Vol. 24, n. 1, febbraio 2025
INTERSEZIONI
«Inclusion is not enough»: teoria storico-culturale e apprendimento espansivo per un nuovo oggetto dell’educazione inclusiva
Diego Di Masi1
Sommario
Questo articolo propone una lettura critica del concetto di inclusione, evidenziandone limiti, dilemmi e contraddizioni. Partendo da una riflessione ispirata alle critiche sul concetto di «sostenibilità» (Marcuse, 1998), si sottolinea come l’inclusione, pur avendo sostituito il paradigma dell’integrazione, non sia sufficiente per superare il modello abilista che ancora guida molte scelte educative. L’inclusione è vista come un runaway object (Engeström, 2008), un fenomeno complesso che supera i confini tradizionali e richiede una trasformazione sistemica. Si analizzano le due principali metafore dell’apprendimento — come acquisizione e come partecipazione (Sfard, 1998) — e si introduce il modello di apprendimento espansivo, che promuove la trasformazione dei sistemi di attività. Si evidenzia infine la necessità di ancorare il concetto di inclusione a un approccio dialettico e multidimensionale, in grado di affrontare le diseguaglianze strutturali e promuovere equità e giustizia sociale nel contesto educativo.
Parole chiave
Inclusione, Conflitti, Abilismo, Teoria storico-culturale, Apprendimento espansivo.
Intersections
«Inclusion is not enough»: Cultural-Historical Theory and Expansive Learning for a new object in Inclusive Education
Diego Di Masi2
Abstract
This article offers a critical analysis of the concept of inclusion, highlighting its limitations, dilemmas, and contradictions. Drawing on critiques of «sustainability» (Marcuse, 1998), it emphasizes how inclusion, despite replacing the integration paradigm, remains insufficient to overcome the ableist model that still underpins many educational choices. Inclusion is framed as a runaway object (Engeström, 2008), a complex phenomenon that transcends traditional boundaries and demands systemic transformation. The article examines two primary metaphors for learning — as acquisition and as participation (Sfard, 1998) — and introduces the expansive learning model, which fosters the transformation of activity systems. Finally, it underscores the need to anchor the concept of inclusion in a dialectical and multidimensional approach capable of addressing structural inequalities and promoting equity and social justice in education.
Keywords
Inclusion, Conflicts, Ableism, Cultural-historical theory, Expansive learning.
Introduzione
Nel 1998, Peter Marcuse, Professore di Urbanistica presso la Columbia University, scrive un articolo dal titolo Sustainability is not enough nel quale critica il concetto di sostenibilità, affermando che, sebbene utile nel contesto ambientale, è problematico se adottato come obiettivo principale in politiche di sviluppo urbano e abitativo.
Quattro sono gli argomenti che l’autore utilizza allo scopo di sostenere la sua posizione:
- Vincolo, non obiettivo: la sostenibilità non dovrebbe essere un obiettivo in sé, ma un vincolo capace di orientare politiche giuste e desiderabili.
- Conflitti tra interessi divergenti: la promozione della sostenibilità urbana può nascondere conflitti tra interessi divergenti (spesso espressione di diseguaglianze strutturali). La retorica della sostenibilità come interesse universale, sostiene Marcuse, ignora che ciò che produce vantaggio per un gruppo potrebbe danneggiarne un altro.
- Equità e giustizia sociale: Marcuse critica l’uso della sostenibilità come obiettivo indipendente. La sostenibilità deve aprirsi ad altre dimensioni come la giustizia sociale e l’equità. Politiche ingiuste possono essere sostenibili, ma non per questo desiderabili. La giustizia sociale dovrebbe rimanere il fulcro degli sforzi di sviluppo urbano, perché spesso i costi della sostenibilità sono distribuiti in modo diseguale.
- Limiti del concetto: l’uso generalizzato di «sostenibilità» rischia di diventare tautologico o persino fuorviante, specialmente quando viene usato per giustificare politiche che mantengono lo status quo. L’adozione acritica della sostenibilità può occultare le disuguaglianze strutturali e ostacolare l’identificazione delle reali cause del degrado ambientale e sociale.
La critica mossa al termine sostenibilità continua a offrire spunti di riflessione e aiuta a ripensare anche il concetto di inclusione, il cui significato è stato esteso a tal punto da rendere il concetto ambiguo.
