Differenti significati di employability

Le continue innovazioni tecnologiche, la crescente domanda di efficienza per le organizzazioni che intendono competere a livello nazionale e internazionale e le nuove forme di produzione e organizzazione del lavoro continuano a produrre importanti cambiamenti strutturali anche nel mercato occupazionale: da un lato, vi è l’esigenza di reclutare lavoratori competenti, capaci di coinvolgersi pienamente nella vita organizzativa e di rispondere alle mutevoli richieste di produttività, dall’altro, si diffondono le occupazioni temporanee che disincentivano le “carriere a lungo termine” nella stessa organizzazione. Ciò corrisponde non solo a una gestione individualistica delle risorse umane, ma soprattutto all’assunto che le persone ormai, stabilendo relazioni contrattuali di tipo individuale con i datori di lavoro, dovrebbero anche “farsi carico” del loro sviluppo professionale non legandosi al lavoro che svolgono né alle aleatorie occasioni di carriera interna a un’unica organizzazione bensì allargando continuamente i loro orizzonti al mercato del lavoro esterno (Toderi & Sarchielli, 2013).

Questo processo di “individualizzazione” dei rapporti di lavoro, che è stato spesso enfatizzato come occasione di libertà nella scelta del come e dove lavorare e come opportunità di plasmare le proprie traiettorie di vita, ha contribuito a riportare in auge la nozione di employability. Come è noto, si tratta di una nozione che raccoglie molti significati evolutisi nel corso del tempo (Green, de Hoyos, Barnes, Owen, Baldauf, & Behle, 2013), utilizzata da prospettive disciplinari diverse (sociologiche, manageriali, economiche, psicologiche) e dunque di difficile uso senza un chiaro accordo tra gli utilizzatori sul piano della ricerca e delle applicazioni pratiche (si veda la Tabella 1).

Tabella 1 - Differenti significati di employability
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Fonte: rielaborazione personale sulla base di McQuaid e Lindsay (2005); Green et al. (2013); Guilbert, Bernaud, Gouvernet, e Rossier (2016).
 

Il termine è diventato popolare come superamento di fatto delle tradizionali politiche di piena occupazione, come indicatore di esito dei percorsi scolastici e universitari e come obiettivo delle politiche formative e dei servizi per il lavoro (Nilsson & Nyström, 2013). Inoltre, nel linguaggio manageriale, sta a indicare una sorta di nuovo “patto di lavoro” caratterizzato da una strategia che: a) incentiva inserimenti occupazionali temporanei e possibili percorsi lavorativi non predeterminati dall’anzianità di servizio, ma impostati sulla mobilità orizzontale e verticale e su frequenti cambiamenti dei ruoli nella stessa e in altre organizzazioni; b) prevede in cambio la fornitura da parte delle persone di competenze pregiate di tipo cognitivo, relazionale e comportamentale alimentate da iniziative di lifelong learning spesso autopromosse. Infatti ci si aspetta che i lavoratori siano flessibili, capaci di orientarsi velocemente nei nuovi contesti e pronti ad apprendere nuove conoscenze e competenze nel corso delle loro diverse esperienze. Le nuove richieste lavorative implicano non solo capacità di prestazione tecnica nei compiti specifici, ma soprattutto un impegno efficace, lealtà, comprensione e rispetto delle regole, assunzione di valori e norme che fanno parte della specifica cultura organizzativa.

E in tale prospettiva di nuova socializzazione al lavoro “autogestita” dalle persone, i lavoratori dovrebbero saper delineare strategie occupazionali adeguate (ad esempio, progettazione, scelta e valutazione dei propri percorsi); investire tempo, energie e altre risorse personali per auto-promuoversi e mantenersi attrattivi nel mercato del lavoro; saper cogliere le opportunità ed evitare gli ostacoli nei loro rapporti (anche temporanei) con le organizzazioni. In pratica ciò significa assumersi una responsabilità diretta per il proprio inserimento e sviluppo professionale e diventare in grado di gestire la propria occupabilità facendo fruttare il proprio capitale umano, ad esempio, mediante la formazione in contesti formali o facendo tesoro degli apprendimenti acquisiti in ambiti informali e non formali (Van der Heijden, Boon, Van der Klink, & Meijs, 2009).

