Vol. 24, n. 4, novembre 2025
PRECURSORI
Mario Tommasini e la deistituzionalizzazione dal basso1
Alessandra M. Straniero2 e Fabio Bocci3
Sommario
Il processo di deistituzionalizzazione è una pratica che non riguarda solo, e storicamente, la chiusura delle istituzioni totali (ospedali psichiatrici, scuole speciali, ecc.) ma anche la «messa in discussione» di altri contesti, come le case di riposo, le carceri, gli orfanotrofi (nelle loro evoluzioni nel tempo), e così via. Tenendo a mente questo presupposto e considerando la deistituzionalizzazione una pratica «dal basso» e «che non ha mai fine», l’autrice e l’autore del presente articolo hanno deciso di focalizzare l’attenzione su Mario Tommasini, la cui figura magari può attualmente risultare poco nota ai più ma che, nondimeno, ha caratterizzato con la sua azione — soprattutto politica, nella sua accezione più nobile — una lunga stagione di lotte a favore di chi è più vulnerabile: i matti, i disabili, i detenuti, gli anziani, gli orfani, ecc. Raccontare chi è stato Mario Tommasini è anche l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte del nostro sistema sociale e ragionare in merito alla necessità di un rilancio della pratica deistituzionalizzante in un tempo, il nostro, che si sta purtroppo distinguendo per una regressione per quel che concerne le politiche inerenti alla diversità, all’inclusione, all’equità e all’accessibilità.
Parole chiave
Mario Tommasini, Deistituzionalizzazione, Franco Basaglia, Movimento Antipsichiatrico, Inclusione.
PIONEERS
Mario Tommasini and community-driven deinstitutionalization
Alessandra M. Straniero4 and Fabio Bocci5
Abstract
The process of deinstitutionalization is not limited — historically or conceptually — to the closure of total institutions (psychiatric hospitals, special schools, etc.). Rather, it also entails the «questioning» of other contexts such as nursing homes, prisons, orphanages (in their various transformations over time), and so forth. Bearing this premise in mind, and considering deinstitutionalization as a community-driven practice and as an «unfinished process», the authors of this article have chosen to focus on Mario Tommasini — a figure perhaps little known today, yet one who profoundly marked, through his action (above all political, in its noblest sense), a long season of struggles in defense of society’s most vulnerable: the mentally ill, people with disabilities, prisoners, the elderly, orphans, and others. Narrating who Mario Tommasini was also provides an opportunity to take stock of the current state of our social system and to reflect on the urgent need to revitalize deinstitutionalizing practices in our own time, which unfortunately is increasingly marked by regression in policies concerning diversity, inclusion, equity, and accessibility.
Keywords
Mario Tommasini, Deinstitutionalization, Franco Basaglia, Anti-Psychiatry Movement, Inclusion.
Bisogna ancora fare molte cose belle…
(Mario Tommasini)
Premessa
Probabilmente il nome di Mario Tommasini, nonostante esista una fondazione a suo nome che ne raccoglie e ne rilancia l’eredità,6 è poco conosciuto o del tutto sconosciuto ai più, anche in ambito pedagogico. Tuttavia, quello di Tommasini è un nome di grande rilievo per quel che concerne il processo di deistituzionalizzazione in Italia, a partire da quella in campo psichiatrico ma non solo, come emerge dalla sua biografia e considerando il suo impegno per le carceri, per i bambini nei brefotrofi, per gli anziani e, non da ultimo, la sua passione — non senza sofferenze — per la politica attiva.
Abbiamo così pensato che fosse al tempo stesso doveroso e interessante dedicare a questa figura uno spazio, scrivendo questo articolo destinato alla sezione dei Precursori dell’inclusione, avendo noi ben chiaro che questa non si realizza certo con i tecnicismi e gli specialismi (che stanno tornando purtroppo in auge in questi nostri tempi), ma ha a che vedere con la trasformazione intenzionale e sistematica della realtà sociale che continua a essere favorevole a chi ha i privilegi e assai dura e complessa, spesso insopportabile, per chi vive in condizioni di svantaggio e di vulnerabilità. Per questa ragione riteniamo che la deistituzionalizzazione sia in realtà un processo che non ha mai fine, perché le forme di sopraffazione, di coercizione, di sottomissione, di alienazione, di disabilitazione sono ancora innumerevoli e attive nel palinsesto sociale e, di conseguenza, riteniamo altresì che la storia, il pensiero e la pratica di Mario Tommasini rappresentino ancora oggi un fulgido esempio di impegno civico e politico dal basso da seguire e fare proprio.
Mario Tommasini: un breve profilo biografico
Mario Tommasini nasce il 20 luglio 1928 a Parma e, più precisamente, nei pressi di Borgo del Naviglio, luogo di grandi lotte e di solidarietà a quelle altrui fin dagli albori del Novecento, come il supporto degli operai del Naviglio allo sciopero per il salario da parte dei lavoratori della terra nel 1908 e, nel 1922, la celeberrima resistenza con le barricate dell’Oltretorrente contro le squadriglie fasciste guidate da Italo Balbo, fulgido esempio di resistenza indefessa contro l’avanzata dell’imminente dittatura mussoliniana.
Una tradizione che resiste anche quando il Fascismo è ormai conclamato e, infatti, nella casa in cui vive Mario si riunisce una cellula clandestina del Partito Comunista. Il ragazzo ascolta i discorsi degli adulti e sviluppa una particolare sensibilità, sotto forma di avversione per tutto ciò che si presenta con le fattezze dell’arroganza e della sopraffazione, maturando al tempo stesso l’ideale di una società migliore, più giusta e più equa. Non a caso a soli quattordici anni diventa partigiano iniziando la sua militanza con i Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) e compiendo, nonostante la giovanissima età, azioni pericolosissime durante il periodo dell’occupazione nazifascista. Anni dopo, nel 1967, per queste sue azioni riceverà la Croce al merito per la lotta partigiana.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, lasciate le vesti di partigiano, Tommasini diventa uno dei protagonisti più attivi della lunga e dura stagione delle lotte politiche e sindacali, tanto da essere additato dalla stampa avversaria come un sovversivo e un sobillatore, sempre in campo nelle proteste operaie (dopo una manifestazione con scontri di piazza la «Gazzetta di Parma» lo addita come il solito Tommasini). Nell’occhio del mirino della controparte, finisce anche in carcere a San Francesco. Qui, nel 1953, avviene un episodio che mostra pienamente di che pasta sono fatti gli ideali di Tommasini.
