EDITORIALE

I problemi filosofici sorgono infatti quando il linguaggio fa vacanza.

Le confusioni di cui ci occupiamo sorgono, per così dire, quando il linguaggio gira a vuoto, non quando è all’opera.

Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen

A volte il linguaggio va in vacanza, la Pedagogia Speciale no!

Il linguaggio può andare in vacanza? Difficile da immaginarsi, specie se per «linguaggio» si intende quel complesso di pratiche comunicative e interazioni intessute di significati, valori e orizzonti di senso, storicamente connessi al processo di graduale crescita culturale che ogni comunità costruisce, nell’ambito di un costante lavoro, teso a definire se stessa e i frangenti problematici e complessi con i quali si interfaccia.

Pensare a un linguaggio che va in vacanza e gira a vuoto permette di intravvedere un improbabile teatro dell’assurdo, dove la realtà perde di significato e intellegibilità. Un’immagine surrealistica, che richiama una altrettanto onirica scena del film Wittgenstein, di Derek Jarman (UK, 1993), dove il giovane autore delle Philosophische Untersuchungen si trova sconvolto per l’assenza di struttura logica del gesto rivoltogli per strada da un ciclista (il gesto della «V» con le dita, eseguito esponendo il dorso della mano all’interlocutore).

Di fronte a un segno per lui privo di significato, il filosofo austriaco perde il contatto con la realtà, come se le certezze sulle quali aveva fondato fino a quel momento la propria interpretazione del mondo fossero a un tratto scomparse. Come se, appunto, il linguaggio fosse andato in vacanza, lasciando sguarnite di senso tutte le interazioni con le quali si costruisce una rappresentazione condivisa del mondo.

Gli atti linguistici attraverso i quali si comunica presuppongono, infatti, il concreto riferimento a oggetti e norme che, almeno nel momento in cui non sono argomento di discussione, si coagulano in prassi, regole e abitudini linguistiche condivise. È in questo modo che si comprende il linguaggio, attraverso «una concordanza nelle definizioni, ma anche (per quanto strano ciò possa sembrare) una concordanza nei giudizi» (Wittgenstein, 1953, §242). Ciò non implica necessariamente che i significati non possano mutare e che i termini con i quali si narra e si costruisce la realtà non siano sottoposti a una costante trasformazione e discussione. Esistono, infatti, «innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”», come una molteplicità mutevole che «non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte» (Wittgenstein, 1953, §23).

Il presupposto, quindi, è una dinamica viva, entro la quale le parole possono cambiare tante volte. Il linguaggio può svelare molto, ma può anche ingannare, se non si ha padronanza del contesto culturale in cui è radicato. Come suggerito anche dall’importante eredità di Andrea Canevaro (2000), il linguaggio è concepibile come il frutto di un’interazione complessa tra le azioni, con le quali si costruiscono i significati, e i contesti entro i quali i fenomeni si realizzano; una relazione capace di rendersi allo stesso tempo adattiva ed evolutiva. Ed è, probabilmente, proprio tale aspetto di vitalità e complessità a farne, talvolta, il veicolo di possibili inganni e fraintendimenti, specialmente se, attraverso l’uso delle parole, ci si spinge in ambiti di cui non si ha una chiara padronanza.

La problematica in questione, si badi, non riguarda tanto l’effettiva competenza del designare, con cui si denominano e si identificano gli oggetti, quanto piuttosto una più affinata capacità — come quella che l’intellettuale è in grado di esercitare — di cogliere i nessi e le relazioni che, attraverso la comunicazione linguistica, si realizzano nell’esperienza dei parlanti, i quali connettono significati e realtà, secondo l’impiego delle differenti proposizioni. È appunto in tal senso che «il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita» (Wittgenstein, 1953, §23); ossia discende da una comprensione dell’orizzonte culturale entro il quale ci si esprime e si compone di espressioni veicolate attraverso una strutturale condivisione delle logiche comunicative — anche nei casi di dissenso —, un’evidente dimensione di pubblicità e un sostanziale reciproco riconoscimento tra i parlanti.

