Vol. 19, n. 2, maggio 2020

Monografia

La scuola incarcerata

Caterina Benelli1

Sommario

La scuola rappresenta un’area strategica della formazione in carcere: una sfida per il cambiamento e per l’empowerment delle persone che abitano il tempo e il luogo della carcerazione. Il contributo intende riflettere sulla necessaria revisione della scuola in carcere, partendo dall’esperienza di formazione e progettazione nell’ambito specifico della scuola penitenziaria e dal documento prodotto nel 2016 dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale: un elaborato importante, nuovo e ricco di ipotesi di sviluppo sulla questione della formazione in carcere e, nella fattispecie, anche della scuola. La scuola in carcere è un luogo strategico che richiede una significativa rivisitazione alla luce delle nuove emergenze sociali. Gli Stati Generali, infatti, auspicano una nuova visione del carcere, come contesto in cui il tempo sottratto diviene tempo utile, edificato attraversando momenti di connessione tra dentro e fuori, attraverso opportunità concrete di riscatto sociale. In questo contributo ci chiediamo: come «scarcerare» la scuola?

Tra le risposte di interventi possibili ricordiamo il lavoro di rete, ritenuta una via d’uscita al fenomeno della «carcerizzazione» della scuola che necessita sempre più di uscire fuori dalle mura anche attraverso progetti e percorsi che vedono il coinvolgimento del territorio, come gli istituti scolastici e altri enti locali.

Parole chiave

Scuola, carcere, studenti, empowerment, rete.

MONOGRAPHY

The imprisoned school

Caterina Benelli2

Abstract

The school represents a strategic area of training in prison: a challenge for change and for the empowerment of people who live in the time and place of imprisonment. The contribution intends to reflect on the necessary revision of the school in prison starting from the experience of training and planning in the specific context of the penitentiary school and, in particular, from the document produced in 2016 by the States General of the Penal Execution: an important document, of recent elaboration and full of development hypotheses on the issue of training in prison and, in this case, also of the school. The school in prison is a strategic place that requires a significant review in the light of new and social emergencies. The General States, in fact, hope for a new vision of prison, as a context in which time taken away becomes useful time, built through moments of connection between inside and outside, through concrete opportunities for social redemption. In this contribution we ask ourselves: how can we «release» the school?

Among the responses of possible interventions, network work is considered as a way out of the phenomenon of «prisonization» of the school which increasingly needs to go outside the walls also through projects and routes that see the involvement of the territory, such as schools and other local authorities.

Keywords

School, prison, student, empowerment, network.

Alcune premesse

Tra gli strumenti formativi in carcere, l’istruzione è uno degli elementi fondamentali in tutto l’arco della reclusione, fino alla conclusione della pena. Nella legge 354/75 (artt. 12, 15, 19, 27)3 sul trattamento penitenziario si considera la scuola come uno degli elementi necessari per un percorso di ri-educazione: una componente strutturale del principio costituzionale, dove si enuncia che la pena deve tendere alla rieducazione assicurando il diritto all’istruzione e alla formazione. Il trattamento, all’interno dell’Ordinamento Penitenziario, ha matrice pedagogica e comprende, oltre alla scuola, anche tutte quelle attività considerate di tipo ricreativo, formativo e lavorativo. La scuola in carcere rimane uno degli ambiti privilegiati, dove il soggetto in situazione detentiva ha la possibilità di superare i meccanismi di indolenza, di passività e di interruzione dello sviluppo di sé facendo così spazio alla formazione attraverso nuove conoscenze individuali e relazionali (Benelli, 2008; 2012).

Le ricerche e le indagini sociologiche contemporanee evidenziano come il carcere sia sempre più contenitore di esclusione e di marginalità sociale: un luogo «di scarto» — per dirla con Bauman (2007) — che richiede profonde revisioni sul piano legislativo e formativo. Il presente contributo, infatti, intende riflettere sulla necessaria revisione della scuola in carcere prendendo in esame in particolare il documento prodotto nel 2016 dagli Stati Generali dell’esecuzione penale: un elaborato importante e ricco di ipotesi di sviluppo per la formazione dei soggetti reclusi con una particolare attenzione all’ambito della scuola in carcere.

La scuola penitenziaria è «incarcerata» ovvero, troppo imbrigliata nelle dinamiche della sicurezza e del trattamento e ancora poco incentrata sulla reale opportunità formativa che essa offre agli studenti reclusi.