Durante l’ora d’aria un detenuto comune (ossia non arrestato per reati politici) viene maltrattato dagli agenti carcerari che non sono disposti ad accogliere una sua richiesta in quanto malato; Mario si schiera immediatamente a sua difesa ma è avvicinato da un gruppetto di altri carcerati che lo rimproverano. Si tratta di detenuti comunisti provenienti da Reggio Emilia che gli ricordano alcune «regole» interne che andrebbero rispettate. Il dialogo è illuminante: «“Tu sei un compagno. Non sai che il partito ci impedisce di avere rapporti con i comuni?”. Mario li manda a quel paese: “Sono un compagno per questo. Per essere dalla parte di chi è maltrattato, senza chiedergli se è comunista o no”».7 Liquidata così la questione, Tommasini dà avvio alla contestazione: invita tutti gli altri a sedersi a terra nel cortile e a protestare a oltranza per ottenere le dovute garanzie di tutela per il carcerato ammalato. L’iniziativa raggiunge il suo scopo per l’intervento del direttore, che però fa in modo di allontanare Tommasini dal carcere per non avere ulteriori noie.
Nel frattempo sposa Lina Pezzi, anche lei proveniente dal Borgo, e nel corso del tempo nascono i figli Arturo e Barbara.
La figura di Tommasini è molto popolare nella base comunista, anche se lo è molto meno ai piani alti del partito. È considerato poco allineato alle direttive emanate dalle strutture regionali e nazionali; di contro è visto come troppo indipendente e irruente. Ma queste caratteristiche, poco amate dai vertici, gli valgono invece la fiducia dei compagni, tanto che nelle elezioni amministrative viene eletto con molti voti ed è nominato Assessore ai Trasporti con delega per l’Istituto psichiatrico di Colorno.
Si tratta di una delega destinata a cambiare le cose. È l’8 marzo 1965 quando Tommasini si reca per la prima volta in visita al manicomio, portando con sé i ricordi d’infanzia e adolescenza rispetto a quel luogo avvolto da un’aura nefasta, un luogo senza ritorno dove sparivano molte persone strane che fino a un certo punto si incontravano per le vie del Borgo.
Nel 1965 a Colorno ci sono circa 1.200 internati assistiti da 170 infermieri e da 4 medici. Il sopralluogo lascia il segno: percorrendo gli interminabili e squallidi corridoi del manicomio Mario sente i lamenti, vede le finestre difese dalle inferriate, osserva gli alienati legati ai letti, seduti con lo sguardo fisso e assente, e ne incontra altri che vagano senza meta.
È fortemente impressionato da ciò che ha visto e la tentazione, come peraltro gli ha suggerito il primario che lo ha accompagnato nel tour, è quella di lasciare la delega. Ma proprio dinanzi a questa possibilità di disimpegno la tempra di Tommasini riprende il sopravvento. Lo shock iniziale lascia il campo alla rabbia, anche perché dentro al manicomio ci sono finiti anche alcuni vecchi partigiani e lui non sa darsene una ragione.
Comincia così una lunga lotta che è contro la burocrazia ma anche contro la cultura del suo tempo della quale forniamo maggiori dettagli nel paragrafo successivo. Tommasini, in linea con quanto sta via via emergendo almeno nelle personalità più sensibili alla questione, si convince che l’ospedale psichiatrico non sia un luogo di cura ma solo di contenimento di chi non è conforme alle regole sociali e agli standard normativi imposti dalla maggioranza dei sani. L’idea che i matti debbano uscire dai luoghi di alienazione, quasi sempre collocati fuori dalle mura della città, scandalizza; ma a scandalizzare c’è anche altro. Benché Mario sia un assessore, ha solo la quinta elementare. È, di fatto, un operaio che si permette di sfidare il sapere dei luminari della scienza medica. Fortunatamente, come vedremo, a questa lotta si uniscono gli studenti e, infine, siamo ormai nel 1970, a Colorno arriva Franco Basaglia. L’operaio, partigiano e attivista, e lo scienziato, che si è formato studiando Jaspers, Minkowski, Binswanger, Foucault e Goffman (in riferimento a quest’ultimo, è noto l’influsso su Basaglia di Asylums, del quale cura l’edizione italiana del 1961), uniscono le loro forze per dare avvio (in realtà per proseguire, vista l’esperienza basagliana a Gorizia) alla deistituzionalizzazione in ambito psichiatrico.
Accanto alle lotte per la chiusura del manicomio di Colorno Tommasini, in veste di componente del consiglio di amministrazione degli Ospedali Riuniti di Parma, si impegna in un’altra azione di contrasto alle istituzioni totali: la chiusura del Brefotrofio. L’idea è quella di dare sostegno alle madri naturali affinché possano essere messe nella condizione di assolvere alla loro funzione genitoriale o, laddove ciò non sia possibile, di affidare i bambini che vi sono rinchiusi a famiglie affidatarie. L’impegno si traduce in realtà: quasi 1.000 bambini, che si trovano in quel momento internati in vari istituti della Penisola, possono fare ritorno nella provincia di Parma. Questa rivoluzione si applica anche al carcere minorile — Certosa di Parma — che viene chiuso e, siamo in un momento di svolta per quel che attiene la scolarizzazione degli allievi anormali (la Legge 118 è del 1971), si dà avvio al superamento delle classi differenziali, facendo in modo che gli handicappati (locuzione che sta iniziando a prendere piede) frequentino la scuola come tutti gli altri. Tommasini pensa anche al dopo e prevede il loro inserimento lavorativo, ad esempio, nelle fabbriche o nei laboratori artigianali, ecc.
