Vol. 23, n. 2, maggio 2024

PRECURSORI

Anna dei Miracoli: un film contro la cultura dell’indulgenza e della pietà1

Fabio Bocci,2Alessandra M. Straniero3 e Leonardo Tantari4

Sommario

Nel 1962 esce nelle sale cinematografiche The Miracle Worker (in Italia Anna dei miracoli), film diretto da Arthur Penn che racconta la vicenda umana e educativa di Anne Sullivan e Helen Keller. L’autrice e gli autori del presente contributo, dopo un’essenziale descrizione dei profili biografici delle due protagoniste, analizzano le ragioni per le quali questo film, divenuto nel tempo di culto, rappresenti ancora oggi un precursore e un punto di riferimento nel dibattito pedagogico in merito alla cultura dell’inclusione in Italia e nel Mondo. In modo particolare, emerge chiaramente come sia la vicenda storica di Anne e Helen sia il film, che narra il momento del loro incontro e delle prime fasi cruciali della loro relazione educativa, costituiscano un punto di non ritorno rispetto alla cultura dell’indulgenza e della pietà che per troppo tempo hanno caratterizzato la vita delle persone con impairment.

Parole chiave

Anna dei Miracoli, Anne Sullivan, Helen Keller, Inclusione, Sordo-cecità.

PIONEERS

The Miracle Worker: A Film Against the Culture of Indulgence and Pity5

Fabio Bocci,6Alessandra M. Straniero,7 and Leonardo Tantari8

Abstract

In 1962, The Miracle Worker (in Italy Anna dei miracoli), a film directed by Arthur Penn that tells the human and educational story of Anne Sullivan and Helen Keller, was released in cinemas. The authors of this paper, after an essential description of the biographical profiles of the two protagonists, analyse the reasons why this film, which over time has become a cult film, still represents a forerunner and a point of reference in the pedagogical debate on the culture of inclusion in Italy and around the world. In particular, it clearly emerges how both the historical story of Anne and Helen, and the film, which narrates the moment of their meeting and the first crucial phases of their educational relationship, constitute a point of no return in reference to the culture of indulgence and pity, which for too long characterized the lives of people with impairments.

Keywords

The Miracle Worker, Anne Sullivan, Helen Keller, Inclusion, Deafblindness.

Il bello del cinema risiede nel fatto che nel frammento di una inquadratura traspare comunque l’intero di una storia, per mezzo della quale, in fondo, cerchiamo sempre di rispondere alle stesse domande: chi sono io, cos’è il Mondo, qual è il senso del nostro abitarlo in questo transito terrestre (Armantine Chloé Giscard, La passion du cinéma, le cinéma qui passionne, Nanterre, Nouvelles éditions de l’enchantement, 1969).

Premessa

In queste pagine dedicate ai precursori e alle precorritrici della cultura dell’inclusione abbiamo incontrato, in modo particolare, figure che per la loro statura intellettuale, culturale e scientifica e per la loro operosità (termine caro ad Andrea Canevaro) hanno segnato indelebilmente il nostro percorso/processo verso una società più giusta e inclusiva. Si pensi, ad esempio, a Janusz Korczak e Stefa Wilczyńska, Margaret H’Doubler, Charlotte White, Laura Conti, Margherita Zoebeli, Giuseppe Ferruccio Montesano, Simonetta Salacone, bell hooks.

Nel presente articolo abbiamo deciso – pur facendo riferimento a due protagoniste altrettanto di culto, quali sono state Helen Keller e Anne Sullivan, giustamente ricordate e analizzate dalla letteratura pedagogica (Goussot, 2007; Pavone, 2010; Mura, 2013; Zurru, 2016; Mura e Tatulli, 2017; Magnanini, 2020; Tatulli e Mura, 2021) – di focalizzare l’attenzione sul film che ne ha celebrato la vicenda e l’ha resa nota al grande pubblico, ossia The Miracle Worker (in Italia Anna dei miracoli), realizzato da Arthur Penn nel 1962, cercando di evidenziare il contributo che tale pellicola ha apportato nell’impegno di superare quella postura pietistica che a lungo ha caratterizzato (e per alcuni versi ancora oggi caratterizza) lo sguardo sulla disabilità.

Va anche detto che il film di Penn non costituisce certo un unicum nella narrazione della storia di Helen e di Anne: sono, infatti, numerose le opere dedicate alle due protagoniste e alla loro vicenda. Citiamo a solo titolo esemplificativo: Deliverance, film muto del 1919 diretto da George Foster Platt; Helen Keller in Her Story, diretto nel 1954 da Nancy Hamilton, vincitore del premio Oscar come miglior documentario; Anna dei miracoli, film Tv della RAI diretto da Davide Montemurri nel 1968 con l’interpretazione di Cinzia De Carolis nella parte di Helen e Anna Proclemer nella parte di Anne; Helen Keller: The Miracle Continues, film Tv statunitense diretto da Alan Gibson nel 1984, che racconta l’ingresso di Helen al Radcliffe College; The Miracle Worker (The Contemporary Version of An American Classic!), diretto nel 2000 da Nadia Tass con la produzione della Walt Disney Company, nel quale, nei titoli di coda, si fa riferimento all’impegno socio-politico di Helen Keller; Shining Soul: Helen Keller’s Spiritual Life and Legacy, film-documentario diretto da Penny Price nel 2005, prodotto dalla Fondazione Swedenborg; Her Socialist Smile, documentario del 2020 diretto da John Gianvito, presentato al Vienna International Film Festival.

Numerosi sono anche i tributi, come nel film bolly-woodiano9Black del 2005, diretto da Sanjay Leela Bhansali e chiaramente ispirato alla vicenda di Helen, oppure il manga Il grande sogno di Maya, scritto e disegnato da Suzue Miuchi a partire dal 1976, nel quale la protagonista, la giovane attrice Maya Kitajima, si trova a recitare la parte di una giovane sordo-cieca in uno spettacolo teatrale (il riferimento è all’attrice Patty Duke, protagonista del film di Penn). Non mancano, infine, le citazioni sparse nella cultura popolare, tra cinema, letteratura e musica. Troviamo, infatti, citazioni nei film Rocky (John G. Avildsen, 1976), Clerks II (Kevin Smith, 2006), Ancora auguri per la tua morte (Christopher B. Landon, 2019), in un episodio (il 23° per la precisione) della prima stagione de L’Uomo Tigre, diretto da Takeshi Tamiya nel 1969 (in Italia la prima Tv è stata nel 1982), nel romanzo di successo Kitchen di Banana Yoshimoto così come nella canzone Helen Keller di Dj Khaled con Kat Dahlia del 2013.

In ogni caso, il film di Arthur Penn, con le magistrali interpretazioni di Anne Bancroft (Anne) e Patty Duke (Helen), entrambe premiate con l’Oscar come migliore attrice protagonista e non protagonista, resta un indiscutibile punto di riferimento, non fosse altro per l’impatto sulla cultura mainstream, avendo raggiunto (anche grazie ai premi assegnati dalla Academy Awards) un’enorme vastità di pubblico e per il suo longevo richiamo e utilizzo nei contesti educativi e formativi.

Prendiamo spunto da questa narrazione cinematografica per fare alcune riflessioni a carattere pedagogico, non prima di avere condiviso un breve profilo biografico di Anne Sullivan e Helen Keller e avere effettuato un’altrettanto breve descrizione (sinossi) del film.

