Vol. 21, n. 2, maggio 2022

PROSPETTIVE E MODELLI INTERNAZIONALI

Sui nomi e i luoghi1

Parola desiderante e cultura nella classe. Con tre finestre di Andrea Canevaro2

Pierre Johan Laffitte3

Sommario

L’articolo presenta una riflessione sulla prassi della classe cooperativa, vista attraverso le lenti della pedagogia istituzionale. Partendo dalla descrizione di uno spaccato di vita di una classe, l’autore indaga la portata di concetti quali etica, senso, cultura. In conclusione, si approfondirà il rapporto tra la singolarità di una parola e il tessuto culturale della classe in cui si trova, si articola e si condivide.

Parole chiave

Pedagogia istituzionale, Incontro, Diversità, Cultura.

INTERNATIONAL MODELS AND PERSPECTIVES

About names and places4

Desiring word and culture in classroom. With three inserts by Andrea Canevaro5

Pierre Johan Laffitte6

Abstract

The essay studies the cooperative classroom praxis, under the institutional pedagogy point of view. The author, taking the cue from a real event happened in a classroom, investigates the validity of concepts such as ethics, meaning, culture.In the end, the author scrutinizes the relationship between the singularity of a word and the cultural context of a classroom, where the word is used, articulated and shared.

Keywords

Institutional Pedagogy, Meeting, Difference, Culture.

Vent’anni fa ho iniziato un’indagine semiotica, interrogandomi sulle condizioni per il mantenimento congiunto di etica, pertinenza e senso in quelle situazioni precarie che chiamiamo prassi, pratiche che non autorizzano che se stesse, dove i praticanti sono padroni del potere così come del sapere, del valore e dei mezzi della sua produzione e del suo scambio. Ho orientato il mio lavoro di dottorato verso il campo pedagogico (Laffitte, 2003), essendo stato allievo di classi cooperative della pedagogia istituzionale, e avendo continuato a incontrare regolarmente i gruppi di pedagogia istituzionale (i chamPIgnons).7 Ho realizzato uno studio di antropologia culturale, osservazione partecipante in alcune classi di cui conoscevo gli insegnanti.8 Tra questi, René Laffitte, insegnante specializzato e uno dei principali autori di questo movimento,9 mi ha accolto nella primavera del 1994 nella sua classe avanzata10 a Béziers, in una scuola di un quartiere difficile con una popolazione svantaggiata (principalmente magrebina e zingara).

La classe cooperativa è una prassi in cui gli operatori sono tanto i bambini quanto gli adulti. Uso il termine prassi nel suo senso marxiano, materialista, ma integrando, seguendo Francis Imbert (1985) e altri, la dimensione freudiana nella definizione del suo soggetto (desiderante) e della sua materia (fantasmatica). Il suo campo è materialmente stabilito (tecniche di Freinet), strutturato simbolicamente (Istituzionalizzazione),11 e dinamizzato fantasticamente (tenendo conto dei fenomeni di transfert). Il valore e il significato che nascono in un tale ambiente sono intessuti da queste dimensioni fantasmatiche, simboliche, immaginarie e materiali. Per distinguere questa complessa determinazione di valore e significato dal singolo valore «positivo», macrosociale (Bourdieu) o strettamente economico (marxismo), Imbert (seguendo, per esempio, Castoriadis, 1973) ha fatto rivivere il concetto di praxis con la sua originaria controparte aristotelica: poiesis, pur rimanendo ancorato al campo marxiano.

La singolarità logica della prassi, che costituisce il suo regime operativo (Laffitte, 2014), non può essere affrontata secondo una compartimentazione disciplinare, poiché risiede nella sua articolazione di fenomeni provenienti dai domini antropologici (psicologico, sociale e materiale). Essere fedeli alla singolarità del regime di funzionamento della prassi12 è possibile solo a questo prezzo. Il tessuto istituzionale e desiderante della classe si dispiega sia a livello di «macchina-classe» (Laffitte e Le Groupe AVPI, 1999) (il materialismo scolastico delle tecniche di Freinet, l’organizzazione istituzionale della vita cooperativa) sia a livello antropologico (apertura ai fenomeni inconsci, singolari o di gruppo, e ai fenomeni che appartengono al campo simbolico e immaginario della cultura). La pedagogia istituzionale si dispiega a una tale profondità antropologica, dove, per usare le categorie psicoanalitiche lacaniane, il campo del desiderio è collegato al campo del simbolico e della domanda. Attraverso la vita della classe, le dinamiche inconsce del desiderio (il suo dispiegarsi così come le sue impasse) sono dialettizzate attraverso una vasta fenomenologia culturale. Così, nello spaccato di vita che riporterò,13 questa compenetrazione delle due logiche permette a una dinamica desiderante scomposta di reinserirsi in un quotidiano, dove le tecniche e le istituzioni autorizzano gli scambi intorno a una parola veridica,14 quella di Fatiha. In questo caso, questo discorso si dispiega attraverso un testo libero e una discussione che segue la sua presentazione15 durante un momento importante della vita del gruppo, la Scelta dei testi per il giornale della scuola. Evoco le diverse forme che il lavoro del senso ha preso per me, in questo istante, in cui ho scoperto sia il testo che gli scambi: ciò che di questo senso può essere letto nella scrittura, e sentito nei commenti. Cercherò poi di tracciare alcune linee di pensiero sul rapporto tra la singolarità di una parola e il tessuto culturale della classe in cui si trova, si articola e si condivide.

Rileggiamo da Primo Levi, La tregua. Il campo grande, Torino, Einaudi, 1963. E leggiamo:

«Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l’ultimo grande colpo di falce; la chiusura dei conti i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente. Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano più deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso rumoroso che sembrava fine a stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni. Ciononostante, la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva a eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del più piccolo e inerme fra noi, del più innocente, di un bambino, di Hurbinek.

Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz.

Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva, era paralizzato dalle reni in giù, e aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva. Era uno sguardo selvaggio e umano a un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno tra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.

Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese da Henek, Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.

Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek “diceva una parola”. Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come “matisklo”, “mansklo”. Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.

Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire “mangiare”, o “pane” o forse “carne” in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.

Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole».

Troviamo tracce di quella pedagogia istituzionale, così come l’abbiamo incontrata e praticata. Sottolineiamo alcuni punti.

  • L’attenzione al dettaglio, che rischia di essere soffocato da un clima, in questo caso, di euforia.
  • La ricorsività appoggiata ai gesti delle cure, delle manutenzioni quotidiane.
  • Il tempo aperto all’attesa senza scadenze, in un dispositivo che assomiglia a un rituale, e per questo diventa istituzionale.

Riguardo a una Scelta del testo

Fatiha dice di essere felice...

Un giorno, l’undicenne Fatiha presentò un testo libero sul Cholât.16

Fatiha (seduta davanti al palco) – Questa mattina era la festa del Cholât. In questo giorno, le ragazze e le donne musulmane si tagliano i capelli. Ho tagliato le mie frange e la mia coda di cavallo. Sono felice.

René (Presidente del comitato di selezione del testo)17 – Bene... qualcuno ha delle domande?

Ludovic – Ti dispiace, se non vuoi tagliarti i capelli?

F. – Mi dispiace perché voglio che la treccia cresca.

R. – Mi do la parola. È interessante quello che dici. Ma poi dici: «Sono felice». Allora dici per dire?

F. – No, sono felice.

R. – Ah...

F. – Sono felice perché ha tagliato un po’ la coda.

R. – Ah, sei contenta di aver fatto come le altre, ma avresti preferito non farti tagliare la frangia?

F. – Sì.

R. – Qualcuno ha altro da dire? No? Prenderò ancora la parola. Come ci si sente, Fatiha? Come ci si sente a far parte di questa festa? Ti senti come se stessi crescendo, o ti senti solo felice?

F. – Di crescere.

R. – Perché?

F. – Perché ora voglio crescere.

R. – Bene... Gli altri?... Niente più domande?... Fatiha, ti ringraziamo. Testo successivo (...).

Che significato può avere questo testo, nella sua forma e nell’atto di essere letto alla classe?

Fatiha accolta dalla classe: chi fa la legge?

Queste poche parole scritte e scambiate fanno parte di un percorso di due anni all’interno della classe. Fatiha è emiplegica. René mi dice che la sua disabilità la segna e che trasforma il rischio di marginalità in un ricatto emotivo, diventando il centro di tutto. Sovraprotetta, rimossa dal regime comune, tutto ruota attorno al suo braccio malato. È come se, con questo rovesciamento di valori più o meno cosciente, Fatiha, obbligata a subire il suo destino, si aggrappasse a questo braccio mancante per esistere. Lo stesso scenario si verifica durante la Presentazione della lettura, dove gli alunni socializzano il loro sforzo di leggere. Ognuno sceglie un testo dalla biblioteca, dagli album collettivi o dai giornali di classe o da cartelle classificate secondo bande colorate (livello di competenza). Lo sforzo deve essere adeguato: la preparazione non riguarda solo la lettura ad alta voce, è necessario rispondere alle domande del gruppo (vocabolario, spiegazione, opinione). Tuttavia, Fatiha, piuttosto che spiegare una parola, e anche se le sue capacità lo permettono, si rifugia spesso dietro la barriera della lingua, un altro luogo propizio alle identità immaginarie

F. – Non riesco a spiegarlo.

R. – Prova, comunque, con le tue parole, in arabo!

F. – Non so...

R. – Non è vero, sappiamo che puoi, ma non vuoi fare lo sforzo. È un tuo diritto, ma non si viene pagati. Questo è un tuo problema, non nostro. Torna al tuo posto.

Il lavoro non è stato fatto, questo è tutto ciò che conta, e viene contato.18 Niente di grave, ma c’è un limite a ciò che è accettabile, proprio come per chiunque altro... Tali segni hanno senso nell’organizzazione quotidiana, la legge della classe esiste per impedire che il gruppo sia imprigionato nella dolce tirannia di Fatiha l’esclusa-dalla-legge. È una necessità organizzativa, non un ricatto contro qualcuno. Le regole («non ci si scherza», «non si picchia nessuno») proteggono Fatiha come chiunque:19 ma se lei vuole essere protetta dalla legge del gruppo, deve rispettarla, non il contrario. Allontanandosi da ogni considerazione normativa, l’organizzazione del lavoro assume un importante valore psico-affettivo: niente costringerà Fatiha a smettere di essere una bambina, tranne il suo stesso desiderio, che nessuno cerca di placare. L’arricchimento pedagogico dell’ambiente mira a fomentare un tale desiderio, ma questa accettazione del desiderio è indiretta, non è affatto una «motivazione» im-mediata.