Nel 1974 realizza a Parma, in modo pionieristico a livello nazionale, il Servizio di Medicina del Lavoro e contribuisce all’istituzione del primo Consorzio di Medicina Sociale. È uno degli artefici della realizzazione del film-documentario (divenuto di culto per gli addetti ai lavori) Matti da slegare, scritto e diretto da Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia, le cui riprese sono realizzate proprio a Colorno e che ha la finalità di sostenere le posizioni di Basaglia per la chiusura dei manicomi.8
Come emerge anche dalla bellissima biografia che gli ha dedicato Bruno Rossi, non a caso intitolata Mario Tommasini. Eretico per amore (2006), è chiamato a Bruxelles, dove la Comunità Economica Europea, sulla base delle sue iniziative, avvia il Progetto Pilota per l’Europa che prevede l’inserimento lavorativo di 225 giovani con disabilità.
Per dare sostanza a quanto qui riportato in merito al rispetto internazionale nei confronti di Mario, basti ricordare che a Parigi, dopo avere concluso una conferenza alla Sorbona, Tommasini è preso a braccetto da Jean-Paul Sartre, con il quale avvia un profondo scambio. Nel 1978 è insignito da una giuria internazionale del Premio Schweitzer, destinato a coloro che si sono particolarmente impegnati e distinti nel campo del sociale.
Risale al 1980 la nomina ad assessore ai Servizi sociali e alla Sanità del Comune di Parma e immediatamente crea gli orti per gli anziani — sui quali nel 1990 viene realizzato un film-documentario dal titolo Orti d’amore con la regia di Daniele Urbanetto — istituendo inoltre il servizio di assistenza domiciliare.
Nel 1982 introduce, primo in Italia, il minimo garantito, avvia una serie di sconti su molti servizi essenziali (trasporti, acqua, gas e luce) che sono addirittura erogati gratuitamente a 1.500 anziani in condizione di povertà e promuove la realizzazione dei Comitati Anziani di Quartiere.
Sempre attento alla condizione di chi è più marginale — anche di chi si è macchiato di un crimine orrendo (noto alle cronache come il Delitto del Federale, dal nome del campo sportivo del quartiere San Lazzaro) — richiede e ottiene l’affidamento di cinque adolescenti colpevoli dell’omicidio di Stefano Vezzani, un loro coetaneo, riuscendo a reinserirli, con un progetto ad hoc, nel tessuto sociale cittadino senza il ricorso al carcere minorile.
Il tema delle carceri e dei detenuti gli è particolarmente caro e, in tal senso, promuove il movimento Liberarsi della necessità del carcere e contribuisce alla fondazione della Cooperativa Sirio che dà lavoro esterno a moltissimi detenuti in semilibertà. Nel 1989 gli viene assegnato il Premio Sant’Ilario, un’onorificenza del Comune di Parma riconosciuta a persone, enti o organizzazioni che con il loro impegno in vari ambiti — dalle arti alle scienze, dallo sport alla solidarietà — hanno contribuito a migliorare la vita comunitaria.
Negli anni Novanta Mario Tommasini si prodiga ancora per gli anziani. Considera la loro collocazione negli ospizi — troppo spesso unico approdo contemplato — una vera e propria ingiustizia. È un altro tassello delle sue lotte per la deistituzionalizzazione, si tratti di ospedali psichiatrici, carceri, scuole speciali o, appunto, ospizi, anche se definiti con termini politicamente corretti come case di riposo. Per Tommasini le persone anziane hanno il diritto di vivere i loro giorni nella piena dignità: nei loro paesi o città, nei loro quartieri, nelle loro case dove è radicata la loro storia. Nel 1991, in una seduta straordinaria del Consiglio Regionale organizzata a Vigheffio, viene presentato il progetto Esperidi, il cui motto è Non risparmiare per la tua vecchiaia, ma investi sulla vecchiaia. Il progetto, infatti, prevede il superamento degli ospizi con la creazione di una rete di strutture di coesistenza, che permetta agli anziani di mantenere la loro indipendenza mediante l’interdipendenza con giovani coppie che ricevendo un alloggio assolvono un compito di supporto all’autonomia (un’azione di portineria sociale). È certamente un’iniziativa economicamente dispendiosa, tanto che l’allora sindaco, dopo diversi tentennamenti, rinuncia. Ma Mario non demorde e, con la sua capacità di costruire legami e reti, nel corso del tempo individua in Tiedoli, una frazione del Comune di Borgotaro, un luogo ideale dove avviare questa sperimentazione utopica. Acquisito il contributo della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Borgo Val di Taro, della Provincia di Parma e, soprattutto, grazie al sostegno della Fondazione CariParma, si forma a Tiedoli una piccola comunità di anziani che vivono secondo quanto ideato, visionariamente, da Tommasini.