L’adesione alla normatività inclusiva ha rimosso i conflitti dal dibattito pubblico e le contraddizioni sistemiche che attraversano le pratiche inclusive vengono restituite come dilemmi. Così come si propone per la sostenibilità, anche l’inclusione dovrebbe essere pensata come vincolo per guidare politiche educative ispirate all’equità e alla giustizia sociale.
L’obiettivo di questo articolo è proporre una lettura critica del concetto di inclusione che metta in evidenza le ragioni per le quali il modo in cui stiamo pensando l’inclusione non è sufficiente per superare il modello abilista che continua a guidare, anche implicitamente, le nostre scelte educative.
Limiti, dilemmi e contraddizioni dell’inclusione
Il termine «inclusione» ha progressivamente sostituito quello di «integrazione» nel linguaggio educativo per evidenziare il principio ispiratore di ogni politica e pratica educativa: la valorizzazione delle diversità. Dalla Dichiarazione di Salamanca in poi, ogni bisogno educativo speciale è letto come elemento di diversità proprio di ogni essere umano e non più come la distanza — di alcuni — dalla curva della normalità — dei molti — da ridurre grazie all’intervento educativo. Con questa trasformazione paradigmatica, l’inclusione è diventata il principio regolatore dell’agire educativo; tuttavia, come è avvenuto per la sostenibilità, anche il concetto di «inclusion is not enough».
Il concetto di «inclusione» risulta ambiguo. La sua capacità di definire e descrivere con precisione il fenomeno a cui si riferisce è limitata, e difetta in termini di risposta pratica proprio a causa dell’indeterminatezza del suo significato. Tale ambiguità deriva, in parte, dal fatto che sotto il termine «inclusione» convivono molte prospettive e narrazioni (Baglieri et al., 2011; Dyson, 1999) che offrono risposte diverse alla stessa domanda: a chi si rivolge l’inclusione? Le ragioni che hanno reso l’inclusione un termine polisemico possono essere comprese attraverso una lettura critica di due documenti fondamentali: il Rapporto Warnock (1978) e la Dichiarazione di Salamanca (1994).
Il termine Special Educational Needs (Bisogni Educativi Speciali) è stato introdotto da Gulliford nel 1970, per essere ripreso dal Comitato che ha seguito la stesura del Rapporto Warnock (1978) e poi definitivamente adottato, prima, nella normativa inglese (1981) e successivamente in quella internazionale, per superare l’approccio alla disabilità come deficit, in cui l’accento era posto su ciò che una persona non era in grado di fare. Con la scelta della locuzione Bisogni Educativi Speciali (BES) si è voluto proporre un approccio positivo, che invitava a volgere lo sguardo verso le adeguate opportunità di apprendimento da fornire (Norwich, 2024). Leggendo il Rapporto Warnock emerge la proposta di un modello interazionista che mette al centro del progetto educativo la relazione tra punti di forza e difficoltà del soggetto e supporti e ostacoli presenti nell’ambiente in cui vive.
Un’altra novità introdotta dal concetto di Bisogni Educativi Speciali è il rifiuto delle categorie con cui veniva classificata la disabilità. Norwich (2024) riporta cinque argomenti presenti nel Rapporto Warnock contro una lettura dicotomica del continuum abilità/disabilità che la logica delle categorie rischia di riprodurre:
- la presenza di più di una disabilità rende complessa la classificazione;
- le categorie tendono a stereotipare;
- le categorie tendono a fissare e a stigmatizzare;
- esiste una distanza tra le categorie generali e l’offerta educativa di cui hanno bisogno i singoli;
- le categorie possono escludere alcuni bambini dal ricevere i servizi aggiuntivi di cui hanno bisogno.
Tuttavia, le importanti novità introdotte da quello che in letteratura viene definito «old thinking» (Barton, 1997) hanno perso la spinta trasformativa quando il modello dell’integrazione, ovvero quello che si è costruito intorno al costrutto dei bisogni educativi speciali, ha mostrato, senza riuscire a risolverlo, il primo dilemma della differenza che trova proprio nel Rapporto Warnock una prima formulazione: «Ci siamo trovati di fronte a un dilemma. Da un lato siamo consapevoli che qualsiasi tipo di risorsa o servizio speciale per questi bambini corre il rischio di enfatizzare l’idea della loro separatezza, un’idea che siamo ansiosi di dissipare, e di limitare il concetto di educazione speciale ai provvedimenti presi per questi bambini. D’altra parte, se non si impone chiaramente alle autorità educative locali l’obbligo di provvedere ai bisogni speciali di questi bambini, c’è il rischio che il loro fabbisogno di risorse specializzate non venga soddisfatto in modo adeguato»3 (p. 45).