Trattamento «è una parola impegnativa» — ci ricordano Anastasia e Gonnella (2005) — che indica, come esplicitato nell’Ordinamento Penitenziario, l’insieme delle attività e delle opportunità offerte ai detenuti. L’équipe di osservazione e trattamento è presieduta dal direttore (Concato, 2002) e composta dall’educatore, dall’assistente sociale e dal personale della polizia penitenziaria;4 quindi la dimensione dell’interprofessionalità è ritenuta fondamentale sia per la cosiddetta osservazione scientifica della personalità, sia per la costruzione del patto trattamentale. Il delicato argomento del dialogo interprofessionale in una organizzazione complessa come il carcere riguarda trasversalmente tutte le figure che vi lavorano, ma a noi interessa focalizzare l’attenzione sulla scuola in relazione al «trattamento», proprio perché essa si muove dentro il carcere, ma ne è anche sottosistema organizzativo, amministrativo e culturale.

La scuola in carcere è un luogo strategico che richiede una significativa rivisitazione alla luce delle nuove ed emergenze sociali. Gli Stati Generali, infatti, auspicano una nuova visione del carcere, come ambiente in cui il tempo sottratto diviene tempo utile, edificato attraversando momenti di connessione tra dentro e fuori, attraverso opportunità concrete di riscatto sociale. La formazione in carcere coinvolge processi centrati sulla persona che implicano percorsi di self-empowerment, di aumento del potere dell’individuo, di apertura a nuove possibilità e a spazi di pensabilità. La scuola è un’opportunità di sviluppo, di emancipazione del soggetto e rappresenta — soprattutto in carcere — il primo momento di orientamento esistenziale, di progettazione di vita in uno spazio dove è possibile acquisire un nuovo modo di stare in relazione. È il luogo della promozione umana ed è qui che si avvia per l’individuo la scoperta della propria identità, per riflettere sulle modalità di interazione con gli altri spesso caratterizzate da pregiudizi, da paure, da vissuti derivati dal proprio percorso di vita. L’esperienza scolastica è un’occasione per conoscere prassi diverse nell’affrontare la realtà; favorire l’educazione alle regole e alla capacità di raggiungere minimi obiettivi che rispettino determinate norme e procedure, stimolare e sperimentare altre strategie di risoluzione dei problemi, sia personali sia relazionali e sociali, per apprendere e confrontarsi da e con altri punti di vista. La scuola oggi nelle carceri è ritenuta non solo privilegio di molti, ma necessaria per tutti: viene dunque frequentata per acculturarsi, per imparare l’italiano, per saper dialogare meglio con i compagni, con i figli e con gli altri anche su argomenti di cultura generale: la scuola, quindi, come preparazione al «fine pena», per conoscere dal carcere e per uscire dai pensieri circolari, con corsi formativi che rilasciano attestati e sono utili per il «fuori», per un migliore inserimento nella vita fuori le mura.

La scuola incarcerata

Nell’arco del 2005-2008 è stata effettuata con l’Università di Firenze, una ricerca all’interno di un progetto europeo Grundvig-115 che ha coinvolto tre istituti penitenziari toscani (Prato, Firenze e Porto Azzurro-Isola d’Elba). Dalla ricerca si evinceva che ancora troppo debole era l’attenzione al settore dell’istruzione in carcere tanto da considerare l’attività in aula come un fatto assolutamente personale, affidato al buon senso e alle competenze del docente il quale, a sua volta, si trovava a sperimentare strategie didattiche prevalentemente in solitudine e a non disporre di materiale di base per insegnare. Nonostante ciò, sono emerse delle best praticies, in particolare nell’area dell’alfabetizzazione grazie alla formazione in servizio promossa negli anni a favore degli insegnanti. Dalla ricerca si è evidenziata anche l’importanza della scuola penitenziaria per i soggetti stranieri come pure per chi non ha avuto accesso alla scuola o dalla scuola è fuggito negli anni giovanili. La scuola in carcere, infatti, è un’occasione significativa soprattutto (ma non solo) per i detenuti stranieri che abitano in numero maggiore le carceri italiane: per i detenuti provenienti da aree geografiche e culturali diverse l’alfabetizzazione è fondamentale perché offre loro uno strumento importante per la vita carceraria come, ad esempio, la scrittura all’avvocato, all’amministrazione penitenziaria, a persone care.