Sempre nella prima metà degli anni Novanta è chiamato per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in varie parti del Mondo — tra i quali Brasile, Grecia, Repubblica Dominicana — per collaborare alla trasformazione delle strutture manicomiali. Tornato dal Brasile fonda il Comitato Emergenza Infanzia che supporta, con le raccolte di fondi, la realizzazione di due case di accoglienza — Paupau a Sao Paulo e Casa Pixote a Santos — per i Meninos de rua.9
Per quanto concerne i suoi rapporti con il Partito Comunista, questo è segnato sempre da complessità e incomprensioni. Ha la simpatia di Enrico Berlinguer, che durante una visita a Parma si reca a Vigheffio, per incontrare Mario, ma nonostante questo e il fatto che — siamo ancora nel Novanta — candidatosi alle elezioni regionali si colloca per preferenze solo dietro al Presidente della Regione, non ottiene ciò che tutti si auspicano, ossia l’assegnazione di un assessorato per estendere all’intera Emilia-Romagna quanto ha svolto a livello locale. La cosa non passa inosservata, tanto che il giornalista Enzo Biagi scrive: «Mario Tommasini è quello che il Vangelo chiama “un giusto”. Non serve nelle amministrazioni italiane? Non c’è bisogno di buoni esempi? Se a chi salva un’anima spetta il paradiso, al compagno Tommasini competono l’amore e la gratitudine che si deve a chi ha incoraggiato la speranza sulla Terra» (Giannella, 2019).10
Durante gli anni di impegno nel Consiglio Regionale, prendono forma intorno a Tommasini diversi movimenti politici, come Nuova solidarietà e Libera la Libertà, che lo supportano nelle sue iniziative politiche. Tra queste la sua candidatura a sindaco, alle elezioni del 2002, da indipendente (dopo le divergenze con il Partito Democratico di Sinistra), che porta Libera la Libertà, soprattutto grazie al sostegno dei più giovani, a sfiorare il 19% delle preferenze collocandosi al terzo posto.
L’impegno politico formale non è disgiunto da quello della pratica politica sul campo. Mario Tommasini prosegue indefessamente le sue azioni a favore degli anziani, dei disabili, dei carcerati, di chi, insomma, è più esposto, vulnerabile, bisognoso. Come rileva Franco Rotelli, in tal senso, Tommasini è stato «un intellettuale tra i più veri del nostro tempo» (Rotelli, 2006, p. 792).
Si arriva così alla Primavera del 2006. Dal letto d’ospedale dove è costretto — Prometeo incatenato — per una malattia che, ne è consapevole, non gli lascia scampo, agli amici che lo vanno a trovare dice che c’è ancora bisogno di fare molte cose belle, sollecitandoli così a non demordere e a continuare a impegnarsi e lottare. Muore la mattina del 18 aprile alla soglia dei 78 anni.
Il contesto e le lotte — di una vita — dal basso di Mario Tommasini
Come abbiamo visto leggendo la sua biografia, il contesto storico in cui opera Tommasini è piuttosto lungo, e va dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni Novanta, con un apice che si snoda tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, contrassegnati da una serie di lotte che hanno come sfondo comune quella deistituzionalizzazione, da intendersi non solo come pratica/processo legata/o all’abolizione delle istituzioni totali per quel che concerne gli ospedali psichiatrici e le scuole/classi speciali, ma anche come liberazione da tutte quelle gabbie sociali che rendono la vita di molte persone poco o per niente dignitosa.
Si può affermare che Tommasini, ben prima di Sen e Nussbaum, abbia messo in atto un processo di capacitazione, in vista di una vita fiorente, da parte di soggettività altre, vulnerabili, marginali, non conformi (secondo gli standard abilisti della società capitalista e post o neocapitalista nelle sue diverse fasi) non solo nel segno di una più equa ridistribuzione delle risorse a chi ha di meno, ma come atto politico di emancipazione, di indipendenza e di autodeterminazione. Di qui la sua attenzione, oltre che per i matti e gli handicappati, per i detenuti, per gli orfani, per gli anziani, per i poveri (che sono una categoria trasversale, soggetta più di altre a forme di discriminazione multipla), ecc.
Per comprendere al meglio il clima in cui si muove Tommasini è quantomai necessario richiamare Franco Basaglia e quella pietra miliare che è stata — e resta — L’istituzione negata, lavoro che cura e pubblica, insieme al gruppo che lo accompagna, nel 1968. In particolare, nel saggio a sua firma, Le istituzioni della violenza, Basaglia scrive:
Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, toccando tutte le istituzioni su cui si organizza la nostra società. Ciò che accomuna le situazioni limite riportate è la violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico nei confronti di chi è irrimediabilmente succube. Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione, da parte del potere, del non potere; la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società (Basaglia, 2024, pp. 145-146).
Non sorprende, quindi, tornando all’esperienza del manicomio di Colorno che qui poniamo come esperienza emblematica di deistituzionalizzazione dal basso, che la lotta condotta da Tommasini trovi al suo fianco il movimento studentesco. Anche sulla scia dei testi che circolano e sono letti durante il Sessantotto (tanto inviso, ancora oggi, ai conservatori), quali quelli di Foucault, Goffman, Illich, Lapassade, Tosquelles, Oury, Castoriadis e altri, studenti e studentesse, oltre che alla realtà delle fabbriche, si interessano alla realtà ospedaliera, in particolare alla realtà manicomiale, intravedendo nella psichiatria di matrice ottocentesca, ancora in auge, l’espressione più nitida del classismo che ammanta la medicina. Il tutto a discapito dei più poveri e dei più vulnerabili.
Contemporaneamente anche infermieri, operatori sanitari, insegnanti e altri esponenti della società civile cominciano a maturare un sentire differente e a esprimere perplessità sulle — spesso brutali — pratiche che si attuano nei manicomi.