Il modello basato sull’integrazione è stato progressivamente messo in discussione a partire dagli anni Novanta per due ragioni:
- l’enfasi dell’integrazione era posta sulla persona con disabilità, mentre il contesto nel quale veniva inserita finiva per essere considerato omogeneo in termini di bisogni educativi;
- il modello implicava una sostanziale identità tra bisogni educativi speciali e disabilità, suggerendo che la disabilità comportasse necessariamente la presenza di bisogni educativi speciali e che, viceversa, tali bisogni fossero sempre legati a una condizione di disabilità (Kiuppis, 2014).
Con la Conferenza Mondiale sui Bisogni Educativi Speciali, tenutasi a Salamanca nel 1994, si inaugura una nuova fase caratterizzata dall’affermazione del principio dell’educazione inclusiva. Questo evento avviene a quattro anni di distanza dalla Conferenza Mondiale «Education for All» (Jomtien, Thailandia), ed è fondamentale considerare entrambe le conferenze congiuntamente per comprendere l’intreccio tra i rispettivi obiettivi e il loro impatto sull’evoluzione delle politiche educative.
Il primo risultato raggiunto nel dialogo avviato tra il principio dell’Education for All e il concetto di Bisogni Educativi Speciali (Chabbott e Ramirez, 2000) è stato il cambio di paradigma che ha permesso di trasformare il modello dell’integrazione nel modello dell’inclusione, in cui si afferma che tutti i bambini sono titolari del diritto all’istruzione, che deve essere garantito in un sistema educativo capace di accogliere le diversità di ogni singolo individuo, unico in termini di interessi, abilità e bisogni; garantendo, inoltre, che anche i bambini con bisogni educativi speciali siano accolti nelle scuole comuni con approcci pedagogici specifici.
Secondo Kiuppis (2014), l’espressione «soddisfare i bisogni educativi speciali nel contesto generale» è stata oggetto di interpretazioni divergenti. Da una parte, è stato considerato come un riferimento specifico alle persone con disabilità, promuovendo il principio della «scuola per tutti» e concependo l’educazione come un processo di integrazione all’interno di contesti comuni. Questa interpretazione si concentra sulla necessità di garantire a ogni individuo con disabilità l’accesso all’istruzione nelle scuole comuni, fornendo adeguati supporti e risorse.
Dall’altra parte, l’espressione è stata intesa come un invito ad ampliare l’attenzione verso i bisogni educativi speciali, includendo una gamma più vasta di destinatari. Questo approccio si basa sulla valorizzazione dell’eterogeneità degli studenti, considerando la diversità come un elemento centrale per lo sviluppo delle politiche educative. In questa prospettiva, la diversità non è vista solo come una caratteristica da accogliere, ma come il fondamento su cui costruire un sistema educativo inclusivo.
Il linguaggio dei diritti e quello degli imperativi morali «possono essere perfettamente accettabili nel campo dei principi e dei valori fondamentali. Tuttavia, l’assolutismo esteso all’ambito empirico può risultare meno appropriato» (Dyson, 1999, p. 37) e generare quelli che Norwich (2008) definisce dilemmi ideologici: il dilemma dell’identificazione, il dilemma del curriculum e il dilemma della posizione, ovvero i dilemmi della differenza.4
I dilemmi della differenza ci aiutano a leggere la relazione tra le due principali prospettive, ma continuano a riproporre una logica polarizzata che, oltre a riproporre posizioni che rischiano di essere iper-semplificate, porta a concettualizzazioni limitate e insoddisfacenti sia della disabilità sia dei bisogni educativi speciali (Terzi, 2005). L’approccio dilemmatico all’educazione inclusiva, che accetta il compromesso come inevitabile, rappresenta una scelta conservatrice incapace di cambiare le dinamiche di disuguaglianza (Slee, 2010). La dicotomia descritta dai dilemmi non prevede nessuna trasformazione del sistema che li ha prodotti. I dilemmi, infatti, vengono risolti o adottando una delle due prospettive, oppure cercando un compromesso tra le due posizioni. Il modello che emerge dallo scenario definito dai dilemmi della differenza appare segnato dall’etica dell’adattamento, un «accomodamento ragionevole» rispetto alle contraddizioni che si incontrano nella pratica professionale.