Cenni biografici delle protagoniste: Anne Sullivan e Helen Keller

Nel Cyrano de Bergerac (Rostand, 2014), la celebre commedia-tragedia teatrale di Edmond Rostand, nella settima scena del Secondo Atto Cyrano si trova a dialogare con lo spasimante di Rossana, il Conte De Guiche, il quale critica l’impulsività e il rifiuto del cadetto di Guascogna nel servire le istituzioni (in questo caso Cyrano si rifiuta di recitare di fronte al Cardinale Richelieu). Il Conte, parafrasando il celebre capitolo sui mulini a vento del Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, afferma che «quando li si attacca [i mulini a vento], succede spesso che un mulinello delle loro grandi pale cariche di vele vi getti giù nel fango». Ma è qui, con la sua risposta acuta e virtuosa, che Cyrano apre alle ambizioni, alle speranze e all’utopia, rispondendo semplicemente: «o su verso le stelle!» (Rostand, 2014).

Dal nostro punto di vista le stelle e i mulini a vento rappresentano simbolicamente l’azione dei pionieri e delle pioniere dell’inclusione, di coloro i/le quali, anche in rottura con l’apparato istituzionale del loro tempo, hanno lottato per affermare i principi dell’educabilità (peraltro posti già in essere da Jean Marc Gaspard Itard in quello che è l’archetipo della Pedagogia Speciale stessa, ossia la vicenda del Ragazzo Selvaggio dell’Aveyron). La loro spinta istituente si è indirizzata alla costruzione di itinerari formativi nuovi e soprattutto possibili nella loro attuazione, capaci di disvelare i meccanismi alla base delle tante forme di educazione pensate per pochi e finalizzate a normalizzare (anche per mezzo dell’esclusione) i non conformi.

In questo scenario pionieristico si colloca l’azione educativa o, meglio, il progetto educativo di Anne Sullivan, educatrice che, in anticipo sui tempi dell’istituzione, diviene figura di spicco nell’educazione dei sordi e dei ciechi, in modo particolare grazie al suo lavoro con Helen Keller.

Johanna Mansfield Sullivan Macy, nota come Anne Sullivan, nasce a Feeding Hills (nella Contea di Hampden, Stato del Massachusetts) il 4 aprile 1866 da genitori di origine irlandese. La famiglia vive in una condizione di estrema povertà e in condizioni igienico-sanitarie drammatiche, tanto che all’età di 5 anni Anne contrae il tracoma, una malattia infettiva degli occhi che la porterà a una progressiva perdita della vista e alla quasi totale cecità. All’età di 8 anni, in seguito alla morte della madre, il padre la invia, insieme a suo fratello Jimmie, presso l’ospizio Tewksbury Almshouse. Qui, dopo soli tre mesi dal loro arrivo, Jimmie contrae la tubercolosi e muore improvvisamente, un ulteriore evento luttuoso, questo, che condizionerà Anne per tutta la vita. Durante la permanenza a Tewksbury, Anne è sottoposta a una serie di interventi di chirurgia oftalmica che la portano a recuperare parzialmente la vista.

Grazie alla capacità di reagire alle situazioni avverse, la giovane sviluppa una personalità molto forte, e così nel 1880 riesce a essere ammessa alla Perkins School for the Blind di Boston, istituto fondato nel 1832 dal medico e politico Samuel Gridley Howe (1801-1876) e in quel momento diretto da Michael Agnanos (1837-1906), un educatore e attivista appassionato delle teorie e delle pratiche di Fröbel e Pestalozzi, con particolare attenzione allo sviluppo simultaneo di mente, corpo e morale (Magnanini, 2020).

Quando entra all’Istituto Perkins, Anne (che ha ormai 14 anni) non è ancora in grado di leggere e scrivere il proprio nome. Ma è qui che si colloca il primo incontro fondamentale nella sua vita, quello con Laura Dewey Bridgman, un’altra figura a dir poco interessante nel panorama dell’educazione moderna (Tatulli e Mura, 2021). Laura Bridgman lavora nell’Istituto Perkins dopo esserne stata ospite a partire dall’età di 7 anni in conseguenza della febbre da scarlattina (contratta quando ne aveva 2), che le ha provocato la perdita della vista, dell’udito, dell’olfatto e del gusto. L’educazione della Bridgman è avviata da Howe, ma sono soprattutto le sue collaboratrici Lydia Drew, Mary Swift e Sara Wright a svilupparlo e a condurlo, tanto da far divenire Laura la prima persona sordo-cieca ad avere imparato a parlare, a leggere e a scrivere (Tatulli e Mura, 2021).10 Tra la quattordicenne Anne e la cinquantenne Laura si instaura fin da subito una relazione profonda, sia sul piano educativo che su quello dell’amicizia. Laura è una vera e propria mentore per Anne, una guida sicura per l’apprendimento della letto-scrittura, fino al conseguimento, nel 1886, del diploma presso lo stesso Perkins Institute.

Trascorso un anno dall’ottenimento del titolo, il direttore Agnanos invia la ventunenne Anne a Tuscumbia, in Alabama, presso la casa della famiglia Keller per prendere in carico Helen, una bambina divenuta nella primissima infanzia sordo-cieca a seguito di un’acuta congestione dello stomaco e del cervello (com’è stata definita dai medici). Si tratta (ma le due protagoniste al momento ne sono ancora ignare) di un incontro straordinario, che le legherà indissolubilmente per il resto della loro vita (e anche ben oltre quella terrena).

Il progetto educativo di Anne su e con Helen non segue pedissequamente i metodi appresi al Perkins Institute, ma si configura come un itinerario soggetto a innumerevoli cambi di direzione: un viaggio le cui coordinate si ridefiniscono in ragione delle dinamiche relazionali tra le due e tra queste e gli altri familiari. Ciò si evince in modo particolare dalle lettere scritte da Anne a Sophia C. Hopkins (governante presso l’Istituto Perkins) dal 6 marzo 1887 al 22 marzo 1888, ossia durante il suo primo anno di lavoro con Helen (Magnanini, 2020). E se è vero che attraverso l’alfabeto manuale Anne riesce a comunicare con la sua giovanissima allieva, l’azione pedagogica perpetrata dall’educatrice è soprattutto quella di aiutarla a trovare la sua modalità di esprimersi e di interconnettersi con le persone e con l’ambiente che la circonda (funzione sociale dell’azione educativa).

Anne continua a lavorare con Helen per tutto il periodo della sua adolescenza e oltre, avviando un lavoro non solo scientifico ma anche di attivismo socioculturale e politico. Un rapporto che inevitabilmente muta nel corso del tempo: non più insegnante e allieva, ma studiose che collaborano per divulgare nel mondo quell’idea universale di educabilità che avevano sperimentato insieme. Un sodalizio che non si interrompe neppure nel periodo del matrimonio di Anne con John A. Macy, docente ad Harvard, che dura dal 1905 al 1913. Dopo la separazione, Anne e Helen si trasferiscono a New York, nel noto quartiere di Forest Hills, accompagnate da Polly Thomson, una giovane donna di origini scozzesi che assolve inizialmente la funzione di segretaria e le seguirà per tutta la vita. Per sostenere economicamente questa piccola compagnia, Anne intraprende diverse iniziative lavorative, tra le quali la partecipazione al già citato film del 1919 Deliverance di George Foster Platt. Nel 1924 Anne e Helen danno avvio alla loro collaborazione, come testimonial e fundraiser, con l’American Foundation for the Blind, per la quale tengono numerose conferenze. Il legame tra loro resta saldissimo, fino alla morte di Anne che avviene, in conseguenza dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, a New York il 20 ottobre del 1936.

