Vol. 24, n. 2, maggio 2025
INTERSEZIONI
Autonomie e autodeterminazione: Quando la pratica educativa diseduca l’agentività1
Alice Sodi2 e Alessandro Monchietto3
Sommario
L’autodeterminazione è comunemente celebrata come un pilastro dello sviluppo personale e dell’inclusione sociale. Tuttavia, nel contesto della disabilità, il diritto a esercitarla è spesso condizionato all’acquisizione di competenze funzionali, come se la possibilità di autodeterminarsi dipendesse esclusivamente dall’abilità di compiere azioni in autonomia. Questo contributo interroga criticamente tale impostazione, evidenziando come l’autodeterminazione non sia una mera questione di competenze, ma un’esperienza che prende forma all’interno di ambienti in cui le persone possano esercitare scelte autentiche e significative. Alla luce di una lettura transdisciplinare (de Freitas, Morin e Nicolescu, 1994), l’articolo decostruisce il modello individualista che confonde autonomia e indipendenza, proponendo un approccio basato sull’interdipendenza e sul riconoscimento dell’agentività — la percezione soggettiva di poter influenzare attivamente il proprio contesto di vita. Viene inoltre analizzato il legame tra autodeterminazione e qualità della vita, evidenziando come la possibilità di prendere decisioni significative sia una componente essenziale del benessere individuale. Infine, viene presentato uno strumento di autovalutazione, utile a interrogare il modo in cui le pratiche educative possono favorire o, al contrario, ostacolare l’esercizio dell’agentività.
Parole chiave
Autodeterminazione, Agentività, Disabilità, Interdipendenza, Autonomia, Disability Studies.
Intersections
Autonomy and self-determination: When educational practice diseducates agency
Alice Sodi4 and Alessandro Monchietto5
Abstract
Self-determination is widely regarded as a cornerstone of personal development and social inclusion. However, in the context of disability, the right to self-determination is often linked to the acquisition of functional abilities, as if the ability to make autonomous decisions depended solely on the ability to perform tasks independently. This article critically questions this assumption. It argues that self-determination is not just a matter of skill acquisition, but an experience shaped by an environment that enables individuals to make authentic and meaningful decisions. Through an transdisciplinary perspective (de Freitas, Morin & Nicolescu, 1994), the article deconstructs the individualistic model that equates autonomy with independence and instead argues for an approach based on interdependence and the recognition of human agency — the subjective perception of a person’s ability to actively influence their life context. The paper also explores the relationship between self-determination and quality of life, emphasizing that the ability to make meaningful choices is a fundamental dimension of individual well-being. Finally, a self-assessment tool is presented that can be used to critically examine how pedagogical practices can either support or hinder the exercise of human agency.
Keywords
Self-determination, Human agency, Disability, Interdependence, Autonomy, Disability Studies.
Introduzione
L’autodeterminazione è considerata uno dei principi fondanti la soggettività moderna. È un valore dato per universalmente riconosciuto: la possibilità di decidere per se stessi, di orientare il proprio percorso di vita in base a desideri, convinzioni e obiettivi personali, è considerato un diritto inalienabile (Giraldo, 2019). L’accesso all’autodeterminazione non è tuttavia distribuito in modo equo: esistono interi gruppi di persone — tra cui le persone con disabilità — la cui capacità di autodeterminarsi viene sistematicamente messa in discussione (Nirje, 1972; Ward, 2005).
Nelle società contemporanee, l’autodeterminazione tende infatti a essere intesa come una competenza o abilità, alimentando l’idea che solo alcuni possano esercitarla pienamente, mentre altri — nel caso della disabilità, a causa di presunte limitazioni cognitive, fisiche o comunicative — ne sarebbero intrinsecamente privi.6 Di conseguenza, diventa socialmente accettabile, e persino eticamente giustificato, assumere decisioni per conto di questi individui, nella convinzione che essi non siano in grado di comprendere, valutare e agire nel proprio miglior interesse. Questo atteggiamento paternalistico è talmente radicato da risultare inavvertito: raramente ci si interroga sulle condizioni e i presupposti in base ai quali si stabilisce chi può e chi non può autodeterminarsi.
Se l’autodeterminazione viene concepita come un’abilità individuale, la sua presunta mancanza diventa un criterio per giustificare l’esclusione delle persone disabili dai progetti per l’inclusione e dai processi decisionali che riguardano la loro stessa vita (Saraceno, 2017). Ciò avviene in ambito medico, educativo, lavorativo e legale, spesso con le migliori intenzioni, ma senza mettere in discussione il paradigma stesso che giustifica questa esclusione (Tarantino, 2021).
Naturalmente, ciò non comporta l’idea per cui le persone disabili dovrebbero essere abbandonate a se stesse o private di supporti e assistenza. Piuttosto, significa che anche quando l’individuazione e la negoziazione dei loro interessi non possono essere condotte in prima persona, la loro volontà dovrebbe rimanere il punto di riferimento centrale nelle decisioni che le riguardano (Monceri, 2025). Questo è il senso più profondo dello slogan del movimento per i diritti delle persone con disabilità «Nothing about us without us»: nulla su di noi senza di noi.