Equità e giustizia sociale come oggetto della Pedagogia speciale per l’inclusione
Per la Didattica e la Pedagogia speciale, il Rapporto Warnock e la Conferenza di Salamanca segnano una duplice trasformazione dell’oggetto della disciplina: dal deficit al bisogno educativo speciale, e poi dal bisogno educativo speciale al concetto di ostacolo all’apprendimento e alla partecipazione.
Rispetto alla prima trasformazione, nel Rapporto Warnock si afferma che «lo scopo dell’educazione per tutti i bambini è lo stesso; gli obiettivi sono gli stessi. Ma il sostegno di cui hanno bisogno i singoli bambini per raggiungerli sarà diverso»5 (Warnock Report, 1978). Poiché il problema non è l’individuo, ma lo svantaggio che emerge dall’incontro tra deficit e contesto, compito della Pedagogia speciale è ridurre lo svantaggio attraverso il «sostegno di cui hanno bisogno i singoli bambini». Nonostante la formulazione del bisogno come concetto emergente dalla relazione deficit/contesto, il costrutto di bisogni educativi risulta teoricamente vago e difficilmente applicabile e rimane legato a un modello pedagogico centrato sul bambino (Terzi, 2005); inoltre, l’uso del termine «speciale» continua a segnare una distanza dalla normalità e viene attribuito, con un significato negativo e svalorizzante a chi «presenta qualche differenza rispetto ad aspettative e standard culturalmente e storicamente determinati, espressione di politiche dominanti e arbitrarie» (Ianes, 2021, p. 356).
Con l’avvio del «processo di Salamanca» (Kiuppis, 2014) la Pedagogia speciale ha ampliato il suo sguardo: la sua unità di analisi non è più il singolo individuo e l’intervento finalizzato alla riduzione della distanza dalla «normalità»; l’attenzione è ora rivolta alle differenze che ognuno e ciascuno porta in classe e a come il contesto promuove oppure ostacola la partecipazione di tutte e tutti alla vita scolastica. Il passaggio dal paradigma della normalità al paradigma della diversità trova una sintesi nel concetto di «ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione», proposto nell’Index for Inclusion (Booth e Ainscow, 2002).
Come evidenzia Dovigo:
La proposta dell’Index è, in questo senso, molto chiara e radicale: occorre abbandonare il riferimento ai Bisogni Educativi Speciali (che suggeriscono una visione della disabilità come problema che riguarda il singolo individuo) e sostituirlo con quello di ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione. Disabile non è l’individuo, ma la situazione che, non tenendo conto della pluralità di soggetti e delle loro caratteristiche specifiche, ne privilegia alcuni a scapito degli altri (Dovigo, 2008, pp. 19-20).
Le difficoltà di apprendimento sono l’espressione della difficoltà dei sistemi educativi nell’incontro con le diversità. Ritroviamo in questa posizione la critica con cui gli attivisti dell’Union of Physically Impaired Against Segregation (UPIAS) denunciavano la condizione di segregazione che vivevano le persone disabilitate:
A nostro avviso, è la società che disabilita le persone con una problematica fisica (impairment). La disabilità è qualcosa di imposto sopra i nostri deficit, attraverso il modo in cui siamo isolati ed esclusi senza necessità dalla piena partecipazione alla società. Le persone disabili sono quindi un gruppo sociale oppresso (UPIAS, 1976, pp. 3-4).
Questa trasformazione modifica l’oggetto della Pedagogia speciale: dalla riduzione dello svantaggio alla promozione dell’equità. «Da questa prospettiva l’inclusione in educazione non ha come target un gruppo specifico di alunni/e, ma intende portare l’attenzione sull’equità dell’offerta formativa» (Ianes e Demo, 2022, p. 21): un’offerta formativa capace di rimuovere le barriere all’apprendimento e partecipazione.
