Vol. 23, n. 1, febbraio 2024 — pp. 137-145

Rubrica

Recensione

Impressioni di Novembre… Riflessioni sul 14° Convegno Internazionale «La Qualità dell’inclusione scolastica e sociale»

Il percorso verso una scuola inclusiva deve espandersi verso una società inclusiva, nel lavoro, nel tempo libero, nelle relazioni, nell’essere adulti e persone pienamente partecipi e realizzate […] Il percorso verso una scuola inclusiva deve vivere di alleanze, di sinergie, di forze tese a uno scopo comune, pur nel rispetto delle differenze. Gli insegnanti, i dirigenti, il personale della Scuola, le amministrazioni, ma anche le università, le associazioni di rappresentanza e di tutela, le persone con disabilità e le differenze varie, i diversi attori interessati devono sapere che cercare di fare da soli è avarizia, cercare di farlo insieme è politica (Ianes e Canevaro, 2015, p. 20).

Preludio

Nel 1996 (anno di nascita di chi scrive) David Foster Wallace, tra i migliori autori del panorama letterario contemporaneo, morto a soli 48 anni, dà alla luce un reportage per la rivista «Harper’s Magazine» dal titolo Una cosa divertente che non farò mai più (Shipping out, il titolo originale), in cui racconta, con il suo caratteristico stile umoristico e di stampo sociologico, le sue disavventure durante una crociera ai Caraibi.

Se Foster Wallace conclude il suo saggio mostrandosi quasi sollevato nell’essere tornato alla vita reale, lo stesso non si può dire — almeno per lo scrivente, il quale, per la prima volta, ha messo piede al Palacongressi di Rimini — al termine del 14° Convegno Internazionale, «La Qualità dell’inclusione scolastica e sociale» della casa editrice Erickson, svoltosi dal 17 al 19 novembre 2023.

Considerato come uno degli eventi tra quelli che si occupano di educazione più attesi nel panorama italiano, il Convegno Q ha visto, quest’anno, la partecipazione di 3.200 persone tra docenti, dirigenti scolastici/che, psicologhe/gi, educatrici/ori, operatori/ici e studenti/esse. Una tre giorni immersiva tra Plenarie, QTalk, Tavole Rotonde, Workshop, Laboratori e QNote Speeches, sulle diverse tematiche che abitano il quotidiano educativo e sociale: la didattica, le strategie didattiche, la valutazione, le questioni di genere, la documentazione scolastica, la dis/abilità e le disabilitazioni, la transculturalità e degli excursus sui pionieri e sulle pioniere dell’educazione.

Sembrerebbe mancare l’inclusione o che la sua mancata menzione sia un errore o una dimenticanza. Non è così: l’inclusione è presente, eccome, ed è il fil rouge che collega i 103 incontri che il Centro Studi Erickson ha organizzato in questa tre giorni.

Perché non è una dimenticanza, anche se non è richiamata come tema a sé? Ebbene, proprio perché l’inclusione non è un tema a sé stante, ma permea il tutto: è, per citare l’approccio ecologico-sistemico caro a Dario Ianes (e al compianto Prof. Andrea Canevaro), il macro-sistema, che conferisce senso (e si offre come orizzonte di senso) a tutte le tematiche che vengono approfondite nei vari momenti in cui si snoda il Convegno (e anche nelle relazioni, formali, non formali e informali che lo accompagnano e lo rendono un momento unico e atteso di incontro, scambio, confronto e così via).

L’inclusione è, dunque, nel nostro agire quotidiano e la sua qualità è la risultante della capacità di tutti/e e di ciascuno/a di rendere i contesti competenti (altro tema caro al Prof. Canevaro), nel riconoscimento dell’eterogeneità dei contesti, nella sua irriducibilità di fronte a normative che la limitano. E anche il Convegno Q, nei racconti dei veterani — che talvolta prendono la forma, almeno nella percezione di chi è neofita, di quelle storie che nei romanzi sono raccontate alla luce fioca di una lampada, nelle taverne vicino alle banchine dei porti nell’attesa che cessi il mare grosso e si possa finalmente prendere il largo, oppure davanti al fuoco di un camino nelle baite di montagna mentre imperversa la tormenta —, nel corso del tempo è divenuto sempre più competente, si è evoluto nell’evolversi delle persone che lo hanno abitato e continuano ad abitarlo.

Assumendo questa prospettiva, può dunque risultare interessante (ce lo auguriamo) il resoconto di chi vi ha preso parte, appunto, con lo sguardo acceso della curiosità dell’iniziando, di chi ha osservando quanto è accaduto in quel luogo (il Palacongressi di Rimini) e in quel tempo (dal 17 al 19 novembre) cercando di districarsi tra narrazione e realtà.

