Articoli su invito / Invited articles

Un progetto di valorizzazione delle persone nelle organizzazioni: il counseling psicologico sul posto di lavoro nell’Azienda USL di Modena

A project to develop people in organizations: psychological workplace counseling in the Local Health Corporation of Modena

Lucia Camellini

Psicologa, Servizio Salute Organizzativa AUSL Modena

Maria Cristina Florini

Psicologa dirigente, Servizio Salute Organizzativa AUSL Modena

Caryn Vallesi

Laureanda in Psicologia delle Organizzazioni e dei Servizi, Università degli Studi di Bologna

 

Sommario

La “società lavorativa” del XXI secolo richiede ai lavoratori disponibilità di migliori repertori di capacità operative e maggiori risorse cognitive e relazionali; da queste possono derivare per il lavoratore ansia, stress, burnout, mobbing, workaholism, conflitti interpersonali e simili, più genericamente definiti come “disagio lavorativo”. Tale rischio non esonera il settore sanitario; l’Azienda USL di Modena, in risposta a tali necessità, ha progettato ed implementato un servizio di counseling psicologico finalizzato al contrasto del disagio lavorativo e alla promozione del benessere organizzativo. Nel presente articolo, a partire dall’esperienza modenese, vengono discussi vantaggi e svantaggi delle diverse modalità di impostazione degli interventi, nonché della loro comunicazione e collocazione organizzativa. Inoltre, vengono presentati alcuni casi significativi e avanzate osservazioni prospettiche di stampo strategico.

Parole chiave

Counseling psicologico; disagio lavorativo; sviluppo risorse umane; sanità.

 

Abstract

The twenty-first century "occupational society" requires more and more operating abilities and cognitive and relational resources from workers. As a result, workers may be affected with anxiety, stress, burnout, mobbing, workaholism, relational conflicts and similar problems, generically defined as "workplace distress". This hazard also affects the health care system. The Local Health Corporation of Modena, in response to this need, has planned and implemented a psychological counseling service, in order to counteract workplace distress and to encourage organizational wellbeing. Based on the experience of Modena, this article discusses the advantages and disadvantages of different kinds of planning, communication and organizational positioning of counseling interventions. Moreover, this article explains some significant cases and introduces perspectives and strategical considerations.

Keywords

psychological counseling; workplace distress; personnel development; health care service.

Disagio lavorativo e possibili interventi di prevenzione, accompagnamento o trattamento

Il mondo del lavoro del XXI secolo, in seguito ai cambiamenti socio-economici internazionali, ha subito modificazioni pervasive e un rapido aumento di complessità. Sono emersi scenari nuovi, risultati da avanzamenti tecnologici, riorganizzazioni aziendali, aumento dei carichi di lavoro, frammentazione delle carriere e dei contratti di lavoro, acutizzazione di competitività ed incertezza.

Tale nuova “società lavorativa” richiede ai lavoratori “disponibilità di risorse cognitive e relazionali e repertori di capacità operative di grado più elevato rispetto al passato” (Sarchielli, 2003, p. 29) e spesso favorisce un clima di sfiducia e rassegnazione, una comunicazione complessa, un calo di impegno e motivazione, un senso di frustrazione e impotenza, un depauperamento generale delle risorse nei lavoratori. Tali problematiche a lungo termine possono sfociare in ansia, stress, burnout, mobbing, workaholism, incidenti/infortuni, conflitti interpersonali e quant’altro, più genericamente definiti in seguito come “disagio lavorativo”.

Alla luce del fatto che tali forme di disagio lavorativo hanno origine dal complesso rapporto tra fattori soggettivi e oggettivi, di natura individuale, sociale e collettiva, occorre diversificare gli interventi da attuare, progettandoli come prevenzione, accompagnamento o trattamento, a livello individuale, di gruppo o organizzativo.

Tali tipologie di intervento sono assimilabili alle più note forme di prevenzione primaria, secondaria o terziaria (Barker, 2001; Biggio, 2007; Conyne, 2004; Marini & Nonnis, 2006; Quick & Quick, 1984), meglio approfondite di seguito; esse si differenziano sulla base del momento in cui l’intervento viene attivato rispetto all’iter di sviluppo del disagio e della finalità che esso persegue.

In particolare, nel primo caso (prevenzione primaria) la finalità consiste nel promuovere la qualità della vita lavorativa; alcuni interventi tipici sono valutazione e monitoraggio dei rischi psicosociali, formazione/informazione, introduzione di una chiara politica aziendale orientata al benessere lavorativo.

Nel secondo caso (prevenzione secondaria), le finalità sono ridurre il rischio di aumento del disagio e supportare la persona nell’acquisizione di un miglior funzionamento lavorativo e di una maggiore resilienza ai fattori stressogeni, a livello individuale o di gruppo; alcuni interventi tipici sono l’istituzione di organismi appositi, l’accompagnamento al cambiamento organizzativo, la consulenza di processo, la supervisione, l’implementazione di sistemi di ascolto/consulenza e il trattamento subitaneo degli eventi critici.

Nel terzo caso (prevenzione terziaria), dopo la comparsa dei sintomi, gli interventi sono finalizzati a ridurre le conseguenze e a trattare il disagio, mediante programmi di consulenza psicologica ed eventualmente altri interventi specialistici.

Nonostante gli interventi più efficaci risultino quelli di natura preventiva, in quanto gli interventi “curativi” sul disagio conclamato non sempre riescono a ripristinare le condizioni originarie di benessere del lavoratore, le due tipologie di intervento non sono da intendere l’una in alternativa all’altra, bensì come connesse e interdipendenti (Conyne, 2004; Marini & Nonnis, 2006).

Per quanto concerne, invece, la differenziazione della popolazione lavorativa, obiettivo degli interventi, la maggior parte di questi propone soluzioni centrare sull’individuo o sul gruppo, finalizzate al supporto e alla riduzione del danno, al miglioramento del benessere lavorativo e allo sviluppo di strategie di coping (es. sedute di counseling psicologico, programmi di formazione o di empowerment) (Conyne, 2004; Marini & Nonnis, 2006; Quick & Quick, 1984).