Così, in occasione del convegno Medicina e psichiatria che si tiene a Parma dal 27 al 30 gennaio 1969, emergono una serie di proposte di miglioramento della vita degli internati a Colorno. Tra le richieste vi sono l’apertura delle porte, la rimozione delle inferriate, la concessione di permessi di uscita dalla struttura per i bisogni personali, la modifica dei tempi di vita ospedaliera (a partire dalla soppressione della sveglia fissata inesorabilmente alle ore 6 del mattino), lo svecchiamento del personale, l’attivazione di assemblee. Per dare corpo a quanto avanzato, il 3 febbraio del 1969 gli studenti universitari occupano per 35 giorni l’ospedale psichiatrico. Le persone che vi erano residenti, i pazienti, si dichiarano favorevoli all’occupazione firmando compatti una mozione in cui chiedono la compartecipazione nella gestione dell’ospedale, il diritto a riunirsi in assemblea e le dimissioni di chi è in buona salute. Tommasini, rievocando quel momento, evidenzia come l’occupazione «fece conoscere a tutta l’Italia le condizioni dei malati di mente e fu la dimostrazione che i degenti potevano addirittura gestire il manicomio, visto che per 35 giorni erano spariti metà degli infermieri e tutti i medici». E ancora: «noi facevamo l’assemblea coi malati al mattino e insieme organizzavamo la vita del manicomio. Sono stati gli unici trentacinque giorni in cui non si è ammazzato nessuno e nessuno è stato picchiato. Tutte le sere partivano dal manicomio decine di giovani con decine di malati a fare dibattiti nelle chiese, nelle fabbriche, all’università».11
L’idea che persegue Tommasini, dunque, non ha nulla a che vedere con la cura di matrice psichiatrica, che si traduce, al meglio, nell’applicazione della terapia del lavoro, peraltro generatrice di ulteriore sfruttamento del malato. Come per Basaglia, anche per Tommasini la questione della follia non si risolve nel trattamento dell’individuo alienato, ma riguarda l’intera comunità. Questa convergenza di vedute (di visioni) porta Tommasini a incontrare Basaglia: i due si ri-conoscono e da qui si genera un rapporto di collaborazione al punto che lo psichiatra veneziano nel 1970 viene nominato Direttore dell’Ospedale di Colorno. Vi rimane fino al 1971, anno in cui è nominato alla direzione dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, ma la sua azione, congiunta a quella di Tommasini, porta all’introduzione di molte innovazioni (Pellegrini, 2024). Lo sfondo è, naturalmente, quello della psichiatria comunitaria, che contempla un diverso approccio alla salute mentale: è necessario prendersi cura della persona e non curare la malattia sovrapponendola alla persona, in modo da reificarla.
Si dà quindi avvio a una graduale ma profonda riorganizzazione degli spazi e dei tempi della cura, il cui primo passo consiste nelle dimissioni di una grande quantità di (ormai e finalmente) ex pazienti, i quali sono reinseriti nel tessuto sociale a partire da quello abitativo e lavorativo di malati che venivano inseriti nel mondo del lavoro. Tommasini, grazie anche al supporto dell’amministrazione provinciale e di privati, trova case e appartamenti (circa 250). Viene anche sistemata — con il contributo solidale di molti operai che vi lavorano gratuitamente — una fattoria nei pressi di Vigheffio e si costituiscono numerose cooperative alla cui nascita partecipano numerosi ex degenti. In altri termini, si viene a delineare quel modello che rappresenta il nucleo ideale e valoriale alla base della Legge 13 maggio 1978, n. 180.
In conclusione di questa parte del nostro contributo a carattere rievocativo, va ribadito — evidenziando ancora una volta la straordinaria figura di Tommasini — che la negazione dell’istituzione totale manicomiale costituisce e rappresenta, al pari di quella delle scuole speciali e delle classi differenziali, uno dei fatti culturali (e politici) di maggiore rilievo dell’Italia repubblicana e democratica. Come ha sottolineato con la consueta lucidità Ciro Tarantino nella sua nota introduttiva alla nuova edizione (da lui stesso curata) de L’ordine psichiatrico di Robert Castel, la negazione dell’istituzione totale, quindi la deistituzionalizzazione, «sottraendo il recinto delle anomalie al novero dei luoghi disponibili, ha unificato lo spazio sociale, imponendo alle forme molteplici dell’umano la ricerca quotidiana di forme di vita comune» (Tarantino, 2023, p. 10).
Almeno fino a oggi, ci viene da dire. E, infatti, Tarantino aggiunge poco dopo: «Ora, però, nuovi scricchiolii annunciano forse il tempo di altre metamorfosi. Ecco, allora, la nuova copia di un vecchio libro che ha fatto il suo tempo ma, evidentemente, non l’ha esaurito perché, probabilmente, ancora a lungo è nell’ordine psichiatrico e nelle sue metamorfosi che si dovranno interrogare i limiti dell’appartenenza comunitaria e della democrazia profonda. Vale insomma, per questo doppio, quanto Castel scriveva a proposito di un’altra metamorfosi della questione sociale: “Mi è parso che in questi tempi d’incertezza, mentre il passato si dilegua e l’avvenire è indeterminato, bisognerebbe mobilitare la nostra memoria per cercare di comprendere il presente”» (Tarantino, 2023, p. 10).12
Ebbene, essendo proprio questo il senso del nostro contributo, dopo avere mobilitato la memoria sentiamo la necessità di soffermare l’attenzione sul presente per coscientizzarci su quanto stiamo vivendo nel qui e ora di un tempo d’incertezza, e di preoccupazione, sempre più profonda.
«Li riporto tutti a casa». Il punto è capire quale
Nel corso del 2025 numerosi fatti di cronaca hanno riportato all’attenzione pubblica la questione dei maltrattamenti subiti da persone con disabilità e da anziani ospiti di strutture residenziali o centri diurni. Non si tratta di episodi isolati, ma di eventi che evidenziano la fragilità sistemica del modello istituzionale e la sua incapacità di garantire condizioni di sicurezza, rispetto e tutela dei diritti fondamentali. In Piemonte, un’operazione dei Carabinieri del NAS ha portato all’arresto di 8 operatori sociosanitari di una comunità di Luserna San Giovanni nel pinerolese, accusati di maltrattamenti ai danni di persone con disabilità intellettiva, con episodi che includono percosse, vessazioni verbali e violenza sessuale (RaiNews, 2025a). Le indagini hanno preso avvio dalla denuncia della madre di un giovane ospite della comunità, che aveva confidato di essere stato picchiato dagli operatori. Quando il ragazzo aveva trovato il coraggio di raccontare quanto era accaduto, i familiari si erano però sentiti dire dalla psicologa della struttura di non dare credito alle sue parole. La vicenda mette in evidenza non solo l’ipotesi di maltrattamenti, ma anche il meccanismo di negazione istituzionale che spesso accompagna le denunce delle vittime: il tentativo di delegittimare la loro voce, riducendola a invenzione o espressione di fragilità psicologica.