Ciò non impedisce che Fatiha venga regolarmente e inequivocabilmente sfidata: «Fai lavorare la tua mano malata!».20 Un’identificazione del suo posto con questa menomazione sembrava essere l’unica risposta che Fatiha trovava a una vita sociale sinonimo di discriminazione, e quindi di pericolo: manipolare, sufficiente a sostenere una personalità in mancanza di qualcosa di meglio, ma al prezzo di lasciarla nell’infanzia, in muta inferiorità rispetto agli altri, potenzialmente distruttivi. La classe, attraverso la protezione della sua legge, le offre, al contrario, l’opportunità di emergere dall’immaginario e sopportare questa privazione senza il rischio di morirne. Non avrà mai un braccio normale, ma potrà vivere senza,21 purché accetti questa debolezza. Scambiare un’immagine con un’altra: siamo già entrati nella sfera dell’efficacia culturale, torneremo su questo punto.

Quando nella sua vita quotidiana di studentessa incontra qualcosa che finalmente le resiste, Fatiha per la prima volta deve affrontare la realtà invece di giocarci. Per molto tempo, Fatiha rimarrà lì, il che significa che qualcosa in lei rifiuta ancora la legge della classe che rifiuta il suo gioco. Rimarrà una cintura gialla. Rimarrà una cintura gialla di comportamento, che corrisponde a un comportamento che si trova generalmente in un bambino di sei o sette anni.22 Tuttavia, per diventare adulti, c’è ancora un passo da fare: superare questo stato di cose; ma almeno è nel circuito delle istituzioni, che non la lasciano senza sostegno. Essere isolati dal gruppo non significa essere isolati dalla legge, né dalla possibilità di essere ascoltati.

E un bel giorno, lei parla.

La scelta di un testo

Il testo descrive Fatiha contenta di entrare in una comunità attraverso le tradizioni. Riconosce di appartenere a una cultura che le dà una legge e allo stesso tempo la fa esistere, non più come bambina, ma come ragazza, poi come donna musulmana. In questa occasione, un rovesciamento di prospettiva ha luogo nel modo in cui lei guarda il proprio corpo. L’atto riportato sostiene la dimensione simbolizzante della castrazione: dal braccio mancante, difetto emarginante, si passa ai capelli tagliati, rito che integra, nella dimensione liminale e iniziatica di una festa. Ogni integrazione è segnata da uno stigma, l’incorporazione del cambiamento di status. Nello stesso periodo, Fatiha comincia anche a decorarsi con l’henné i palmi delle mani. Sul piano enunciativo, non è più lei ad apparire in primo piano, ma le donne e le ragazze musulmane, i corpi e i comportamenti in cui inscrive il suo destino. Infine, invece di subire passivamente la sua infermità, lei stessa diventa il soggetto del verbo che taglia i capelli. Che questo sia vero o meno non importa: ciò che conta è la concomitante iscrizione della legge nell’immaginario di Fatiha e l’iscrizione non cosciente nella sintassi del suo testo – una probabile indicazione che l’iscrizione è stata fatta anche nel suo fantasma. Il testo si chiude con la sua contentezza per aver fatto come le altre: «sono felice». L’affermazione che allontana dal simbolico si basa su una scissione [clivage]: crescere è scambiare un’emancipazione con una castrazione. In questo «sono felice» di superficie, inaudito e quindi significativo, si può intuire l’opera di un’altra frase, veramente inaugurale: «Accetto di non poter più per essere totalmente soddisfatta».

Ma perché tale funzione di interpretazione possa operare,23 Fatiha stessa deve comprenderla. Lo scambio intorno al testo ridistribuisce il suo valore: in questo caso, lo chiarisce riportandolo alla sua opacità costitutiva. Senza l’intervento di Ludovic, avremmo potuto ignorare tutto quello che Fatiha aveva scritto nel testo... e soprattutto quello che lei aveva detto.

L. – Ti dispiace, se non vuoi tagliarti i capelli?

F. – Mi dispiace perché voglio che la treccia cresca.

L’intervento di Ludovic impedisce che questo ingresso nel simbolico si trasformi, come accade spesso, in un’alienazione speculare: non più all’onnipotenza del suo braccio, ma a quello della sua doxa — «Tutti gli altri lo fanno, quindi devo essere felice anch’io». A partire dallo scambio tra i due bambini, al contrario, si sblocca la situazione dell’enunciazione. Il luogo istituzionale in cui il testo libero viene ricevuto riattualizza la possibilità interpretativa aperta dalla scrittura del testo che aveva portato Fatiha all’audacia di leggerlo, ma senza completare la sua realizzazione.

Se dobbiamo credere al suo scambio con Ludovic e poi con l’insegnante, Fatiha sperimenta l’ambivalenza: si può essere e non essere felici. Si può esistere allo stesso tempo su diversi registri, simbolico e immaginario, bambina musulmana e ragazza con una certa idea della sua bellezza. Questa grande gioia, alla quale si permette di accedere, è un segno del fatto che assume la scissione, senza cedere al falso dilemma tra la sua esperienza e la doxa del suo gruppo. Una volta detto, l’ambivalenza può rimanere dolorosa, ma non sarà più una colpa. Le parole sfuggono alla falsa logica di una contraddizione immaginaria. Per esistere, il soggetto è scisso, non più solo emiplegico. Può essere che questo apra la strada alla crescita, sempre di più d’ora in poi. Che aspetto ha una tale apertura?

L’emergere identificato in questa Scelta di testi avviene anche in altri luoghi della classe. «Come per caso», anche Fatiha sta facendo progressi nel comportamento. Diventa arancione chiaro, e se supera il periodo di prova, la sua cintura sarà votata al Consiglio (questo avverrà tre settimane dopo). Il suo testo la inscrive attraverso la sua produzione linguistica, questo status la inscrive nella vita del gruppo: ogni volta, il suo posto è riconosciuto dal metro dei «luoghi comuni». Il suo stesso nome prende in prestito dal tessuto comune dei suoi diversi status, testimoni del fatto che sta crescendo. Attraverso il «legante» della sua organizzazione, la classe permette la comunicazione da una sfera di attività all’altra, una traduzione resa ancora più forte una volta che è ufficialmente inscritta nella vita culturale della classe. La spilla arancione sul pannello murale «Diventiamo grandi» gioca un ruolo imponente simile al testo del Giornale: in entrambi i casi Fatiha è radicata nel visibile, nel durevole, nel simbolico. La spilla colorata che segna una tappa ha la stessa importanza dei capelli tagliati: segna un passaggio, un’assicurazione e un impegno che non si tornerà indietro. Il movimento di Fatiha attraverso i luoghi significativi della classe la rende parte di un circuito virtuoso di effetti moltiplicatori che, a ogni progresso ratificato, ridistribuiscono le possibilità e richiedono nuovi progressi. Un po’ come i tre punti d’olio, che in pochi colpi di pedale, possono ingrassare tutta la catena di una bicicletta.

«Qui nasce una cultura» (Laffitte, 1985, p. 164)

Questa è la «disposizione al senso» di questo materiale, sia testuale che situazionale, così come la mia analisi personale.24 Vorrei ora tornare alle condizioni linguistiche e semiotiche di possibilità di un momento così denso di discorso e di vita. Questa densità è la sostanza che deriva dalla presenza sia del soggetto che della classe. Cosa permette l’evento altamente improbabile di una parola da intrecciare attraverso il discorso della classe? Certamente, la classe cooperativa crea uno «spazio vuoto», vale a dire, un incavo delle funzioni «auto-evidenti» che si aspetta chi crede di entrare in una «classe come le altre». Questo spazio vuoto è favorevole all’emergere di tali eventi nonostante la pressione sociale e lessicografica, ma il mantenimento di tale spazio è tutt’altro che evidente e, nonostante il desiderio dell’insegnante, una classe cooperativa può impiegare molto tempo per nascere, per smettere di collassare su se stessa per mancanza di un desiderio situato, sufficientemente resistente all’inerzia dei riflessi ereditati, per mancanza di senso (Thébaudin e Oury, 1995, p. 63): dato questo spazio scavato necessario per permettere al soggetto di essere accolto, cosa permette alla classe di resistere alla pressione25 che si esercita tanto più su di essa a favore di un «ritorno alla normalità»? Questa densità nasce dal circuito stesso, tra istituzioni, atti e parole: questo forma la vita del gruppo, cioè la sua cultura. Cosa significa ciò?

Ethos. Dalla struttura del linguaggio al tessuto della cultura

La pedagogia istituzionale considera l’aula come un ambiente linguistico, lavorato da ciò che gli antropologi chiamano la legge simbolica, e non solo come un luogo di riproduzione delle norme del sapere (i diversi codici, linguaggi e usi, organizzati in campi disciplinari). A differenza di una lingua, codice linguistico, il linguaggio designa la facoltà specificamente umana di strutturare la realtà in modo simbolico. Come facoltà astratta, il linguaggio si attualizza in una lingua (o più generalmente in codici, linguistici o meno), che costituisce l’elemento forte di ogni identità culturale. Ma la dimensione simbolica del linguaggio non può ridursi a imporre l’ortodossia di un codice: il dispiegamento della classe consiste nell’accogliere la singolarità di ogni soggetto o situazione, e nel costruire da lì una struttura ancora più forte e flessibile di leggi comuni, grazie alle quali il gruppo lavora su una realtà sempre più finemente percepita. In un universo così strutturato, le lingue e i codici possono diventare strumenti efficaci; impararli è sinonimo di potere, libertà e responsabilità al servizio della volontà di vivere e di fare, di tutti e di ciascuno. L’articolazione tra la virtù strutturante del linguaggio, la sua attualizzazione nell’uso dei diversi codici condivisi dal gruppo e il discorso singolare del soggetto, crea l’area del discorso della classe, il «discorso del gruppo» (Laffitte-Perbal, 1999) che sostiene gli atti di nominazione singolare, ed è nella dialettica tra la singolarità di un discorso e la sostanza comune che si gioca la nascita e la strutturazione di una cultura.