L’accento posto sul valore dell’employability, vista come insieme di competenze (hard e soft skills) e attributi individuali e come mezzo propedeutico per un’occupazione soddisfacente, accanto alla sua più ampia connotazione positiva rivela però anche il suo “lato oscuro”, ovvero il rischio di legittimare in qualche modo le disuguaglianze sociali presenti anche nel mercato del lavoro. Infatti, il supposto legame diretto employability-employment che i sistemi di istruzione, del lavoro e dei servizi intendono perseguire non mette tutte le persone sullo stesso piano. Non tutti (si pensi alle numerose categorie sociali ad alto tasso di vulnerabilità) hanno le stesse opportunità di assumersi responsabilità effettive per il loro sviluppo e di gestire con efficacia i vari aspetti della loro readiness for work. Questi in realtà dipendono, in misura notevole, da fattori di contesto (ad esempio, disfunzioni strutturali del sistema di istruzione e del mercato del lavoro, carenza di fattori facilitanti promossi da valide politiche del lavoro, attive e passive). Sono inoltre dovuti a condizioni assai differenziate di status socio-economico e culturale e di livello e tipo di istruzione ricevuta; a gradi diversi di sostegno familiare, sociale e psicologico; a fattori come il genere, l’etnia, l’integrità psicofisica, ecc. Dunque la richiesta implicita dei contesti occupazionali fatta alle persone che vogliono “essere o restare occupabili” di rivalutare di continuo il proprio capitale di competenze, di essere flessibili (aggiustando sistematicamente i loro percorsi di carriera) e di investire risorse in nuovi progetti personali che siano appetibili per le organizzazioni può divenire per molti un compito difficile (se non impossibile), che rischia di compromettere le loro chances di inclusione sociale. Ciò a maggior ragione risulta cruciale quando ci si rende conto dell’importanza delle caratteristiche psicosociali che connotano l’occupabilità e si riconosce il valore di attivazione dell’impegno personale derivante dalle valutazioni soggettive di essere occupabili, ovvero adeguati a costruire un effettivo e soddisfacente percorso professionale (Rothwell & Arnold, 2007).

Processi di self-assessment e riflessività

L’ampia letteratura psicosociale sull’employability ha preso atto del consenso ormai esistente nelle organizzazioni e nei contesti istituzionali e formativi circa l’utilità per le persone di avere a disposizione un vasto insieme di competenze tecniche e psicosociali per facilitare la loro occupazione (El Mansour & Dean, 2016). Tuttavia ha messo in risalto il fatto che ciò non esaurisce la questione dell’employability e che occorre riconoscere il ruolo preminente delle autovalutazioni che le persone stesse effettuano sulle proprie risorse personali e sulle capacità di navigare nel mondo del lavoro. Si tratta della self-perceived employability che, in generale, rappresenta sia la percezione del proprio valore rispetto al lavoro (basata cioè più sulla considerazione delle abilità personali che sulle caratteristiche dell’occupazione) sia la valutazione delle proprie potenzialità più o meno facilmente esprimibili nei contesti concreti (Fugate, Kinicki, & Ashforth, 2004).

Questo “approccio soggettivo” all’occupabilità ha messo in luce numerosi effetti sul modo con cui viene affrontata la relazione tra persona e occupazione (Guilbert et al., 2016). Ad esempio un’elevata self-perceived employability (ovvero l’autovalutazione delle proprie abilità cognitive, emotive e comportamentali) risulta connessa: con un più accurato riconoscimento della presenza di opportunità lavorative (De Cuyper & De Witte, 2010); con l’efficacia della ricerca del lavoro e con la probabilità dell’ingresso occupazionale in misura più rilevante rispetto a indicatori oggettivi, ad esempio, di tipo scolastico (Aguilar et al., 2012); con un livello di salute e benessere più elevati (Berntson & Marklund, 2007); con risposte più flessibili e adattive di fronte alle minacce di disoccupazione (Silla, De Cuyper, Gracia, Peiró, & De Witte, 2009); con una maggiore capacità di coping di fronte alle avversità e agli ostacoli del mercato del lavoro (De Battisti, Gilardi, Guglielmetti, & Siletti, 2016); con il più ampio coinvolgimento in attività di sviluppo di conoscenze e competenze professionali (Van Dam, 2004) e di capacità funzionali all’auto-gestione della carriera (Van der Heijde & Van der Heijden, 2006).