Questi due oggetti, che continuano a coesistere nel dibattito teorico e nelle pratiche della Pedagogia speciale, si inseriscono in due modelli di apprendimento, anche questi intrecciati, che Sfard (1998) descrive utilizzando la metafora dell’apprendimento come acquisizione e la metafora dell’apprendimento come partecipazione.
Rientrano nella prima tutte quelle teorie in cui i concetti, le idee, i significati sono presentati come dei prodotti che possono essere acquisiti, costruiti, sviluppati, da uno studente attraverso la mediazione di un insegnante (o un’altra persona più competente) o di strumenti culturali. Nella metafora dell’acquisizione la conoscenza è interpretata come ogni altro bene di consumo che può essere, di volta in volta, acquisito, applicato, condiviso, trasferito da un contesto all’altro. Gli approcci che rientrano in questa metafora possono distinguersi per il modo in cui le conoscenze vengono acquisite e per il ruolo che ricoprono i soggetti coinvolti nel processo di insegnamento-apprendimento, ma tutti condividono l’idea che apprendere significa appropriarsi di un concetto, di un’idea, di una teoria, di un fatto. Sebbene il contesto ambientale e sociale possa giocare un ruolo importante, nell’apprendimento come acquisizione l’attenzione è rivolta all’apprendimento e allo sviluppo dell’individuo e non all’apprendimento come processo sociale: i bisogni educativi speciali sono inseriti in questa metafora.
Accanto a questo modello ne è emerso uno nuovo: l’apprendimento come partecipazione, che raccoglie le teorie che hanno messo in evidenza la dimensione delle relazioni e delle interazioni nei processi di apprendimento. L’attenzione non è più rivolta al prodotto della conoscenza, ma si sposta dagli esiti ai processi di apprendimento.
Nell’immagine dell’apprendimento che emerge dalla metafora della partecipazione «la permanenza dell’avere lascia il posto al flusso costante del fare» (Sfard, 1998, p. 6). L’obiettivo dell’apprendimento non è l’acquisizione di una conoscenza, ma la partecipazione all’attività del conoscere, un’attività situata e strettamente connessa al contesto nel quale avviene. L’apprendimento è interpretato come un processo attraverso il quale un individuo diventa membro di una comunità, acquisendone il linguaggio e le norme sociali e culturali negoziate e pertanto riconosciute dalla comunità stessa.
Gli elementi che definiscono questa metafora sono: attività, comunità, pratiche, discorso, comunicazione, riflessione. Conoscere e apprendere significa partecipare a un processo in continua evoluzione all’interno di una specifica comunità di pratica, definita come un gruppo di persone che lavorano insieme condividendo modi di fare e di comunicare sviluppati e appresi nello svolgimento di attività e mansioni (Lave e Wenger, 1991). La Pedagogia speciale come equità rientra in questa seconda metafora.
Norwich (2024) riprende le due metafore dell’apprendimento per mostrare come influenzano il modo di interpretare i due oggetti della Pedagogia speciale: nell’ambito delle difficoltà di apprendimento o delle disabilità, l’approccio dell’apprendimento come acquisizione tende a interpretare queste difficoltà come lacune o deficit individuali. Al contrario, l’approccio dell’apprendimento come partecipazione si concentra sull’identificazione delle barriere e degli ostacoli che limitano la partecipazione ai processi e alle attività.
Come per gli altri dilemmi, non è possibile fare a meno di una delle due posizioni, né è possibile cercare di intrecciarle in quanto esprimono due approcci diversi: «non esiste una via d’uscita semplice da questa trappola [...] anche se non si può risolvere il dilemma, si può — e probabilmente si deve — imparare a conviverci»6 (Sfard, 1998, p. 10).
Queste due metafore non esauriscono il dibattito sull’apprendimento, c’è spazio per una terza metafora (Paavola, Lipponen e Hakkarainen, 2004) che non si accontenta di mantenere inalterato l’esistente e si propone di superare la contrapposizione tra acquisizione e partecipazione: apprendimento come espansione (Engeström, 2016). Per apprendimento espansivo si intende quel processo di apprendimento «in cui gli allievi sono coinvolti nella costruzione e nell’implementazione di oggetti e concetti radicalmente nuovi, più ampi e complessi per la loro attività»7 (Engeström e Sannino, 2010, p. 2).