L’evoluzione del concetto di autodeterminazione
Il concetto di autodeterminazione ha iniziato a ricevere attenzione sistematica a partire dagli anni ’80, grazie ai contributi di Edward Deci e Richard Ryan, che ne hanno fornito una delle prime definizioni strutturate. Secondo la Self-Determination Theory, l’autodeterminazione è la capacità dell’individuo di operare scelte volontarie e di determinare le proprie azioni in base a motivazioni intrinseche, piuttosto che subire esclusivamente influenze esterne (Deci e Ryan, 1985a, 1985b). Questa prima definizione, che propone l’autodeterminazione come dipendente dalla capacità personale, riflette un’idea intuitiva: autodeterminarsi significa scegliere tra diverse opportunità e impiegare tali decisioni per orientare il proprio percorso di vita.
Negli anni successivi questa prospettiva è stata ampliata da numerosi studiosi. Field e Hoffmann hanno definito l’autodeterminazione come «la capacità di circoscrivere e raggiungere obiettivi sulla base della conoscenza e della valorizzazione di se stessi» (1994, p. 164), «promossa o scoraggiata da alcuni fattori che sono sotto il controllo dell’individuo (valori, conoscenze, abilità) e da altre variabili connesse invece al contesto naturale (opportunità di fare scelte, atteggiamenti da parte degli altri)» (Hoffman e Field, 1995, p. 140). Questa distinzione è cruciale perché introduce il concetto di autodeterminazione situata, ovvero l’idea secondo cui la possibilità di autodeterminarsi non dipende solo da caratteristiche personali, ma da un’interazione complessa tra la soggettività dell’individuo e il contesto in cui si trova. Ciò implica che, in molte situazioni, il problema non risieda in una presunta «incapacità» della persona di autodeterminarsi, ma nell’assenza di un ambiente che renda possibile e significativo il processo decisionale.
Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 il concetto di autodeterminazione ha continuato a evolversi, passando da una concezione puramente individualistica a una prospettiva più ecologica e sistemica. Ryan e Deci (2000) hanno precisato che l’autodeterminazione non è solo una capacità, ma una necessità il cui soddisfacimento è cruciale per il benessere dell’individuo. Questa prospettiva è stata in seguito sviluppata da Wehmeyer e Garner (2003), che hanno introdotto il concetto di «agente causale primario». Secondo questi autori, una persona è realmente autodeterminata quando agisce come soggetto attivo e autonomo nelle decisioni che riguardano il proprio percorso di vita, senza subire condizionamenti esterni che ne limitino la libertà di scelta.7
Tale evoluzione concettuale ha profonde implicazioni per l’educazione e la pedagogia, specialmente nel contesto della disabilità (Cottini, 2016). L’idea che l’autodeterminazione non dipenda dalle capacità innate di un individuo, ma sia un processo relazionale e contestuale, permette di riconoscere che tutte le persone, comprese quelle con disabilità, possano autodeterminarsi, a condizione che siano garantiti i supporti adeguati. In altre parole, il problema non è rappresentato dalla «carenza» di competenze negli individui, ma piuttosto dalle barriere strutturali e culturali che impediscono loro di esercitare scelte e comportamenti autodeterminati (Di Gennaro et al., 2017).
Se questa tesi è valida, allora l’idea di autodeterminazione deve essere riconsiderata in modo radicale: invece di chiedersi se le persone siano capaci di autodeterminarsi, dovremmo chiederci quali condizioni siano necessarie perché possano farlo, collocando il concetto di autodeterminazione all’interno della cornice del modello sociale della disabilità, secondo il quale il grado di disabilitazione sperimentato dall’individuo è dato dalla relazione tra le sue caratteristiche (impairment) e le caratteristiche dell’ambiente fisico, relazionale e sistemico (Florian, 2010). L’autodeterminazione, in quest’ottica, non è il risultato esclusivo di capacità individuali, ma di una rete di fattori interdipendenti che ne facilitano o ne ostacolano l’esercizio.
Autodeterminazione e qualità della vita
Come evidenziato da Ryan e Deci (2000), l’autodeterminazione è un elemento chiave per la qualità della vita. Senza autodeterminazione, è difficile concepire una qualità della vita pienamente soddisfacente, poiché il benessere individuale deve necessariamente includere la possibilità di esprimere scelte significative sulla propria esistenza. Il concetto di qualità della vita è stato approfondito da numerosi studi in ambito psico-pedagogico, tra cui quello di Schalock e Verdugo (2002), i quali hanno identificato otto domini fondamentali che concorrono a definire il benessere di un individuo: benessere materiale, benessere fisico, benessere emozionale, autodeterminazione, relazioni interpersonali, inclusione sociale, sviluppo personale e diritti. È significativo che l’autodeterminazione venga inclusa tra questi domini: essa non è un elemento accessorio o opzionale, ma una dimensione costitutiva del vivere una esistenza piena e significativa.