Sempre nel 2025 sono emersi altri casi nel nord Italia. A Milano, otto operatori di un centro diurno sono stati interdetti per maltrattamenti commessi tra la fine del 2023 e l’autunno del 2024, che comprendevano schiaffi, insulti e isolamento punitivo degli ospiti disabili (ANSA, 2025a). A Como, presso la comunità «Villa Santa Maria» di Tavernerio, la Procura ha notificato la chiusura delle indagini preliminari a quattordici ex dipendenti accusati di violenze e abusi su minori con disabilità, avvenuti tra il 2018 e il 2021; le imputazioni includono percosse, umiliazioni e somministrazione indebita di farmaci (ANSA, 2025b). Vicende altrettanto gravi hanno interessato il Mezzogiorno. In provincia di Siracusa, i Carabinieri hanno arrestato dodici operatori e gestori di due comunità alloggio per persone anziane e con «disabilità psichica», accusati di percosse, minacce, umiliazioni e privazioni sistematiche di cure adeguate (RaiNews, 2025b). A Porto Sant’Elpidio, nelle Marche, l’operatrice di una casa di riposo è stata posta ai domiciliari per maltrattamenti su anziani ospiti (RaiNews, 2025c). In Veneto, infine, un’inchiesta avviata nel Bellunese ha documentato episodi analoghi, suscitando la reazione delle istituzioni locali che hanno parlato di «crimini contro le persone» (Regione Veneto, 2025).
Il quadro che emerge non può essere ridotto a una mera sequenza di casi di cronaca nera. Ciò che accomuna vicende avvenute in luoghi e tempi diversi è la vulnerabilità delle vittime — anziani non autosufficienti e persone con disabilità intellettiva — esposte a maltrattamenti fisici e psicologici, a violenze verbali, a negligenza assistenziale e, in alcuni casi, ad abusi sessuali. Un elemento particolarmente inquietante è la sistematicità di queste pratiche, che non appaiono come comportamenti isolati ma come condotte tollerate, se non normalizzate, da contesti istituzionali impermeabili al controllo esterno. Spesso, inoltre, tali violenze sono emerse solo grazie a segnalazioni coraggiose di familiari o operatori esterni, confermando l’opacità e la chiusura che caratterizzano molte strutture.
La violenza non costituisce un eccesso accidentale dell’istituzione, ma una possibilità intrinseca al suo funzionamento. Anche quando non assume la forma di reati penalmente rilevanti, essa si manifesta nella limitazione della libertà personale, nella negazione dell’autodeterminazione e nella separazione forzata dalla società. In tal senso, i fatti di cronaca sopra citati ribadiscono ciò che la teoria critica e l’esperienza storica della deistituzionalizzazione hanno già mostrato: l’istituzionalizzazione è incompatibile con i diritti umani, perché genera inevitabilmente condizioni di vulnerabilità e di violenza. Perché, appunto, di istituzionalizzazione si parla: quest’ultima, lungi dall’essere un retaggio del passato, continua a riprodursi in forme nuove, spesso accompagnata da un lessico che la rende socialmente più accettabile. «Ieri le istituzioni dell’esclusione erano potenti, disciplinate, legittimate», scrive Franco Rotelli (2006, p. 791). Oggi tali istituzioni sono forse meno legittimate sul piano formale ma non per questo meno potenti e disciplinate. Si parla, infatti, di «manicomi nascosti» (Merlo e Tarantino, 2018).
È in questo scenario che la figura di Tommasini rivela ancora una forza che è tutt’altro che esaurita, poiché egli ha compreso, anzitempo, come la chiusura delle istituzioni totali non sia un punto d’arrivo, ma solo l’inizio di un processo culturale, politico e sociale volto a scardinare alla radice le logiche segreganti.
In questo quadro — che non pretende di restituire in modo esaustivo ciò che avviene all’interno delle residenze per anziani o per persone con disabilità, ma che, al tempo stesso, non può essere liquidato come il risultato di poche «mele marce» o di episodi isolati — meritano di essere collocati due interventi pubblici di particolare rilievo, provenienti da due associazioni nazionali impegnate nella tutela dei diritti delle persone con disabilità.
Il primo è rappresentato da una nota dell’ANFFAS del 13 gennaio 2025, che nelle conclusioni riporta delle osservazioni sull’istituzionalizzazione. Nel commentare la facoltà attribuita all’Autorità Garante di visitare, senza necessità di autorizzazione o di preavviso e con accesso illimitato ai luoghi, le strutture che erogano servizi pubblici essenziali e gli istituti, l’ANFFAS osserva:
La competenza sul tema, oggi attribuita al Garante nazionale per i diritti delle persone con disabilità, e non più per quanto riguarda le persone con disabilità e le strutture di cui esse fruiscono solo al Garante nazionale delle persone private delle libertà personali, contribuirà a fare chiarezza su un tema di grande rilevanza, che anche in questi giorni viene da taluni riproposto con un approccio meramente ideologico e del tutto fuorviante. Far passare il messaggio che tutte le strutture semiresidenziali e residenziali siano dei luoghi nei quali, a prescindere, le persone con disabilità vengono segregate, o peggio, rappresenta un approccio frutto di pericolosi preconcetti e foriero di grandi disastri laddove questo messaggio si dovesse tradurre in pratica: le persone con disabilità, infatti, nel rispetto dell’art. 19 della Convenzione ONU, hanno il diritto di poter scegliere dove, come e con chi vivere, comprese le strutture semiresidenziali o residenziali, senza mai essere costrette a una specifica sistemazione, contro la propria volontà (ANFFAS, 2025).
Il secondo intervento è l’articolo di Giovanni Marino, presidente di ANGSA, pubblicato su «Superando.it» nel luglio 2025. In questo contributo Marino ha sostenuto che le residenze non vanno confuse con gli istituti, in quanto «modelli abitativi progettati a misura dei bisogni assistenziali delle persone» (Marino, 2025).