Per Engeström e Sannino (2010) le prime due interpretazioni riducono la questione dell’apprendimento alla sola dicotomia individuo-comunità, mentre l’apprendimento espansivo invita a una lettura multidimensionale. L’unità di analisi è il sistema e l’apprendimento è un processo di trasformazione o creazione culturale che, a partire da un nuovo oggetto, arriva a modificare l’attività e le diverse dimensioni del sistema. Nella prospettiva aperta dalla terza metafora, elaborata a partire dalla riflessione proposta dalla teoria storico-culturale e dalla teoria dell’Attività (CHAT), pensare l’apprendimento come acquisizione o come partecipazione significa assumere un’idea conservativa che impedisce di cogliere il potenziale trasformativo che il processo di apprendimento collettivo ha sul contesto; un contesto considerato in termini di organizzazione del lavoro, relazioni di potere, linguaggio, strumenti, norme e regole, comunità, prassi, valori. L’idea di apprendimento espansivo assume uno sguardo olistico e individua nella relazione individuo-ambiente, o meglio collettivo-ambiente, la sua unità di analisi: il sistema di attività. A differenza delle precedenti metafore, quella espansiva mette l’accento sulla trasformazione del sistema. Nel processo di apprendimento, oltre ai soggetti, anche l’ambiente viene trasformato, ad apprendere è il sistema impegnato nell’attività.
Il modello dell’apprendimento espansivo descrive un processo qualitativamente diverso rispetto ai due precedenti. Nella metafora dell’apprendimento espansivo non è possibile definire gli obiettivi del processo di apprendimento all’inizio del percorso, come avviene per la prima metafora, né indicare quali sono le competenze da sviluppare per essere considerato esperto da una comunità, come nel caso della seconda metafora. Il processo di apprendimento del terzo paradigma è aperto e segue le contraddizioni del sistema. I dilemmi sono letti come conflitti, non sono né rimossi, né considerati inevitabili a tal punto da imparare a conviverci, ma vengono esplicitati e affrontati come opportunità di trasformazione perché «indicano una crescente discrepanza tra il modo in cui il sistema di attività funziona e i bisogni che dovrebbe soddisfare»8 (Engeström, 2016, p. 6).
Ancorare l’inclusione
Per quanto di fondamentale importanza in termini di accesso ai diritti, il discorso sull’inclusione continua a riprodurre una lettura polarizzata e gerarchizzata della realtà, in cui da una parte troviamo le pratiche che riproducono modelli da superare (modello individuale), dall’altra quelle necessarie a realizzare il mondo che riteniamo migliore (modello sociale). Il modello inclusivo, con il suo rifiuto del concetto di normalità, sostituito dalla tensione verso la valorizzazione delle differenze come principio regolatore, sebbene segni una conquista dal punto di vista politico, non ha mantenuto la promessa di trasformazione del sistema e rimane circoscritto a una lettura dicotomica, che rischia di essere ancora più difficile da mettere in discussione perché sostenuta da posizioni che richiamano la morale e i valori. Ci ricorda Glissant (2007) che riconoscere le differenze non basta: «io posso riconoscere la tua differenza e pensare che essa costituisca un danno per te. Posso pensare che la mia forza sia nel Viaggio (io faccio la Storia) e che la tua differenza sia immobile e muta» (p. 35).
Per evitare di ripetere lo stesso errore in cui è caduta la pianificazione urbana con il concetto di sostenibilità, anche l’inclusione non dovrebbe essere interpretata come un obiettivo in sé, ma come un vincolo per ogni politica educativa. Per trasformare l’inclusione un vincolo è necessario ancorare le teorie alle pratiche e viceversa. Cosa si intende per ancorare e che tipo di ancoraggio si propone? Sannino scrive:
Le ancore sono comunemente intese come dispositivi di stabilizzazione per impedire a un’imbarcazione di muoversi. Tuttavia, non tutte le ancore svolgono questa funzione. Oltre alle ancore pesanti, esistono anche le ancore leggere (kedge anchors), utilizzate per il «warping», ovvero per ritirare l’ancora una volta che si è posizionata sul fondo, al fine di allontanare l’imbarcazione da un’area problematica. L’ancoraggio tradizionale tramite dispositivi di stabilizzazione può essere definito come un «ancoraggio al passato». Questo tipo di ancoraggio si basa su conoscenze pregresse e rappresentazioni relativamente stabili, utilizzate per spiegare situazioni problematiche e per agire in tali contesti. [...] L’ancoraggio verso il futuro, al contrario, consiste nel fare un passo verso l’ignoto9 (Sannino, 2022, p. 12).