Tuttavia, quando si parla di persone con disabilità, il concetto di qualità della vita subisce spesso un drastico ridimensionamento. Esiste una tendenza diffusa a tarare il concetto verso il basso, normalizzando condizioni che sarebbero considerate inaccettabili per le persone non disabili. Se per una persona senza disabilità una vita di qualità include il diritto di prendere decisioni autonome sul proprio futuro, nel caso di persone con disabilità intellettiva o comunicativa si tende a ritenere sufficiente garantire loro una condizione di sicurezza, che risponda al mandato di custodia e protezione (Marchisio, 2019), spesso senza interrogarsi sul loro effettivo livello di autodeterminazione. Questa discrepanza riflette un bias strutturale nella nostra percezione della disabilità: accettiamo implicitamente che le persone con disabilità abbiano meno possibilità di autodeterminarsi, perché diamo per scontato che le loro opinioni non siano sufficientemente attendibili e, di conseguenza, le loro scelte siano meno valide e autentiche rispetto a quelle di una persona senza disabilità.
Inoltre, tra i diversi domini che definiscono la qualità della vita, alcuni ricevono maggiore attenzione di altri. Ad esempio, si tende a parlare molto del benessere fisico o dell’inclusione sociale (intesa come partecipazione a momenti strutturati di socialità), ma molto meno di autodeterminazione e di salute mentale (Kildahl, Oddli e Helverschou, 2024). Questo avviene perché la salute mentale è spesso trascurata quando si parla di persone con disabilità, in particolare di quelle con disabilità cognitive o comunicative, alle quali siamo soliti attribuire quasi esclusivamente emozioni primarie. Difficilmente sentiamo utilizzare termini come «frustrazione», «nostalgia», «speranza», «orgoglio» per descrivere lo stato emotivo di queste persone.
Non è difficile intercettare il bias che sta alla base di questo atteggiamento: non siamo in grado di riconoscere alle persone con disabilità intellettive e comunicative lo stesso grado di complessità che attribuiamo a tutte le altre (Hens, Robeyns e Schaubroeck, 2018). Eppure, il diritto di decidere per se stessi — anche in misura proporzionata alle proprie capacità e con il supporto adeguato — è un aspetto cruciale per il benessere psicologico di ogni individuo (Wehmeyer e Shogren, 2014). La qualità della vita non può essere ridotta a una questione di sicurezza o di comfort fisico: essa deve includere anche la possibilità di sentirsi agenti nel proprio contesto di vita.
Educare all’agentività
Per comprendere fino in fondo il legame tra autodeterminazione e qualità della vita è necessario introdurre il concetto di agentività:
Essere un agente significa far accadere intenzionalmente le cose attraverso le proprie azioni. L’agentività incorpora le dotazioni, i sistemi di credenze, le capacità di autoregolazione e le strutture e funzioni distribuite attraverso cui l’influenza personale viene esercitata, piuttosto che risiedere come un’entità discreta in un luogo specifico. Le caratteristiche fondamentali dell’agentività permettono alle persone di contribuire attivamente al proprio sviluppo, di adattarsi ai cambiamenti e di rinnovarsi nel corso del tempo8 (Bandura, 2001, p. 2).
L’agentività può quindi essere definita come la capacità di agire attivamente e trasformativamente nel proprio contesto di vita, influenzandolo (Bandura, 2000).
Questa facoltà non si riduce semplicemente alla possibilità di compiere azioni, ma dipende da un elemento psicologico essenziale: la convinzione di poter esercitare un’influenza sugli eventi.9
La centralità della convinzione nell’agentività è un aspetto spesso sottovalutato. Non basta avere la possibilità materiale di scegliere per essere agenti: è necessario percepirsi come tali. L’agentività non è infatti definita solo dal fatto che un individuo abbia un impatto sul proprio contesto di vita, ma anche dalla sua capacità di riconoscere quel potere e di interiorizzarlo come parte della propria identità. In altre parole, siamo agenti nella misura in cui ci sentiamo agenti (Biesta e Tedder, 2007).
A riguardo, Bandura definisce l’autoefficacia come
l’insieme di convinzioni personali riguardanti le proprie capacità di raggiungere determinati livelli di prestazione, esercitando così un’influenza sugli eventi che incidono sulla propria vita. Le credenze di autoefficacia determinano il modo in cui le persone si sentono, pensano, si motivano e si comportano. Tali convinzioni producono questi effetti attraverso quattro processi principali: cognitivi, motivazionali, affettivi e di selezione10 (Bandura, 1994, p. 71).
Senza questa convinzione, anche le azioni che compiamo saranno percepite come vuote di significato.