Queste affermazioni hanno sollevato critiche diffuse, rivelando la tensione tra una visione che considera la residenzialità come risposta inevitabile (in particolare per le persone che necessitano di supporti significativi) e chi, al contrario, la interpreta come una perpetuazione di istituzioni sotto altre forme.
Soffermandosi sulla nota dell’ANFFAS è possibile affermare che dichiarazioni del genere rivelano anche un’interpretazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità estremamente scivolosa e pericolosa. A tal proposito Simona Lancioni (responsabile del centro «Informare un’h» di Peccioli) ha parlato di una vera e propria operazione di legittimazione pubblica dell’istituzionalizzazione (Lancioni, 2025a). Tale posizione non solo tradisce lo spirito della Convenzione, ma si pone in contrasto con le Linee guida del Comitato ONU del 2022 e con le indicazioni della Commissione Europea, entrambe orientate a smantellare progressivamente ogni forma di istituzionalizzazione. E la nota dell’ANFFAS così come le parole di Marino dell’ANGSA sembrano andare nella stessa direzione: sottolineano la necessità del persistere di luoghi speciali, soprattutto per gestire le «disabilità complesse».
Qui emerge con chiarezza una continuità con il passato: come accaduto ai tempi di Tommasini le istituzioni cercano di sopravvivere alle riforme appropriandosi del linguaggio dei diritti, per adattarlo alle proprie logiche di conservazione. Non è sufficiente, infatti, cambiare nome o riorganizzare i luoghi, ma bisogna trasformare radicalmente i rapporti di potere che definiscono chi è incluso e chi è escluso.
Le testimonianze delle famiglie hanno reso ancora più evidenti le contraddizioni che contraddistinguono questo dibattito. La lettera aperta di Daniela Ferraro, madre di un giovane con disturbo dello spettro dell’autismo, ha denunciato come le residenze, pur rivestite di un linguaggio modernizzante, continuino a segregare, mentre la vita indipendente del figlio è stata resa possibile solo grazie a percorsi di autodeterminazione costruiti fuori da quelle strutture (Ferraro, 2025). Analogamente, Sonia Salice, dopo quarant’anni trascorsi in condizioni di dipendenza, ha rivendicato con chiarezza di non voler mai entrare in un contesto residenziale, poiché lo percepisce come un luogo che toglie libertà e relazioni: «non puoi uscire, non puoi vedere le persone e andare a prendere il caffè» (Salice e Salice, 2025).
Queste voci non esprimono solo esperienze individuali, ma contestano l’intero impianto culturale che legittima la segregazione come soluzione protettiva. Per Tommasini, ascoltare chi viveva la condizione di marginalità era il primo passo per costruire un cambiamento reale; anche oggi, il rifiuto esplicito dell’istituzionalizzazione espresso da persone disabilitate dovrebbe rappresentare un punto di partenza politico non negoziabile.
Il nodo centrale non riguarda solo la qualità dei servizi, ma la violenza strutturale insita nell’istituzionalizzazione. Domenico Massano (2025) ha messo in luce come gli episodi di maltrattamento che emergono dalle cronache non siano eccezioni, bensì conseguenze sistemiche di un modello che concentra potere e riduce la persona a oggetto di cura e sorveglianza. Lo stesso è stato sottolineato da Gianfranco Vitale (2025), padre di una persona con disturbo dello spettro dell’autismo, a seguito delle violenze avvenute nella comunità di Luserna San Giovanni: anche laddove si intensifichino i controlli, se non si mette in discussione la struttura stessa dell’istituzionalizzazione, gli abusi continueranno a riprodursi. Occorre, dunque, «mettere in discussione la stessa idea di istituzionalizzazione» (Lancioni, 2025b). Non si tratta di migliorare il funzionamento delle strutture o di garantire pene esemplari ai responsabili degli abusi, ma di riconoscere che l’istituzionalizzazione, di per sé, costituisce una violazione dei diritti umani, anche in assenza di maltrattamenti visibili. È la condizione stessa di segregazione a essere incompatibile con la Convenzione ONU, la quale stabilisce che ogni persona ha il diritto di scegliere dove e con chi vivere, senza essere costretta a sistemazioni particolari (CRPD, 2006).
Anche ammesso che si voglia accogliere l’interpretazione contenuta nella nota dell’ANFFAS, secondo cui la residenza rappresenterebbe una delle possibili opzioni abitative a disposizione della persona con disabilità, resta imprescindibile che tale scelta sia effettivamente espressa dalla persona stessa. Ciò implica che la volontà sia indagata e sostenuta, anche in presenza di difficoltà comunicative, attraverso tutti gli strumenti che la ricerca e la tecnologia oggi rendono disponibili, e non semplicemente sostituita dalla decisione della famiglia. Inoltre, perché si possa parlare di scelta, è necessario che vi siano reali alternative tra cui optare: in assenza di più possibilità concrete il concetto stesso di scelta si svuota di significato e la residenza finisce per configurarsi come l’unica via obbligata.
È un punto decisivo: se l’istituzionalizzazione appare ineludibile, ciò accade perché le alternative non sono sostenute e finanziate. È un circolo vizioso che Tommasini aveva ben compreso e contro cui ha lottato, ricordando che le risorse pubbliche vanno investite per liberare le persone e non per rinchiuderle in spazi separati. Un ulteriore aspetto riguarda il conflitto di interessi tra advocacy e gestione dei servizi. In questi anni sono emerse, accompagnate da critiche, situazioni in cui ci si è trovati di fronte all’assunzione di doppi ruoli da parte della medesima persona che, se non sono incompatibili sul piano legale, lo sono certamente su quello morale. Il rischio che si corre è quello di un condizionamento delle istanze di rappresentanza condizionate dalla necessità di preservare modelli organizzativi dai quali derivano risorse economiche e legittimazione sociale (Lancioni, 2025c). Il Comitato ONU ha chiarito che chi trae profitto dal mantenimento delle istituzioni non può essere coinvolto nei processi decisionali che dovrebbero condurre alla loro dismissione (ONU-CRPD, 2022).