Nonostante ciò, non si può prescindere da interventi mirati a fattori di rischio di tipo situazionale e organizzativo; infatti questi, essendo radicati nella struttura e nella cultura aziendale, rivestono un ruolo fondamentale nel determinare il disagio lavorativo e richiedono interventi che li modifichino alla radice. Si rivelano utili, ad esempio, interventi di monitoraggio dei fattori di rischio psicosociale, riprogettazione del lavoro e del sistema di gestione delle risorse umane, aumento della flessibilità aziendale, formulazione di codici di comportamento, ecc. (Conyne, 2004; Marini & Nonnis, 2006; Quick & Quick, 1984).

In conclusione, il disagio psicologico non può essere inteso solo ed esclusivamente come una reazione soggettiva del lavoratore, scisso dal suo contesto di appartenenza, bensì come il sintomo di un problema multifattoriale da approfondire e risolvere a livello di sistema aziendale disfunzionale e non in salute.

Counseling psicologico sul posto di lavoro: ragioni, finalità ed efficacia

Il counseling risulta storicamente consolidato all’interno della cultura anglosassone, nella quale ha avuto origine a cavallo tra XIX e XX secolo e viene considerato una vera e propria professione di aiuto (Locke, Myers, & Herr, 2001). Il counseling sul posto di lavoro, invece, risulta più recente e solo a partire dagli anni '80-'90 viene considerato una risorsa per i lavoratori.

Più del 55% della popolazione lavorativa americana e il 10% di quella inglese hanno accesso al counseling sul posto di lavoro, il quale è stato recentemente classificato come il benefit più popolare nelle organizzazioni (Employee Benefits Research Institute, 2011; McLeod, 2008).

La diffusione del counseling è legata a esigenze di natura legislativa e socio-economica, secondo le quali a livello internazionale il datore di lavoro deve garantire salute e sicurezza ai dipendenti. Come esplicitato dalla Corte d’Appello del 5 febbraio 2002, fornendo un servizio di counseling, il datore di lavoro assolve il proprio dovere di prendersi cura dei dipendenti, è tutelato in caso di reclami e meno a rischio di essere citato in giudizio (Coles, 2003).

Il focus di approfondimento sarà proprio il counseling sul posto di lavoro, ovvero quel servizio introdotto e finanziato dal datore di lavoro, finalizzato ad affrontare disagi e problematiche dei dipendenti, tramite un numero limitato di sedute; nello specifico del presente articolo, si farà uso delle locuzioni “counseling psicologico sul posto di lavoro” e “counseling organizzativo”, in riferimento a prestazioni di tipo psicologico erogate da professionisti abilitati e iscritti all’Albo Professionale degli Psicologi. Altresì, verrà utilizzato il termine “counselor” sempre in riferimento alla figura professionale dello psicologo che applica la tecnica del counseling.

Il counseling organizzativo può avere come scopi la promozione di benessere e sicurezza, la prevenzione primaria del disagio lavorativo, il sostegno/trattamento dello stesso, la valorizzazione e lo sviluppo dei lavoratori, il miglioramento della comunicazione/comprensione interpersonale, nonché il supporto ai cambiamenti organizzativi (Ajila & Adetayo, 2013; Biggio, 2007; Coles, 2003; Conyne, 2004; Hughes & Kinder, 2007; McLeod, 2001, 2008, 2010).

Tra le ragioni alla base della fornitura del servizio da parte dei datori di lavoro risultano principalmente il dovere di prendersi cura dei dipendenti, la volontà di fornire loro un supporto aggiuntivo e di alleviare lo stress, l’incoraggiamento alla fidelizzazione e la propria tutela legale da possibili liti e reclami (Friery, 2006).

In sintesi, il counseling psicologico sul posto di lavoro può agire su due livelli specifici: a supporto di momenti di crisi che richiedono analisi/riflessione e superamento del disagio, ma anche a potenziamento dell’efficacia della comunicazione e della qualità delle prestazioni dei lavoratori (Benvenuti & Poggiolini, 2005).

Le motivazioni che spingono più frequentemente i lavoratori a intraprendere un percorso di counseling psicologico risultano essere: resistenza al cambiamento, difficoltà decisionali e comunicative, gestione del tempo e delle richieste, demotivazione, relazioni conflittuali, stress e malattie professionali, molestie sessuali/razziali e abuso di sostanze (Biggio, 2007).

I problemi lavorativi più frequentemente riportati riguardano, infatti, pressione, burnout, angoscia e scarsa autostima, molestie/violenze, difficoltà relazionali, questioni disciplinari, mancanza di supporto/risorse e cambiamento organizzativo; per quanto concerne, invece, i problemi personali prevalgono lutti e perdite, relazioni difficili, abusi/violenze, comportamenti anti-sociali, malattie e ansia/depressione (McLeod, 2008; Oher, Conti, & Jongsman, 1998).

Benché il counseling organizzativo sia finalizzato alla risoluzione dei disagi lavorativi, risulta difficile una distinzione netta tra problemi lavorativi e personali, dato che gli uni alimentano inevitabilmente gli altri (Feltham, 1997).

Nel determinare l’efficacia del counseling è coinvolta una molteplicità di fattori, basti pensare alla dimensione e al settore dell’azienda, al livello di esposizione a eventi traumatici, al tipo di relazioni che si instaurano, all’entità del supporto da parte del management e dei sindacati, alla collocazione e modalità di erogazione del servizio (Coles, 2003; McLeod, 2008).

Dalla letteratura scientifica sul tema emerge che più del 90% dei lavoratori che accedono a un servizio di counseling organizzativo si dichiara altamente soddisfatto, ne farebbe ancora uso se necessario (96%) e lo indicherebbe ai colleghi (94%) (Alker & Cooper, 2007; McLeod, 2001, 2008).

Per quanto concerne il funzionamento psicologico, il counseling risulta efficace nell’alleviare i sintomi di strain, ansia, depressione, burnout e disturbo post-traumatico da stress (Collins et al., 2012; McLeod, 2001, 2008, 2010; Tehrani, 1997).

Riguardo alla sfera lavorativa, esso facilita cambiamenti costruttivi, fidelizzazione del personale e rapporto dipendenti-manager, riduce infortuni/incidenti, azioni disciplinari, abuso di sostanze e assenze per malattia (del 20-60%), e infine ha impatto positivo (seppur minimo) su impegno, soddisfazione e produttività dei lavoratori (McLeod, 2001, 2008, 2010; Tehrani, 1997).

