Per una prospettiva “divergente al riguardo cfr. G.F. Lanzara, Capacità negativa, Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Bologna, il Mulino, 1993; per un commento al quale cfr. R. Frega, Incompetenza esperta, capacità negativa e deuteroapprendimento, in Professionalità, 70, 2002.

[9] cfr. P.G. Bresciani, La competenza. Appunti di viaggio, in A.M. Ajello (a cura di), La competenza, Milano, FrancoAngeli, 2002.

[10] Per una analisi del rapporto tra competenze trasversali e competenza tout court cfr. anche P.G. Bresciani, Le competenze tra linguaggi, pratiche e sistemi di regolazione in Professionalità, 83, 2004.

[11] A partire dal primo contributo De la competence. Essai sur un attracteur étrange, Paris, Les editions d’organisation, 1994.

[12] Per una esemplare disamina al riguardo, cfr. G. Sarchielli, Le competenze. Valore/risorsa della persona nei contesti di lavoro in A.M. Ajello (a cura di), op. cit.

[13] cfr. P.G. Bresciani, Capire la competenza. Teorie, metodi, esperienze dalla analisi alla certificazione, Milano, FrancoAngeli, 2012a. Per una sintesi cfr. P.G. Bresciani Competenza, in D. Lipari e S. Pastore, Nuove parole della formazione, Roma, Palinsesto, 2014.

[14] cfr. P.G. Bresciani, Riconoscere e certificare le competenze: cui prodest? Esperienze, problemi e prospettive nel contesto italiano, in Id., Capire la competenza. Teorie, metodi, esperienze dalla analisi alla certificazione, Milano, FrancoAngeli, 2012b.

[15] Con questa “storica locuzione (Se non ora, quando? Le priorità in tempo di crisi) avevamo intitolato un nostro editoriale sulla rivista Professionalità (n. 106-2009) richiamando i soggetti istituzionali alle loro responsabilità in relazione alla costruzione delle “infrastrutture di sistema.

[16] In un suo pionieristico contributo di oltre quindici anni fa H. Bjornavold, nell’ambito della prima ricognizione europea sistematica dei dispositivi di validazione delle competenze (significativamente intitolata Making learning visible) si chiedeva provocatoriamente e “retoricamente (per poi arrivare a rispondersi negativamente) se i dispositivi, i servizi e le procedure di identificazione, valutazione e riconoscimento delle competenze che in tanti Paesi europei si erano venuti consolidando, se pure con diverso livello di sviluppo e formalizzazione, non costituissero per caso solutionslooking for problems, e cioè (tradotto nel linguaggio delle analisi di mercato) prodotti alla ricerca di clienti. Bjornavold in sostanza suggeriva “maliziosamente che la progressiva implementazione di tali dispositivi potesse essere ascritta più alla disponibilità di metodologie, tecniche e strumenti in tali ambiti che alla loro effettiva funzionalità e utilità rispetto alla domanda dei diversi tipi di utenti potenziali, domanda che si manifestava a quel tempo ancora in modo molto limitato (e che ancora oggi sembra configurarsi più come una opportunità/necessità sociale sostenuta dai soggetti socio-istituzionali – se pure non con la stessa intensità e diffusione – che come una specifica richiesta dei destinatari finali di tali dispositivi). Tale considerazione risultava tra l’altro in sintonia con quanto da molti anni si veniva affermando nel dibattito tecnico-specialistico in relazione ai servizi di formazione e di consulenza: dibattito in cui si imputava a tali servizi di configurare un mercato supply driven e cioè trainato dall’offerta e condizionato dai dispositivi disponibili piuttosto che dalla domanda dei clienti-utenti (demand side).

 


Autore per la corrispondenza

P. G. Bresciani
Indirizzo e-mail: pier.bresciani@uniurb.it
Dipartimento di Giurisprudenza, Scuola di Giurisprudenza, Università degli Studi di Urbino, Carlo Bo, Via Aurelio Saffi 2, 61029 Urbino PU.



Note

1 A

DOI: 10.14605/CS1011703


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