C’è un filo che lega Helen Keller e Anne Sullivan allo scrittore britannico Charles Dickens. Per rintracciarlo facciamo un passo indietro, al 1842, quando Laura Dewey Bridgman ha 13 anni e studia alla Perkins School. I suoi successi nell’apprendimento hanno una forte risonanza mediatica e il dottor Howe decide di aprire le porte dell’istituto per ciechi ai tanti curiosi che desiderano osservare di persona i traguardi raggiunti da Laura. Gli scopi del dott. Howe sono molteplici: raccogliere fondi per mantenere la scuola, aprirne di nuove, diffondere le sue teorie. Va fatta però una precisazione: siamo in un momento storico-sociale di grandi cambiamenti per gli Stati Uniti d’America; la working class inizia a partecipare alla vita pubblica e, di conseguenza, cambia lo stile di vita, aprendosi alle curiosità del momento, siano esse artistiche, letterarie, scientifiche o di puro intrattenimento. Non è quindi un caso se parliamo di curiosità nei confronti di Laura, perché questo risulta essere la ragazza agli occhi del pubblico americano: una freak, benché non sia collocata all’interno di un Dime Museum o di un circo come quello di Barnum.11

Ma torniamo a Dickens e al 1842. Lo scrittore partecipa insieme alla moglie a una delle esibizioni del fenomeno Bridgman, restandone talmente estasiato da farne un resoconto sull’American Notes in modo da darne massima divulgazione e rendere questa esperienza educativa nota in tutto il mondo. Anni dopo (siamo intorno al 1886) il giornale con lo scritto di Dickens giunge nelle mani di Kate Adams Keller, che intravede nella storia di Laura un barlume di speranza per la sua Helen, e decide così di acquisire maggiori informazioni in merito alle possibilità di educare un soggetto (nella fattispecie sua figlia) sordo-cieca. Sulla base di questa rinnovata aspettativa si innesca un circolo virtuoso: consultato uno specialista di Baltimora, questi mette la famiglia Keller in contatto con Alexander Graham Bell, ingegnere e scienziato di origini britanniche ma naturalizzato statunitense. Bell, oltre a essere il primo ad avere brevettato il telefono, ha dimestichezza con i problemi del linguaggio (ambito di studi praticato sia dal nonno, sia dal padre, sia dal fratello) e ha esperienza diretta della sordità (sono sorde sia la madre sia la moglie), tanto che si ingegna a inventare e a sperimentare apparecchi acustici (prodromici del telefono). Ed è proprio lui a suggerire ai Keller di interpellare la Perkins School che, come abbiamo già visto, per tramite del Direttore invia a Tuscumbia una delle sue migliori diplomate.

Quando Anne arriva in casa Keller, Helen Adams (questo è il nome completo) ha dunque circa 7 anni (è nata il 27 giugno 1880). I genitori, l’ufficiale dell’Esercito Confederato Arthur Henley Keller e Kate Adams Keller, hanno assistito impotenti all’evoluzione infausta della malattia della figlia, che a soli 19 mesi contrae un morbo che i medici non riescono ben a definire (probabilmente una forma di scarlattina o di meningite). I Keller, che fanno grande fatica ad accettare l’infermità di Helen, si lasciano guidare da sentimenti di pietismo e da un’eccessiva protezione, la qual cosa determina una sorta di abbandono della bambina, condannata a crescere senza regole e, soprattutto, senza che nessuno coltivi per lei l’aspettativa di poter essere educata in modo adeguato. La situazione cambia quando, finalmente, nel 1887 le strade di Helen Keller e Anne Sullivan si incontrano.

La ricostruzione che Angela Magnanini ha effettuato, come esito della sua traduzione delle già citate lettere scritte da Anne all’amica Sophia C. Hopkins, restituisce (oltre che un vivido quadro dell’interessante lavoro di decostruzione delle rappresentazioni, quindi dell’immaginario, della famiglia12 e della stessa Anne) una serie di informazioni utilissime a descrivere Helen nel preciso momento in cui l’esperienza educativa prende forma.

Scrive Anne il 6 marzo 1887:

In qualche modo mi aspettavo di trovare una bimba pallida e delicata: credo che ciò fosse dovuto alla descrizione fatta dal Dr. Howe di Laura Bridgman al momento del suo arrivo all’istituto. Ma Helen non ha nulla di pallido o delicato. È di corporatura forte, robusta, è rossa in viso, e sfrenata nei movimenti come un giovane puledro. Non presenta irritanti tic nervosi che di solito si evidenziano così tanto nei bambini non vedenti. Il corpo è vigoroso e ben formato, e inoltre Mrs. Keller dice che non è mai stata malata un giorno da quando contrasse la malattia che la privò della vista e dell’udito... L’espressione è intelligente, ma manca di mobilità o di anima o di quel non definibile «non so che». La bocca è larga e ben delineata. Si vede subito che è cieca perché un occhio è più grosso dell’altro e sporge notevolmente. Sorride raramente, infatti ho visto il suo sorriso solo una o due volte da quando sono arrivata... È molto sveglia e volenterosa e nessuno, a parte suo fratello James, ha mai tentato di darle degli ordini. Helen non sta mai ferma un momento. È qui, là, dappertutto. Le sue mani sono su tutto; ma niente riesce ad attirare la sua attenzione a lungo. Povera bambina, il suo spirito che non trova pace brancola nel buio. Le sue mani insoddisfatte e non istruite distruggono qualsiasi cosa toccano, perché non sanno cosa altro farne delle cose (Magnanini, 2020, pp. 16-17).

I comportamenti aggressivi, esito, come detto, del pietismo (che collude con il lassismo) dei genitori, sono uno degli aspetti problematici che caratterizzano tutte le prime fasi del lavoro tra Anne e Helen, come emerge anche in una delle scene più note della trasposizione cinematografica di Arthur Penn (del quale parleremo nel dettaglio più avanti), che si richiama a una seconda lettera della Sullivan alla Hopkins datata 11 marzo 1887. È il momento in cui Anne cerca di insegnare a Helen a mangiare utilizzando la forchetta, senza cedere, come era invece nelle routine familiari, alle reazioni spesso violente della bambina.13

Helen deve dunque emanciparsi da queste dinamiche: se, da un lato, Anne è chiamata a svolgere un lavoro nel quale dimensione tecnologica e dimensione affettiva dell’agire pedagogico-speciale (Bocci, 2004) devono trovare un punto di equilibrio (sempre da riaffermare, mai dato per scontato), dall’altro Helen deve coscientizzarsi, acquisire consapevolezza del potere trasformativo (su di sé e sul mondo) della conoscenza. Per fare ciò è necessario un mediatore (Canevaro, 2008), che in questa fase è l’alfabeto manuale – metodo caro all’Istituto Perkins – ma adattato al contesto e alla persona, quindi commisurato ai bisogni di chi apprende.