In generale, la partecipazione a un percorso di counseling psicologico genera sviluppo della sicurezza di sé e del senso del proprio valore, e sostituzione di pattern di comportamento controproducenti con una nuova proattività.

Il counseling psicologico, oltre a migliorare la salute psicofisica dei lavoratori, il loro funzionamento sociale e comportamento lavorativo, agisce anche a livello organizzativo.

Esso aiuta l’organizzazione a creare un ambiente lavorativo migliore, genera «un micro-clima facilitante che accresca la gestione dell’errore, (…) l’apprendimento e lo sviluppo organizzativo, (…) che contribuisca al cambiamento culturale» (Hill, 2000, p. 22), permette un miglioramento della propria immagine e una riduzione dei costi (Carroll & Walton, 1997).

L’83% dei Direttori considera la riduzione dei costi come il più importante criterio per valutare se implementare o meno il servizio; a incidere su questa sono la riduzione di assenteismo, turnover, infortuni, costi medici e assicurativi, risarcimenti, azioni disciplinari e perdita di produttività (Alker & Cooper, 2007; McLeod, 2008).

Comunicazione, visibilità e accessibilità

La prima domanda operativa che potrebbe porsi l’addetto alla comunicazione aziendale al momento dell’avvio di un servizio di counseling psicologico sul posto di lavoro è: “come rendere visibile l’esistenza del servizio, come fornire informazioni utili all’accesso equo e universale al servizio?”.

Il marketing del servizio riveste un ruolo cruciale, in quanto il livello di visibilità dello stesso influisce sul successivo tasso di utilizzo (Bennett & Lehman, 2001); pertanto occorre perseguire la massima diffusione dell’informazione, facendo in modo che tutti i potenziali utenti vengano a conoscenza dell’attivazione del servizio, delle sue finalità e delle sue modalità di accesso.

I metodi promozionali più appropriati possono essere individuati solo dopo un’attenta valutazione della complessità organizzativa, del livello di ricettività della cultura interna, del tipo di comunicazione che ha luogo solitamente, delle figure-chiave e dei gruppi dominanti tramite cui veicolare il messaggio, del “networking organizzativo” vigente (Francek, 1985).

Nel procedere alla pubblicizzazione del servizio, risultano necessarie spiccate capacità interpersonali per facilitarne la diffusione, assertività nel dichiararne le finalità e il profilo qualitativo, nonché chiare formulazioni scritte ed efficaci presentazioni verbali (Carroll, 1996).

Anche rispetto a questo punto le esperienze e scelte possibili sono diverse, così come i canali di comunicazione sono molti e diversificati; l’ideale sarebbe la scelta di più canali per raggiungere più destinatari possibili senza temere la ridondanza. Di seguito verranno dettagliati gli strumenti promozionali maggiormente utilizzati e utilizzabili (Biggio, 2007; Carroll, 1996; Coles, 2003; Hughes & Kinder, 2007).

La diffusione via rete può essere implementata attraverso la creazione di una sezione del sito aziendale dedicata e attraverso l’intranet e la newsletter aziendale; all’interno di quest’ultima potrebbe essere interessante inserire articoli di sensibilizzazione (ad esempio su pari opportunità, molestie, gestione dello stress, politiche di salute e sicurezza, ecc.).

Un’altra strada può essere quella di introdurre le informazioni di base sul servizio inserendo una breve comunicazione in busta paga e sensibilizzando i lavoratori al momento dell’assunzione.

Ancora, una possibilità è quella di creare e stampare brochure e locandine da divulgare materialmente in azienda e da collocare in punti strategici di raccolta di comunicazione (es. bacheche e marcatempo).

Un'ulteriore modalità può essere quella di informare alcuni referenti selezionati dell’organizzazione nell’ambito di iniziative di promozione della salute lavorativa (es. Comitati Unici di Garanzia, eventi formativi) che si occupino poi di divulgare a cascata e capillarmente l’informazione.

Di grosso impatto sono anche gli eventi di presentazione collettiva o di presentazione durante riunioni/briefing dei team, le campagne di promozione/consapevolezza, i corsi di formazione/informazione su salute e sicurezza, le lettere firmate dal Direttore Generale e indirizzate a tutti i dipendenti, nonché il classico passaparola.

In tal modo vengono diffuse informazioni dettagliate sugli scopi del servizio, le modalità di svolgimento e di accesso; è poi fondamentale anche una promozione continuativa nel tempo, al fine di mantenere la consapevolezza sul servizio (ad esempio tramite email di aggiornamento, report/presentazioni contenenti feedback dei partecipanti, ecc.).

Nell’esperienza dell’AUSL di Modena si è scelto, dopo una prima diffusione della proposta di attivazione del servizio mediante i tavoli di contrattazione sindacali, all’interno delle riunioni del Comitato Unico di Garanzia e al Collegio di Direzione, di ufficializzare l’istituzione del servizio mediante l’uso della newsletter aziendale e di rinnovare l’informazione con lo stesso mezzo a intervalli ripetuti di 4-5 mesi. Il contenuto della newsletter, nel valorizzare l’opportunità offerta dal servizio e quindi dall’azienda, per il dipendente che attraversi un momento di difficoltà, riassume gli obiettivi del servizio, definisce i criteri per l’accesso e le modalità di richiesta di attivazione dell’intervento.

Nel caso in esame il lavoratore può mettersi in contatto con il servizio inviando una e-mail all’indirizzo dedicato (creato appositamente e che può essere consultato simultaneamente dai professionisti che gestiscono il servizio), in cui può descrivere brevemente le ragioni della richiesta; successivamente a una valutazione interna, il lavoratore riceve una proposta di appuntamento con indicazioni di massima sulle modalità di svolgimento del colloquio e indicazioni su come raggiungere la sede di svolgimento.

La scelta di fornire un indirizzo di posta elettronica e non un recapito telefonico è giustificata da ragioni di praticità nell’organizzazione del lavoro e finalizzata a fluidificare il processo di presa in carico. I professionisti che gestiscono il servizio sono infatti contemporaneamente occupati in altre attività di formazione e consulenza di processo che si svolgono per lo più nelle diverse sedi provinciali dell’azienda; pertanto la reperibilità telefonica dei professionisti non è sempre assicurata, mentre è garantito il controllo periodico della posta elettronica.