Questo punto è cruciale, soprattutto quando si parla di disabilità. In molti contesti educativi o assistenziali, l’enfasi è posta nell’insegnare alle persone con disabilità a compiere azioni specifiche in modo autonomo: vestirsi, lavarsi, spostarsi da un luogo all’altro. Tuttavia, il semplice addestramento all’autonomia funzionale non è sufficiente a garantire una reale autodeterminazione: un individuo può padroneggiare molte autonomie personali, percependole come parte di una pletora di esercizi che è ripetutamente chiamato a eseguire e che fanno parte della sua routine, senza sentirsi realmente agente. Se una persona esegue una serie di azioni solo perché le sono state insegnate, può percepire il suo comportamento come meccanico, privo di valore emotivo e di significatività, se non si è costruito alcun senso di agentività in relazione a quegli apprendimenti.
Possiamo dunque chiederci se acquisire autonomie personali sia sufficiente per migliorare la qualità della vita di una persona. A nostro parere, se tali autonomie non vengono accolte da un contesto in cui possano essere esercitate in modo significativo e se non si è supportato lo sviluppo del senso di agentività in chi le esercita, la risposta non può che essere negativa.
Siamo soliti concepire il programma educativo di una persona con disabilità come basato sul «mito dell’autonomia» (Saraceno, 2017, pp. 163-164), dimenticandoci che addestrare determinate azioni, trascurando la mancanza di possibilità di scelta su di esse, non alimenterà alcun empowerment.
Il senso di agentività è ciò che rende significativa l’azione autodeterminata; un’azione, infatti, incide positivamente sulla vita di una persona solo se quest’ultima può attribuire a se stessa il significato e gli esiti, sviluppando la convinzione di essere stata agente del proprio cambiamento (Bandura, 1997). Senza questa componente esperienziale, la scelta diventa un atto svuotato di significato, una semplice risposta a un contesto preordinato. Possiamo esercitare moltissime scelte nel corso della nostra esistenza, ma se queste non sono percepite come rilevanti, non generano il senso di agentività che caratterizza l’autodeterminazione.
Per questa ragione, nei processi educativi è essenziale non limitarsi alle palestre di autonomie, ma educare il senso di agentività e costruire ambienti che lo valorizzino. L’obiettivo non è solo che una persona sia in grado di compiere un’azione indipendente, ma che senta che quell’azione ha un’influenza reale nella sua vita. La sfida, allora, è creare contesti che permettano alle persone di vivere esperienze autentiche di autodeterminazione.
Un’azione può considerarsi autodeterminata solo quando chi la compie la riconosce come significativa e sente che essa ha un effetto concreto sulla propria esistenza. Se invece una scelta viene percepita come imposta o priva di valore, essa non genererà un senso di agentività e non avrà alcuna ricaduta positiva sulla qualità della vita.
Il rischio è che l’enfasi sull’acquisizione di competenze tecniche finisca per inibire l’agentività, rendendo la persona dipendente da percorsi guidati, piuttosto che soggetto attivo del proprio apprendimento e delle proprie scelte (Wehmeyer e Schalock, 2017). La costruzione dell’autodeterminazione non passa dunque solo dall’acquisizione di strumenti, ma dalla possibilità concreta di esercitare il proprio potere decisionale in modo significativo.
Se l’autodeterminazione ha senso solo quando si radica in un contesto che la rende effettiva, allora diventa necessario non limitarsi all’insegnamento delle competenze, ma costruire spazi in cui il diritto di scegliere possa essere esercitato in modo autentico. Investire nella costruzione di contesti di autodeterminazione significa riconoscere che le persone non si autodeterminano nel vuoto, ma attraverso relazioni significative, opportunità reali di scelta e un ambiente che valorizzi le loro decisioni.
Pratiche antioppressive in educazione
Troppo spesso il focus degli interventi si concentra sulla trasmissione di strumenti e abilità senza considerare il ruolo cruciale dell’agentività, trasformando il processo educativo in un addestramento funzionale piuttosto che in un processo di emancipazione e costruzione del Sé (Späth e Jongsma, 2019). Questa prospettiva riflette una concezione abilista e riduzionista dell’autodeterminazione: si assume che una persona sia tanto più autodeterminata quanto più è indipendente dal punto di vista funzionale, trascurando il fatto che l’autodeterminazione è innanzitutto una questione di percezione e riconoscimento del proprio potere di scelta. Come evidenziato nei paragrafi precedenti, senza la convinzione di poter agire nel proprio contesto e di influenzare le decisioni che riguardano la propria vita, ogni competenza acquisita resta un esercizio sterile, privo di significato esistenziale.
L’autodeterminazione non può essere ridotta a un insieme di scelte superficiali e tecnicamente abilitate: a fare la differenza è la percezione di efficacia sulle proprie azioni e la consapevolezza del valore della propria volontà e delle proprie preferenze.
Molti interventi, pur essendo finalizzati allo sviluppo di competenze, rischiano di tradursi in pratiche di addestramento che riducono l’individuo a un esecutore di abilità senza che vi sia un’autentica percezione di agency e di controllo sulla propria vita (Leadbitter et al., 2021; EUCAP, 2022). In questo senso, le pratiche educative devono interrogarsi non solo su cosa viene insegnato, ma anche su come vengono strutturate le esperienze di apprendimento, evitando che esse stesse possano risultare inibenti il senso di agentività.