Giungiamo così al momento che segna una vera e propria svolta. È ancora una lettera di Anne (5 aprile 1887), nella ricostruzione di Angela Magnanini, ad aiutarci a comprendere l’avvenimento:

Io ho fatto lo spelling di «a-c-q-u-a» e non ci ho più pensato fino a dopo colazione. Poi mi è venuto in mente che con l’aiuto di questa nuova parola sarei stata in grado di superare il problema «tazza-latte». Andammo verso il pozzo e feci tenere la tazza a Helen sotto il getto, mentre pompavo l’acqua. Mentre l’acqua fredda riempiva la tazza, cominciai a fare lo spelling di «a-c-q-u-a» nella mano libera di Helen. La parola che si avvicinava così tanto alla sensazione dell’acqua fredda che scorre su di lei sembra sconvolgerla. Lasciò la tazza e stette immobile come paralizzata. Il suo viso si illuminò di una nuova luce. Fece lo spelling di «a-c-q-u-a» più volte. Poi cadde per terra e chiese il nome dell’acqua, indicò il pozzo e il graticolato e, voltandosi improvvisamente, chiese il mio nome e feci lo spelling di «i-n-s-e-g-n-a-n-t-e». Subito dopo la balia portò la sorellina di Helen vicino al pozzo e Helen fece lo spelling di «b-a-b-y» e indicò la balia. Fu eccitata lungo tutto il tragitto che riportava a casa, e imparò il nome di ogni oggetto che toccava, così che in poche ore aggiunse trenta nuove parole al suo vocabolario… È impaziente di far fare lo spelling ai suoi amici e volenterosa di insegnare le lettere a chiunque incontri. Abbandona la pantomima e i segni che usava prima appena conosce le parole per i vari oggetti, e l’acquisizione di nuove parole le procura il più genuino dei piaceri. Abbiamo notato che il suo viso diventa sempre più espressivo ogni giorno di più (Magnanini, 2020, p. 19).

È la svolta tanto attesa, che anche il cinema coglie e restituisce magistralmente legandola indelebilmente al nostro immaginario collettivo.14 E se il film lascia gli spettatori, com’è giusto che sia, nel momento in cui l’emozione è all’apice, nella vita reale Anne e Helen continuano a lavorare insieme. La fanciulla nel 1888 si iscrive alla Perkins School e, nel 1890, inizia a parlare apprendendo il linguaggio verbale grazie all’utilizzo del metodo Tadoma, che consiste nel porre le dita sulle labbra, sulle guance e sulla gola di chi emette un suono. Dopo le esperienze scolastiche presso la Wright-Humason School for the Deaf di New York e alla Cambridge School of Weston nel Massachusetts, nel 1900 Helen è ammessa al Radcliffe College di Cambridge, dove consegue la laurea cum laude nel 1904, prima donna sordo-cieca a raggiungere questo prestigioso traguardo.

Durante e a seguito degli studi Helen si dedica alla scrittura e all’attivismo politico. Risale al 1903 la stampa del libro autobiografico The Story of My Life, primo di una lunga serie di pubblicazioni (ben 11 in volume).

Nel 1915 fonda l’organizzazione non-profit Helen Keller International per promuovere azioni in favore delle persone cieche.

Molto attiva in campo politico, aderisce (fin dal 1909) al Partito Socialista d’America (Socialist Party of America), sostenendo pubblicamente le cause della classe operaia. Questo posizionamento radicale le attira le ostilità di numerosi commentatori e opinionisti, i quali, se inizialmente l’hanno elogiata (con la consueta retorica) per il coraggio e per l’intelligenza, una volta scesa nell’agone politico non si fanno scrupoli ad attaccarla, riconducendo l’insensatezza (a loro dire) delle sue idee alla sua disabilità. Tra le più note controversie c’è quella con St. Clair McKelway, editore del Brooklyn Eagle, il quale afferma che gli errori politici della Keller nascono dalle sue manifeste limitazioni fisiche. La risposta di Helen è quantomai arguta e politicamente, ancora oggi (anche in chiave intersezionale), attuale:

Il Brooklyn Eagle afferma, a proposito di me e del socialismo, che gli «errori di Helen Keller derivano dai limiti evidenti del suo sviluppo». Alcuni anni fa ho incontrato un signore che mi è stato presentato come Mr. McKelway, direttore del Brooklyn Eagle. È stato dopo un incontro che abbiamo avuto a New York a favore dei ciechi. A quel tempo i complimenti che mi fece furono così generosi che arrossisco a ricordarli. Ma ora che mi sono schierata a favore del socialismo, ricorda a me e al pubblico che sono cieca e sorda e particolarmente soggetta a errori. Devo avere ridotto la mia intelligenza negli anni trascorsi da quando l’ho incontrato. Sicuramente è il suo turno di arrossire. Può darsi che la sordità e la cecità inducano al socialismo. Marx era probabilmente completamente sordo e William Morris era cieco. Morris dipingeva i suoi quadri con il senso del tatto e disegnava la carta da parati con il senso dell’olfatto. Oh, ridicola Aquila di Brooklyn! Che uccello poco galante sei! Socialmente cieco e sordo, difende un sistema intollerabile, un sistema che è la causa di gran parte della cecità e della sordità fisica che stiamo cercando di prevenire. L’Aquila è disposta ad aiutarci a prevenire la miseria a condizione, sempre a condizione che non attacchiamo la tirannia industriale che la sostiene e le tappa le orecchie e gli offusca la vista. Io e l’Aquila siamo in guerra. Odio il sistema che rappresenta, di cui si scusa e che sostiene […] Se mai dovessi contribuire al movimento socialista con il libro che a volte sogno, so come lo chiamerò: Cecità industriale e sordità sociale (Keller, 1920, p. 29).15

Come abbiamo visto in precedenza, il sodalizio tra Helen e Anne Sullivan non cesserà mai. Le due, oltre a vivere insieme, compiono diversi viaggi (in ben 39 Paesi) con una particolare predilezione per il Giappone, dove Helen diventa (ed è ancora oggi) una beniamina. Incontra numerosissime personalità del mondo politico, artistico e dello spettacolo (tra queste Charlie Chaplin e Mark Twain). Gli ultimi anni di vita di Helen sono dedicati alla scrittura e alla raccolta di fondi per l’American Foundation for the Blind. Nel 1964 è insignita dal presidente Lyndon B. Johnson della Medaglia presidenziale della libertà, la maggiore onorificenza degli Stati Uniti.

La vicenda umana di Helen Keller si conclude il 1° giugno 1968, quando muore a Easton all’età di 87 anni.

Qualche nota sul film

The Miracle Worker (Anna dei miracoli) è un film di 106 minuti, uscito nelle sale statunitensi nel 1962. La regia è di Arthur Penn con la sceneggiatura di William Gibson (basata sulla sua pièce teatrale del 1957). Il montaggio è di Aram Avakian, la fotografia di Ernesto Caparròs, le musiche di Laurence Rosenthal. Gli interpreti principali sono: Anne Bancroft (Anne Sullivan), Patty Duke (Helen Keller), Victor Jory (Capitano Arthur Keller), Inga Swenson (Kate Keller), Andrew Prine (James Keller), Kathleen Comegys (Zia Ev).

Il film è ambientato in una piccola cittadina dell’Alabama del 1886 e narra la storia, così come trasposta da William Gibson nella sua fortunata pièce teatrale, di Helen Keller, una bambina sordocieca. I suoi genitori, il Capitano Arthur Keller e la giovane moglie Kate, ancora scioccati dalla sopraggiunta disabilità della figlia nella primissima infanzia, le permettono qualsiasi comportamento, come quello di mangiare con le mani o di distruggere, senza alcun motivo, gli oggetti di casa o di lavoro. La vita quasi allo stato primordiale della bambina spinge il padre e il fratellastro a prendere in considerazione di farla rinchiudere in un istituto per alienati mentali. Solo la ferma e disperata opposizione della madre li porta a recedere da questa iniziativa e ad accettare, invece, di affidare Helen a un’esperta inviata da un centro specializzato di Boston.