La ricchezza di questa «ecologia semiotica»26 favorisce l’apparizione di fenomeni di ordine propriamente culturale, che vanno al di là della semplice organizzazione tecnica della classe. L’istituzionalizzazione dell’ambiente permette la strutturazione materiale, spaziale e temporale del gruppo, questi marcatori e mediazioni simboliche si trasformano attraverso l’emergere di vari fenomeni (totem, tabù, miti, efficacie immateriali, ecc.), e la loro portata si arricchisce di un significato condiviso e fomentato collettivamente, identificando un immaginario comune. L’insieme sostiene molteplici creazioni individuali e comuni che formano l’area patrimoniale del gruppo, costituita da prodotti materiali (testi liberi, diari, album, banca degli esercizi matematici, ecc.) o immateriali (esperienze personali o collettive, memoria condivisa, fenomeni inconsci del gruppo, ecc.) Quest’area è essa stessa parte di uno o più lignaggi storici: una stessa classe ospita diverse generazioni di bambini, e la loro sovrapposizione dà luogo a fenomeni intergenerazionali, o addirittura di ancestralità; inoltre, le produzioni (giornali, album, ecc.), gli strumenti (stampanti, documenti autocorrettivi, ecc.), passano da una classe all’altra, la loro materialità porta la vita del gruppo che li ha partoriti, e sostiene l’immaginario progettato dai nuovi utenti, che a loro volta li faranno rivivere.

In termini di valore condivisibile, cosa nasce da un tale circuito? Da un lato, a livello di una strutturazione simbolica dell’ambiente, punti di riferimento e strumenti significanti; dall’altro, una sostanza culturale costituita da oggetti investiti dai membri del gruppo, immagini, ideali attraverso i quali i bambini (e l’adulto) si «riconosceranno». Questa distinzione non è affatto una disgiunzione: queste due dimensioni della vita semiotica sono concretamente indissociabili nell’esperienza di ogni soggetto e del gruppo. Questo è lo spettro coperto dal concetto retorico e filosofico di ethos (Aristotele, passim, ripreso da Lacan, 1986, p. 30). È ciò attorno a cui si costruisce una comunità di comportamenti, reazioni al mondo e leggi: l’ethos è un concetto condivisibile, è solo un concetto se viene condiviso attivamente, dando origine a una dinamica di gruppo nella e attraverso la condivisione. È descrittivo e collettivo per l’oratore ateniese che analizza gli atteggiamenti del gruppo che vuole convincere, ma è anche prescrittivo e intimo quando il saggio medita, per l’attenzione di Nicomaco, sull’atteggiamento etico da adottare in vista del Bene. L’ethos è dunque sia l’oggetto del discorso collettivo che lavora su di esso, sia ciò che struttura l’area comune di questo discorso, in cui permette il dispiegamento di parole e atti singolari. L’insieme della produzione culturale e la sua determinazione etica sono specifiche per ogni gruppo. È di una simile trama che può disporre una classe che lavora pedagogicamente...

Nome. Singolare, comune, prassico

... ed è in questo ambito sostanziale che il discorso di Fatiha trova le sue potenzialità significanti per dispiegarsi. Ma la giustapposizione di un codice e di parole non è sufficiente perché emerga un’area comune di discorso e perché «si inneschino» i bambini e la classe. Il legame tra discorso di gruppo e discorso individuale non è né dato né lasciato al caso. Lo scatenamento dell’effetto interpretativo, che opera durante la scelta dei testi e intorno ad essa, non può esistere in modo «naturale». Affinché il processo fondamentale delle identificazioni si attivi (Vasquez e Oury, 1967, pp. 182-189), l’oggetto immaginario deve essere situato sul piano simbolico. Questo è il cuore dell’artigianato pedagogico. Il supporto immaginario non è investito per caso, eppure questo investimento rimane al di fuori di ogni previsione, poiché è legato alla fantasia singolare di ogni soggetto, per altro, è una parte che può essere lavorata pedagogicamente: l’investimento in un oggetto, una situazione, un mestiere, uno strumento, ecc. si fa anche in funzione del suo valore indicizzato all’interno della classe, che rinvia alla rete di altri luoghi e valori possibili, all’interno della quale tale identificazione trova quindi i suoi punti di riferimento.

Chiamiamo un tale marcatore un nome, un nome che non è troppo unico o disgiunto dall’insieme delle altre denominazioni possibili all’interno della classe, un nome che è più un nome comune che un nome proprio. Ma allo stesso tempo, un supporto immaginario non è mai scelto per la sola parte condivisibile del suo valore: la ragione della sua elezione parla oscuramente al soggetto, e rimane contingente in relazione al funzionamento dell’ambiente. Questo nome deve quindi essere anche in grado di significare qualche unicità irriducibile, e quindi appartiene anche al colore singolare del nome proprio. Chiamerei questi nomi, sia singolari che comuni, nomi comuni prassici. Più che incroci che organizzano il passaggio soggettivo da un luogo all’altro (che è la funzione mediatrice delle istituzioni, dei luoghi collettivi...), sono come luoghi aperti, che ogni persona può venire a investire per un certo tempo.

In questo modo, i fenomeni culturali di nominazione in classe permettono di accogliere i problemi fantasmatici di ogni soggetto in modo non stigmatizzante. Pensiamo ai frequenti fenomeni di forte identificazione alle professioni o alle cinture (di livello, ma ancor più a quella di comportamento): queste due istituzioni si applicano ai nomi comuni basati sulla prassi, permettendo l’individuazione di ogni individuo all’interno del suo gruppo. Da un lato, la classe dà credito ai nomi che istituisce: si impara rapidamente la differenza tra una cintura gialla di comportamento e una cintura blu, e si può avere fiducia in questi marcatori. Attraverso l’accesso a questo status, l’indistinzione viene fermata, l’unicità del soggetto ha meno probabilità di essere persa nella massa, e questo punto di arresto assicura che l’individuo abbia una capacità minima di resistere all’interno della precarietà quotidiana. Ma d’altra parte, non c’è un solo nome per ogni persona: un bambino con una cintura gialla nel comportamento può essere anche blu in matematica, arancione nello sport, marrone nella lettura. Questa diversificazione lo protegge da ciò che si può dire di lui, poiché questo «lui» non è monoliticamente assegnato a una sola immagine. Così toccando una caratteristica identificativa non si rischia più di distruggere tutto della persona. Per Fatiha, accettare la sua infermità fisica non è più sinonimo di un attacco generalizzato alla sua persona: accettare un’identità «sufficientemente sicura, ma non troppo» diventa, al contrario, il modo migliore per non esacerbare più il suo precedente bisogno per caparbietà in un immaginario monadico, in un unico nome stigmatizzante — ovvero, in senso stretto (e assurdo): in un unico significante.27 Utilizzando l’istituzione del testo libero, diventando di fatto uno degli autori del giornale, Fatiha accetta di entrare nel regime comune dei nomi di classe; così facendo, entrerà finalmente in contatto con altri nomi possibili, «cintura arancione di comportamento» o altri. Un nome comune prassico autorizza il suo investimento da parte di qualsiasi soggetto in un nome proprio. Che poi questo apra l’accesso ad altri nomi condivisi nella sua cultura familiare e sociale è uno degli effetti permessi dalla «macchina-classe», ma, dal punto di vista della logica pedagogica della vita di questa classe, della sua prassi, non c’è nulla di imposto, e raccoglie la sacra singolarità dell’esistenza del soggetto — se il soggetto vuole condividerla nella classe, sarà il benvenuto, altrimenti «per quanto lo riguarda, il soggetto è invitato a rivolgersi a se stesso», diceva Lacan. Ciò che è sacro, in una classe cooperativa istituzionale, è la penombra in cui il soggetto sa di poter rimanere nel rispetto assoluto degli altri: tale è l’etica della classe.28

«Sulla base della scelta di una specifica ponderazione delle diverse implicazioni del nome, ogni società sviluppa un particolare sistema di identificazione dei suoi membri». Così, l’antropologa Françoise Zonabend presenta il problema dell’identificazione con un nome da una prospettiva etnologica, ricordando che, secondo Lévi-Strauss, l’attribuzione di un nome proprio ha tre funzioni: identificazione, classificazione e significazione (Zonabend, 1991, p. 509). Queste tre funzioni si riflettono nel fatto che la classe è «strutturata come un linguaggio»: in questo ambiente, che è una tablatura significante, l’individuo può situare sia le cose che se stesso, cioè riconoscere e lavorare per interrogare, interpretare e fondare i valori di questi individui culturali che sono esseri, oggetti, atti, luoghi, parole, leggi, ecc. L’identificazione, o il dare significato, e l’atto di classificazione sono processi dello stesso livello sistemico: dell’ordine della convenzione, o, in termini psicoanalitici, speculare. Essi permettono al soggetto di determinare le identità di ognuno di questi esseri, e quindi di determinare la propria identità, che è dialetticamente intessuta nel tessuto culturale. Questa tessitura, dal punto di vista dell’investimento psichico, è ciò che opera la logica del fantasma;29 questo investimento singolare fondamentale è ciò che l’organizzazione istituzionale della prassi delle classi mira a rendere possibile.

Alla fine, questi nomi comuni prassici non sono inerti: sono anche schemi che articolano dimensioni eterogenee (dell’immaginario e del desiderio). Entrano così in un’economia energetica, perché la loro articolazione consuma e produce energia: è tutta la macchina della prassi che tali schemi mettono in atto.

Topos. Luoghi comuni pedagogici

Un tale nome, che accetta la singolarità di ogni individuo mentre porta con sé la visione del mondo di un gruppo, in altre parole un’etica, può anche essere chiamato un «luogo comune», o topos, nel senso aristotelico: i topoi non si riducono a «luoghi comuni», ma formano un sistema di organizzazione del discorso, una macchina per trattare la diversità della realtà secondo le categorie culturali che si possono condividere, per dare origine a una parola (Goyet, 1996). Il senso si dispiega su due livelli: strutturalmente, attraverso le istituzioni che permettono di interrogarlo, e linguisticamente, attraverso topoi che rendono il suo attacco a un tempo singolare, perché operato a livello di persona, sia comune, perché recepito a livello di gruppo. E l’articolazione del luogo comune alla parola singolare impegna niente meno che la vita e la morte, della cultura e della parola.