Un così composito intreccio di aspetti non ammette che le espressioni brutali e distorsive veicolate dalla stampa più accreditata, alle quali in quest’ultimo periodo si è sempre più spesso esposti, si possano derubricare a slogan e capriccio, come semplice astrazione formale decontestualizzata o vuoto esercizio fonatorio all’interno di un monologo solipsistico. Ciò a cui accade di assistere sui media e sui social non può nemmeno essere considerato come un momentaneo o malaugurato décalage, rispetto ai canoni di una non ben identificata questione di political correctness. Non si tratta neppure del frutto di un involontario fraintendimento, dovuto all’uso improprio di un termine rispetto a un altro più preciso, nell’ambito di una rappresentazione dei fatti comunque chiara. Il fenomeno che si sta mostrando è concepibile, invece, come un’evidente e macroscopica mis-comprensione delle realtà, delle pratiche, dei valori e dei principi di cui si parla.

Preoccupa e tocca, senza dubbio, «l’esercizio di stile» con il quale, spesso, si fa ricorso a metafore, espressioni e luoghi comuni ormai privi di significato che sviliscono, deprezzano e offendono le esperienze dei singoli e delle comunità; come nel caso delle persone con bisogni educativi speciali, delle loro famiglie, delle associazioni e delle istituzioni, fra cui la scuola che, nonostante le quotidiane barriere e criticità, continuano a lavorare per il sostegno ai processi di crescita dei soggetti più fragili. Sono altresì avvilenti le narrazioni impulsive, che rischiano di accendere «fuochi fugaci» su meccanismi evocanti un nostalgico ritorno a formule istituzionali anacronistiche e incongruenti con le attuali consapevolezze.

È fonte di sconcerto, però, la palese ignoranza — che per il tramite di tali espressioni è veicolata — rispetto ai fattori che caratterizzano la storia dei processi culturali, scientifici, istituzionali ed etico-civili sviluppatisi negli ultimi cinquant’anni. Buona parte della pubblicistica sulle disabilities, che nell’ultimo periodo è salita agli onori della cronaca, è intessuta di termini, locuzioni e proposizioni che veicolano dati erronei e conducono a rappresentazioni distorte e distorsive, anzitutto nei confronti delle condizioni di vita delle persone con bisogni educativi speciali lungo l’arco esistenziale, poi verso le professionalità educative coinvolte nelle dinamiche della relazione di cura.

Da una parte, si tratta di una mancata comprensione del valore e del ruolo dei percorsi storico-culturali, ai quali hanno contribuito le numerose associazioni di familiari e le istituzioni che, nel tempo, si sono costituite a supporto del graduale percorso di emancipazione delle persone con disabilità, sollecitando, di rimando, un complessivo sviluppo etico-civile dell’intera società. Dall’altra, in particolare sul versante dell’educazione e dell’istruzione, altrettanto distopica è la rappresentazione della realtà scolastica che, forse come fulcro del più ampio processo di inclusione, attira atteggiamenti critici, senza che venga esibita un’adeguata preparazione sulle competenze concettuali, sugli strumenti metodologico-pratici e sulle evidenze empiriche, necessari a comprenderne la complessità.

Il discorso pedagogico-speciale, che la nostra rivista ospita da oltre un ventennio, ha contribuito a promuovere lo sviluppo di una sempre più ampia pubblicizzazione e valorizzazione delle esperienze e delle pratiche che caratterizzano i processi dell’integrazione e dell’inclusione, senza mai rinunciare a uno sguardo critico nei confronti dei fenomeni e dei significati, nel contempo accorto e capace di individuare la natura dei problemi per poterli affrontare, sostenendo logiche di cambiamento e di innovazione. Tale azione si è costantemente accompagnata allo sforzo di implementare un atteggiamento di cura nei confronti del linguaggio e della comunicazione, perché i termini e le rappresentazioni fossero, e siano, le più perspicue e congrue, capaci di costituire un mezzo per l’osservazione e uno strumento di processo evolutivo.

La visione pedagogico-speciale non ha mai preteso di costruire simili orizzonti in completa solitudine e riconosce pienamente il ruolo che anche i mass media offrono, se adeguatamente orientati ed equipaggiati di strumenti comunicativi. Ciò che sta richiamando l’attenzione di colleghi e colleghe, anche in seno alla Società Italiana di Pedagogia Speciale (SIPeS), è la necessità di un’azione sinergica, a favore di una globale formazione dei professionisti dell’informazione e delle personalità che svolgono un ruolo strategico nel dibattito pubblico massmediale. Vi è infatti piena consapevolezza che un linguaggio appropriato e responsabile da una parte evita il rischio di consolidare inutili stereotipi, i quali contribuiscono a esacerbare facili risentimenti nei confronti delle condizioni di fragilità; dall’altra, contribuisce a favorire il cammino verso la conquista di pieni diritti e di pari opportunità e a promuovere società più solidali.