Dal grande centro urbano giunge quindi Anne Sullivan, una giovane donna ipovedente, con dei difficili trascorsi in un’istituzione speciale. Anne si rende subito conto che la dotazione intellettiva di Helen non è affatto compromessa ma, semmai, sono i comportamenti a farla apparire «ritardata». L’azione dell’educatrice, quindi, verte fin da subito, e in modo deciso, sull’acquisizione da parte di Helen delle regole basilari di convivenza e socialità. Tuttavia i genitori – che non credono affatto che la situazione possa migliorare, mantenendo il loro atteggiamento ambivalente (da un lato sono esausti ma, dall’altro, sono sempre pronti ad accettare i comportamenti disfunzionali della figlia) – sono sul punto di licenziare Anne, anche per evitare di assistere alle crisi di Helen dinanzi ai fermi richiami alla disciplina della sua educatrice.

Durante il confronto decisivo tra Anne e i familiari, questa chiede loro di continuare a lavorare con la bambina ma isolandola dai suoi cari per un certo periodo. La tenuta di campagna dei Keller si presta allo scopo, in quanto all’interno della proprietà si trova una sorta di baracca che Anne chiede sia adibita a luogo per la rieducazione di Helen. Educatrice e allieva vi si insediano dunque per alcune settimane, caratterizzate all’inizio dalle consuete reazioni della bambina che vanno però via via attenuandosi. Helen impara così ad assolvere ad alcune essenziali forme di autonomia (bere dal bicchiere, lavarsi, ecc.). Resta tuttavia ancora insuperato lo scoglio del rapporto tra le parole (veicolate nella/dalla lingua dei segni) con gli oggetti che queste designano.

Quando infine Helen torna dalla famiglia, i suoi genitori si dichiarano soddisfatti dei pochi risultati raggiunti e a nulla valgono le rimostranze di Anne sul fatto che il lavoro sia appena iniziato. Così, durante il pranzo al quale presenzia anche la zia Ev, la bambina riprende a manifestare i suoi comportamenti abituali. Anne, allora, interviene con decisione non permettendo ai genitori di ripristinare i loro comportamenti indulgenti. Conduce Helen in giardino e si impegna al massimo delle sue forze per mostrarle il rapporto tra le parole/segni e le cose. Improvvisamente, durante uno di questi tentativi, la bambina pronuncia la parola acqua, dando prova di avere capito la lezione, comprendendo il nesso tra la parola «acqua» nell’alfabeto manuale insegnatole da Anne e la parola «acqua» imparata da piccola. È il primo grande passo verso una vita autonoma, mentre i Keller, riconoscenti verso la maestra, sommergono Helen in un grande abbraccio. Più tardi è la stessa bambina a raggiungere Anne, baciandola con gratitudine nella scena finale.

Alcune considerazioni sulla cultura della pietà e dell’indulgenza

Luciano Cecconi, che ha svolto un prezioso e per moltissimi versi pionieristico lavoro di sistematizzazione e di analisi della rappresentazione cinematografica dell’infanzia, in un articolo apparso su «Cadmo» nel 1997, dal titolo Educazione, svantaggio e cultura dell’indulgenza, opera una riflessione su questi aspetti a partire da due film: A Child is Waiting (in italiano Gli Esclusi) di John Cassavetes e, per l’appunto, il nostro Anna dei Miracoli.16 L’analisi di queste due produzioni cinematografiche rientra in un piano di lavoro più ampio che lo studioso ha condotto all’interno di una sezione, La Decima Musa, da lui ideata e ospitata nella suddetta rivista ed è poi approdato in un volume del 2006 intitolato I bambini nel cinema.

Fermo restando l’assoluto valore dell’accurata riflessione operata da Luciano Cecconi su questi due film, di particolare interesse, ai fini del nostro discorso, è la disamina compiuta preliminarmente dallo studioso sul termine/concetto di indulgenza, anche perché è foriera di diverse suggestioni e attualizzazioni rispetto all’attuale cultura della disabilità, ovvero della sua rappresentazione. Scrive Cecconi:

Per raggiungere una migliore comprensione dei differenti atteggiamenti che generalmente vengono assunti nei confronti dei soggetti svantaggiati, è utile riflettere sulla polisemia della parola «indulgenza» e individuarne i diversi significati. Con il termine «indulgenza» si vuole indicare l’inclinazione ad accordare un permesso ma anche a compatire e a perdonare. Ma «permettere», «compatire» e «perdonare» sono azioni alquanto diverse le une dalle altre. Nel primo caso chi ha il potere di concedere il permesso (l’adulto, il genitore, l’insegnante) consente ai soggetti svantaggiati di assumere un comportamento diverso da quello ritenuto normale o generalmente accettabile. E fin qui nulla da eccepire, si tratta infatti di quella che comunemente viene chiamata «accettazione della diversità». Ma potrebbe anche intendersi un «permesso» a non impegnarsi quanto è necessario per ottenere determinati risultati. Per esempio, accettare che un bambino di dieci anni, con un ritardo nello sviluppo mentale, legga sillabando le parole di un testo rientra nel primo tipo di permesso; mentre accettare che lo stesso bambino si rifiuti di impegnarsi nella lettura rientra nel secondo tipo di permesso. In termini di aspettative è come dire, rispettivamente: «non ti chiedo ciò che tu non sei in condizione di poter dare» e «accetto che tu non ti impegni perché così lenisco il tuo dolore». Dal punto di vista educativo si tratta evidentemente di due atteggiamenti radicalmente diversi. Nel caso degli altri due significati, «compatire» e «perdonare», il primo termine giustifica il secondo: «perdono perché compatisco», cioè «condivido la tua sofferenza, perciò accetto la tua condizione e sono solidale con te». Infine, «perdonare» è il termine più denso di significati morali. Il perdono, infatti, si concede a chi ha commesso una colpa; il perdono è anche un’assoluzione, cioè la remissione della colpa per i peccati commessi. Se si considera che nelle credenze popolari per molto tempo le malformazioni dei bambini e, più in generale, le anormalità venivano vissute come punizioni divine per peccati commessi dai genitori, allora l’indulgenza assume un significato tutto particolare (Cecconi, 1997, p. 82).

Come anticipato, l’analisi di Cecconi consente di operare alcune nostre ulteriori considerazioni, in merito a come la disabilità è stata – ed è ancora, magari sotto altre forme – rappresentata.

La prima, diciamo a carattere storico, è legata all’idea che i corpi altri siano tali per un volere divino, che le bizzarrie della natura, lungi dall’essere espressione dei possibili modi con cui l’umano (e gli esseri viventi in genere) si esprime, rappresentino il sintomo di tare o colpe familiari da espiare attraverso un chiaro segno che marca, per l’appunto, certi corpi (Goussot, 2000; Zappaterra, 2003). Basti pensare ai freak e ai corpi devianti (Fiedler, 1978; Bogdan, 1988; Garland Thomson, 1997; Bocci, 2013, 2023b; Bocci e Straniero 2020; Bocci e Guerini, 2022; Bocci e Valtellina, 2023a, 2023b), soggetti/oggetto di attrazione (le camere delle meraviglie, i Dime Museum, i circhi) e di repulsione, soprattutto quando capaci di esprimere una soggettività, di essere soggetti desideranti, pulsionali, sessualmente attivi (si veda la censura del film Freaks di Tod Browning del 1932).

Tale connotazione fa sì che si determini un’asimmetria tra il conforme e il non conforme, tra l’ideale (l’atteso, l’auspicato) e il deviante (l’inatteso, l’indesiderato), in altri termini tra il normale e il patologico (Canguilhem, 1998).