Questo implica un approccio autoriflessivo e la capacità di osservare criticamente la pratica e la progettazione educativa, interrogandosi sugli obiettivi sottesi agli interventi. Ad esempio, nel corso di attività volte allo sviluppo di una specifica competenza può accadere che l’obiettivo tecnico prenda il sopravvento sull’obiettivo più ampio dell’autodeterminazione e della qualità della vita. In tal caso, la priorità si sposta sul conseguimento della competenza, trascurando eventuali sentimenti di frustrazione, impotenza o dipendenza emersi in risposta alle modalità scelte per raggiungerla. Il risultato è che la persona con disabilità acquisisce una nuova abilità, ma al contempo sperimenta emozioni antitetiche al senso di agentività, che ne viene scoraggiato anziché rafforzato.
In quest’ottica, lo strumento di autovalutazione presentato di seguito (tabella 1) è stato sviluppato per supportare gli educatori, i professionisti e gli operatori sociali nell’avviare una riflessione critica sui propri interventi.11 Le domande proposte hanno l’obiettivo di attivare un processo di metacognizione, atto a verificare se un intervento educativo promuove realmente l’autodeterminazione o se, al contrario, rischia di riprodurre dinamiche di dipendenza e controllo. L’invito è a usare questo strumento in modo dinamico, adattandolo ai contesti specifici e stimolando una discussione critica all’interno delle équipe educative.
Tabella 1
Agentività e Autodeterminazione: autovalutazione degli interventi educativi.12
Domanda di autovalutazione Nel corso della pratica educativa, durante il processo di apprendimento delle autonomie… |
Riflessione critica |
Fornisco strumenti per l’autodeterminazione? |
L’intervento mira a sviluppare capacità che permettono alla persona di scegliere e decidere, o si limita a trasmettere abilità operative senza un reale margine decisionale? |
Inibisco l’agentività della persona pur fornendo strumenti e competenze? |
L’acquisizione di abilità avviene in modo che il processo educativo rimanga eterodiretto e privo di spazi per l’iniziativa personale? |
L’obiettivo ultimo dell’intervento è l’agentività o il conseguimento degli strumenti? |
Nella scelta degli obiettivi educativi, ho in mente l’agentività come stella polare che orienti le scelte di metodo oppure l’unico obiettivo focalizzato è quello dell’acquisizione di un dato numero di competenze tecniche? |
Quanto spazio viene dato alla costruzione del senso di autoefficacia e in che modo lo si favorisce? |
La persona percepisce di poter agire e influenzare gli eventi, o vive l’intervento come una serie di azioni imposte e validate esternamente? In che modo l’aiuto a rendersi conto del potere che esercita attraverso il suo comportamento? |
Quanto costruisco un senso di dipendenza, accettazione passiva, resa? |
L’intervento stimola l’autonomia, l’iniziativa e la presa di decisione, o induce una condizione di dipendenza dalle figure di supporto e dall’approvazione esterna? Per ottenere la compliance induco la persona ad «arrendersi» alla proposta educativa? (Il senso di resa è antitetico al senso di agentività) |
Quanto sono consapevole che l’intervento è un esercizio di potere? |
Posto che lo sbilanciamento di potere può essere considerato un aspetto intrinseco alla pratica educativa, quanto ne sono consapevole? Me ne assumo la responsabilità? Come educatore, rifletto sul mio ruolo di mediatore e facilitatore, o do per scontato il mio potere decisionale senza metterlo in discussione? |
Sono un supporto alla scelta o sono il punto di partenza e di arrivo? |
L’intervento è costruito per favorire il protagonismo della persona, o mantiene l’educatore come principale soggetto decisionale? La persona cerca la validazione della sua scelta in altri? |
Sono consapevole che l’autodeterminazione non può esistere senza un autentico senso di agentività? |
Si lavora per far emergere il senso di controllo sulla propria vita, o ci si limita a fornire strumenti senza garantire l’esperienza effettiva dell’autodeterminazione e senza creare le reali opportunità per esercitarla nei contesti di vita? |
Conclusioni
L’idea di autodeterminazione che domina le società contemporanee si fonda su un paradosso: mentre esalta l’autonomia come principio cardine della realizzazione individuale, continua a riservarne l’esercizio solo a coloro che rientrano in una ristretta norma di funzionamento (Garland-Thomson, 2011).