Le evidenze della letteratura empirica sulle dimensioni soggettive dell’occupabilità rendono salienti numerosi costrutti e processi relativi al self (Guichard, 2009; Di Fabio & Kenny, 2016) variamente declinati sul piano operativo, ma corrispondenti all’intenzione di far emergere le risorse necessarie alla persona per affrontare il lavoro e i suoi cambiamenti e per cercare di progettare e realizzare la propria carriera. Si pensi, ad esempio, all’ampia diffusione di concetti come: self-regulation o self-management (con varie sottolineature di significato: personal initiative, proactivity, autonomous acting, self-directedness employability skills), self-awareness, self-efficacy, self-judgement e self-evaluation (self-esteem), self-discipline, self-reliance, self-motivation, career identity oppure a costrutti di ordine superiore, multidimensionali come: Core Self-evaluation (comprendente stima di sé, auto-efficacia generale, stabilità emotiva, locus of control), Psy-Cap (capitale psicologico basato su fiducia in se stessi/auto-efficacia, speranza, ottimismo, resilienza), Adaptability (con le sue dimensioni di interesse per il futuro, controllo, curiosità per i sé possibili e gli scenari futuri, self-confidence/auto-efficacia).

Senza pretendere di dar conto delle differenti connotazioni implicite nell’uso di tali costrutti, ci pare plausibile mettere in luce la loro convergenza semantica nel segnalare l’importanza di due processi psicosociali che possono risultare di grande utilità pratica nel sostenere lo sviluppo dell’occupabilità delle persone: l’auto-riflessività e il self-assessment.

Autoriflessività

Lo sviluppo delle dimensioni soggettive dell’occupabilità che abbiamo richiamato implica il coinvolgimento della persona nel valutare il grado di distanza tra ciò che possiede in termini di risorse psicosociali, conoscenze e capacità e ciò che sarebbe necessario. Riconoscere tale possibile gap dovrebbe costituire una spinta motivazionale a cercare di colmarlo mettendo in atto strategie per superare gli eventuali ostacoli personali o sociali che si frappongono. In realtà, tale capacità di riconoscimento (e di conseguente autoconsapevolezza) non può essere data per scontata né è facile da acquisire se non viene incentivata sin dal periodo formativo la capacità di riflettere sulle proprie esperienze, sulla qualità delle relazioni interpersonali, sugli esiti del confronto con gli altri, sulle informazioni e i feed-back forniti dalle persone significative, sui propri punti di forza e di debolezza nello svolgere in compiti di ruolo nella scuola o nel lavoro, ecc. che, nel loro insieme, rappresentano la base materiale sulla quale una persona definisce la propria identità.

L’auto-riflessività è uno stile di pensiero che usa l’analisi introspettiva dell’esperienza per ricavare consapevolezza: a) di quello si sa fare e si desidera migliorare; b) di quello che si è o che si vuole diventare. Rappresenta una sorta di “osservazione” e “dialogo interno” con i quali la persona di proposito si pone delle domande per migliorare la sua comprensione del proprio modo di agire e di interagire con gli altri. In concreto, i processi sistematici di self-observation, self-dialogue, self-analysis, e self-evaluation con cui si declina l’auto-riflessività sono essenziali per esplorare le pratiche quotidiane, verificare i personali sistemi di credenza che influenzano le percezioni di sé e degli altri, le attività di interpretazione e sense-making dell’esperienza, le modalità e i limiti delle proprie performance, il riconoscimento delle conoscenze e delle qualità personali già disponibili o da potenziare, ad esempio, rispetto al lavoro per cui ci si sta preparando e che si desidera fare.

L’auto-riflessività è stata considerata come una consapevole “focalizzazione su se stessi” che assume anche un ruolo adattivo, ad esempio, influenzando il grado di soddisfazione e stimolando una più chiara consapevolezza di sé e delle proprie qualità, i processi di autoregolazione emotiva, la capacità di risoluzione dei problemi, la capacità di decentrarsi e quindi di valutare se stessi, gli altri e la situazione in maniera più obiettiva, con minori interferenze emotive (Mori & Tanno, 2015). Riflettere su stessi non vuol dire “ruminare” (ovvero rimuginare rivivendo ciclicamente e con connotazioni depressive le esperienze fatte) né “auto-criticarsi” sovrastimando gli aspetti insoddisfacenti del proprio sé, bensì significa concentrarsi su ciò che si può ricavare di utile dall’esperienza e su come tenerne conto per il proprio comportamento in futuro. Lo scopo ultimo dell’auto-riflessione è il cambiamento ovvero l’apprendimento e la produzione di nuove capacità di essere e di agire in modo più efficace in futuro. E ciò evidentemente può rappresentare un obiettivo non da tutti apprezzato (ad esempio, se non ci sono motivazioni a uscire dalle routines consolidate) o non facilmente praticabile, senza specifici sostegni, dalle persone con scarse risorse educative e socio-culturali o in condizioni di particolare svantaggio nei contesti di lavoro.