Questa asimmetria ci porta alla seconda considerazione che attiene alla dimensione abilista che caratterizza la nostra società. L’abilismo che permea la nostra cultura fissa i canoni mediante i quali si stabilisce una netta suddivisione tra corpi sani e malati, tra conformi e non conformi. Assumendo come sfondo le logiche del capitalismo (quindi anche molto prima della sua attuale fase neoliberista), i corpi sono parametrati sulla base della dicotomia produttività/improduttività. Ma l’abilismo, e la cultura socio-politico-economica che lo supporta e rafforza, determina anche un altro fenomeno: quello della pseudo-accettazione dell’altro. Per essere in qualche modo riconosciuto, il non conforme deve accettare la sua subalternità, deve dimostrare di voler essere (a tutti i costi) normale come chi gli sta tendendo la mano, in modo da poter essere/potersi sentire integrato o incluso tra i normali. Charles Gardou (2006), in proposito, si richiama a una riflessione, espressa in forma di aforisma, dell’antropologo e psicoanalista ungherese Geza Roheim (1967, p. 46): Lei è completamente diverso da me, ma la perdono.

Il tutto grazie agli amplificatori culturali che, con i loro dispositivi (che vanno dai libri di testo a scuola alle serie televisive in Tv o sulle piattaforme, passando per il Festival di Sanremo), riproducono e indirizzano l’abilismo, rendendolo benevolo, familiare, insomma naturale.

E qui si innesta (e innesca) la terza considerazione, che ha a che fare con le retoriche discorsive che permeano la rappresentazione mainstream della diversità: la retorica della compassione, quella della normalità e quella del supercrip (Vadalà, 2013), che nutrono la visione politicamente corretta dell’alterità, la quale assolve, così come in passato la censura, una funzione repressiva del portato sovversivo della diversità mediante l’incorporazione del diverso dentro i canoni dettati dalla cultura mainstream (Bocci e Domenici, 2019).

Anna dei Miracoli, che fa parte dei film riconducibili alla fase della denuncia (Longmore, 1985; Norden, 1994; Errani, 2007; Schianchi, 2020, 2023), pur nella sua datazione (è pur sempre un film degli anni Sessanta) sembra sfuggire a queste retoriche, probabilmente per il fatto che la vicenda è tratta da una storia vera. A nostro avviso, però, c’è qualcosa in più: ciò avviene sia per le peculiarità delle due protagoniste (Anne Sullivan e Helen Keller) sia per lo sguardo (alternativo) del regista Arthur Penn.

Per quanto concerne le protagoniste, è interessante notare come Anne Sullivan nel relazionarsi a Helen rifugga qualsiasi atto che possa avere in qualche modo a che fare con la compassione o con la pietà. Nel film di Penn ciò emerge chiaramente diverse volte, soprattutto negli scambi verbali tra Anne e il Capitano che in più occasioni esprime dubbi, quando non un aperto dissenso, a riguardo dei metodi e dei modi, fermi e decisi, adottati dall’insegnante della fanciulla: «Non riuscirà a niente con Helen. Perché non la lascia in pace e non ha un po’ di pietà per una bambina ridotta così?». E ancora: «Forse lei capirebbe meglio la bambina se avesse un po’ di pietà dentro di sé». Rispetto a questi sentimenti pietistici la posizione di Anne è netta: «No, niente pietà, non ne avrò. Per nessuna delle due»; «Pietà? Per questa tiranna? Tutta la casa segue i suoi capricci. C’è qualcosa che non ottenga quando la vuole? Sapete perché non ho pietà? Perché le cose non andranno sempre come lei vuole. E che cosa gioverà a Helen la sua pietà quando lei sarà sottoterra, Capitano Keller? È più comodo avere compassione per lei che insegnarle a essere migliore, vero?».

Quella di Anne è una postura che assume valenza politica rispetto alla condizione di svantaggio e incarna pienamente la visione del regista. I film di Penn (allievo di Strasberg all’Actors Studio), infatti, risentono sia della cultura del teatro impegnato dell’epoca (si pensi agli adattamenti delle opere di William Gibson o di Laura Hellman) sia degli influssi della Golden Age della storia televisiva americana, collocabile nella metà degli anni Cinquanta del Novecento, quando grazie alla sensibilità sociale di alcuni/e autori/ici si cerca di approdare a rappresentazioni che vanno ben oltre l’intrattenimento e lo spettacolo, narrazioni che mettono in scena la complessità della vita quotidiana non filtrata e patinata come nelle visioni offerte dalle (e non a caso cosiddette) soap opera. E se, come ben evidenzia ancora Cecconi, questa matrice «è particolarmente evidente in Cassavetes che prima di arrivare al cinema è stato uno dei protagonisti, sia come attore che come autore, di quel tentativo di innovare i generi televisivi» (Cecconi, 1997, p. 83), anche il cinema di Arthur Penn si è interessato alle figure dei marginali, degli outsider, dei diversi, delle minoranze. Basti pensare, oltre a The Miracle Worker, a film come The Left Handed Gun (Furia selvaggia – Billy Kid, 1958), un western del tutto fuori norma, oppure ad Alice’s Restaurant (1969), che racconta la storia del diciottenne anticonformista Arlo (Guthrie) sullo sfondo della guerra nel Vietnam, come anche, per concludere, a Little Big Man (Il piccolo grande uomo, 1970), che riscrive (sulla base del romanzo di Thomas Berger) la storia dei nativi americani assumendo una prospettiva del tutto inconsueta rispetto alla precedente narrazione mainstream.

Si tratta di opere, teatrali, letterarie e cinematografiche che rompono gli schemi, che esplorano alcuni temi – quali quelli degli esclusi, del ruolo delle donne, delle dinamiche della famiglia borghese, del conformismo, ecc. – con uno sguardo socio-politico-culturale non convenzionale.

Una prospettiva di analisi, questa, che cercheremo di approfondire ulteriormente nel prossimo paragrafo, intersezionandola con altre che interpellano la pedagogia sul significato autentico che dobbiamo ricercare per dare senso alle culture, alle politiche e alle pratiche inclusive.

Non sono miracoli: sull’approccio pedagogico di Anna

È il 1962 quando Basaglia a Gorizia pronuncia la celebre frase «E mi no firmo», rifiutandosi di firmare il registro dei ricoverati da legare al letto. Con questo rifiuto ha simbolicamente inizio la rivoluzione antipsichiatrica, unica per modalità ed esiti al mondo. Partiamo con questa digressione – dovuta, da un lato, al fatto che uno degli aspetti che accomunano Helen Keller e Anne Sullivan sia stato il rischio di finire in manicomio per la prima e un passato doloroso in un’istituzione totale per la seconda e, dall’altro, alla curiosa coincidenza dell’anno della frase pronunciata da Basaglia e quello di uscita del film Anna dei miracoli – per sottolineare quanto una negazione possa rappresentare il motore del cambiamento e come, dal rifiuto del «si è sempre fatto così» (udito molto spesso anche tra le mura scolastiche) delle vecchie forme di educazione formale e informale, possa innescarsi una rivoluzione. Anne (Anna in italiano), nel film, si pone effettivamente con questo atteggiamento iniziale: no al pietismo, no alla accondiscendenza, no a una non-educazione.