La disabilità, con la sua capacità di svelare i limiti dell’individualismo e della chimera dell’autosufficienza, rappresenta una sfida a questa impostazione (Taylor, 2021). La condizione delle persone con disabilità rivela una verità che riguarda tutti: nessuno è davvero indipendente, ma siamo tutti interdipendenti (Reindal, 1999). Anche la persona considerata più «abile» si autodetermina all’interno di una complessa rete di supporti che spesso non vengono identificati come sostegni alla persona. Tuttavia, mentre questi sostegni vengono dati per scontati e implicitamente riconosciuti come parte del vivere quotidiano, quelli necessari all’autodeterminazione di chi si discosta dalla norma vengono evidenziati e trattati come eccezioni, quasi fossero un onere anziché un’espressione della condizione universale di interdipendenza che accomuna tutti gli esseri umani (Monchietto e Sodi, 2025).
Riconoscere l’interdipendenza come principio fondante dell’agire umano non significa negare l’importanza dell’autonomia, ma sottrarla all’ideale astratto di autarchia, per radicarla in un tessuto di relazioni, supporti e riconoscimenti reciproci (Tronto, 1994). Non significa rinunciare all’autodeterminazione, ma ridefinirla all’interno di un quadro più ampio, che riconosca il valore dei legami sociali, delle relazioni di supporto e delle condizioni materiali che rendono possibile l’agire umano (Kittay, 2011).
Ripensare l’autodeterminazione alla luce dell’agentività e dell’interdipendenza non è inoltre solo un’esigenza pedagogica, ma un’urgenza etica e politica. Il paradigma dell’individuo autonomo e autosufficiente si rivela inadeguato a rappresentare la realtà delle persone con disabilità ed è profondamente fuorviante nel descrivere la condizione umana nella sua interezza (Mackenzie e Stoljar, 2000). Se esiste un errore di fondo in tale postura intellettuale, è quello di aver scambiato la capacità di scegliere con l’assenza di vincoli e l’autonomia con la solitudine. Al contrario, l’autodeterminazione non si manifesta nella negazione della dipendenza dagli altri, ma nella possibilità di navigare questa interdipendenza in modo significativo, costruendo relazioni che permettano a ciascuno di esprimere se stesso (Shakespeare, 2000).
Una società che misura il valore dell’individuo esclusivamente sulla base delle sue capacità di essere indipendente finirà per escludere chiunque non si conformi a un modello di efficienza predeterminato (Monchietto e Striano, 2025). Il rischio non è solo l’oppressione dei più vulnerabili, ma la perdita collettiva di una visione più ampia e inclusiva della convivenza umana (Held, 2007). Più che di autonomia, dovremmo iniziare a parlare di autodeterminazione situata, ovvero un’autonomia intesa come capacità di autodeterminarsi, che germoglia all’interno di una rete di relazioni sociali significative. In questa prospettiva, avere legami di cura, dipendere dagli altri e valorizzare le responsabilità reciproche non è contrario all’autonomia, ma anzi ne è una condizione di possibilità (Kittay, 1999).
Ripensare l’autodeterminazione alla luce dell’agentività e dell’interdipendenza, pertanto, non è solo una necessità per le persone con disabilità, ma un’occasione per rivedere criticamente le fondamenta dell’educazione e della convivenza sociale. In un mondo che valorizza l’autonomia come principio astratto, diventa fondamentale costruire collettivamente le condizioni affinché essa possa essere vissuta in modo concreto e condiviso, sia nel percorso educativo che nel contesto sociale più ampio.
Bibliografia
Bandura A. (1994), Self-efficacy. In V.S. Ramachaudran (a cura di), Encyclopedia of human behavior (Vol. 4), New York, Academic Press, pp. 71-81.
Bandura A. (1997), Self-Efficacy: The Exercise of Control, New York, W.H. Freeman and Co.
Bandura A. (2000), Exercise of human agency through collective efficacy, «Current Directions in Psychological Science», vol. 9, n. 3, pp. 75-78, https://doi.org/10.1111/1467-8721.00064
Bandura A. (2001), Social cognitive theory: An agentic perspective, «Annual Review of Psychology», vol. 52, n. 1, pp. 1-26, https://doi.org/10.1146/annurev.psych.52.1.1
Biesta G. e Tedder M. (2007), Agency and learning in the lifecourse: Towards an ecological perspective, «Studies in the Education of Adults», vol. 39, n. 2, pp. 132-149, https://doi.org/10.1080/02660830.2007.11661545
Carvalho M. (2021), The Use of Grounded Theory in Studies on Inclusive Education, «New Trends in Qualitative Research», vol. 7, pp. 396-402, https://doi.org/10.36367/ntqr.7.2021.396-402
Chong C. e Yeo K.J. (2015), An Overview of Grounded Theory Design in Educational Research, «Asian Social Science», vol. 11, pp. 258-268.
Cottini L. (2016), L’autodeterminazione nelle persone con disabilità. Percorsi educativi per svilupparla, Trento, Erickson.
Deci E.L. e Ryan R.M. (1985a), Intrinsic motivation and self-determination in human behavior, Berlin, Springer Science & Business Media, https://doi.org/10.1007/978-1-4899-2271-7
Deci E.L. e Ryan R.M. (1985b), The general causality orientations scale: Self-determination in personality, «Journal of Research in Personality», vol. 19, n. 2, pp. 109-134.
de Freitas L., Morin E. e Nicolescu B. (1994), La Carta della Transdisciplinarità, Convento di Arràbida, 6 novembre 1994. Trad. it. a cura dell’I.P.E. — Istituto per le ricerche e attività educative, Napoli.