Accade che ogni superiore che ne rileva la necessità abbia la facoltà di suggerire il servizio di counseling organizzativo a un collaboratore, così come accade che il lavoratore scelga di rivolgersi al servizio in autonomia, con garanzia di contatto protetto e assoluto rispetto della riservatezza. In quest’ultimo caso, il management viene informato della problematica solo una volta ricevuto il consenso da parte del lavoratore che ha avuto accesso al servizio autonomamente, e solo in caso emerga la necessità di interventi organizzativi in cui sia richiesto il coinvolgimento diretto di superiori, pari o altri settori organizzativi (p.e. legale, personale, sorveglianza sanitaria), oppure nel caso in cui il lavoratore debba essere autorizzato alla partecipazione ai colloqui durante l’orario di lavoro (Hughes & Kinder, 2007).

Impostazione dell’intervento

La seconda domanda, a carico questa volta dello psicologo specialista in counseling psicologico per il contrasto al disagio lavorativo, potrebbe essere: “come impostare l’intervento?”

La domanda origina da valutazioni di carattere tecnico ed economico, oltre che da aspetti legati alla qualità ed efficacia degli interventi. Ove il servizio è esterno, il pagamento avviene talvolta secondo un prezzo fisso per ogni contatto/seduta, altre volte in base a un prezzo fisso pro capite; nel primo caso l’organizzazione non ha interesse nel diffondere e far utilizzare il servizio ai lavoratori, mentre nel secondo caso invece potrebbe essere molto importante ottenere un utilizzo elevato al fine di avere un ritorno dell’investimento (Coles, 2003).

La prima opzione, prescelta in genere dalle aziende che decidono di esternalizzare il servizio, per ragioni di contenimento dei costi e maggiore controllo sull’operato e sull’efficacia degli interventi, è quella di strutturare percorsi di durata e modalità definite, con eventuali batterie di test ripetuti ex-ante e ex-post intervento (Barker, 2001; Biggio, 2007; Carroll, 1996; Carroll & Walton, 1997; Hughes & Kinder, 2007; McLeod, 2008).

Nel caso del servizio di counseling psicologico per il contrasto al disagio lavorativo attivato presso AUSL di Modena, si è scelto di non definire la struttura del percorso in maniera stringente, sfruttando le potenzialità di personalizzazione dell’intervento connesse al fatto di disporre di risorse professionali già interne all’azienda, naturalmente non senza attenzione ai possibili sprechi, ma in un’ottica di maggiore flessibilità.

L’impostazione generale dell’intervento si rifà allo schema del processo di counseling psicologico, che prevede una scansione in fasi di intervento che vanno dall’analisi del problema all’individuazione di soluzioni possibili.

A livello operativo, counselor e lavoratore procedono per prima cosa alla preparazione e contrattazione, poi alla formulazione del problema, alla generazione di soluzioni ed infine all’ideazione di un vero e proprio piano di azioni (Carroll, 1996). Nello specifico, il counselor attraversa tre fasi operative (Di Fabio, 1999; Reddy, 1987): innanzitutto ha il compito di “comprendere” e condurre il lavoratore alla definizione del problema, poi il compito di “stimolare” e di condurlo alla ri-definizione del problema, infine il compito di “reperire e mobilitare” le risorse interne e/o esterne e di condurre il lavoratore alla gestione del problema.

Pur avendo presente l’iter consulenziale di base, il percorso non può che essere individualizzato, sia in termini di durata e frequenza del percorso, sia in termini di impiego di strumenti e strategie, che in termini di configurazione dell’intervento a livello individuale, di team, organizzazione.

Il criterio di accesso al servizio è universale: essere lavoratore dell’AUSL.

Il percorso ha inizio dal momento dell’accettazione della richiesta da parte di una delle psicologhe del servizio e inizia con un colloquio conoscitivo-esplorativo, nel quale si valuta la pertinenza della richiesta. Al termine del colloquio di accoglienza e conoscitivo, in base alla criticità riportata, vengono concordati gli obiettivi e viene definita una durata del percorso (che potrà variare tra un minimo di tre e un massimo di dodici colloqui), all’interno di un setting (uno spazio psicologico e fisico, riservato e dedicato).

Emerge che per problematiche riguardanti il funzionamento lavorativo si riscontrano benefici significativi in 6-8 sedute, mentre sono necessarie 12-20 sedute (o il rinvio ad altri servizi) per difficoltà più radicate (Collins et al. 2012; McLeod, 2008).

Qualora la natura della criticità esuli del tutto da problematiche connesse al contesto di lavoro, il lavoratore può essere orientato eventualmente ad altri tipi di percorsi specialistici.

Relativamente all’aspetto ambientale, è fondamentale la collocazione del servizio in stanze in posizione discreta (così da rendere l’accesso protetto), confortevoli, insonorizzate, arredate in modo semplice e non appariscente, con la giusta luminosità e temperatura (Coles, 2003).

Basando l’intervento sui principi fondamentali del counseling psicologico (Rogers, 1942) applicati al contesto lavorativo (costruzione di una relazione di aiuto, utilizzo delle tecniche di ascolto attivo, empatia, accettazione incondizionata e congruenza), e considerando la natura non valutativa dell’intervento, si è scelto di non somministrare test psicodiagnostici all’inizio e al temine del percorso. È prassi del servizio, una volta concluso il percorso di counseling, effettuare un colloquio di follow-up a distanza di 8-16 settimane, a seconda della durata e tipologia di percorso concluso.

Per la valutazione di efficacia, è stata progettata una scheda di customer satisfaction, cartacea e anonima, composta da un massimo di 10 domane a risposta multipla e uno spazio libero per commenti e suggerimenti, pre-indirizzata alla Direzione Aziendale, da consegnare al lavoratore al momento della conclusione del percorso, che possa essere inviata mediante posta o posta interna al destinatario. L’utilizzo di tale breve questionario al termine del percorso è in via di implementazione.

Collocazione organizzativa del servizio di counseling organizzativo

Un’organizzazione che intenda attivare un nuovo servizio di counseling organizzativo a disposizione dei propri lavoratori, deve infine, necessariamente porsi il problema della sua collocazione all’interno della struttura organizzativa.