Numerosi sono i progetti presenti nei vari istituti penitenziari che favoriscono percorsi formativi e culturali a partire dall’ambito dell’educazione formale. A tale proposito, un interessante ricerca è stata svolta presso l’istituto penitenziario di Prato «la Dogaia» sulla rivisitazione della biblioteca in sezione: un intervento di ricerca dove un gruppo di studenti reclusi sono stati coinvolti nelle varie fasi della ricerca partecipativa e sollecitati a ripensare al tema della lettura, dell’apprendimento e della formazione ai fini dell’organizzazione di una biblioteca sociale, co-costruita e rinnovata (Benelli e Del Gobbo, 2012; Benelli e Del Gobbo, 2016).

Ci chiediamo quali siano i motivi che inducono i detenuti a frequentare la scuola carceraria e la risposta della partecipazione ai corsi scolastici è attribuita principalmente al fatto di aspettarsi dei benefici dall’amministrazione penitenziaria. Comunque, seppur a volte tale obiettivo possa essere ritenuto uno stimolo di partenza, durante il percorso scolastico lo studente trova altre e più importanti motivazioni: si frequenta la scuola e si studia prevalentemente per imparare, per migliorarsi anche nei confronti della famiglia, dei figli e per utilizzare più adeguatamente il tempo della carcerazione che è spesso tempo vuoto, inutile, tempo troppo poco volto alla formazione di sé.

In carcere ancor più di altri luoghi educativi, la scuola assume un compito di sfida verso l’apertura ad altre conoscenze e a riflettere su di sé attraverso le didattiche proposte che, sempre più, partono dalle esperienze individuali, dai saperi, dalle storie e dalle conoscenze individuali. Se è vero che il carcere è sempre più luogo di esclusione e di marginalità, allora la scuola carceraria diventa l’opportunità più rilevante per lo sviluppo formativo del soggetto che partecipa ai corsi scolastici in carcere.

Il regolamento penitenziario (DPR 230/2000) stabilisce che all’interno degli istituti devono essere previsti corsi di scuola dell’obbligo (art. 41, comma 1) e addestramento professionale, secondo i bisogni della popolazione detenuta. L’art. 19 dell’Ordinamento Penitenziario e gli articoli 41, 42, 43 del regolamento esecutivo prevedono le modalità di svolgimento, rispettivamente dei corsi di scuola dell’obbligo, dei corsi di formazione professionale e dei corsi di istruzione secondaria di secondo grado.

L’incontro a scuola può rappresentare un’offerta di strumenti e di percorsi che rendono possibili nuove articolazioni (più ampie, corrette e approfondite) delle comprensioni. L’apprendimento può muoversi verso progressive acquisizioni di basi più solide e complesse. Per formare ogni studente come soggetto autonomamente responsabile e intrinsecamente motivato occorre considerarlo tale stabilendo con lui un patto vincolante e di responsabilità. L’apprendimento dentro un gruppo-classe nel quale si curano può essere capace di raccogliere, ma anche di verificare e correggere, le conoscenze preesistenti nelle persone diventando così un contesto nel quale ci si incontra, ci si identifica, si vive un’appartenenza. I detenuti si ritrovano in classe con le motivazioni, a volte ambivalenti e in un luogo che ne permette il riconoscimento e nuove letture della realtà. Con l’altro si può fare l’esperienza della coltivazione e della custodia, si possono coltivare idee, progetti prendendosene cura. L’esperienza della scuola in carcere si configura come esperienza di confine (Benelli, 2008), un’esperienza di soglia, di incontro, di scelta, di patto, di confronto e di resistenza. La scuola in carcere a volte avvia movimenti di incontro, di possibilità di un riscatto personale e sociale.

La pena instaura meccanismi regressivi, infantilizzanti e reattivi; il tempo della pena è vissuto come una palude che ristagna, o un labirinto senza uscita e l’obiettivo è di assumere responsabilità, incontrare limiti e fallimenti, riscattarsi, iniziare percorsi nuovi, ristabilire rapporti, cercare sincerità e franchezza senza nascondersi, mettersi alla prova.

Il contesto penale può ospitare, sostenere e promuovere percorsi, esperienze, relazioni, nelle quali le persone assumono la loro capacità di autonomia e di intenzionalità, il compito della cura di sé e del proprio cambiamento. Che è anche mettere a fuoco e far propria una domanda di riabilitazione, di riscatto: e di riparazione, riconciliazione.