Strutturalmente, le istituzioni possono essere definite come un’architettura di luoghi simbolici, raddoppiati, a livello del linguaggio, da altrettanti topoi che rendono possibile l’espressione soggettiva. Sarebbe produttivo approfondire come la cultura della classe istituzionalizzata costituisca una topica estesa,30 strutturalmente parallela alla rete delle sue istituzioni. Il termine «topica» deve essere inteso a livello simbolico, e integra i due lati fondamentali della classe: le istituzioni, relative alla strutturazione della classe intorno alla Legge, e la dialettica tra lingua e discorso; qui troviamo le «4L» di cui parlava Fernand Oury: luogo, limite, legge, linguaggio. Così, a livello istituzionale, la Scelta dei testi è integrata nel circuito di altre istituzioni, senza le quali il potenziale simbolizzante della sessione rimarrebbe senza dubbio lettera morta. La Scelta del testo e le sue regole di funzionamento sono a loro volta legati al Giornale a valle, e a monte alla scrittura, che a sua volta si riferisce a diversi possibili siti di produzione (in classe, in un momento programmato o meno, a casa). Questo insieme è intramato perché è integrato nel «luogo dei luoghi»: l’aula e la sua Legge. Infine, l’ultimo livello di integrazione nella topica «istituzionalizzante», la possibilità di un simile universo educativo è oggetto di una messa in opera e interrogazione teorica e pratica da parte dei professionisti dell’insegnamento, nei gruppi di elaborazione monografica, nelle riunioni di ChamPIgnons o nei corsi di formazione.

Sul piano linguistico, le istituzioni che rendono possibile l’esistenza della classe come prassi implicano tanti topoi, condizioni di possibilità per qualsiasi produzione e interpretazione di un discorso singolare. I topoi, forme disponibili per pensare il diverso,31 hanno la funzione di permettere il discorso di Fatiha, che ricorre ad essi (spesso inconsciamente, ma sempre efficacemente), per dispiegare il suo materiale esistenziale. Per il testo libero testo, si possono osservare diversi tipi di topoi: categorie linguistiche e didattiche, categorie generiche richiamate prima di ogni lettura («testo vero», «testo immaginario», «sogno»), e categorie tecniche (oggetti e strumenti utilizzati). Parlare di «materialismo scolastico», come faceva Freinet, e di una prassi degna di questo nome, poietica, è possibile solo a livello di questa confluenza: istituzioni e categorie formano una vasta topica propria della classe, in un insieme unificato e integrato di luoghi organizzativi, materiali e linguistici. Attraverso gli effetti di tale «macchina»,32 sia il gruppo che i soggetti acquistano vita, densità e sostanza, una forza di resistenza permea lo spazio vuoto e sempre fragile della loro classe, rafforzando la sua capacità di apertura e accoglienza. «Innestare l’aperto», dice Jean Oury per designare il compito simboligeno di ogni istituzionalizzazione: la classe costituisce un «archi-luogo», la cui vasta architettura di luoghi distinti e collegati, permette il libero passaggio tra loro, permette l’innesto.

Questo innesto funziona per Fatiha, ma l’apertura non si ferma qui.

Questo viaggio singolare si interseca con altri, e ciò a cui gli altri possono collegare le sue parole è ciò che hanno più in comune e più specifico: la loro convivenza come scolari. Tutto questo forma una rete di significanti che sono allo stesso tempo prodotti, emessi, ricevuti e interpretati. Questo circuito di comunicazione unifica un gruppo inizialmente disparato: questo è ciò che è specifico e singolare della classe. Ma questa singolarità va oltre ciò che la classe condivide con altre classi di pedagogia istituzionale: un certo numero di istituzioni, strumenti e tecniche, leggi e categorie operative generali, «luoghi comuni» pedagogici trasmessi attraverso generazioni di praticanti, che costituiscono un patrimonio comune di rango superiore, integrante. Tutto questo costituisce il substrato schematico della cultura di qualsiasi classe cooperativa TFPI. Eppure, l’esistenza effettiva di questi luoghi comuni pedagogici si fonda e si articola (o meno) solo nella libera accettazione (o meno) delle loro regole del gioco da parte dei bambini: poiché esse, a priori, non hanno nulla a che vedere con la pedagogia istituzionale né con l’ideale che essa rappresenta per i pedagogisti. E ciò è abbastanza normale. Il desiderio dell’insegnante e ancor meno la sua «militanza» non sono sufficienti per creare una classe; occorre, rispettato, il libero desiderio degli altri praticanti. E, per ogni nuovo gruppo, la classe deve riacquistare la sua validità affinché diventi la loro prassi, singolare, contingente, indecidibile. Così, come si dice, la classe è «nata» — e deve rinascere più e più volte, non solo anno dopo anno, ma giorno dopo giorno, atto dopo atto, pena la morte per congelamento e disinvestimento.33 È solo con questa alchimia singolare che la cultura della classe si costituisce correttamente. In altre parole, la pedagogia istituzionale non può essere l’applicazione di un metodo.

In un tale ambiente, l’apertura non è solo concepita in termini di luoghi e spazi, anche soggettivizzati, ma anche temporalmente. Istituzioni e cultura formano un tessuto in cui i soggetti vengono a ricamare i loro «arabeschi».34 Generazione dopo generazione, questi arabeschi si dispiegheranno uno sull’altro, gli ultimi tracciati si appoggiano sulle tracce antiche, trasformandole così in fili del tessuto originale. L’insieme forma ciò che si chiama metonimicamente «la vita della classe». E se gli individui scelgono di entrare nella vita del gruppo, allora le loro produzioni diventeranno a loro volta luoghi comuni: un testo stampato, un oggetto con descrizione per il tavolo della mostra o realizzato durante un laboratorio, un ramo di lichene35 diventeranno, nel tempo, punti di riferimento, oggetti di interesse e strumenti per il gruppo e per ogni individuo, così come luoghi dove altri verranno ad attingere, materiale reinvestito e «visitato» dal gruppo. Il testo di Fatiha diventa un «essere culturale», e Fatiha, un’autrice.

Un autore, cioè, alla lunga, un antenato la cui parola brulicherà negli anni a venire. Lì si costruisce la storia di un gruppo, e di mese in anno, attraverso strati sovrapposti di parole, di nomi associati a testi, emerge la storicità di una cultura. Per esempio, in questa stessa classe di Béziers, in riferimento all’unico caposquadra che aveva raggiunto il livello marrone nel comportamento, i bambini chiedevano talvolta all’insegnante, unico testimone delle generazioni precedenti: «Signore, sapeva fare quello, la cintura marrone?».36 Così, dall’articolazione tra la contingenza del nome proprio di ciascuno, l’anonimato neutrale della topicità istituzionale e il «nome comune prassico» nato nella costituzione vivente di un ethos di gruppo, emerge un nome culturale — un esempio.

Fiducia, convinzione

Così, la classe cooperativa «tiene bene» di fronte alle pressioni dossiche solo nella misura in cui è un’area di discorso che sviluppa caratteristiche proprie, e non solo un’altra situazione soggetta a un macro-discorso sociale normato che le viene imposto di riprodurre. Quest’area può contare solo su se stessa per trovare la sua consistenza: è nel rapporto soggettivo vivo di ogni individuo con la legge della classe che si gioca la vita o la morte della prassi. All’opera in questa vivace relazione ci sono due qualità interdipendenti: la fiducia e la convinzione.

La fiducia nella legge dell’aula si acquisisce quando l’allievo sa che la sua intimità sarà segnata all’interno del circuito di scambio, e quindi protetta da qualsiasi profanazione.37 Qualcosa in lui rimane escluso da qualsiasi valore di scambio in negativo. Il braccio e i capelli di Fatiha (e tutto ciò di cui sono il segnaposto) non saranno «toccati» — solo lei ha il diritto di farlo. Al di là delle immagini o degli oggetti stessi, questa neutralità assicurata permette di portare nel circuito di valore un altro negativo che non può essere manipolato come un oggetto: il desiderio. La prassi non deve «afferrarlo per la coda», come dice Picasso, ma offrirgli spazi di espressione. L’oggetto diretto del lavoro della prassi non è concentrarsi sull’intimità di questo o quel bambino,38 ma mettere in atto i mezzi che sosterranno il soggetto nei diversi processi di alienazione del desiderio su sua richiesta, attraverso situazioni istituzionalizzate. La prassi sostiene il soggetto, ma paradossalmente, mirando a trafiggerne l’alienazione dossica: con la preoccupazione prioritaria di non toccarlo, mentre al contrario se ne lascia avvicinare, e permette di depositare i suoi segni su ciascuna delle maglie della rete istituzionale — per esempio in un testo libero scelto, stampato, spillato nel giornale, venduto, scambiato, inviato ai corrispondenti o archiviato per le future generazioni di lettori.

A tal fine, queste produzioni culturali devono essere considerate non solo nella loro dimensione ridotta di artefatti, prodotti valutabili in modo unidimensionale (come gli esercizi puramente didattici applicativi e formativi, che generalmente costituiscono l’immenso corpus del lavoro scolastico),39 ma in relazione alla fonte del loro valore. Questa fonte è sia collettiva, il che le rende una ricchezza di gruppo, sia singolare, da cui la dialettica tra il desiderio e l’universo poetico delle forme. Un testo libero dichiara agli occhi di tutti il rapporto unico tra l’autore e la sua creazione: ciò non può che rafforzare e ravvivare il valore che la persona riconosce in se stessa.40 Quando il desiderio torna a impegnarsi nella crescita, si dice generalmente che il bambino «torna a crederci»… La credenza è una categoria esistenziale oltre che culturale, a pari distanza tra il narcisismo fondamentale e l’alienazione dalla Legge. Affinché si stabilisca un tale legame di credenza tra il soggetto e la legge del suo gruppo, quest’ultima deve indubbiamente assicurare il rispetto di ciò che è sacro — in questo caso, il desiderio intimo di ogni individuo.

Per definizione, nulla decide il desiderio, tranne il soggetto stesso. La prassi si distingue così per il fatto che al suo interno il desiderio è rispettato nella sua opacità costitutiva, ma tale rispetto non è manifesto, poiché ciò implicherebbe che il desiderio abbia un posto assegnato. Ciò sarebbe confondere il desiderio con il bisogno o la voglia, che sono situabili e «gestibili». Non c’è una garanzia automatica: un impegno permanente da parte del soggetto e la vigilanza etica del gruppo sono le uniche cose che possono alimentare il sentimento di credenza, rafforzandolo con la fiducia. La comunità vivente di senso non deve mai cessare di apparire a ogni persona nella sua attualità, le cui modalità sono oggetto di una volontà collettiva, di una costante (ri)attuazione attraverso i luoghi di parola della classe — tra i quali il Consiglio funge da principale istituzione istituente.41 Questo è l’approccio materialista al rispetto della singolarità, che assicura che il valore di ciò che entra nello scambio della classe — cioè a priori tutto, poiché ogni soggetto decide ciò che vi apporta — possa nascere e crescere, mantenendo la sua quota di intoccabilità.42 La convinzione — del valore di una legge, degli altri, di se stessi — non si dà mai senza fiducia. La convinzione è una fiducia enfatizzata, e la fiducia è una convinzione ben fondata. Questa articolazione tra credenza e fiducia designa la dialettica materialista tra soggettività e istituzionalizzazione.