In una realtà sanitaria di natura pubblica, questo tema non è sconnesso a ragioni di visibilità (il percorso deve potere intercettare il maggior numero di casi a rischio), trasparenza (il percorso deve essere individuato in modo chiaro e facilmente accessibile) e natura complessa dell’organizzazione e della relativa cultura (relazioni tra i servizi, relazioni sindacali, ecc) (Carroll, 1996; Carroll & Walton, 1997; Marini & Nonnis, 2006; McLeod, 2008). L’istituzione di un servizio di questo stampo può infatti coincidere con una vera e propria innovazione nell’ambito della gestione delle risorse umane, valutazione delle competenze e ricollocazione e suscitare pertanto possibili resistenze e incertezze.

La terza domanda, questa volta del disegnatore di organigramma, potrebbe quindi essere: “dove è bene collocare un servizio di ascolto e supporto al personale dipendente all’interno di un’organizzazione, in modo da assicurare da un lato privacy e riservatezza (si tratta di una prestazione psicologica, pertanto tutelata da segreto professionale), e dall’altro permeabilità con gli altri servizi preposti alla salute dei lavoratori (es. sorveglianza sanitaria, servizio sicurezza sul lavoro, altri servizi specialistici), oltre che possibilità di contatto con gli snodi organizzativi e gestionali delle risorse umane (es. direzione strategica, direzioni intermedie, servizio personale, servizio legale, Comitato Unico di Garanzia, ecc.)?”. Le possibili risposte sono molteplici e ciascuna offre vantaggi e svantaggi.

Una prima ipotesi, scelta da alcuni enti pubblici sul territorio nazionale, è quella di esternalizzare il servizio, affidandone la gestione a servizi per la salute e l’assistenza sanitaria oppure a professionisti esterni all’ente, o in altri casi collocando il servizio in spazi neutri, esterni ai locali aziendali. Tale soluzione offre i vantaggi di un'elevata garanzia di obiettività e riservatezza (il lavoratore ha accesso al servizio presso sedi esterne al luogo di lavoro, inoltre i professionisti sono testimoni esterni all’organizzazione), di non essere parte delle politiche aziendali e di non coinvolgere l’organizzazione in caso di pratiche illecite (Carroll, 1996). I punti di debolezza di un servizio esterno risultano essere, invece, il fatto che potrebbe non essere perfettamente in linea con le esigenze aziendali, essere percepito dai lavoratori come estraneo e non avere sufficienti informazioni sulla cultura organizzativa di appartenenza (Carroll, 1996). A tal proposito, si riscontrano una maggiore difficoltà di contestualizzazione e lettura del singolo caso all’interno delle dinamiche organizzative da parte del professionista esterno e una potenziale ridotta capacità di intervento “allargato sull’organizzazione”.

Una seconda ipotesi potrebbe essere quella di collocare il servizio all’interno o in affiancamento di strutture aziendali esistenti deputate alla salute e sicurezza dei lavoratori (Carroll, 1996). Questa soluzione offrirebbe il vantaggio di integrare le competenze mediche e psicologiche in ambito lavorativo in favore di un intervento multiprofessionale; d’altra parte rischierebbe di creare una sovrapposizione di ruolo tra le due strutture, a svantaggio della trasparenza nell’identificazione del percorso cui si accennava prima (Carroll, 1996). Inoltre, in certe realtà, qualora non siano chiaramente definiti ruoli e responsabilità, si potrebbe rischiare una sovrapposizione e confusione tra le funzioni di valutazione e prevenzione dello stress lavoro correlato (connesso a indicatori di contesto e contenuto lavorativo) e quelle di valutazione di idoneità lavorativa.

La terza via, che è quella scelta per esempio dall’AUSL di Modena (circa 6.500 dipendenti) è quella che prevede la collocazione del servizio in staff alla direzione strategica, in particolare all’interno di un servizio deputato allo sviluppo organizzativo (Struttura complessa Innovazione e Valutazione Organizzativa, che comprende, tra le sue due strutture semplici, la Salute Organizzativa entro cui è collocato il servizio di Counseling psicologico). In linea con i contributi individuabili nella letteratura scientifica sviluppata su tale tematica (Carroll, 1996; McLeod, 2008; Tehrani, 1997), dall’esperienza di implementazione del servizio di counseling psicologico per i lavoratori dell’AUSL di Modena emergono vantaggi di varia natura e di ampia portata, quali:

- L’impiego di professionisti psicologi interni consente un risparmio in termini economici (e di costo del personale) e un miglior rapporto costi-benefici; assicura inoltre una maggiore conoscenza dell’organizzazione reale dell’azienda, delle sue strutture formali/informali e della cultura, quindi maggiore capacità di contestualizzazione della situazione presa in carico.

- Sul piano dell’organizzazione del lavoro, il fatto di disporre di professionisti interni, consente una maggiore flessibilità oraria, a vantaggio del lavoratore che vi si rivolge e delle esigenze del servizio/reparto da cui proviene.

- La collocazione del servizio di counseling psicologico all’interno di una struttura che, occupandosi di promozione della salute organizzativa, può intervenire a diversi livelli (individuo, team, organizzazione), consentendo di cogliere la situazione di disagio lavorativo come evento sentinella di un contesto di lavoro sottoposto a potenziale rischio psicosociale.

- La vicinanza con le funzioni dirigenziali e decisionali, oltre che con il Servizio personale e il Servizio legale, favorisce il raccordo con le stesse relativamente a provvedimenti e soluzioni di carattere organizzativo, e permette loro di avere un maggior controllo sul servizio ma anche di riceverne utili feedback.

- Infine un servizio di counseling psicologico interno viene progettato appositamente sui bisogni specifici sia dell’azienda che dei lavoratori, e in certi casi viene addirittura incluso in eventuali cambiamenti organizzativi strategici (si veda ad esempio la possibilità di dedicare percorsi di counseling psicologico mirati all’accompagnamento dei lavoratori senior e ai cambiamenti organizzativi di un team).