Per proseguire l’erranza (Glissant, 2007) in questa navigazione verso l’ignoto e l’imprevisto abbiamo bisogno di ancore dialettiche che ci permettano di uscire da quella mentalità che Stetsenko (2023) definisce end-of-the theory «secondo la quale i dibattiti teorici appartengono al passato e non sono necessari nuovi progressi radicali»10 (p. 59). Questa mentalità è cresciuta e si è diffusa in un clima di consenso imposto dalle élite al potere che consideravano il proprio modello di società il migliore possibile e in quanto tale soggetto solo a piccoli aggiustamenti, adattamenti, accomodamenti. Le crisi globali hanno mostrato, invece, la necessità di costruire idee e strumenti concettuali per promuovere un cambiamento radicale (Stetsenko, 2023).
Anche la pedagogia, come le altre scienze, è stata attraversata da questa mentalità, e l’approccio dilemmatico sembra essere un suo prodotto. Un altro esempio emblematico che mostra chiaramente quanto sia urgente trovare ancore dialettiche per pensare come andare oltre al concetto di inclusione è il PEI su base ICF. Nel Paese che vanta un lungo impegno verso la piena inclusione, si è deciso di vincolare uno strumento educativo come il PEI a un impianto che, nonostante le intenzioni, continua a riprodurre il modello medico-individuale (ICF). Un paradosso reso possibile da una end-of theory mentality che preferisce leggere i conflitti come dilemmi e negoziare soluzioni, invece di affrontare le contraddizioni per superarle trasformando il sistema di attività. Provo ad argomentare questa affermazione ancorando la mia posizione alla teoria storico-culturale.
Nella teoria storico-culturale incontriamo il concetto di zona di sviluppo prossimo (Vygotskij, 1992). La traduzione corretta, come suggerisce Mecacci (2022), è «prossimo» e non «prossimale», perché secondo Vygotskij la dimensione nella quale osservare la relazione tra apprendimento e sviluppo è temporale (prossimo) e non spaziale (prossimale): per lo psicologo russo l’apprendimento precede lo sviluppo. L’essere umano sviluppa le sue funzioni psichiche superiori grazie al processo di apprendimento-insegnamento e non il contrario.
Per chi si occupa di educazione conoscere questo meccanismo è di prioritaria importanza perché permette di rivedere l’idea di sviluppo rappresentato come un percorso lineare determinato dalla biologia, e che ci induce a pensare che per poter esercitare delle capacità/abilità dobbiamo aspettare che il/la bambino/a abbia raggiunto lo stadio di sviluppo desiderato. Al contrario, sarà proprio l’azione dell’insegnante o di un compagno/a più capace/abile che permetterà al bambino/a di sviluppare le capacità/abilità attese.
Affinché questo apprendimento sul piano dell’interazione sociale venga internalizzato dal bambino, l’adulto deve individuare i due piani che definiscono la «zona di sviluppo prossimo»: il piano definito da ciò che il bambino è capace di svolgere da solo, e il piano definito da ciò che il bambino sarà capace di svolgere con l’aiuto di un adulto e di un compagno/a più capace (Veresov, 2004).
Per svolgere questo compito, per poter progettare una zona di sviluppo prossimo, l’insegnante deve saper osservare e riconoscere quello che il/la bambino/a sa fare da solo/a, e inoltre deve saper immaginare cosa saprà fare il/la bambino collaborando con una persona più esperta.
L’attuale normativa sull’inclusione non fornisce nessuno strumento in grado di accompagnare l’immaginazione dell’insegnante; al contrario, l’ICF, base del PEI, ci invita a osservare la performance, ovvero quello che una persona è capace di fare in un contesto reale, e la capacità, ovvero quello che una persona è capace di fare in un contesto standard (OMS, 2001).
Vincolare le nostre progettazioni alla capacità e alle performance ci permette di osservare solo ciò che una persona sa già fare. Per questa ragione il modello bio-psico-sociale, nonostante la terminologia, continua a essere un modello medico: ci offre una descrizione del funzionamento di una persona, ma non fornisce nessuna indicazione per immaginare il suo sviluppo. Il modello bio-psico-sociale non ci consente di immaginare il futuro, di osservare qualcosa che ancora non c’è.