Anna dei miracoli, come si dice negli ambienti domestici borghesi quando si racconta a qualcuno di avere trovato una soluzione a un problema annoso, un grattacapo che ha a che fare con la casa, più che con l’educazione o con la salute. Fa miracoli! Quasi fosse un prodotto per sgrassare o disincrostare lo sporco. Espressione borghese che riduce, attingendovi, alla religiosità. Il pensiero pedagogico e la sua pratica operativa sanno, invece, che quelli di Anna non sono miracoli, ma metodologie e strategie educative e didattiche precise e adatte (o adattate) all’allievo/a, basate su un’analisi delle necessità particolari degli educandi: di Helen nel caso specifico. Si tratta di osservare e di rilevare le sue abitudini, di cogliere le dinamiche dell’ambiente in cui è inserita, in modo da fare emergere come e in che misura l’habitus di bambina educata con la compassione e cresciuta come un animale («Avete tutti così tanta compassione di lei che l’avete allevata come un cagnolino», dice Anna ai familiari) possa restarle cucito addosso per sempre.

Anna guarda Helen nella sua unicità, per cui il metodo didattico appreso nella scuola di Boston (come evidenziato in precedenza, Anne Sullivan ha frequentato la Perkins School for the Blind, la prima scuola negli Stati Uniti dedicata all’insegnamento per le persone ipovedenti), considerato valido per gli studi, dovrà essere sperimentato, verificato sul campo. Anna dispera spesso, perde la fiducia di frequente. Non si fa forte delle cose che lei stessa ha imparato. Segno che la pedagogia deve nutrirsi tanto di teoria quanto di pratica. Se è vero che non esiste l’alunno medio – gli studi di Montessori, Vygotskij, Dewey, Gardner, Rogers, Bruner, Freire, solo per citare alcune/i grandi maestre/i, lo hanno dimostrato ampiamente –, esisteranno allora tante applicazioni quante sono le persone con cui abbiamo a che fare. L’unica pezza d’appoggio che Anna possiede, e lei stessa arriva a scoprirlo, è l’esperienza di persona a sua volta cieca, segnata da quell’abbandono sociale che, in ogni ricordo che vive, è decisamente più grave da sopportare dell’impairment visivo. Attingere alla propria esperienza non vuol dire riversarla in ciò che si fa, ma riversare ciò che si fa in ciò che si è stati. Ogni azione presente può modificare il passato. Questo può l’educazione. Recidere alla radice la condizione psicologica di frustrazione che da allora si è proiettata in avanti, sia agli occhi delle persone intorno a quella con disabilità, sia ad essa stessa. Tutto ciò è suggerito dal film nell’immediatezza delle scene, che si susseguono come il racconto della volontà di fare giustizia prima di tutto al proprio vissuto. Educando, sappiamo bene, ci si autoeduca.

La necessità di Anna di creare un ambiente educativo strutturato rimanda a un’altra questione importante per la pedagogia speciale (OECD, 2015; Bertram, 2016; Weyland et al., 2019). I prodromi del rendersene conto li sperimenta nella scena del pranzo, quando la sala viene distrutta a causa di una vera e propria lotta corpo a corpo tra Anna e Helen. Non solo non è esagerata nella sua verità ma, per quanto colorata di un certo romanticismo, lascia intendere che a mettere in risalto quella sorta di «violenza necessaria» per spezzare l’habitus non è la fede incrollabile di Anna verso il metodo educativo, ma la chiusura della stanza stessa, metafora della chiusura mentale della famiglia.

Anna abbatte le pareti di quella sala da pranzo, chiede e ottiene uno spazio dove non ci siano interferenze che, in quanto tali e per benevole che siano (come l’amore della madre), diventano deleterie. Anna annuncia così più cose insieme. La prima è l’importanza di un ambiente educativo che sia diverso da quello della casa, un luogo che sia semplice nell’utilizzo, nell’approccio, privo di fronzoli, essenziale, facilmente riconoscibile come il luogo dove si impara. La seconda è che l’amore dei genitori da solo non basta, come non bastano da sole le tecniche pedagogiche. Occorre che l’amore e il metodo vadano insieme. L’amore senza metodo diventa pietà e il metodo senza amore diventa obbedienza cieca. Obbedire senza capire è un’altra forma di cecità, dice Anna al Capitano.

A proposito dell’amore… In fondo, quando il Capitano fa qualcosa di buono per Helen, lo fa contravvenendo alle proprie convinzioni: come quando dà fiducia ad Anna, magari solo per amore della moglie. Sebbene il suo sia pietismo, quel pietismo borghese e religioso che guarda agli handicappati come esseri da compatire, rappresenta pur tuttavia una porta aperta. Il film ci chiede di considerare la possibilità di non gettare mai nulla dei limiti delle situazioni con cui operiamo come pedagogisti/e, perché su tutto si può fare leva per introdurre una novità significativa. Persino quei vizi, che non sono altro che virtù rovesciate, possono essere rieducati.

La pedagogia di Anna, perché sia efficace, deve essere una pedagogia di gruppo. La famiglia deve poter essere parte di una comunità educante (Zamengo e Valenzano, 2018; Rossi-Doria, 2022). Per farlo occorre ristabilire i ruoli e le relazioni. Il Capitano deve rinunciare a una parte della legittimazione che in quegli anni, e in quelle terre, il pater familias incarna naturalmente, quali che siano le sue decisioni. La moglie deve poter amare nella distanza necessaria affinché Helen non dipenda completamente da lei. Il fratello deve poter invece accorciare la distanza fra sé e la sorella.

Quante volte Anna, per poter operare per il bene di Helen, deve prima convincere i genitori della bontà dei suoi gesti e di certi provvedimenti! I genitori di Helen, e così il fratello, devono poter apprendere anche loro quanto deve essere fatto per la ragazza. Lungo tutto il film il fratello di Helen sembrerebbe essere il meno aperto e disponibile. Se il Capitano ha almeno l’attenuante di possedere un’età avanzata, e dunque una più antica frequentazione dell’ignoranza, il figlio simboleggia invece il futuro, la giovinezza, la forza d’animo e l’intelletto fresco. Ma non è così: invece di avvalersi dell’innovazione metodologica come speranza per un futuro migliore si arrocca, avocandoli a sé, nell’ottusità e nell’atteggiamento rinunciatario del padre.

La tensione che lo/la spettatore/ice vive nei confronti del giovane uomo pesa nella trama quanto il timore che Helen possa restare confinata nel suo mondo dove nessuno riesce a entrare. Questa non è un’altra sottotrama generosamente donataci dagli autori del film, bensì il doppio binario di ogni pedagogia: tutti/e siamo attori/ici dell’educazione reciproca. Ognuno di noi è una sponda che deve poter avvertire su di sé parte del possibile successo educativo, o il suo fallimento. Ognuno/a deve fare la sua parte. Il ragazzo dimostrerà di avere il coraggio che ci si aspetta dalle future generazioni. Prende su di sé il testimone di Anna. Ecco, lui per primo, e poi il Capitano e sua moglie si addentrano nel circle time (un circle time concettuale, in questo caso, morale se vogliamo) nel quale Helen finalmente entra in contatto con il mondo circostante. Se gli altri non vedessero il da farsi, se il mondo non si manifestasse, il cieco non vedrebbe nulla neppure se gli tornasse la vista.