D’altra parte questa collocazione può dare origine ad alcuni svantaggi (Carroll, 1996; McLeod, 2008; Tehrani, 1997), nel caso in cui venga identificato dai lavoratori beneficiari con la direzione stessa con conseguente diffidenza per paura di ritorsione o conseguenze sulla propria condizione lavorativa. A tal proposito, va detto tuttavia che nella prassi, il lavoratore che si rivolge al servizio è più preoccupato di gestire i rapporti con i colleghi e con il diretto responsabile, più che temere un'identificazione da parte della direzione strategica. Inoltre tale collocazione pone alcuni punti di attenzione e accorgimenti da tenere in considerazione, come garantire oggettività e riservatezza ai lavoratori (ad esempio collocando la sede dei colloqui in un’area adeguata e fornendo rassicurazioni anche formalizzate riguardo la tutela dai dati personali da parte dei professionisti incaricati), e gestire attività di mediazione e triangolazione tra lavoratore, servizio e management, nella tutela dall’eventuale esercizio scorretto di autorità o influenza.

In conclusione, dalla letteratura, non emerge comunque che l’efficacia e il tasso di utilizzo del servizio abbiano associazioni consistenti con la struttura (interna o esterna) dello stesso (McLeod, 2008).

Studio di casi

Il servizio di counseling psicologico a contrasto del disagio lavorativo nell’Azienda USL di Modena è stato formalmente aperto a novembre 2014. Da allora, a distanza di un anno di attività, i casi presi in carico dal servizio di counseling psicologico sono 33. I percorsi iniziati e già conclusi sono 21.

I lavoratori che hanno richiesto l’attivazione del servizio provengono dalle aree amministrative dell’azienda (N = 11), sanitaria (area medica, infermieristica, assistenziale, farmaceutica, laboratorio) (N = 17) e tecnica (N = 5).

Di seguito vengono descritti tre casi. I nomi propri e utilizzati nella descrizione dei casi sono pseudonimi e i riferimenti contestuali resi generici, a tutela dell’anonimato e della privacy.

Caso 1: Counseling psicologico per molestia sessuale sul posto di lavoro

Elena ha 38 anni è tecnico di reparto, lavora nello stesso reparto ospedaliero da oltre 10 anni.

Al primo colloquio di accoglienza si presenta come una persona curata, in stato di lieve ansia ed emotivamente provata, psicologicamente “equilibrata”. Dice di non avere mai fatto un colloquio psicologico.

Riporta un problema legato al contesto di lavoro che la spinge a chiedere aiuto al servizio.

Coi colleghi di lavoro e coi superiori la relazione è sempre stata buona, a lei piace molto il lavoro che svolge; lo svolge con passione e dedizione: poter prendersi cura delle persone per lei è molto gratificante.

Racconta che da più di sei mesi è stato inserito nel suo reparto un nuovo medico che fin da subito si è posto con modalità comportamentali e verbali arroganti nei confronti di tutti, in particolare nei confronti di alcuni operatori, fra cui lei. Racconta che cominciano i primi scontri relativi ai contenuti del lavoro, ben presto il clima interno diviene più teso e meno collaborativo. Lei cerca di essere disponibile a compromessi al fine di ridurre la conflittualità e migliorare il clima relazionale. Dopo circa 2 mesi questo medico cerca spesso l’occasione di lavorare a stretto contatto con lei, facendole molti complimenti sulle sue modalità comportamentali gentili, sul suo modo di vestire, sul suo modo di essere. A lei queste attenzioni non sono gradite, ma non sa come sottrarsi.

I colloqui successivi riguardano la focalizzazione del problema: racconta di avere esposto il problema a una collega che, non comprendendo il suo disagio, ritiene il suo racconto non veritiero.

Il disagio di Elena aumenta: tenta di non restare sola con quel medico, ma non sempre è possibile. Alle attenzioni non gradite fanno seguito proposte di prestazioni sessuale e contatti fisici indesiderati, puntualmente respinte da Elena.

Tale situazione di disagio lavorativo risulta in linea con ciò che si intende per “molestie sessuali sul posto di lavoro”, ovvero qualsiasi comportamento a connotazione sessuale o fondato sull’appartenenza di genere, indesiderato da una delle parti e lesivo della dignità della persona; le “molestie sessuali sul posto di lavoro” vengono agite per mezzo di insinuazioni e commenti equivoci sull’aspetto esteriore della parte lesa, osservazioni sessiste su sue caratteristiche, comportamenti a orientamento sessuale, contatti fisici indesiderati, esposizione di materiale pornografico, aggressioni, coazione sessuale e violenza carnale (Ravazzolo & Valanzano, 2010).

Mentre Elena ripercorre l’accaduto, le emozioni diventano non controllabili: scoppia a piangere, ha paura che la psicologa del servizio di counseling non la comprenda e la giudichi. Ascolto attivo (partecipe e credulo) e accettazione incondizionata (sospensione del giudizio e non colpevolizzazione) sono gli strumenti operativi utilizzati in questa fase.

Riferisce a questo punto di sentirsi accolta e compresa. Prosegue così la narrazione: “Di fronte al mio rifiuto, inizia a parlare a voce alta, quasi urlando, mi insulta sul piano personale spesso anche in presenza dei pazienti”. Elena si ritira, non rispondendo alle provocazioni del medico, che a questo punto inizia a farle appunti sulla sua attività lavorativa, su come svolge il suo lavoro, trovando modi per umiliarla e sminuire le sue capacità.

Vengono proposti e concordati in sede di counseling possibili strumenti per la gestione delle emozioni. Valutato l’aumento progressivo dello straining associato al posto di lavoro, e osservato lo sconfinamento del disagio anche in ambito extra-lavorativo, con perdita di serenità nelle relazioni con partner e figli, in questa fase si opta per una strategia di coping centrata sull’evitamento: assentarsi temporaneamente dal posto di lavoro, in attesa di una più strutturata soluzione organizzativa.

La lavoratrice esprime in questa fase di vivere le seguenti emozioni: ansia, paura, sgomento, colpa (“perché è capitato a me?”). È tipico che le vittime di molestia sessuale si sentano responsabili e persino autrici di quanto accade loro; attribuzione spesso convalidata dalla cultura dominante (Ravazzolo & Valanzano, 2010).

Il lavoratore molestato subisce l’effetto di un vero e proprio “terrorismo psicologico” fatto di azioni distruttive e umilianti, che causano danni alla sua immagine/identità professionale e personale; egli si sente prigioniero di un “gioco senza fine”, vive un progressivo isolamento/ritiro sociale con conseguente senso di solitudine, attribuisce a se stesso le cause della violenza, prova senso di colpa e inadeguatezza, si vergogna della sua sofferenza e la nasconde, si sente incompreso da colleghi e familiari (Secci, 2006).