La pratica riflessiva è un processo “naturale” di richiamo alla mente delle esperienze, di riordino delle sue componenti cognitive ed emotive e di una loro valutazione e attualizzazione alle situazioni presenti (Toros & Medar, 2015), che è stato ampiamente acquisito nel modus operandi che caratterizza il “professionista riflessivo” (Schön, 1983). In tale ambito la riflessività (sull’azione, durante l’azione e per l’azione) è ritenuta centrale non solo per integrare teoria e pratica, ma anche per migliorare l’apprendimento, incrementare la consapevolezza professionale, agire criticamente, arricchire le competenze e innovare le prassi professionali (Helyer, 2015). Questi processi auto-riflessivi hanno un rilievo anche per l’employability dal momento che offrono alla persona un’occasione sia di scoperta delle proprie capacità, delle credenze su di sé (ad esempio l’auto-efficacia), dei propri desideri e aspettative future e dei vincoli e delle opportunità situazionali sia di stimolo alla ridefinizione del proprio self e della gerarchia degli scopi assegnati al lavoro in una particolar fase della sua vita. La capacità auto-riflessiva può essere incrementata progressivamente con l’impegno e la fatica personale a rileggere in modo sistematico le esperienze fatte. Secondo Daudelin (1996) ciò significa, ad esempio, strutturare la riflessione con una fase di accurata descrizione della situazione, degli eventi e degli attori coinvolti; una fase di analisi riflessiva (con risposte a domande che aiutano a fare delle ipotesi sulle ragioni e il significato della esperienza vissuta: perché è accaduto un dato evento? Perché ho agito in quel modo? Perché ho provato quel sentimento o emozione?); una fase di valutazione delle ipotesi di spiegazione con l’intenzione di metterle alla prova; una fase finale di pianificazione relativa al come tradurre in pratica gli insights e le idee di cambiamento emersi durante il processo riflessivo.

Self-assessment e processi di autoregolazione

Praticare la riflessività rappresenta per la persona anche un modo di migliorare la conoscenza di sé e di pervenire a una più chiara auto-consapevolezza circa le sue conoscenze generali (punti di forza e di debolezza, competenze, stili e strategie preferenziali nelle diverse situazioni, ecc.) e le sue credenze di impatto motivazionale (giudizi sulle proprie abilità, ragioni e interessi ad affrontare un compito, valutazioni di importanza degli scopi da perseguire, critical thinking, ecc). Essere consapevoli di sé significa mettersi in una condizione migliore per poter raggiungere i propri scopi valutando passo dopo passo i progressi ottenuti e le discrepanze o la distanza tra la situazione attuale e quella desiderata. In tal senso l’auto-valutazione, facilitata dalla riflessività, riveste il ruolo di processo funzionale: alla verifica delle proprie qualità e degli attributi che entrano a far pare del concetto di sé e dell’identità personale e all’attivazione di azioni di sviluppo della stima di sé e della capacità di auto-regolazione ovvero di come le persone cercano di controllare e dirigere le proprie condotte.

L’autovalutazione è il frutto di tre sub-processi studiati particolarmente in ambito educativo (McMillan & Hearn, 2009):

  1. Il self-monitoring si riferisce alla capacità di attivare intenzionalmente un’attenzione focalizzata su se stessi, sulle proprie modalità di pensiero (metacognizione), di uso delle conoscenze e di comportamento. Il ché significa aver acquisito o sforzarsi di acquisire la capacità di prestare attenzione a ciò che una persona fa in un dato contesto per realizzare le proprie aspettative tenendo conto degli standard richiesti (ad esempio, cosa si dovrebbe sapere e saper fare al termine degli studi); affrontare le eventuali difficoltà nella soluzione dei problemi e nel corrispondere alle richieste. Padroneggiare tale processo facilita la consapevolezza della necessità di valutare il tipo e il livello delle proprie risorse per l’azione.