Lo scopo di questo scritto, quindi, non è tanto quello di rendicontare, di descrivere in modo oggettivo (se mai sia possibile) l’accaduto ma di narrare, di raccontare le impressioni (di novembre, parafrasando il titolo di una celeberrima canzone della Premiata Forneria Marconi) di un convegnista alle prime armi. Per questa ragione, il racconto si snoda in quattro brevi paragrafi: l’atmosfera, la complessità, le parole, lo sguardo di chi scrive.

L’atmosfera

Nel suo Nonluoghi — Introduzione a una antropologia della surmodernità, Marc Augé (2018) ci parla degli spazi dell’anonimato, quei posti frequentati da individui simili ma soli, nei quali si accede solo fornendo una prova della propria identità. E ancora: Michel Foucault, nel saggio Spazi altri, introduce il concetto di eterotopie, ovvero «dei luoghi reali, […], dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessa della società, […] specie di utopie effettivamente realizzate, nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura, vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo» (Foucault, 2000, p. 23-24).

È interessante come i nonluoghi di Augé e le eterotopie di Foucault siano strettamente connessi al concetto di liminalità di cui parla Robert Murphy (2017) nel suo Il silenzio del Corpo: una sospensione, un limen, per l’appunto che non ci colloca, nell’ambito dei riti di passaggio analizzati da Arnold van Gennep (Gardou, 2006), né da una parte, né dall’altra.

Rispetto al nostro racconto, il Palacongressi di Rimini che ospita il Convegno Q potrebbe, a prima vista, rientrare nella categoria dei nonluogi o dell’eterotipie. Il primo sguardo alla locazione, infatti, è avvenuto la sera prima dell’inizio dell’evento, nel completo silenzio dell’inverno riminese, con gli spazi esterni e interni (vastissimi) praticamente deserti. Che funzione gioca nel palinsesto sociale questo spazio si può chiedere (e di fatto si chiede) chi si sofferma a osservarlo nella sua struttura fisica e metaforica? È un luogo che, per la funzione che si appresta ad assolvere, si collocherà nei tre giorni a venire al di fuori di ogni luogo, sospendendo la realtà così piena di discriminazioni, emarginazioni, ingiustizie, compromessi al ribasso?

Una prima risposta a tali quesiti la si trova, la mattina dopo, quando lo scenario cambia radicalmente. Nell’approssimarsi al Palacongressi si incontrano diversi gruppi di persone in cammino che poi, giunti nei pressi della sede, divengono una vera e propria moltitudine. Entrando, la sensazione è quella della festa: rumori, colori — quelli delle cartelline, delle borse con le frasi di don Milani, contenenti il programma e il libro in dono di Andrea Canevaro Andiamo oltre (2023) che già molte/i sfogliano —, saluti, abbracci. Si comprende che è, questo, tutt’altro che un non luogo: non vi è spersonalizzazione né desoggettivizzazione ma condivisione, nella quale l’identità individuale mantiene la propria integrità e soggettività pur percependosi come parte di un’identità collettiva, orientata da un orizzonte di senso comunitario: l’inclusione.

Certo, la sensazione di essere in una sorta di limen permane, ma in questa fattispecie non si tratta di una sospensione che esclude fermando sulla soglia l’escluso nell’ambito dei riti di passaggio, ma del partecipare a un rito che si colloca in un intermezzo della realtà, in un né prima né dopo ma un durante che, prendendo in prestito una delle intuizioni letterarie di J.K. Rowling nella saga di Harry Potter, si palesa come una stanza delle necessità che si fa trovare sempre disponibile a chi la cerca.

Si tratta, dunque, di uno spazio chiuso, certo, delimitato da mura, ma che si rappresenta (e rappresenta)come uno spazio in cui qualcosa accade, in cui si parla, si ascolta, ci si incontra (con persone, saperi, esperienze, pratiche, ecc.), ci si confronta. Un openspace di conoscenza e di esperienza che ha la pretesa di fare la differenza e, proprio perché ha questa pretesa, riesce a farla, anche nel suo essere fonte di ispirazione e di volizione. Perché, diciamolo, durante quelle giornate si sente la voglia di essere/farsi/divenire quel cambiamento che si vuole vedere realizzato nel mondo.