Prendiamo ora in considerazione i contenuti di questo primo numero dell’annata 2024, che ospita una varietà di articoli, fra i quali tre nella sezione «Ricerche, Proposte e Metodi». Menzioniamo per primo il saggio Inclusione scolastica e sociale: un valore irrinunciabile? Quanto è fattibile, efficace e condivisa nei suoi valori?, un’indagine condotta da Dario Ianes, Benedetta Zagni, Francesco Zambotti, Sofia Cramerotti e Sara Franch, su un tema affine al contenuto dell’Editoriale. Attraverso una ricerca ad ampio spettro, gli autori evidenziano positività e criticità del modello dell’inclusione scolastica nel nostro Paese. Un paradigma che, nella sua radicale applicazione, rappresenta un unicum nel panorama internazionale. Dall’indagine emerge che il modello è ancora ben vivo e radicato nel DNA della scuola italiana ma, quando si tratta di scendere su un piano operativo, emergono le difficoltà relative alla sua fattibilità.

A seguire, Mirca Montanari, nell’articolo Il progetto PEBA per una città accessibile a tutti. La voce degli studenti — esito di una ricerca condotta nella città di Fano, in collaborazione con gli studenti della scuola secondaria di secondo grado —, pone in evidenza l’importanza dell’accessibilità e della fruibilità degli spazi urbani, quali aspetti favorevoli alla qualità della vita dei cittadini.

Silvia Zanazzi ci conduce invece nel Lazio, con la presentazione dei risultati della prima fase dell’indagine Genitori e inclusione: una ricerca sull’assistenza specialistica nel Lazio vista dalla prospettiva delle famiglie dei destinatari. Il progetto, promosso dalla Regione e condotto in collaborazione con l’Università di Ferrara (2022-2023), si pone l’obiettivo di conoscere le aspettative delle famiglie degli studenti destinatari di assistenza specialistica nelle scuole secondarie di secondo grado, le loro percezioni sulla qualità ed efficacia del servizio e le loro proposte per il miglioramento.

In tema di inclusione in ambito internazionale, il contributo del gruppo di ricercatori composto da Simone Seitz, Michaela Kaiser, Petra Auer e Rosa Bellacicco, dal titolo Giftedness, achievement, and inclusion: A discourse analysis, si focalizza sugli allievi plusdotati, cercando di evidenziare come la scuola debba e possa sollecitare sia il loro alto potenziale di rendimento, sia la loro accoglienza in classe.

Nella sezione «Precursori», invece, il contributo L’istituente ordinario come prassi trasformativa. Georges Lapassade, un precursore per comprendere meglio la nostra attualità, di Carla Gueli, presenta la personalità complessa dello studioso, il quale, attraverso le sue opere e pratiche, ha introdotto costrutti attualissimi, fra cui: analisi istituzionale, educazione permanente, incompiutezza, autogestione pedagogica. I ricercatori Michelina Valenza e Fabio Filosofi, nell’articolo Il Metodo Globale di Autodifesa (MGA) adattato alla fascia d’età 11-14 anni. Un percorso di promozione dell’autostima e della motivazione (sezione «Progetti e Buone Prassi»), illustrano pratiche laboratoriali orientate all’autodifesa, che consentono a tutti gli alunni, nessuno escluso, di esperire vissuti di autoefficacia, al fine di contrastare il rischio di abbandono scolastico, oltre che di anticipare competenze e azioni spendibili nel futuro contesto sociale.

A conclusione del numero si collocano sia gli «Aggiornamenti normativi», in cui Salvatore Nocera si sofferma sul Rapporto sulla scuola cattolica in Italia, relativo al tema Includere la disabilità, sia due interessanti recensioni curate da Leonardo Tantari e Virginia Benedetti.

Buona lettura a tutti!

Marisa Pavone

Antioco Luigi Zurru

Riferimenti bibliografici

Canevaro A. (2000), Handicap, le storie e la storia. In A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati, Roma, Carocci, pp. 11-25.

Wittgenstein L. (1953), Philosophische Untersuchungen, Oxford, Basil Blackwell.

 

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