Ora, di fronte alle pressioni gerarchiche e dossiche che, più che mai, si rafforzano morbosamente in ambito scolastico e schiacciano i fragili edifici pedagogici eterodossi, si sarebbe tentati di dimenticare questa dialettica, e di rafforzare invece la valorizzazione della nostra «classe cooperativa ideale» sottolineando la sua fioritura culturale, spesso affascinante perché fonte di un felice recupero narcisistico. Questa è probabilmente la peggiore tentazione. Tale precauzione può aver portato Fernand Oury e altri, a moderare l’importanza data, nel movimento scolastico moderno (della pedagogia Freinet), all’«arte infantile», nella misura in cui la tentazione estetica potrebbe farci dimenticare che la preoccupazione pedagogica primaria non è quella di far creare al bambino la «bellezza» (un altro modo di far prevalere un ideale culturale, per quanto nobile, sulla reale indecidibilità del desiderio), ma di permettere al soggetto di articolare le proprie parole, per quanto scomode e dissonanti possano essere. Senza questo scrupolo, un testo libero non sarebbe veramente libero — una verità che non è libera non è una verità. Jean Oury e François Tosquelles hanno sempre insistito sul fatto che questa dialettica tra credenza (immaginaria) e fiducia (simbolica) è insufficiente: se non si mette in discussione la presenza della fantasia (reale) nella realtà, lavorare su quest’ultima non può essere terapeutico. Nessun fenomeno culturale, se almeno esiste a livello di prassi, sfugge all’imperativo dell’analisi istituzionale (e una semplice sessione di Scelta del testo può attivare questa funzione). Questo è l’unico modo per assumere la conservazione precaria del desiderio singolare al di fuori di qualsiasi tentazione di catturare completamente il reale nelle nostre categorie coscienti, e di sprofondare nella calamità totalizzante di un’onnipotenza tanto illusoria in teoria quanto catastrofica in realtà, poiché equivarrebbe a schiacciare la logica soggettiva del fantasma sotto la logica egoica del registro speculare, e la logica interegoica del registro culturale. La cultura non deve mai uscire dal circuito della sua analisi istituzionale permanente, a pena di diventare nociva: sempre, la dimensione del soggetto deve rimanere in una posizione di disimpegno rispetto all’attualità dell’aula e dei «luoghi comuni» pedagogici.

È solo a livello di questa dialettica che si può considerare che c’è una autentica vita culturale in una prassi.

Morte e cultura

Al contrario, è solo con una tale dialettica che possiamo sperare che la cultura rimanga nel circuito stimolante di una prassi, invece di cadere nell’immaginarizzazione sclerotizzante, totalizzante e totalitaria di una doxa. A questo proposito, dovremmo interrogarci su come la dimensione radicalmente negativa del desiderio inconscio, segno di un gruppo vivente, sia salvaguardata all’interno di una tale «dialettica culturale» (Adorno e Horkheimer, 1974). Questo tema esula dall’ambito della presente discussione, ma mi permetto almeno, contro la tentazione di un approccio puramente etnologico al fatto pedagogico,43 di concludere con alcune osservazioni sulla finitudine, l’incompletezza e la temporalità discontinua di una prassi, e quindi della sua cultura.

Ho menzionato sopra l’emergere di «nomi culturali», totem o antenati: è importante non rimanere a questo punto compiuto dell’esistenza del bambino nella cultura della sua classe. Questo emergere diventerà definitivo solo quando il soggetto sarà fuori dall’aula: allora l’esistenza si sarà trasmutata in essenza. Il bambino — o l’adulto — lascerà in eredità al gruppo questo status di persona congelata solo quando sarà «Irto alla classe», quando avrà lasciato il gruppo, quando si sarà separato da questa zona e da questa epoca della sua vita, e quando avrà dispiegato il suo godimento in altre costellazioni esistenziali. L’estensione della cultura e quella dell’esistenza non sono omogenee — il che non significa che siano impermeabili l’una all’altra. La vita e la morte della classe e del soggetto, la prassi e il nome proprio, sono inseparabili nella loro materialità, ma non si evolvono sullo stesso piano. Una cultura è fatta per estinguersi, una classe per finire un giorno, ma l’esistenza continua oltre. E mentre un’esistenza si estingue, una cultura, altre classi si dispiegano altrove. Questa finitezza salva la singolarità delle classi e dei gruppi che, fortunatamente, non saranno mai intercambiabili, preferirei dire, come fanno molti operatori, che «la pedagogia istituzionale non esiste», piuttosto che farne una «marca di detersivo pedagogico»,44 significa affermare che ogni gruppo, ogni soggetto deve riappropriarsene, reinventarla permanentemente. La pedagogia non può essere ridotta agli strumenti che fornisce, e senza di essi non esisterebbe. Questo è ciò che estrae la realtà della classe dalle nostre tentazioni ansiose di salvaguardare, per paura di vederlo morire, ma a costo di congelarlo, il mondo miracolosamente creato dalla vita delle nostre innumerevoli famiglie prese in prestito. Non è facile per Fatiha, né per nessuno di noi, non importa quanti anni abbiamo, nel corpo o nella mente.

Questa condizione di infinità ci espone a vivere con l’assenza angosciante di una frontiera tra l’apparire e lo scomparire. La cultura vive solo attraverso la dialettica che la costituisce, tra alcuni luoghi comuni e singolarità contingenti: il suo destino dipende da una discontinuità di incontri. Questa fragilità salva il senso della pedagogia e della psicoterapia istituzionali, tanto quanto mina la loro istituzionalizzazione: definisce la loro esistenza come prassi. Questa discontinuità, condizione esistenziale, sta al cuore di tutti i valori soggettivi e desideranti. La psicoterapia o la pedagogia istituzionale possono morire in tre minuti, per mancanza di attuazione del corpo, del desiderio e di una vera presenza dell’Altro. Ma per le stesse ragioni, possono rinascere nello stesso momento, una classe o un dipartimento più lontano, o a duemila chilometri di distanza, così come tra cento anni, o cinquanta anni fa, abbastanza per fomentare una metamorfosi, vicina o lontana, contingente, singolare, nuova.

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1 Questo testo riporta un’osservazione inizialmente proposta nella tesi di dottorato dell’autore (Laffitte, 2003); è stata ripresa ed è divenuta oggetto di una conferenza durante le Giornate organizzate dall’Associazione Psypropos a Blois nel novembre 2004. Questo testo è stato pubblicato nella rivista «Cliopsy», 2015; nella sua forma definitiva, qui tradotta, è riprodotto in Laffitte, 2020, p. 83. Per una presentazione italiana della pedagogia istituzionale, si rimanda al libro di Giuliana Santarelli, al quale l’autore stesso ha partecipato: Pedagogia istituzionale. Dalle origini all’attualità, Bologna, Bolonia University Press. Nel testo del presente articolo sono stati inseriti anche alcuni brevi testi di commento a cura del Prof. Andrea Canevaro.

2 L’autore ringrazia la dott.ssa Patrizia Pentassuglia per la traduzione dell’articolo e il Prof. Andrea Canevaro per le sue finestre portatrici di luce.

3 Semiologo. Maître de conférences habilité à diriger des recherches, Laboratoire Experice, Université de Paris 8 Vincennes-Saint-Denis.

4 The article presents an idea offered for the first time in the author doctoral thesis (Laffitte, 2003); after that, it has been taken into consideration again and it has become object of discussion during the conference organised by the Association Psypropos at Blois in November 2004. The conference text has been published in «Cliopsy», 2015. We present the Italian translation, taken by the last version published in Laffitte, 2020, p. 83. For understanding more of the Institutional Pedagogy, cfr. G. Santarelli, Pedagogia istituzionale. Dalle origini all’attualità, Bologna, Bolonia University Press. Andrea Canevaro gave his contribution to the articole, writing three inserts.

5 The author thanks Patrizia Pentassuglia for her translation work and Andrea Canevaro for his inserts.

6 Semiologist. Maître de conférences habilité à diriger des recherches, Laboratoire Experice, Université de Paris 8 Vincennes-Saint-Denis.

7 Il mio lavoro è dunque, in un senso profondo, un «testo libero»: non quello di uno scolaro, ma di un ricercatore.

8 A mio parere, il campo della pedagogia istituzionale non può essere ridotto a ciò che descrivo o agli autori che cito. Sono le condizioni di possibilità di queste classi specifiche che hanno avuto la precedenza, il mio lavoro non ha mirato all’esaustività storica o bibliografica rispetto a questo movimento pedagogico dalla storia complessa.

9 René Laffitte è mio padre. Per ragioni di scopi e spazio, ho giudicato possibile neutralizzare qui l’analisi delle relazioni transferali evidentemente forti che hanno altrimenti giocato un ruolo profondo nel progresso della mia indagine: in ciò che, infatti, si svolge durante questa sessione di Scelta dei testi, questi legami non mi sembrano giocare un ruolo significativo.

10 La presentazione di questa classe qualche anno prima può essere letta in Laffitte, 1985. Le classi di perfezionamento, che rientrano nella voce «bambini disadattati», non esistono più (sono state sostituite dal CLIS). Queste classi, ai margini della scuola primaria, si rivolgevano a bambini con problemi psicologici, sociali o culturali e con un lungo ritardo nell’apprendimento didattico. Molti di questi bambini hanno continuato la loro educazione nei corsi specializzati della SES (futura SEGPA), CPA o CPPN, o in centri specializzati.

11 Alcuni termini si riferiscono alle tecniche pedagogiche e alle istituzioni sviluppate da Freinet e/o dalla pedagogia istituzionale. Anche se alcuni di essi («testo libero», «corrispondenza», «cosa c’è di nuovo?», «cinture di colore», ecc.) hanno visto i loro nomi entrare nella doxa educativa, ciò che costituisce la loro specificità pedagogica rimane spesso lontano da ciò a cui sono stati ridotti. Le prime occorrenze di questi termini sono indicate in corsivo. Vi rimando al glossario e alle monografie, articoli e libri prodotti dalle classi, che riproducono fedelmente la loro complessità.