Di Gennaro D.C., Aiello P., Zollo I. e Sibilio M. (2017), Il concetto di autodeterminazione in una prospettiva semplessa: Possibili implicazioni per l’agire didattico dei docenti, «Educational Reflective Practices», vol. 1, n. 1, pp. 96-109, https://doi.org/10.3280/ERP2017-001007
EUCAP (2022), EUCAP Survey 2022 — ABA, https://eucap.eu/projects/aba/ (consultato il 03 marzo 2025).
Field S. e Hoffman A. (1994), Development of A Model for Self-Determination, «Career Development for Exceptional Individuals», vol. 17, n. 2, pp. 159-169, https://doi.org/10.1177/088572889401700205
Florian L. (2010), The concept of inclusive pedagogy: Transforming the role of the SENCO. In G. Hallett (a cura di), Transforming the Role of the SENCO, Buckingham, Open University Press, pp. 61-71.
Hens K, Robeyns I. e Schaubroeck K. (2018) The ethics of autism, «Philosophy Compass», vol. 14, n. 1, e12559, https://doi.org/10.1111/phc3.12559
Garland-Thomson R. (2011), Misfits: A feminist materialist disability concept, «Hypatia», vol. 26, pp. 591-609, https://doi.org/10.1111/j.1527-2001.2011.01206.x
Giraldo M. (2019), Per una definizione del costrutto di autodeterminazione nella pedagogia speciale. Linee concettuali e intersezioni filosofiche, «Italian Journal of Special Education for Inclusion», vol. 7, n. 1, pp. 29-42.
Held V. (2007), The ethics of care: Personal, political, and global, New York, Oxford University Press.
Hoffman A. e Field S. (1995), Promoting self-determination through effective curriculum development, «Intervention in School and Clinic», vol. 30, n. 3, pp. 134-141, https://doi.org/10.1177/105345129503000302
Kildahl A.N., Oddli H.W. e Helverschou S.B. (2024), Bias in assessment of co-occurring mental disorder in individuals with intellectual disabilities: Theoretical perspectives and implications for clinical practice, «Journal of intellectual disabilities», vol. 28, n. 2, pp. 393-414, https://doi.org/10.1177/17446295231154119
Kittay E.F. (1999), Love’s labor: Essays on women, equality and dependence, Londra, Routledge.
Kittay E.F. (2011), The ethics of care, dependence, and disability, «Ratio Juris», vol. 24, pp. 49-58, https://doi.org/10.1111/j.1467-9337.2010.00473.x
Leadbitter K., Buckle K.L., Ellis C. e Dekker M. (2021), Autistic Self-Advocacy and the Neurodiversity Movement: Implications for Autism Early Intervention Research and Practice, «Frontiers in Psychology», vol. 12, https://doi.org/10.3389/fpsyg.2021.635690
Mackenzie C. e Stoljar N. (a cura di) (2000), Relational autonomy: Feminist perspectives on autonomy, agency, and the social self, New York, Oxford University Press.
Marchisio C. (2019), Percorsi di vita e disabilità: Strumenti di coprogettazione, Roma, Carocci.
Monceri F. (2025), Disabilità o disabilitazione?, Brescia, Morcelliana.
Monchietto A. e Sodi A. (2025), Capitolo 13 — Dis-abilità. In M. Nocenzi (a cura di), Sostenibilità e sviluppo sostenibile. Una lettura transdisciplinare, Torino, Utet Università, pp. 215-226.
Monchietto A. e Striano F. (2025), Etica e disabilità. In E. Valtellina (a cura di), Sulla disabilitazione. Introduzione ai Disability Studies, Torino, Utet Università, pp. 243-255.
Nirje B. (1972), The right to self-determination. In W. Wolfensberger (a cura di), The principle of normalization in human services, Toronto, National Institute of Mental Retardation, pp. 176-193.
Reindal S.M. (1999), Independence, Dependence, Interdependence: Some reflections on the subject and personal autonomy, «Disability & Society», vol. 14, n. 3, pp. 353-367, https://doi.org/10.1080/09687599926190
Ryan R.M. e Deci E.L. (2000), Self-determination theory and the facilitation of intrinsic motivation, social development, and well-being, «American Psychologist», vol. 55, n.1, pp. 68-78, https://doi.org/10.1037/0003-066X.55.1.68
Saraceno B. (2017), Sulla povertà della psichiatria, Roma, DeriveApprodi.
Schalock R.L. e Verdugo M.A. (2002), Handbook on quality of life for human service practitioners, Washington, DC, American Association on Mental Retardation.
Shakespeare T. (2000), Help, Birmingham, Venture Press.