L’insegnante in carcere svolge una funzione rieducativa e si trova ogni giorno a relazionare con persone che, nel loro percorso di vita, hanno sperimentato una «rottura» nelle relazioni sociali, nel rapporto con le istituzioni e con se stessi: gli studenti reclusi sono quindi portatori di malesseri, frustrazioni e talvolta problematiche di tipo psicologico. In questa direzione si orienta la sfida dell’insegnante in carcere che, supportato da competenze teoriche e didattiche, si trova a sperimentare quotidianamente nuove strade e nuove piste d’intervento.

La scuola in carcere diventa per l’insegnante un laboratorio, dove si sperimentano i criteri essenziali dell’insegnamento poiché il docente, costretto a lavorare in una situazione limite con all’interno tensioni e conflitti latenti o espliciti, è messo alla prova assieme ai metodi didattici e agli strumenti che introduce in classe.

Le emergenze sociali con le quali oggi ci confrontiamo, richiedono risposte molto più professionalizzanti nei riguardi dei bisogni formativi. Gli scenari della formazione vanno certamente rinnovati e proiettati verso nuove strategie professionalizzanti in modo tale che possano soddisfare spazi educativi e rieducativi tuttora inesplorati. È qui che la pedagogia deve attrezzarsi a rispondere ai sempre più complessi e nuovi bisogni (Striano, 2010). L’agire educativo nella società della conoscenza si inserisce in un ambiente di cambiamento epocale nel quale l’investimento apprenditivo si dovrà mettere in atto non tanto per incentivare i processi produttivi, ma soprattutto per realizzare un forte, solido e solidale, sviluppo culturale e sociale. Si tratta di promuovere una ecologia delle conoscenze e una educazione al pensiero; questo, a sua volta, comporta la moltiplicazione delle figure preparate a facilitare e monitorare continuamente i processi di formazione. Sono figure di operatore dell’area sociale e culturale che accompagnano i percorsi formativi in «luoghi» di confine, in ombra; figure che vanno rese visibili e potenziate in tutta la loro valenza pedagogica strategica (Benelli, 2017). La professionalità deve essere sociale e riflessiva, regolata da prassi nelle quali si determini una circolarità tra agire e conoscere: un sistema euristico che ci consenta di rivedere, risistemare e regolare le azioni, in particolare in quei luoghi dove la marginalità degli individui rischia di diventare sempre più grave. Il compito dell’insegnante professionista in carcere è di lavorare con, non per gli studenti detenuti e ciò significa soprattutto sviluppare l’empowerment: un processo di «umanizzazione» dei carcerati che sono accompagnanti in un percorso teso al saper fare, sapere e saper essere.

Fare scuola in carcere significa costruire apprendimenti, dar luogo a proposte di insegnamento efficaci all’interno di mura edificate per creare disciplina, per rieducare personalità devianti richiede di dar luogo a processi di riconfigurazione e ripensamento dei significati e delle modalità su cui poggiano l’educare e l’istruire. Scegliere di essere docenti in situazione del genere non è semplice, eppure ci sono delle motivazioni dense e profonde che si rinnovano, altrimenti non si resisterebbe molto nel contatto quotidiano con vite e storie sofferenti.

La didattica richiede agli insegnanti non solo solide conoscenze del proprio ambito disciplinare ma richiede in primis sensibilità e capacità nella comprensione degli stati d’animo: un’interpretazione attenta dei silenzi, delle parole, dei movimenti o della necessità manifestata di raccontare un vissuto da parte di uno studente. Ad ogni docente in carcere sono richiesti questi sforzi non tanto per porsi come psicologi o «riparatori», bensì per essere in grado di adeguare velocemente la propria didattica e gli argomenti trattati all’emergenza.

Pietro Buffa (2006) ricorda che: «l’inserimento scolastico rappresenta anche la possibilità di meglio sopravvivere nello spazio coatto del carcere, caratterizzato dall’ozio e dalla chiusura fisica». In carcere le giornate sono ancora più lunghe se non si fa niente, se si rimane in cella o si vaga nei corridoi. Il tempo, nella costrizione del disimpegno, perde ulteriormente di significato. Purtroppo, non sembra essere alla portata di tutti tenersi occupati, partecipare alle attività proposte e così il tempo rischia di essere contrassegnato solo dall’attesa del processo, di un colloquio con un familiare o con l’avvocato, di una lettera, del fine pena.