12 Questa nozione di «regime di funzionamento» è ripresa in diversi testi: A metà strada tra lingua e pedagogia, una prassi (Laffitte, 2020, pp. 133 e sgg.), Su due regimi di invisibilità (Laffitte, 2020, pp. 175 e sgg.), Cos’è una prassi pedagogica? (Laffitte, 2020, pp. 229 e sgg.) e Norma o legge simbolica: da due mondi educativi (Laffitte, 2020, pp. 287 e sgg.).

13 Sulla base degli appunti presi sul momento, di una successiva intervista con l’insegnante e del lavoro sul campo (testi, disegni, osservazioni durante dieci giorni, ecc.).

14 E non un discorso applicato e conforme, l’obiettivo di quasi tutte le (ri)produzioni richieste ai «discenti», agli «alunni», ai «cittadini». Al di là di queste riduzioni, il bambino rimane, e il discorso ha a che fare con il soggetto, non con il (sovra)sé.

15 Generalmente, la Scelta dei testi (bi)settimanale accoglie testi che sono stati scritti dall’ultima sessione. In questo caso, il testo è stato scritto il giorno prima.

16 È una festa musulmana. Il significato che Fatiha dà di questa festività non sembra essere conforme alla sua definizione tradizionale. Ma ciò che importa non è l’esattezza delle parole di Fatiha, ciò che conta è il suo investimento in questa festa in quanto usanza della sua cultura, un significante suo proprio rispetto a cui identificherà il suo atteggiamento.

17 Questo è René Laffitte, l’insegnante. Mi riferisco qui a lui con il suo nome, come fanno gli altri praticanti del gruppo (se assecondo questa convenzione del solo nome, allora vale per tutti). Si noti che potrebbe benissimo essere stato un bambino. Anche in questo caso, la funzione non va confusa con lo status sociale «ufficiale», ma dipende dallo status riconosciuto dalla legge della classe: in questo caso, saper presiedere a una Scelta di testi è un «lavoro grosso», e la cintura comportamentale è l’indicatore noto a tutto il gruppo.

18 La moneta interna è molto utile in queste occasioni: il suo valore di remunerazione simbolica paga lo sforzo nel lavoro, la sua serietà, più che il suo risultato, e neutralizza qualsiasi giudizio morale. La presentazione di un testo di livello verde sarà pagata di più a una cintura arancione in lettura che a una cintura verde, e una preparazione pasticciata sarà pagata di meno. Si veda Pacare. Il denaro in classe. Scambio universale, economia di scambio ed etica, in Laffitte, 2020, pp. 69 e sgg.

19 E Fatiha è sicura di ciò. Infatti, nello stesso momento, era stata spinta nei bagni da un uomo «alto» (in altezza, ma con una cintura comportamentale bassa); il caso è stato portato davanti al Consiglio (da altri, desiderosi di difendere Fatiha), e a parte la seria discussione e le scuse del ragazzo, quest’ultimo ha dovuto pagare una multa, come si fa generalmente — tranne che la cintura nera ha imposto che, invece dei soliti due punti, questa multa fosse aumentata a 40 punti. Era una punizione simbolica per il fatto che un divieto grave, quello della violenza e dell’umiliazione verso gli altri, era stato appena trasgredito; un’iscrizione che la legge protegge ogni suo soggetto, corpi fragili forse, ma tuttavia più forti, in nome della Legge del Consiglio, di tutti i «forti» quando si tratta di fare a pugni. Su questo palcoscenico comune dell’immaginario condiviso (fiducia nel valore della nostra moneta), si riafferma la dimensione del sacro di ciò che sostiene il soggetto meritando la sua fiducia (sul «sacro», si veda Pacare. Il denaro in classe. Scambio universale, economia di scambio ed etica [pp. 69 e sgg.] e Hommage aux artisans pédagogiques. Etica e ideologia nella pedagogia, entrambi in Laffitte, 2020).

20 Una volta un allievo le disse: «Fai lavorare la tua mano pigra [feignante]» (detto all’uso del sud, «pigro [feignante]» e «fannullone [fainéante]» si pronunciano allo stesso modo). Chi sta fingendo [feint]: la mano o Fatiha?

21 O piuttosto, come mi ha giustamente fatto notare il mio collega Patrick Geffard, di «conviverci»: soggettivamente, si tratta più di convivere con l’assenza del braccio normale che di vivere senza.

22 L’istituzione di cinture comportamentali è cruciale, ma complessa. Si veda Laffitte, 2020, Les ceinture pédagogiques, ou le signe efficace d’une maîtrise, pp. 44 e sgg.

23 L’interpretazione secondo Lacan non ha nulla dell’enunciato oggettivo, portatore di una significazione: è un atto che «scatena la verità», scandisce il discorso e rende nuovamente possibile uno svolgimento esistenziale che era bloccato fino a quel momento. Questo è ciò di cui siamo testimoni in questa presa di parola e penna di Fatiha.

24 Questa è una mia responsabilità: solo lo scambio con l’insegnante mi ha permesso di valutarne la pertinenza; ma non è una monografia, che avrebbe richiesto un lavoro all’interno di un gruppo di elaborazione, la cui funzione è stata paragonata da Jean Oury a un gruppo di controllo. Jean Oury va anche oltre: i gruppi di elaborazione monografica costituiscono, ai suoi occhi, il miglior gruppo di controllo che abbia incontrato, dato che vi ritorna, per esempio, durante l’anno 1984 del suo Seminario a Sainte-Anne (inedito). Disposition au sens designa l’idea guida di un metodo derivante dalla mia prassi di critica letteraria, di approccio a un testo o a una situazione attraverso un testo (Laffitte, 2016).

25 Che si esercita spesso nei riflessi dei bambini, per non parlare delle reazioni di molti adulti (genitori, gerarchia, ecc.).

26 Si veda la Prefazione in Laffitte, 2020, p. 9 e sgg., e Due regimi di invisibilità in Laffitte, 2020, pp. 175 e sgg.

27 Notiamo di passaggio che qui si dissolve l’incantesimo che segna il destino delle «minoranze», la cui situazione di essere definite dallo sguardo del dominante implica sempre, almeno inizialmente, un’esacerbazione di questi tratti discriminatori, trasformati in «orgoglio» — che può avere una certa efficacia ideologica, ma rimane non meno uno stigma, e quindi un trauma. La prassi si distingue per il suo rifiuto di acquiescenza a tale logica immaginaria, pur conservando le immagini.

28 Si veda Pacare. Il denaro in classe. Scambio universale, economia di scambio ed etica in Laffitte, 2020, pp. 69 e sgg.

29 Per fantasma intendiamo la logica che, secondo Lacan, articola il registro dello speculare ((a)) (e il suo destino di scambio interegoico punto di articolazione della dimensione culturale) e il registro del reale (S) (Lacan, 2007).

30 Come avrete capito, intendo qui «topica» nel senso aristotelico, retorico e culturale del termine, e non, in senso stretto, nel senso psicoanalitico in cui Freud lo usava per proporre una teoria delle diverse istanze psichiche. Ma questa seconda traccia non è forse da scartare.

31 Il semiologo Georges Molinié li avvicina alla categoria di Louis Hjelmslev di «forma del contenuto» (Molinié, 2005, p. 109).

32 Il termine è spesso usato nelle parole e negli scritti degli educatori. Deve essere compreso nel suo senso complesso, vicino a quello proposto da Edgar Morin, o Gilles Deleuze e Félix Guattari. L’aggettivo corrispondente non è «meccanico», ma «macchinico».

33 Questo momento iniziale e il suo necessario rinnovamento sono menzionati nella mia lettera ad Amaia Cormier (Laffitte, 2020, p. 60).

34 François Tosquelles, Les arabesques du désir, postfazione a Laffitte e le Groupe Genèse de la coopérative, 1985 (195f).

35 L’ingénieur et le lichen è una delle più belle monografie di René Laffitte, pubblicata nel 1992 nei «Cahiers de Genèse de la coopérative», e ristampata in Laffitte e Le Groupe AVPI, 1999, p. 87.

36 Sulla funzione effettiva di un mito...

37 Questa iscrizione, che segna e protegge, è stata studiata in Pacare. Il denaro in classe. Scambio universale, economia di scambio ed etica, in Laffitte, 2020 (pp. 69 e sgg.)

38 Quindi, la pedagogia istituzionale non è altro che «centrata sullo studente».

39 In questo senso, l’interdisciplinarità, che ha un grande valore in termini di apprendimento, non cambia la mancanza di complessità e di apertura di cui stiamo parlando: rimaniamo nella stessa dimensione... disciplinare.

40 Ciò tocca il continente del narcisismo e il suo lavoro pedagogico. Senza pretendere di affrontarlo, ricordiamo almeno quanto, in un certo senso, tutta la pedagogia istituzionale sia un appello alla funzione terapeutica della classe cooperativa, accessibile a tutti i bambini (non necessariamente a quelli etichettati come «problematici»), e che consiste nel riconnettere, nella psiche, ciò che è stato disfatto, distrutto, in un deterioramento dell’immagine che tanti bambini hanno di se stessi — e qualunque forma possa assumere un tale ostacolo alla funzione dell’Io-ideale, che è cruciale nello sviluppo esistenziale.

41 Si veda Le peuple libre des praticiens. Conseil de coopérative, monographie d’écolier, deux emblèmes de la maîtrise pédagogique in Laffitte, 2020, p. 35 e sgg.

42 Qui riconosciamo la logica simbolica la cui attuazione strutturale abbiamo visto nella creazione di ogni istituzione e, in modo emblematico, nell’istituzionalizzazione dello scambiatore universale e neutrale per eccellenza: il denaro interiore. Si veda Pacare. Il denaro in classe. Scambio universale, economia di scambio ed etica in Laffitte, 2020, pp. 69 e sgg.