Späth E. e Jongsma K. (2019), Autism, autonomy, and authenticity, «Medicine Health Care and Philosophy», vol. 23, n. 1, pp. 73-80.
Taylor S. (2021), Bestie da Soma. Disabilità e liberazione animale, Milano, Edizioni degli animali.
Tarantino C. (2021), Il sintagma incompiuto. Dialettica tra vita indipendente e segregazione di fatto delle persone con disabilità in Italia. In M. Terraneo e M. Tognetti Bordogna (a cura di), Disabilità e società. Inclusione, autonomia, aspirazioni, Milano, FrancoAngeli, pp. 15-35.
Tronto J. (1994), Moral boundaries: A political argument for an ethic of care, New York, Routledge.
Ward M.J. (2005), An historical perspective of self-determination in special education: Accomplishments and challenges, «Research and Practice for Persons with Severe Disabilities», vol. 30, n. 3, pp. 108-112, https://doi.org/10.2511/rpsd.30.3.108
Wehmeyer M.L. e Garner N.W. (2003), The impact of personal characteristics of people with intellectual and developmental disability on self-determination and autonomous functioning, «Journal of Applied Research in Intellectual Disabilities», vol. 16, n. 4, pp. 255-265, https://doi.org/10.1046/j.1468-3148.2003.00161.x
Wehmeyer M.L. e Shogren K.A. (2014), Disability and positive psychology. In J. Teramoto Pedrotti e L. Edwards (a cura di), Perspectives on the intersection of multiculturalism and positive psychology (Vol. 7), Dordrecht, NL-ZH, Springer, https://doi.org/10.1007/978-94-017-8654-6_12
Wehmeyer M.L. e Schalock R.L. (2017), Self-determination and quality of life: Implications for special education services and supports, «Focus on Exceptional Children», vol. 33, n. 8, https://doi.org/10.17161/foec.v33i8.6782
-
1 Nel testo sono state alternate le declinazioni «persona disabile» e «persona con disabilità», recependo il valore di entrambi i modelli di rappresentazione e auto-rappresentazione: identity first e person first. Per facilitare la lettura del documento, si è inoltre scelto di utilizzare il maschile sovraesteso per esprimere le forme plurali, senza intendere con ciò alcuna connotazione o discriminazione di genere.
-
2 Vicepresidente di Neuropeculiar APS.
-
3 Dottorando, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università di Torino.
-
4 Vice President of Neuropeculiar APS.
-
5 PhD Student, Department of Philosophy and Educational Sciences, University of Turin.
-
6 Questa declinazione del concetto di autodeterminazione si colloca nella cornice del modello medico della disabilità, secondo il quale l’impairment, collocato nell’individuo, determina la diminuzione delle capacità dello stesso e, di conseguenza, la sua possibilità di autodeterminarsi.
-
7 La loro definizione lascia emergere una questione fondamentale: esiste qualcuno che può davvero autodeterminarsi in modo totalmente libero da influenze e condizionamenti esterni?
-
8 «To be an agent is to intentionally make things happen by one’s actions. Agency embodies the endowments, belief systems, self-regulatory capabilities and distributed structures and functions through which personal influence exercised, rather than residing as a discrete entity in a particular place. The core features of agency enable people to play a part in their self-development, adaptation, and self-renewal with changing times».
-
9 «Le ricerche sullo sviluppo cerebrale evidenziano il ruolo determinante che l’azione agentiva svolge nel modellare la struttura neuronale e funzionale del cervello» (Bandura, 2001, p. 4).
-
10 «People’s beliefs about their capabilities to produce designated levels of performance that exercise influence over events that affect their lives. Self-efficacy beliefs determine how people feel, think, motivate themselves and behave. Such beliefs produce these diverse effects through four major processes. They include cognitive, motivational, affective and selection processes».
-
11 Questo strumento rappresenta una prima elaborazione empirica, costruita a partire da un approccio esplorativo che si colloca nell’orizzonte della grounded theory (Carvalho, 2021; Chong e Yeo, 2015), in cui le categorie emergono dal confronto diretto con la pratica e dall’analisi delle dinamiche osservate nei contesti educativi. La tabella costituisce dunque un punto di partenza, destinato a essere progressivamente affinato attraverso un percorso di validazione e consolidamento metodologico. A tal fine, è in corso la costituzione di un gruppo di ricerca volto a sviluppare indicatori più strutturati e metodologicamente orientati, che possano supportare i processi di autovalutazione e monitoraggio della progettazione educativa. Questo progetto è in divenire e si auspica di poter condividere con la comunità scientifica sviluppi e approfondimenti in future pubblicazioni.
-
12 La tabella è stata elaborata da Alice Sodi sulla base di una revisione della letteratura scientifica dedicata al tema dell’autodeterminazione. Negli ultimi tre anni, lo strumento è stato testato in diverse formazioni rivolte a professionisti dell’educazione e del sociale, dimostrandosi un valido supporto per la riflessione critica sugli interventi rivolti a persone con disabilità.
Vol. 24, Issue 2, May 2025