Oggi ci troviamo di fronte alla necessità di ripensare di nuovo l’oggetto della Pedagogia speciale. Il concetto di inclusione si è ampliato a tal punto da avere assunto le caratteristiche di un runaway object (Engeström, 2008): un oggetto che cresce rapidamente e non è sempre facile da controllare, che supera i confini del proprio sistema di attività e che può anche aprire nuove possibilità di sviluppo e benessere. L’unità di analisi non è più né il singolo individuo con i suoi bisogni educativi speciali, né l’offerta formativa di una classe o di una scuola con le sue barriere o facilitazioni all’apprendimento.
Il sistema di attività dei processi inclusivi supera i tradizionali confini rappresentati dalle singole organizzazioni/istituzioni (scuola, servizi e famiglia) per realizzarsi in un sistema più esteso, che si caratterizza per la presenza di più protagonisti con motivazioni e prospettive differenti (Spinuzzi, 2011).
L’inclusione come runaway object richiede una lettura dialettica e dialogica capace di ridefinire confini, strumenti, regole e responsabilità dei nuovi sistemi di attività, in cui tornare a problematizzare l’agentività e le altre forme di soggettività soprattutto in relazione alle prassi. L’inclusione, e con essa la Pedagogia speciale, si intreccia inevitabilmente con la giustizia sociale e la critica al modello socio-economico (abilista, sessista, razzista e classista) che perpetua diseguaglianze e discriminazioni.
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1 Professore Associato di Didattica e Pedagogia Speciale (PAED-02/A), Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino.
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2 Associate Professor of Didactics and Special Pedagogy (PAED-02/A), Department of Philosophy and Educational Sciences of the University of Turin.
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3 We have found ourselves on the horns of a dilemma. On the one hand we are aware that any kind of special resource or service for such children runs the risk of emphasising the idea of their separateness, an idea which we are anxious to dispel, and of limiting the notion of special education to the provision made for such children. On the other hand, unless an obligation is clearly placed on local education authorities to provide for the special needs of such children, there is a danger that their requirement for specialist resources will be inadequately met.
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4 The identification dilemma:
The curriculum dilemma:
The location dilemma:
- If children experiencing difficulties in learning are identified and labelled as having a disability (needing special education), then they are likely to be treated as different, devalued and stigmatised.
- If children experiencing difficulties in learning are NOT identified as having a disability (needing special education), then it is less likely additional educational resources will be identified and ensured for them (p. 70).
- If children identified as having a disability (needing special education) are offered the same learning experiences as other children, they are likely to be denied the opportunity to have learning experiences relevant to their individual needs.
- If children identified as having a disability (needing special education) are NOT offered the same learning experiences as other children, then they are likely to be treated as a separate lower status group and be denied equal opportunities (pp. 111-112).
- If children with moderate and severe disabilities (needing special education) are taught in general classrooms, then they are less likely to have access to scarce and specialist services and facilities.
- If children with moderate and severe disabilities (needing special education) are NOT taught in general classrooms, then they are more likely to feel excluded and not be accepted by other children (p. 149).
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5 The purpose of education for all children is the same; the goals are the same. But the help that individual children need in progressing towards them will be different.
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6 There is no simple way out of this entrapment [...] even if one cannot solve the dilemma, one can — and probably should — learn to live with it.
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7 In which the learners are involved in constructing and implementing a radically new, wider and more complex object and concept for their activity.
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8 Indicating growing mismatches between the way the activity system is functioning and the needs it should meet.
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9 Anchors are commonly understood as stabilising devices to prevent a vessel from moving. However, not all anchors have this function. Beside the heavy-weight anchors, there are also kedge anchors serving the purpose of «warping», that is, pulling the anchor once it has settled on the ground, for moving the vessel away from a problem area. Traditional anchoring by stabilising devices can be characterised as «anchoring backward». This type of anchoring relies on background knowledge and relatively stable representations utilised for explaining problem situations and for acting in such situations [...] Anchoring forward, in contrast, consists of stepping into the unknown.
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10 According to which theoretical debates belong to the past and no new radical advances are needed.
Vol. 24, Issue 1, February 2025