Molto poetico è il fatto che la caccia stagionale per la quale è utilizzato il capanno resti sul piano simbolico: Anna va a caccia di qualcosa, senza sapere cosa esattamente. Qualcosa che le permetta di entrare in sintonia con Helen. È qualcosa che sta dentro la ragazza, come si tende sempre a credere quando si ha davanti una persona con disabilità? Peraltro colpevolizzando la persona con disabilità nel momento in cui la si ritiene responsabile della sua chiusura. No, non è mai dentro le persone ciò che serve per entrarci in contatto. È invece tra le persone. È il linguaggio ciò a cui Anna lavora dall’inizio alla fine del film. Sebbene Anna affermi qualcosa che negli studi più avanzati di linguistica e filosofia del linguaggio è tutto da dimostrare, ovvero che il nome di una cosa designi la cosa stessa (sappiamo da Romeo e Giulietta che una rosa conserverebbe il suo profumo anche se la chiamassimo con un altro nome), lungo la trama vediamo rispettata un’altra verità, ovvero che il nome di una cosa è invero il nome della relazione che stabiliamo con essa.

Analizzando la poesia di Stein Una rosa è una rosa è una rosa, Umberto Eco (1968) parla di ridondanza come della tensione che viene a crearsi con il lettore. Una tensione che, mentre afferma che una rosa è una rosa, ovvero designa l’oggetto, allo stesso tempo ci dice che è qualcos’altro. Ebbene, Helen, fintanto che le viene data la possibilità di dare un nome alle cose, vive una ridondanza delle cose stesse, della loro materialità: è per lei, in pratica, un’eco della sordità. Dare un nome alle cose vuol dire governarle. Stabilire una gerarchia, assoggettarle riordinandole nei piani di legittima appartenenza, quali necessità, soddisfacimento del bisogno, piacere, dovere, utilità, ecc. Significa anche poter essere propositivi nelle soluzioni e non solo nell’esprimerle. Non ultimo, significa collocare se stessa tra le cose. Il linguaggio è la casa dell’essere, sostiene Heidegger (1995). Nella casa paterna deve poterci essere un’altra casa, simbolica, dove i ruoli diventano dinamici e cooperativi. È appunto il linguaggio. Poter portare le esperienze e i significati sul piano simbolico vuole dire trasumanare. Quello stesso dantesco «Trasumanar significa per verba/non si porìa», ovvero raggiungere un livello superiore di comprensione del mondo e di sé che non si può spiegare a parole, quando la lingua, inclusa quella dei segni, non è che un mezzo, mentre lo scopo è la comprensione stessa, un’intesa vicendevole, una rispondenza che si svela.

Per troppo tempo a Helen non è concesso di portare l’esperienza sul piano simbolico. Ancora nella scena del pranzo, il tavolo non diventa mai per lei tavola, cioè luogo in cui il bisogno primario di cibo si eleva a dialogo e a confronto reciproco come fanno il Capitano e il figlio parlando di politica e di storia. Quel dialogo sottolinea tutta la distanza tra ciò che si dovrebbe fare e ciò a cui Helen è confinata. Il tavolo rimane tavolo. Helen lo ha già mappato sul piano spaziale innumerevoli volte percorrendone il perimetro, non potendo mai entrare all’interno del circle time che la tavola è nel convivio, nel suo piano simbolico.

Quando nella scena finale della fontana Helen associa l’acqua al suo nome, fa lo stesso con la terra, che nella felicità della scoperta porta alla bocca.

La mangia con le mani, perché sapere ha la stessa etimologia di sapore. Si assiste qui a un rovesciamento rispetto a un momento iniziale del film, quando Anna partecipa per la prima volta a un pranzo di famiglia e assiste alla scena di Helen che si aggira attorno alla tavola, mangiando con le mani il cibo che preleva dai piatti dei suoi familiari. Sapere vuol dire fare esperienza diretta e personale con la cosa. La differenza tra mangiare con le mani in casa e il mangiare la terra è che, nel primo caso, Helen sottostà a una riduzione dell’esperienza, lo fa perché non le è dato altro modo. Non può condividerla con nessuno. Nel secondo caso, lei è autrice dell’azione e la stessa modalità del mangiare cambia di polarità, ha un significato totalmente diverso.

A questo punto, il nome che diamo alle cose è il nome che diamo alla loro essenza. L’esperienza è funzionale, lascia indietro l’involucro occasionale per entrare nella sfera simbolica. Non a caso, quando vuole sapere il nome di colei che le ha insegnato a entrare in contatto con le cose, Anna non le dice il proprio nome di battesimo, bensì Maestra.

Il vero nome di Anna è maestra, alla stregua del vero nome della città di Roma secondo gli Antichi, che era appunto Amor.

Il nome segreto la cui conoscenza conferiva piena cittadinanza.

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  1. 1 Il presente contributo è frutto del lavoro congiunto degli autori e dell’autrice. Ai soli fini dell’identificazione delle parti, laddove è richiesto, si precisa che sono da attribuire a Fabio Bocci la Premessa e i paragrafi Qualche nota sul film e Alcune considerazioni sulla cultura della pietà e dell’indulgenza. È da attribuire a Leonardo Tantari il paragrafo Cenni biografici delle protagoniste: Anne Sullivan e Helen Keller, mentre è da attribuire ad Alessandra M. Straniero il paragrafo Non sono miracoli: sull’approccio pedagogico di Anna.

  1. 2 Professore Ordinario, Università degli Studi Roma Tre.

  1. 3 Ricercatrice, Università degli Studi della Calabria.

  1. 4 Laureando in Scienze della Formazione Primaria, Università degli Studi Roma Tre.

  1. 5 This paper is the result of the joint work of the authors. In order to identify the parts, where required, it should be noted that Fabio Bocci (University of Roma Tre) wrote the Foreword and the paragraphs A few notes on the film and Some considerations on the culture of indulgence and pity. Leonardo Tantari (University of Roma Tre) wrote the paragraph entitled Biographical overview of the protagonists: Anne Sullivan and Helen Keller, whilst Alessandra M. Straniero (University of Calabria) wrote the paragraph entitled They are not miracles: On Anne’s pedagogical approach.

  1. 6 Full Professor, Roma Tre University.

  1. 7 Researcher, University of Calabria.

  1. 8 Graduating in Primary Education Sciences, Roma Tre University.

  1. 9 Con questa locuzione, peraltro molto occidentalocentrica, si fa riferimento a un certo tipo di genere filmico (popolare) generalmente in lingua hindi, della notevole produzione cinematografica dell’India, fondendo le parole Bombay e Hollywood e quindi accostando il mercato produttivo indiano a quello statunitense.

  1. 10 Tatulli e Mura evidenziano anche come il dottor Howe, pur attingendo largamente dai diari di Lydia Drew, Mary Swift e Sara Wright, le menzioni molto raramente per il loro prezioso lavoro educativo. Al contempo «rende pubblico il loro operato solo quando è intenzionato a sollevarle dall’incarico, accennando al loro intervento con riduttive frasi sprezzanti» (Tatulli e Mura, 2021, p. 17).

  1. 11 Ricordiamo che Barnum diviene famoso proprio nel 1842 con la creazione dell’American Museum. Risale invece al 1872 la realizzazione del The Greatest Show on Earth, un enorme circo composto da tre piste e ben quattro palcoscenici, in grado di accogliere oltre ventimila spettatori (Bocci, 2013).

  1. 12 Sappiamo che prima ancora dell’incontro c’era stato uno scambio di notizie tra i Keller e la Perkins School.

  1. 13 Nel film questa scena va dal minuto 39:37 fino al minuto 47:55.

  1. 14 La sequenza parte al minuto 1:39:13 e si conclude al minuto 1:44:17.

  1. 15 Traduzione nostra. La querelle risale al 1912 e l’articolo è stato pubblicato sul «the New York Call» (3 November 1912).

  1. 16 Sull’analisi pedagogica di questi due film si veda anche Bocci (2004, 2023a).

Vol. 23, Issue 2, May 2024

 

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