  2. Il self-judgment consiste in un duplice tipo di confronto: tra ciò che si è con ciò che si vorrebbe essere; e tra ciò che si sa e si sa fare con ciò che si deve fare (ovvero con un qualche tipo standard che fa da benchmark). Saper dare questo giudizio implica l’identificazione degli oggetti pertinenti da valutare ovvero la raccolta di evidenze su se stessi e la propria storia, sulle conoscenze e skills: un processo che possiamo chiamare di self-assessment. Si tratta di un’espressione convenzionale che volutamente utilizziamo in inglese per rimarcare che è un “sotto-insieme” del processo più generale di auto-valutazione. Esso ha lo scopo di rendere esplicito un “passaggio operativo” che può coinvolgere differenti strumenti e ausili per la messa in evidenza e per la “misura” delle risorse della persona. Queste operazioni valutative in senso stretto rendono la persona in grado di ottenere un feed-back su se stessa (su attributi del self come auto-efficacia, self-control, self-mastery, ecc.) e sulle proprie capacità cognitive e non cognitive (ad esempio adattabilità, determinazione, pro-attività, ecc.). Ciò aiuta a comprendere la natura e il livello di un’eventuale discordanza tra le risorse personali e le richieste ambientali (provenienti dalla scuola, dalla formazione, dal lavoro o dalla vita quotidiana) e a stimolare e motivare prospettive di cambiamento.

  3. Il defining e planning goals è un processo di tipo progettuale inteso come capacità di identificazione o ridefinizione di scopi motivanti da perseguire per sviluppare, integrare e arricchire il proprio set di competenze e di possibili opzioni formative ed esperienziali per raffinare il proprio percorso di apprendimento e potenziare il capitale di risorse psicosociali funzionali ad esempio all’occupabilità.

I sub-processi di auto-valutazione (compreso il momento di concreto di self-assessement) rappresentano una strategia significativa per la persona per essere compos sui (il significato originario è: essere “padrone di stesso”) anche di fronte alle difficoltà occupazionali e per poter autoregolare la sua relazione con il lavoro attuale e futuro, soprattutto se essa riesce a riconoscerli come compiti non imposti dall’esterno, come avviene durante il periodo scolastico, ma motivati intrinsecamente per la positività dei possibili risultati prima di tutto per se stessi. Del resto, in generale, i processi di auto-regolazione, che hanno una natura interna alla persona ma anche transazionale, la rendono capace di mantenere la guida delle sue azioni dirette allo scopo nel corso del tempo e attraverso le diverse circostanze del contesto di vita. Tali processi (Karoly, 1993) si basano appunto sull’auto-valutazione e sulla consapevolezza di sé e della situazione che mettono in grado la persona: di delineare scopi appropriati; di modulare, sintonizzare, controllare pensieri, emozioni e comportamenti per poter raggiungere tali scopi; e di essere pronta ad affrontare anche perturbazioni, sfide o errori nei propri corsi di azione.

I processi di auto-regolazione sono particolarmente salienti in tema di occupabilità. Infatti essi orientano l’allocazione delle risorse psicosociali in vista del raggiungimento di scopi importanti come quelli relativi all’inserimento lavorativo. Dunque, la consapevolezza di scopi coerenti con il self, il loro monitoraggio e valutazione rappresentano un modo di aumentare il controllo della situazione da parte della persona stessa e di stimolare la motivazione ad autogestire la propria carriera dalla fase di preparazione, all’ingresso lavorativo, alla gestione dei cambiamenti. In questo senso, ad esempio, Savickas (1997) elabora il concetto di career adaptability per riferirsi a una proprietà di resilienza personale esplicitata dalla prontezza con cui una persona affronta i compiti di preparazione e inserimento lavorativo anche mediante specifici adattamenti (ovvero auto-regolazioni) rispetto a imprevisti ostacoli o cambiamenti delle condizioni di contesto. Inoltre Van der Heijde (2014) sottolinea che le tattiche di auto-regolazione (come il goal setting, gli sforzi di progettazione, la ricerca di feedback, la pro-attività, il controllo emozionale, e lo sviluppo di competenze sociali) corrispondono al nucleo principale dell’employability nel senso sia di divenire strumenti di autogestione delle carriere personali e lavorative sia di facilitare intenzioni e modalità di impegno per il conseguimento di scopi futuri (occupazione o cambiamenti di carriera). Del resto la proiezione verso il futuro, implicita nella definizione di occupabilità, è divenuta oggetto di specifica riflessione nell’ambito degli approcci che vedono nella pro-attività uno degli attributi sostanziali dell’employability. In particolare, si è visto che le rappresentazione di sé nel futuro (future work self) relative a speranze, aspirazioni e aspettative ma anche a strategie possibili per raggiungere gli scopi costituiscono una risorsa di forte impatto motivazionale, sostengono i processi di autoregolazione adattiva e si traducono in condotte proattive di carriera funzionali a una migliore employability (Strauss, Griffin, & Parker, 2012).