Anche su questo aspetto Tommasini offre una lezione attuale: egli ha costruito alleanze con i cittadini e con i movimenti proprio per scardinare la presa delle istituzioni su se stesse, evitando che fossero gli stessi gestori a dettare le condizioni del cambiamento.
Il dibattito ha assunto toni ancora più netti nelle posizioni collettive del Coordinamento Persone, che ha denunciato l’istituzione come dispositivo finalizzato a giustificare se stessa e a mantenere in piedi un sistema di rendite e di controllo sociale (Coordinamento Persone, 2025). Secondo tale prospettiva, la segregazione non è un effetto collaterale, ma il prodotto voluto di un assetto che permette di occultare la diversità, scaricando sulle famiglie la responsabilità della cura e sottraendo allo Stato il compito di garantire inclusione e diritti.
In questo quadro, la riforma italiana della disabilità rappresenta un terreno decisivo. La LD 227/2021 e il DL 62/2024 introducono il Progetto di Vita personalizzato come strumento cardine per l’attuazione dei diritti. Tuttavia, come ha sottolineato Giampiero Griffo (2025), la sua efficacia dipenderà dal modo in cui sarà concretamente applicato: se resterà un atto burocratico calato dall’alto, si correrà il rischio di riprodurre le stesse logiche istituzionali; se invece sarà costruito in modo partecipato, potrà diventare il vero strumento di deistituzionalizzazione. Qui si gioca una partita culturale cruciale: riconoscere la persona con disabilità come soggetto attivo di diritti o ridurla ancora una volta a oggetto di cura.
Sembra chiaro che il cuore del problema non è terminologico, né tecnico, ma politico. Non si tratta di distinguere tra istituti e residenze, né di raffinare i meccanismi di controllo sulle strutture. Il punto è decidere se l’Italia intende finalmente assumere la deistituzionalizzazione come principio irrinunciabile, traducendo in pratiche effettive i diritti già sanciti dalla Convenzione ONU e dalla propria legislazione nazionale. Continuare a tollerare la permanenza di istituzioni, per quanto riformate, significa accettare la violazione quotidiana di diritti fondamentali.
Il richiamo a Tommasini ci invita a mantenere vivo lo scandalo di fronte a queste violazioni, a non cedere all’assuefazione. Come ha scritto Lancioni (2025c), occorre «non rinunciare al sogno di libertà». La deistituzionalizzazione, allora, non può essere concepita come un’opzione tra le altre o come un obiettivo differito nel tempo, ma come la condizione stessa della cittadinanza. Ecco perché attualizzare Tommasini significa riconoscere che ogni giorno trascorso in istituzione rappresenta un fallimento politico e morale, perché la libertà non è un privilegio da concedere, ma un diritto che deve essere garantito subito, sempre e per tutti.
Li riporto tutti a casa, ha detto Tommasini durante i giorni cruciali della sua battaglia di deistituzionalizzazione dal basso (Tradardi, 2009, p. 188). Oggi il compito che ci lascia è quello di costruire insieme case che non siano luoghi di separazione, ma spazi di vita e di relazione, capaci di accogliere i desideri e i progetti di ciascuno e di ciascuna.
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1 Il contributo è opera congiunta dell’autrice e dell’autore. Ai soli fini dell’identificazione delle parti, laddove richiesto, sono da attribuire a Fabio Bocci i paragrafi Mario Tommasini: un breve profilo biografico e Il contesto e le lotte — dal basso — di Mario Tommasini e ad Alessandra M. Straniero il paragrafo «Li riporto tutti a casa». Il punto è capire quale. La premessa è comune. Si precisa che, per posizionamento scientifico-culturale, nel testo ci si è avvalsi di un linguaggio identity first e non person first.
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2 Ricercatrice, Università della Calabria.
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3 Professore Ordinario, Università degli Studi Roma Tre.
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4 Researcher, University of Calabria.
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5 Full Professor, University of Roma Tre.
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6 Cfr. https://www.mariotommasini.it (consultato il 25 settembre 2025).
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7 Cfr. https://www.mariotommasini.it/services/biografia/ (consultato il 25 settembre 2025).
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8 Com’è noto, inizialmente il film-documentario, girato con la tecnica del cinema verità in 16 mm, aveva per titolo Nessuno o tutti (con un richiamo a Brecht), era suddiviso in due parti (Tre storie e Matti da slegare) e aveva la durata di 3 ore. Da questa prima versione è stata tratta una versione di 2 ore, in 35 mm, con il montaggio (non accreditato) di Silvano Agosti, già autore del montaggio del capolavoro di Bellocchio I Pugni in tasca del 1965.
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9 Ricordiamo che Pixote è anche il titolo di un bellissimo e drammatico film di Héctor Babenco del 1981 (Pixote, a Lei do Mais Fraco). Babenco, ispirandosi al neorealismo italiano, gira un film-verità, utilizzando ragazzi di strada delle favelas. Fernando Ramos Da Silva, che interpreta il protagonista Pixote, è stato ucciso dalla polizia brasiliana nel 1987, a soli 20 anni. Sulla sua morte si sono addensati molti dubbi: da un lato la polizia sostiene che ci sia stato un conflitto a fuoco, dall’altro i familiari — anche a seguito di alcune evidenze forensi — hanno sostenuto che fosse disarmato e che sia stato colpito mentre era sdraiato a terra.
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10 Si veda anche la biografia nel sito della Fondazione Tommasini: https://www.mariotommasini.it/services/biografia/ (consultato il 25 settembre 2025).
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11 Cfr. https://www.mariotommasini.it/services/biografia/ (consultato il 25 settembre 2025).
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12 Il riferimento interno è a Castel (2019), p. 43.
Vol. 24, Issue 4, November 2025