Si configura un orientamento post-traumatico del percorso di counseling psicologico in atto, mirato all'elaborazione del trauma e del senso di colpa. Dal senso di colpa emerge la rabbia per quanto le è successo. La rabbia può essere utilizzata contro se stessa, assumendo una conformazione depressiva, oppure può essere utilizzata in modo costruttivo come energia per fronteggiare quanto accaduto. Elena afferma: “avevo bisogno di dire che non è colpa mia”.

Nella terza fase vengono progettate altre strategie da attivare, utilizzando la rabbia in modo costruttivo. Su richiesta di Elena, la psicologa parla con il dirigente, che attiva un intervento sull’organizzazione: il “molestatore” viene spostato in altro servizio.

Il rientro al lavoro per Elena viene accompagnato da colloqui di counseling supportivo, volti ad attivare comportamenti assertivi. Sul piano relazionale Elena è in grado di recuperare i rapporti lavorativi precedentemente compromessi a causa della sua chiusura; si ripristina un atteggiamento di fiducia nei confronti dell’organizzazione e aumenta la motivazione di Elena al lavoro e conseguentemente la soddisfazione per il proprio operato.

Si è scelto di riportare questo caso per evidenziare il valore di un percorso di counseling psicologico nel possibile recupero funzionale della persona sul posto di lavoro. Un lavoratore messo nelle condizioni di recuperare il proprio funzionamento tecnico e relazionale, senza incorrere in trasferimenti, è un lavoratore più soddisfatto, resiliente, empowered, quindi più produttivo.

Caso 2: Counseling psicologico post-traumatico di gruppo

In un servizio amministrativo accade un evento: la morte improvvisa di una collega per un fatto traumatico.

Viene coinvolto il servizio di counseling psicologico per il contrasto al disagio lavorativo, che, analizzata la situazione, propone tre tipologie di intervento: counseling individuale agli operatori, counseling di gruppo al team di lavoro e supporto all’organizzazione.

Vengono realizzati gli interventi di counseling di gruppo al team di lavoro e di supporto all’organizzazione.

Per quanto riguarda l’intervento di counseling di gruppo al team, la partecipazione al primo incontro avviene a libero accesso; per gli incontri successivi si formalizza un gruppo che seguirà tutto il percorso.

Nei primi due incontri il focus viene posto sulla definizione dell’accaduto e delle relazioni lavorative, con particolare attenzione all’espressione del vissuto dei singoli partecipanti in termini di emozioni e pensieri. Attraverso la tecnica della “narrative” ciascun partecipante, prima individualmente poi a coppia, narra un episodio di lavoro con la persona scomparsa, concentrandosi su “cosa ha pensato e su cosa ha sentito”. Questo consente di formulare un debriefing dell’accaduto: “poterne parlare” e “non essere lasciati soli”, “condividere pensieri ed emozioni”. La scomparsa di una persona o altri fatti traumatici sul posto di lavoro vengono talvolta considerati dalle organizzazioni come episodi privi di ricadute sulle dinamiche lavorative-produttive. Tuttavia, la pratica dimostra che tali eventi richiedono invece un approfondimento ed elaborazione dei vissuti emotivi del gruppo, in un’ottica di superamento consapevole e ripristino di un equilibrio relazionale. Questo è il tipo di lavoro che si è voluto promuovere attraverso il presente intervento. È stata promossa una riflessione sui vissuti. Fra le emozioni/sentimenti/stati d’animo percepiti con maggiore frequenza emerge il “senso di colpa: per non essere riusciti ad “aiutare” la collega, a comprenderla”. Un'altra emozione prevalente è la rabbia per l’accaduto, rivolta talvolta anche contro l’organizzazione per la sua presunta inefficacia nella gestione delle risorse umane.

La realizzazione di un percorso di counseling psicologico di gruppo può favorire l’emergere delle energie del gruppo e la loro canalizzazione come motori del cambiamento. Il costo (e il valore aggiunto) di tale processo è a carico (e a vantaggio) dello psicologo-conduttore, il cui compito è quello di valorizzare il contributo del singolo contenendo e gestendo contemporaneamente le dinamiche gruppali.

Negli incontri successivi il focus viene posto sulle strategie di gestione ed elaborazione di emozioni, sentimenti, stati d’animo, attraverso l’analisi dell’evento, del contesto lavorativo, della mission del servizio; elementi questi utili a estendere l’orizzonte di osservazione e a meglio inquadrare la complessità delle relazioni lavorative.

Lo psicologo decide di incontrare il Responsabile della servizio, nel rispetto della riservatezza dei contenuti emersi durante il percorso di counseling, al fine di supportare e promuovere eventuali proposte organizzative (emerse spontaneamente anche in sede di counseling di gruppo), quali la ridistribuzione carichi di lavoro, ridefinizione dei ruoli, riorganizzazione degli uffici.

La peculiarità di questo tipologia di intervento oltre che nell’aspetto gruppale del counseling, risiede nell’opportunità, offerta qui dall’evento traumatico, di affrontare e approfondire l’elaborazione di tematiche di tipo emotivo-relazionale. Tale approccio può suggerire l’importanza della considerazione di tali aspetti nella quotidiana gestione delle risorse umane. Un percorso di counseling di tipo lavorativo, di norma focalizzato su aspetti connessi alla valorizzazione delle competenze individuali e alla precisazione dei contenuti lavorativi, potrebbe talvolta estendersi all’ambito del gruppo e al tema del riconoscimento e gestione delle emozioni, in un’ottica di prevenzione del disagio e dell’esaurimento emotivo.

Il counseling di gruppo, più in generale, assume i connotati dei gruppi di supporto (Barker, 2001), finalizzati a fornire supporto emotivo e sociale, anche tramite la condivisione di esperienze/informazioni; oltre a questi, i gruppi di counseling possono essere gruppi psico-educativi (focalizzati ad incrementare conoscenze e abilità in una determinata area problematica) e gruppi di counseling post-traumatico (focalizzati ad aiutare persone con la medesima diagnosi/preoccupazione nell’adottare funzionamenti psicologici e lavorativi di più alto livello).