La complessità

Questo sentimento utopico di vedere attuato il cambiamento che auspichiamo si realizzi nel mondo si confronta, giocoforza, con la complessità del nostro tempo, di una società iperconnessa, che si struttura e destruttura con una rapidità che viviamo ma facciamo ancora fatica a immaginare e ad anticipare.

Sappiamo bene come la liquidità di questa condizione (richiamandoci naturalmente a Bauman, 2011) determina due fenomeni che sono il rovescio della medesima medaglia: da un lato, percepiamo l’allontanamento dei riferimenti socio-culturali consueti e la perdita della nostra sfera di influenza su ciò che determina le decisioni che governano la nostra vita; dall’altro, e in reazione a ciò, la chiusura in spazi sempre più chiusi (fisici e mentali), l’arroccamento in convinzioni che sembrano ormai solo nostre o di pochi altri (le bolle di cui i social sono espressione), la preservazione identitaria dell’individuale che diviene sempre più pratica dell’individualismo.

Questo essere monolitici è un lenitivo, consente di cullare l’illusione che almeno a livello personale è possibile continuare a fare le cose nel modo in cui le cose sono sempre state fatte. Si configurano così (a scuola, nei luoghi di lavoro, negli oratori, nelle palestre, ecc.) un io e il mondo che assume sempre più le sembianze di un me stesso (sempre più vulnerabile) contro tutti gli altri. Un arroccamento che tacita la speranza e pregiudica il futuro, soprattutto di chi questo futuro lo abiterà, abdicando peraltro al nostro ruolo da educatori e di educatrici.

Senza voler enfatizzare troppo, la partecipazione al Convegno Q rappresenta (anche, non solo) un atto di consapevolezza (Freire direbbe di coscientizzazione). Si avverte, si sente, che in realtà le cose possono cambiare, che, come ci ha insegnato Édouard Séguin (2002), è questione di sapere e di potere certo, ma soprattutto di volere. Si sperimenta la presenza di questa volontà, di esserci non per presenziare (la medaglietta sotto forma di badge), ma per partecipare e per rendere il sentimento utopico una concreta utopia. La complessità, dunque, non smette di preoccuparci ma diviene la sfida ottimale da abitare: non da soli ma comunitariamente, guidati dalla convinzione moreniana (che Dario Ianes ama ripetere) che ciò che non si rigenera finisce con il degenerare, ed è questa deriva che deve farci paura e invitarci a contrastarla. Essere qui, insieme a più di 3.000 persone, rende questa sfida affascinante e dà la giusta forza per affrontarla. Il Convegno Q diventa allora una grande opportunità, perché con le sue innumerevoli sfaccettature ci permette di abitare i luoghi della complessità, ci invita a porci domande magari con parole di cui non conoscevamo neppure l’esistenza o il significato.

Le parole

Ecco le parole. Il Convegno Q è certamente pieno di fatti, azioni, esperienze, ma tutto è (e non potrebbe essere altrimenti) intriso di parole.

Ripartiamo dalle parole e dal loro valore. Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono importanti. Ce lo ricorda Michele Apicella, alter-ego di Nanni Moretti, in Palombella Rossa, film da lui diretto del 1989.

Usarle, trovarle, cercarle, studiarle, comprenderle per comprendere i mutamenti. Questo è quello che dobbiamo fare delle parole che quotidianamente utilizziamo, che decidiamo di usare in maniera consapevole e coscienziosa. Perché ogni singola parola, ogni frase da noi costruita fa riferimento alle nostre strutture cognitive. Parole che non cambiano significa strutture cognitive che rimangono immutabili, noncuranti dei mutamenti al di fuori del nostro spazio privato. Parole che cambiano, che vengono messe in discussione, che scompaiono e/o riappaiono sotto altre vesti, evidenziano flessibilità, assenza di confini, continuo adattarsi alla collettività.

Diceva bene Tullio De Mauro nel 1963 nel suo Storia Linguistica dell’Italia Unita: «La lingua non è un monolite!». E noi, come detto, non dobbiamo essere monolitici.

Le parole che sono circolate nella tre giorni riminese del Convegno sulla Qualità dell’inclusione presiedono le macro, micro, meso, eso aree del nostro cambiamento individuale e collettivo.

Lo sguardo di chi scrive

Il bambino è un adulto in formazione, sottolineava Gramsci nei suoi scritti pedagogici. Il 17, il 18 e il 19 novembre 2023 chi scrive ha sperimentato il senso autentico e il significato di questo essere bambini nell’ottica gramsciana: essere/sentirsi in formazione all’interno di un ambiente che non s-padroneggia, non sovrasta, ma che opera in/su una zona di sviluppo potenziale (individuale e collettiva), offrendo la possibilità (a livello individuale e collettivo) di raggiungere ciò che prima di quel momento non si era in grado di fare.