43 Questa tentazione esiste in un certo numero di studi provenienti dalle scienze umane (etnologia, sociologia, psicologia, psicoanalisi, o che attingono agli strumenti della critica o della linguistica, ecc.). Tale scelta è legittima dal loro punto di vista, ma a condizione che non dimentichino, come avviene massicciamente in tali scritti, e questo è molto più imbarazzante, che la classe è attraversata da molti altri fenomeni, e che tutte le intuizioni, necessariamente parziali, devono essere prese in considerazione. Ma una tale «complessificazione» deve superare un altro ostacolo, ancora più importante: infatti, questi approcci condividono generalmente la stessa cecità al fatto che una tale modellazione della complessità li precede, sia nei fatti che nella logica. In una prassi, non è questa o quella dimensione che deve essere intesa come dominante, è la loro articolazione nodale; e questo è ciò che per definizione sfugge a ciascuna di queste diverse discipline separate, e l’unico sguardo che è all’altezza di questa logica è lo sguardo (il theorein) immanente alla prassi stessa. La prassi non è nulla se non produce essa stessa il suo interprete, e questo interprete può assumere forme apparentemente molto banali: una semplice riunione chiamata «consiglio», uno scambio intorno a un testo, un «Cosa c’è di nuovo…». Ma può anche trovarsi nei libri, che restano il tesoro degli operatori pedagogici, e nei quali nasce la teorizzazione propriamente pedagogica. Sull’avvicinamento di questi due tipi di interpreti, si veda Le peuple libre des praticiens. Conseil de coopérative, monographie d’écolier, deux emblèmes de la maîtrise pédagogique, in Laffitte, 2020, pp. 35 e sgg.

44 O un caseificio che vende il suo formaggio, a seconda del periodo...

Vol. 21, Issue 2, May 2022

Abbiamo incontrato Fernand Oury e François Tosquelles, non insieme. Abbiamo dato retta al consiglio di quest’ultimo: fate la vostra pedagogia istituzionale. Prendete idee, proposte, ma fatele diventare vostre. I collettivi delle scuole dell’infanzia bolognesi avevano l’abitudine di prendere in considerazione i problemi, e di conseguenza accadeva che in ogni incontro venissero evocati un certo numero di bambini, in maniera relativa al problema che ciascuno di loro presentava. Imponemmo la monografia: prendere in considerazione per un anno un bambino. Chi lo vede tutti i giorni relaziona. Le altre educatrici e le bidelle — le dade — possono interagire e comparare. Utilizzare la monografia in un contesto educativo o formativo significa focalizzare l’attenzione su una situazione, un «caso» per esaminarne i risvolti interpersonali e istituzionali.

Si tratta contemporaneamente di una ricerca conoscitiva e di una ipotesi progettuale che mira all’integrazione. Integrazione che non può essere responsabilità di un’unica persona ma di un gruppo, di una istituzione che si dispone a un adattamento continuo per rispondere alle esigenze di tutti.

La monografia è uno «strumento organizzatore» del lavoro del gruppo.

La monografia presuppone quindi il costituirsi di un gruppo che, in un lavoro costante che si protrae nel tempo attraverso incontri regolari e periodici fra le diverse componenti coinvolte, cioè figure professionali e/o istituzioni, analizza la situazione da più punti di vista e in chiave evolutiva.

Attraverso la monografia si lavora sulla storia di una persona, che rimanda alla storia di un contesto (dal gruppo-classe alle istituzioni) per organizzare integrazioni fra loro. Dalla monografia nacque la realizzazione del Consiglio. Il Consiglio è uno degli strumenti della pedagogia istituzionale più collaudato e riproducibile; nella realtà in cui è stato applicato ha consentito una maturazione del gruppo e dei singoli che ne fanno parte. Esso rende possibile che, all’interno di un gruppo, ogni individuo sia un membro attivo e partecipi responsabilmente alla gestione del gruppo stesso attraverso l’elaborazione di istituzioni (glossario) che rispondono ai bisogni che si presentano.

In consiglio vengono messe a confronto opinioni, vissuti, desideri; il dibattito è sempre centrato su questioni che attirano l’attenzione del gruppo. I contenuti che emergono sono infatti determinati dalla storia particolare del gruppo e dei singoli, dal contesto in cui il gruppo si colloca.

Il consiglio può avere molteplici funzioni, ad esempio, le più importanti sono: informativa, di analisi, presa di decisione, di regolazione. In Consiglio possono essere comunicate informazioni che tutto il gruppo deve conoscere. Nella pedagogia istituzionale viene privilegiata la strutturazione di un ambiente educativo nel quale ogni individuo abbia la possibilità di portare il contributo della propria esperienza di vita e delle proprie competenze. Per «ambiente educativo» si intende il luogo in cui si svolge e si organizza la vita di un gruppo; i contenuti che si vogliono trasmettere si collegano direttamente al contesto all’interno del quale si realizzano gli apprendimenti.

L’impiego di vari strumenti, linguaggi verbali e non, materiali strutturati e non, è collegato allo sviluppo delle diverse capacità che ogni bambino/ragazzo/adulto possiede, mette a disposizione di tutto il gruppo, integrandola nell’ambito di un progetto cooperativo. La cooperazione è uno dei concetti più importanti fatti propri dalla pedagogia istituzionale.

La monografia viene concepita e utilizzata all’interno della pedagogia istituzionale come strumento tecnico e scelta culturale basati sulla cooperazione, intesa come assunzione di responsabilità.

Cooperazione che, piuttosto che la soppressione dei conflitti, sceglie la loro analisi da parte di tutti, in un sistema di comunicazione aperto alla diversità dei codici, come delle esperienze e dei contributi. La monografia diviene così uno strumento di analisi dei rapporti relazionali e di lettura dell’intera istituzione, prendendo un «caso» come oggetto comune di confronto.

Chi nasce dovrebbe essere abitato da — o abitare in — un progetto. E un progetto ha bisogno di cure e di spazi. Ha continuamente bisogno di manutenzione (manutenzione come capacità di stare, anche invisibili, nell’imperfetto perfettibile. La compagnia dell’imperfetto esige mediatori, umani e materiali, per formare continuamente una rete, da percorrere, da rattoppare quando si strappa, da rinforzare sapendo «fare nodo», sapendo scomparire nell’intreccio, e riapparire per proseguire).

Vygotskij (1896-1934) ci ha insegnato che della persona è sbagliato vedere solo l’aspetto patologico, che rappresenta una percentuale irrisoria, e non vedere l’enorme riserva di salute. Baden Powell (1857-1941) diceva che in ogni essere umano c’è almeno un 5% di buona qualità, che basta per migliorare il mondo. Questi personaggi fanno parte dell’orizzonte dell’educazione attiva e non sono collocabili in un passato da seppellire o, più benevolmente, da archiviare. Ci interessa la tracciabilità che, nell’orizzonte dell’educazione attiva è vasta, tale da intrecciare un poeta come Tagore e uno scienziato come Piaget, capaci di cogliere e accogliere le iniziative per intrecciare proposte. E può illustrare bene questa capacità l’esempio di Janusz Korczak, il grande educatore pediatra ebreo polacco, direttore della «casa degli orfani» nel ghetto di Varsavia, e morto, o meglio, scomparso con i suoi bambini e le sue bambine sul treno blindato verso il campo di Treblinka. In giorni in cui nessuno sapeva quanto avrebbe ancora resistito e vissuto, Korczak manteneva l’organizzazione di un piccolo giornale dei bambini e delle bambine; e di un incontro settimanale aperto a tutti, e chiamato «la borsa delle idee», in cui un tema veniva svolto in una lista di soggetti per essere illustrato e approfondito. Questo avveniva nel ghetto di Varsavia, in pieno terrore nazista. E l’ultimo giornale stampato, prima della catastrofe, aveva l’editoriale dello stesso Korczak dedicato all’importanza di riordinare la tavola quando è finito il pasto, e di non lasciare briciole e disordine. È l’ultima «borsa delle idee» aveva temi come l’importanza delle donne in Europa, o il ruolo di Napoleone nella storia europea. Forse Korczak non avrebbe detto che quello che faceva era un progetto outdoor. Ma quello che faceva andava fuori dalle porte del ghetto.

Allarghiamo lo sfondo rendendolo capace di dare un senso a ciò che potrebbe sembrare insensato e anche sconveniente.

Elisabetta Poloniato racconta di una ragazzina che sembra specializzata nell’emettere continuamente rutti. Non è una specializzazione apprezzata, Elisabetta, l’educatrice, è in qualche modo ritenuta responsabile di questo comportamento disdicevole. Accade che il gruppo di cui fa parte la specialista in rutti realizzi una certa animazione. Nell’animazione vi sono delle rane in uno stagno. Elisabetta ha l’idea che i rutti prodotti dalla ragazzina possano costituire la colonna sonora delle rane; se realizzata l’idea è vincente. La ragazzina non fa rutti. Fa il verso delle rane, un gracidare profondo. Passa dalla fastidiosa e insensata coazione a ripetere al controllo finalizzato.

L’apprendimento, come la riabilitazione (che è un apprendimento), ha sempre bisogno di avere un’organizzazione mentale, un quadro simbolico, che permetta di imparare ad apprendere. Frösting raccontava di un camionista che doveva imparare a ballare e non riusciva a eseguire le indicazioni che la sua ragazza gli dava, ogni volta che iniziavano a ballare. Solo quando ha riorganizzato le indicazioni relative ai passi da eseguire, sui pedali del camion ha imparato a ballare, poiché ha messo le competenze che gli erano richieste non sulle immagini che la sua ragazza aveva in mente ma sulle proprie immagini, o meglio sulle immagini che facevano parte della propria quotidianità.

Ci fu il gruppo PIA, Potenziali Individuali di Apprendimento, che sviluppò lo sfondo integratore, e non solo. Nacque il NAVIGATORE SATELLITARE. Modello operativo: possiamo riferirci a modelli computeristici che riguardano i percorsi stradali, e che permettono di ottenere informazioni circa il tragitto da compiere da un certo punto (inserendo l’indirizzo o le coordinate del luogo di partenza) a un altro punto, che va indicato con precisione. Certamente la precisione delle informazioni fornite è l’elemento fondamentale per avere le indicazioni del tragitto da compiere. Se i dati forniti non sono «riconoscibili» perché inesatti, non vi sarà alcuna indicazione di tragitto. Ma questo è un punto di partenza che ha la sua importanza. Il percorso che vorremmo fosse fornito da un servizio computeristico esigente riguarda non le strade ma un tratto di un progetto esistenziale, o progetto di vita. E l’esigenza del computer interattivo è un elemento che può aiutare a capire come sia importante sapere in che punto un soggetto si trova e saper indicare con altrettanta chiarezza e precisione il punto dove vuole arrivare. Occorre partire dalla domanda «Dove sono?», e, una volta risposto a questa prima questione, occorre rispondere alla seconda domanda: «Dove voglio arrivare?». Già queste due questioni hanno una certa importanza, ed è probabile che per la risposta non sia sufficiente l’interazione fra individuo e computer, ma sia utile un intervento mediatore di un operatore, adeguatamente formato. Successivamente, il computer dovrebbe fornire l’itinerario, o — come si è già detto — potrebbe non riconoscere le risposte, e richiedere quindi maggior precisione. Ma ipotizziamo che le risposte siano riconosciute. Il seguito è l’esposizione del percorso per congiungere le due posizioni, indicando i soggetti istituzionali che compongono le tappe dell’itinerario. Lo strumento dovrebbe essere predisposto per un accesso e un’utilizzazione adeguata a soggetti disabili, sia per gli aspetti grafici relativi a problemi di percezione visiva; sia per aspetti relativi a difficoltà di comprensione. E questo esige che, nella fase dell’impostazione sperimentale, siano coinvolti soggetti con disabilità.