Caso 3: Counseling psicologico sul disagio lavorativo

Un funzionario tecnico si rivolge al servizio di counseling psicologico su iniziativa personale; non vuole far sapere ai colleghi e al responsabile che si avvale di questo servizio. Questa scelta, prevista, consentirà al lavoratore di accedere ai colloqui esclusivamente al di fuori degli orari di servizio e di beneficiare di un supporto personale alle difficoltà; per usufruire del servizio all’interno dell’orario di lavoro occorre invece l’autorizzazione del responsabile che può in questo secondo caso essere coinvolto per promuovere eventuali interventi sul team e sull’organizzazione del lavoro.

Il problema riportato è il seguente: il lavoratore riferisce di non riuscire a far fronte a tutte le richieste lavorative che gli vengono poste; questa situazione genera un vissuto di ansia, confusione mentale nell’esecuzione delle singole attività, calo di autostima conseguente a scarsa percezione di autoefficacia, ovvero «credenze nutrite dalla persona a proposito delle proprie capacità di attuare i comportamenti necessari per raggiungere determinati risultati ed obiettivi» (Bandura, 1977, p. 18). Riferisce di sentirsi inadeguato al ruolo che svolge. La situazione sembra avere avuto inizio in seguito a un periodo in cui il lavoratore ha dovuto affrontare difficoltà familiari (presa in carico di un familiare con problemi di salute) che ha coinciso tra l’altro con un momento di accentuata pressione lavorativa. In quella fase la sua risposta alla situazione era stata la ricerca di isolamento e ritiro, a fronte di una percezione del servizio come “ostile” e del responsabile come “troppo incalzante nelle richieste”.

L’intervento in questo caso è stato centrato sull’acquisizione da parte del lavoratore di capacità organizzative, mediante strategie di gestione del tempo e delle attività con un training sulla attribuzione di priorità.

Utilità e prospettive

Dal momento che il benessere dei lavoratori e la produttività dell’azienda sono legati da una diretta proporzionalità, al fine di ottenere una crescita organizzativa, occorre prestare attenzione a soddisfazione e motivazione del personale, che usualmente conducono a migliori livelli di benessere, performance ed efficacia lavorativa (Brammer & Shostrom, 1977; Coles, 2003). L’attenzione a questi aspetti dovrebbe essere garantita dalle iniziative di formazione che rispondono a fabbisogni collettivi e dall’impostazione manageriale, attenta alla assegnazione degli obiettivi, alla valutazione del raggiungimento degli stessi e al feedback. Quando per il mantenimento del benessere e quindi della produttività queste azioni non sono sufficienti, il ricorso a appositi servizi aziendali di counseling psicologico è auspicabile.

L’intervento di counseling può essere considerato un utile strumento per la soluzione di un disagio personale/lavorativo, indirizzando l’utente verso la comprensione del problema, l’aumento di consapevolezza e fiducia, la riorganizzazione delle proprie risorse e lo sviluppo di nuove modalità di pensiero/azione, il controllo dei fattori stressogeni presenti nel contesto lavorativo, la scelta consapevole e responsabile dei cambiamenti da avviare (Trabucchi, 2012).

È bene precisare che l’intervento di counseling psicologico non può considerarsi di per sé esaustivo, né indipendente, all’interno di un progetto aziendale di gestione delle risorse umane volto al miglioramento del benessere lavorativo; questo è dovuto sia a ragioni di costo che a ragioni di efficacia. Al contrario, quanto più esso si colloca come facilitatore di processi organizzativi, favorendo ad esempio riflessioni di stampo organizzativo, attraverso il coinvolgimento (previo consenso) di responsabili o team di lavoro, tanto più lo sforzo profuso sul singolo individuo portatore del disagio può essere capitalizzato a vantaggio di più beneficiari appartenenti all’organizzazione (Biggio, 2007; Carroll, 1996; Coles, 2003; Conyne, 2004; Hughes & Kinder, 2007; Marini & Nonnis, 2006; McLeod, 2008; Reddy, 1987).

Il counseling, non è quindi da intendere meramente come un servizio di ascolto, bensì come l’opportunità di sviluppare un’ulteriore comprensione di se stessi, di scoprire e sperimentare modi migliori di vivere e di affrontare i problemi (British Association for Counselling and Psychotherapy [BACP], 2002; Coles, 2003), nonché un’occasione di riflessione per l’organizzazione, a diversi livelli, sui propri processi organizzativi interni. È qui, crediamo, che risieda il valore aggiunto di un servizio aziendale di counseling psicologico: nella sua natura di rilevatore e snodo di processi organizzativi in essere.

Partendo dall’esperienza del servizio di counseling per il contrasto al disagio lavorativo nell’Azienda USL di Modena, a distanza di un anno dall’avvio, proponiamo alcune riflessioni prospettiche.

La prima, di taglio strategico, riguarda l’importanza di includere il progetto di avvio e mantenimento di un servizio di counseling psicologico rivolto ai lavoratori, all’interno di chiare politiche di valorizzazione del personale, nonché della definizione delle strategie aziendali di medio-lungo termine. Questo al fine di garantire la sostenibilità del progetto nel tempo e il consolidamento dell’approccio della promozione del benessere organizzativo all’interno della cultura aziendale.

La seconda riflessione, di taglio organizzativo, consiste in un monito per le aziende pubbliche o private o per i professionisti esterni chiamati ad avviare questo tipo di servizio, a considerare gli elementi di contesto nella scelta della collocazione organizzativa del servizio e dell’impostazione dell’intervento, tralasciando possibilmente l’idea di applicare un format pre-definito, indipendentemente dalla specifica realtà organizzativa.

La terza riflessione, di taglio tecnico-metodologico, concerne la necessità di prevedere sin dal momento di avvio di un servizio di counseling psicologico aziendale, la possibilità di raccogliere valutazioni di gradimento, esito ed efficacia. Le modalità con cui effettuare tale raccolta non possono prescindere dal contesto aziendale.

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Autore per la corrispondenza

M. C. Florini Tel. +39 059 435322/ 3383070126 Fax. +39 059 435377 Indirizzo e-mail: c.florini@ausl.mo.it AUSL Modena- Sede C/o Servizio Innovazione e Valutazione Organizzativa- Salute Organizzativa Via S. Giovanni del Cantone, 23 41121 Modena, Italia.

 
DOI: 10.14605/CS911603
 

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