Il Palacongressi di Rimini che ospita il Convegno Q — per un neofita come chi scrive — ha assunto le sembianze di quell’Agorà pedagogica di cui ha parlato Alain Goussot (Bocci, 2019). Un’esperienza significativa, che il tempo dirà se sia stata unica o come poche altre, ma che nel suo essere per la prima volta ha lasciato il segno.

È stato davvero molto interessante, pur avendo di base l’esperienza dell’Università, ascoltare e osservare tante persone che vivono la scuola, l’università, la didattica, la formazione quotidianamente, e che la abitano (o così a chi scrive è apparso) con la naturalezza di chi è abituato a prendere il caffè la mattina.

Certamente la mole degli eventi è talmente vasta che, soprattutto per un neofita, all’inizio sembra complesso comprendere quali siano gli aspetti più importanti sui quali indirizzare le proprie scelte. Ma è un timore (reverenziale) iniziale, perché qui non si sta in un centro commerciale (ecco che tornano i nonluoghi di Augé), ma all’interno di un evento organizzato da un Centro Studi e, al di là degli interessi specifici, dove si cade si cade sempre bene. Alla fin fine, ci si tuffa, ci si immerge e si inizia a nuotare in questo mare dai colori variopinti. E cosa è accaduto? Che si sperimenta un modo altro di apprendere, per immersione appunto, e si sperimenta anche quella dimensione di apprendimento permanente così fondamentale per lo sviluppo professionale di chi, come chi scrive, ambisce a divenire insegnante, anzi sente di essere già un insegnante in formazione.

Conclusioni

Saranno stati i tetti bassi, sarà stato il romanticismo cinematografico che il suo borgo trasmette, sarà stata la vicinanza al mare (che, lo ammettiamo, abbiamo sentito ma non siamo riusciti a vedere), o forse, semplicemente, l’abitare pienamente uno spazio-tempo così peculiare, ma ci azzardiamo a scommettere che nella sua unicità della prima volta questa esperienza resterà unica.

Il rientro alla vita di tutti i giorni, il ritorno all’Università, è stato accompagnato dalla stanchezza delle tre intense giornate, certo, ma anche da un senso di malinconia, da una sorta di mal d’Africa in terra di Romagna o di saudade convegnistica. E, come accade per tutte le cose nostalgiche, viene la voglia, oltre che di riviverle, anche di raccontarle per condividere quanto esperito in prima persona. Per dire cosa? Che l’inclusione è partecipazione, è un processo che non ha mai fine (Booth e Ainscow, 2014), c che al Palacongressi di Rimini in occasione del Convegno Q si continua a incastonare i tasselli della trasformazione sociale.

Leonardo Tantari

Bibliografia

Augé M. (2018). Nonluoghi. Milano, Elèuthera.

Bauman Z. (2011), Modernità liquida, Bari, Laterza.

Bocci F. (2019), Oltre i dispositivi. La scuola come agorà pedagogica inclusiva. In M.V. Isidori (a cura di), La formazione dell’insegnante inclusivo. Superare i rischi vecchi e nuovi di povertà educativa, Milano, FrancoAngeli, pp. 120-129.

Booth T. e Ainscow T. (2014), Nuovo Index per l’inclusione, Roma, Carocci.

Canevaro A. (2023), Andiamo oltre. Accogliere le sfide educative con una Pedagogia Istituzionale, Trento, Erickson.

De Mauro T. (2011), Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Editori.

Foster Wallace D. (2017), Una cosa divertente che non farò mai più, Roma, Minimum Fax.

Foucault M. (2000), Spazi altri. I luoghi delle eterotipie, Sesto San Giovanni (MI), Mimesis.

Gardou C. (2006), Diversità, vulnerabilità e handicap. Per una nuova cultura della disabilità, Trento, Erickson.

Gramsci A. (2018), Quaderno del carcere n. 12, a cura di C. Meta, Roma, Edizioni Conoscenza.

Ianes D. e Canevaro A. (2015), Presentazione. In D. Ianes e A. Canevaro (a cura di), Orizzonte inclusione. Idee e temi da vent’anni di Convegni Erickson, Trento, Erickson.

Murphy R. (2017), Il silenzio del corpo. Antropologia della disabilità, Trento, Erickson.

Séguin E. (2002), L’idiota. Voll. 1 e 2: Idiozia e igiene degli idioti, a cura di G. Bollea, Roma, Armando.

 

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