Implicazioni per orientamento e counseling

I processi di autoriflessività e di self-assessment mirati alla crescita dell’occupabilità e allo sviluppo di effettive competenze di self-management della carriera implicano un notevole impegno personale (verso se stessi e la realtà circostante) che richiede continuità nel tempo, coerenza e spinte motivazionali come pure sostegni affettivi e materiali e rinforzi da parte del contesto sociale in cui la persona opera. Queste capacità di auto-direzione e auto-gestione delle scelte e dei progetti di vita non sono sempre equamente distribuite in una popolazione e non tutti sono in grado di applicarle con continuità o di sfruttarle come strumento di sviluppo della propria esperienza con il lavoro. Al riguardo si può ricordare che molte delle ricerche empiriche sulla self-directedness nel lavoro o nei contesti di apprendimento si focalizzano su gruppi elitari ad alto potenziale di crescita (ad esempio, giovani con gradi di istruzione universitaria, lavoratori della conoscenza, manager, ecc.), per i quali lo sviluppo di ulteriori competenze psicosociali per l’occupabilità parte comunque da una soglia abbastanza alta e la probabilità di autogestire percorsi di carriera flessibili e originali risulta più elevata. Vi sono, tuttavia, numerose categorie sociali (ad esempio, lavoratori con basse qualifiche, con competenze obsolescenti, lavoratori anziani, giovani senza qualifiche, giovani Not in Education, Employment or Training, persone con differenti tipi di svantaggio sociale, ecc.) che non hanno le stesse opportunità di sviluppo né le stesse competenze per affrontare proattivamente i problemi dell’inserimento lavorativo. Appare quindi irrealistico dare per scontato un impegno auto-riflessivo e auto-valutativo se le persone non elaborano una visione complessiva della propria life-history e se le loro risorse di base sono scarse o sono allocate in altre direzioni, verso altri oggetti di interesse o attrattive di breve termine.

Ciò chiama in causa i servizi per l’orientamento e counseling come strumenti di attuazione di politiche di equità sociale basate sulla diffusione di specifiche modalità di sostegno e accompagnamento personalizzato tese a potenziare l’occupabiltà dei cittadini nelle loro differenti fasi di vita adulta. Le attuali tendenze teorico-pratiche sull’orientamento e il counseling (Maree, 2013; Nota & Rossier, 2015) hanno (almeno in parte) contribuito a ridurre un approccio meccanico di tipo psicometrico (la misura del Work-Person fit) nell’ambito dei servizi di facilitazione delle scelte e della progettazione delle carriere. Cominciano infatti a diffondersi approcci che: a) incentivano un’ottica dialogica e people-centered; b) distinguono nettamente i servizi di natura informativa, a basso tasso relazionale e dialogico che riguardano il knowing what (cosa sono i lavori oggi) dai servizi orientativi veri e propri; c) sostengono le modalità che la persona può adottare per costruire la sua carriera soggettiva (processo auto-riflessivo di ricostruzione dei significati della propria esperienza passata e di individuazione dei futuri possibili e sostenibili).

Pertanto le moderne pratiche di orientamento e di career counseling fanno pensare che esse possono assecondare e sostenere la tendenziale strategia personale basata sulla riflessività, sui processi di self-construction e di self-evaluation (Van der Heijde, 2014). Ciò a condizione che siano in grado di creare degli “spazi mentali” dove la riflessività sia incoraggiata, dove cioè la reflection-in-action, on-action e for-action rappresentino il modo per aiutare le persone a rinforzare le attività metacognitive di self-monitoring, self-regulation e presa di decisione che sono alla base della probabilità che si potenzi l’occupabilità e si inneschi un efficace processo di autogestione dei percorsi di carriera.

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