Il carcere espropria i detenuti del tempo e dello spazio (Benelli, 2012; Benelli e Paleani, 2019) ma può diventare anche luogo in cui, attraverso alcune attività formative, riflessive e trattamentali, il tempo stesso, almeno in piccola parte, si possa riavviare, risignificare. E la scelta di tornare a scuola, se vissuta non solo in ottica strumentale, può condurre alla riapertura di spazi di libertà, di riappropriazione del tempo ove sembra non essere possibile. Un altro elemento importante della formazione in ambito scolastico è inerente all’aspetto della socializzazione e, più nello specifico, di una socializzazione che favorisca la costruzione di dinamiche diverse, la conoscenza tra diversi e la condivisione di alcuni «valori civili».

Riflessioni conclusive

Alla fine del contributo ci chiediamo: come «scarcerare» la scuola? Come attivare quelle strategie per restituire alla scuola tutto il valore formativo che incorpora in particolare, in contesti «di confine»? La scuola può davvero presentarsi come controdispositivo nei confronti dei dispositivi dell’educazione alle mafie o di quelli costruiti, e incrostati nel tempo, dal «disimpegno morale». Tale esperienza può proporsi come rilettura di cose, di realtà, di scelte, di posture impropriamente e a lungo sperimentate e consolidate solo a certe condizioni. In assenza delle quali la proposta scolastica può essere utilizzata come palestra di esercizio e di prova di solidità dei dispositivi acquisiti.

In carcere serve una scuola che fa incontrare persone intere e non funzioni, dove ogni scambio è oltre l’insegnamento-apprendimento, la teorizzazione e l’abilitazione: è sempre anche interpretazione del mondo, responsabilità reciproca, prefigurazione di futuro, espansione della conoscenza e della progettazione. Uno spazio di crescita personale e di vita comune, nella quale non è tanto importante ciò che si impara (che pure è importante) ma chi si diventa. Le conoscenze teoriche e le abilità pratiche sono acquisite dentro relazioni e culture della scuola nelle quali si sperimenta l’importanza morale del lavoro, della cura, del rigore, dell’incontro con l’altro. Si tratta, dunque, di una possibilità indispensabile per la persona in condizione di reclusione, di esercitare quell’attività cognitiva, emozionale e relazionale che il tempo e lo spazio della scuola offre e facilita attraverso pratiche che consentono di apprendere da sé, dagli altri e dalle conoscenze disciplinari, probabilmente con questo stesso ordine.

Inoltre, tra le strategie di «scarcerazione» della scuola, troviamo che il lavoro di rete costituisca una via d’uscita dal fenomeno della «carcerizzazione» della scuola, che necessita sempre più di uscire fuori dalle mura anche attraverso progetti e percorsi che vedano il coinvolgimento del territorio, come le scuole e altri enti locali. Numerosi sono, infatti, i progetti che vedono una collaborazione tra istituto penitenziario e istituti scolastici del territorio; tali percorsi hanno l’obiettivo di far conoscere alla comunità locale chi abita dietro le sbarre del carcere e per i detenuti diventa un momento di scambio e di riflessione attraverso l’incontro con i ragazzi delle scuole e la comunità locale in generale. Progetti questi che andrebbero incentivati dalle amministrazioni locali poiché contribuiscono all’attivazione di una maggiore sensibilizzazione alle diversità per tutti i partecipanti e, allo stesso tempo, favoriscono una maggiore conoscenza e consapevolezza dell’alterità come strumento educativo della pedagogia sociale.

Bibliografia

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1 Università di Messina.

2 Università di Messina.

3 Legge 26 luglio 1975, n. 354, «Norme sull’Ordinamento Penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà», http://presidenza.governo.it/USRI/ufficio_studi/normativa/L.%2026%20luglio%201975,%20n.%20354.pdf (consultato il 3 giugno 2020).

4 Ministero della Giustizia — Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Circolari area educativa e volontariato, http://www.ristretti.it/areestudio/volontariato/norme/educativa.htm (consultato il 15 maggio 2020).

5 Progetto europeo Grundvig-11, The programme of teachers in prision: direttore scientifico della componente italiana, P. Orefice; membro del gruppo di ricerca e coordinatrice della ricerca sul campo: la scrivente. Il progetto si è svolto presso l’Università degli Studi di Firenze nel periodo 2005-2008.

Vol. 19, Issue 2, May 2020

 

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