Cresceva la nostra pedagogia istituzionale. Fino agli Acrobati. Chi è e cosa fa un educatore acrobata? E perché affermiamo che educatori bisogna esserlo e non solo farlo? Educare in fine significa esistere assieme, per un pezzo del percorso della vita. Per questo l’educatore è una dimensione dell’essere prima che del fare. Serve il giusto percorso di studi e serve il giusto percorso di vita. Perché educatore è quella persona che sa allacciare legami importanti, talvolta senza venirne compreso, ma solo osservando da lontano. Oppure invece scende nel campo a riempirsi di terra le scarpe e a conquistarsi calli nelle mani. Un educatore acrobata è un costruttore di significati in un collettivo di lavoro che procede nel condividere un vocabolario per dare vita a un mondo di opportunità accessibili, è uno scopritore di asimmetrie e eterogeneità, fonte di infinita ricchezza. Un educatore acrobata chiama a rinforzo del suo essere tutto il valore aggiunto che risiede in lui: non è «solo» un educatore, ma sa essere anche un panettiere o una sarta o una ceramista. Sa accogliere e condividere, sa passare testimoni. Ha uno sguardo lungimirante che rivela segreti sorprendenti, perché rompe la cornice dell’etichetta e scopre l’operosità. Così la stessa etichetta diviene un enunciato performativo che concretizza una realtà positiva, in cui la dinamica evolutiva e il cambiamento sostanziano l’operosità.

  • Un bambino molto aggressivo e collerico entrò in uno sfondo integratore costruito da una elaborazione della storia dei sette nani. Diventando Brontolo, poté evolvere le sue collere, trasformandole in simpatiche brontolate.
  • Un ornitologo americano dell’inizio del XIX secolo, Mac Millon, si domandò se i condor non avessero dovuto essere protetti dai cowboys che sparavano a qualsiasi cosa si muovesse. Bisogna salvare i condor non solo perché abbiamo bisogno di loro, nell’ecosistema in cui viviamo, ma anche perché abbiamo bisogno di sviluppare le qualità umane necessarie per non tanto proteggerli, ma salvarli. Sono le stesse qualità di cui abbiamo bisogno per salvare noi stessi.
  • Si può proporre uno sfondo integratore in molti modi. Freinet assisteva al gioco che i bambini stavano facendo: la gara delle lumache. Freinet scrisse sulla lavagna le parole che quei bambini dicevano giocando. Le ripropose come un testo-contesto — sfondo integratore — che valorizzava la loro operosità.

Bisogna imparare a vedere, e valorizzare, l’operosità che ciascuno sviluppa e che potrebbe nascondersi nei dettagli di qualcosa che in sé non ha un gran valore, come il gioco della gara delle lumache. L’operosità è nella realtà dell’altro. Freinet la sa vedere e riproporre senza appropriarsene, ma valorizzandone la dimensione produttiva e non esclusivamente ricreativa o occupazionale. Il deposito di esperienze dell’educazione attiva può servire per capire come ciascun essere umano, dalla nascita, sia attivo, operoso, e l’educazione collega questa operosità attiva all’appartenenza allo sfondo integratore della comunità sociale.

Ci sono domande, esplicite o implicite, che hanno risposte che le annullano, schiacciandole spazzandole via. Non ne rimane traccia. Sono sincroniche. Vivono in rapporto a un’armonia data una volta per tutte. La pedagogia istituzionale, la nostra pedagogia istituzionale — ma azzardiamo l’ipotesi che sia un elemento condiviso —, privilegia le risposte diacroniche. Chi conosce la musica di Gustav Mahler può prenderla come splendido risultato di composizione diacronica.

Nella nostra pedagogia istituzionale, un esempio di dinamica diacronica è la realizzazione del progetto Ti voglio capace, che nasce con lo scopo di dare possibilità senza sconti. Sappiamo che ogni individuo, come afferma solennemente la nostra Costituzione, ha diritto a una vita il più possibile libera, nei limiti dei diritti e dei doveri stabiliti dalla legge (ed è quanto fa di ciascun individuo un cittadino). Soffermiamoci più attentamente sulla situazione di chi deve crescere con esigenze particolari. La sensibilità su tale argomento, specialmente negli ultimi anni, ha permesso di operare una distinzione fondamentale tra il deficit, inteso come un danno irreversibile, e gli svantaggi o handicap, intesi come possibili barriere o ostacoli che l’individuo deve affrontare ma che possono essere ridotti, annullati, o all’opposto ingigantiti.

La scuola ha un compito fondamentale: deve favorire l’accesso e il contributo ai saperi. Deve saper incoraggiare e promuovere l’esplorazione e il contatto costruttivo con la realtà.

A volte, certe semplificazioni mediatiche creano malintesi che portano all’evasione dalla realtà, e non alla sua esplorazione. Le evasioni possono essere in molte modalità e forme: evadere attraverso informatica, inglese e imprenditorialità; ma anche attraverso la semplificazione della serietà/severità (bocciature …), attraverso i carismi contrapposti alle caratteristiche professionali. E ci possono essere evasioni di ogni tipo: nei sogni e nelle magie, nell’isolamento pensoso o nella connessione continua, nella tifoseria sportiva e musical canora, nella velocità e nella lentezza …

La società di chi è già cresciuto non aiuta in questo senso. Mostra a chi cresce evasioni fiscali, evasioni nella ricerca dei facili consensi, nella litigiosità e nel protagonismo, nelle espressioni di disprezzo per le diversità e quindi nell’immediatezza compiaciuta della superficialità e dell’improvvisazione… E potremmo continuare a lungo. Un o una Insegnante sa che dovrà misurarsi con questi problemi di evasione e non solo con i problemi del bullismo e dei fannulloni. Deve misurarsi con un contorno scolastico e sociale che certamente vive di insicurezze diffuse. Ma le sicurezze che vorrebbe forse non hanno risposta in più sorveglianza ai crocicchi e nelle ore a rischio. Anche questo! Ma soprattutto chiarezza di profili professionali e formativi. Gli Educatori Sociali, formati in molte università italiane da più di un decennio, non hanno ancora un riconoscimento ufficiale…

Un protagonista del rinnovamento psichiatrico, Edelweiss Cotti, recitò la parte del primario autorevole e, perché no, autoritario, indossando il camice che abitualmente non portava, per ricevere un ricoverato dell’ospedale psichiatrico di Imola — ospedale che fu chiuso successivamente. Il ricoverato esibiva le proprie intimità ai passanti della strada che costeggiava l’ospedale. Cotti, anzi: il prof. Cotti, gli prescrisse, con tanto di ricetta, le bretelle. Lo rese così capace di controllarsi.

È un piccolo esempio di un rinnovamento che poteva collegarsi alla psicoterapia istituzionale e quindi a François Tosquelles [Tosquelles, Prefazione a Lapauw (1969), Éducateurs… inadaptés, Paris, Éd. De l’Épi], che definiva l’Educatore come l’autore della parola, impegnato ad essere efficace attraverso l’impiego della parola. E spiegava questa indicazione ponendo l’Educatore in antitesi alla posizione che ne faccia un «maestro» in autorità, tale da non dover spiegare le proprie attitudini e decisioni, le proprie conoscenze e la propria ideologia. L’autorità è il messaggio, non misurabile dalla parola dell’altro, confrontabile con altre parole.

L’etimologia della parola ci porta a considerare la sofferenza e il dolore. E «quando di parla del “proprio dolore fisico” e del “dolore fisico di un’altra persona”, può quasi sembrare che si stia parlando di due ordini di eventi completamente distinti. La persona che soffre coglie il dolore “naturalmente” (cioè non può non coglierlo, neppure con uno sforzo eroico); mentre per chi è estraneo al corpo sofferente, ciò che è “naturale” è non cogliere il dolore […]».

Diversi anni fa ero in Rwanda per la cooperazione internazionale e mi capitò di incontrare il prof. Jean Damascène Mdayambaye, allora decano della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Nazionale di Butare. Aveva vissuto esperienze tragiche, che l’avevano segnato fisicamente. In particolare, la sua testa aveva il ricordo fisico dei colpi che l’avevano sfondata. Gli domandai qualcosa in proposito e lui mi disse che era stato curato a Ginevra, avendo scelto quel posto per entrare in contatto con Piaget e il suo gruppo. Mi domandò se avessi contatti con loro. E io, rispondendo e ragionando fra me ad alta voce feci il nome, anzi il cognome, di Palmonari. Con mia sorpresa, e commozione, il mio interlocutore, anche lui pensando ad alta voce, disse: «Oui: Augusto!». Mi dissi, e forse dissi, che il mondo è grande ma l’amicizia lo abbraccia.

Il prof. Jean Damascène Mdayambaye ha vissuto esperienze tragiche, che l’hanno segnato fisicamente. In particolare, la sua testa ha il ricordo fisico dei colpi che l’hanno sfondata. Ma proprio la sua testa ha continuato a funzionare, mantenendo una straordinaria capacità di agire nel periodo passato in prigione. Siccome Jean Damascène è una persona capace di leggere in ogni situazione anche qualcosa di ironico, pur essendo immerso in una tragedia di morte, proprio in prigione si inventò un ruolo e diventò una risorsa preziosa per i suoi poveri compagni. Che cosa fece? Si inventò la capacità di leggere la mano. In questo modo, e con la mediazione dei segni sulla mano, riusciva a tenere aperta la strada del dialogo e della speranza nel futuro in persone facilmente dominate dalla tragicità della precarietà della vita e della durezza della prigione.

Il prof. Jean Damascène è una persona spiritosa, e raccontando queste vicende non manca di mettere in luce l’aspetto un po’ comico e un po’ grottesco di questa avventura in un contesto decisamente tragico. Ascoltarlo permette di capire come quest’uomo possa oltrepassare i vincoli e situarsi in uno sfondo ampio, e quindi recuperare la possibilità di agire. È un professore universitario, ed è anche un religioso, superiore provinciale per il Rwanda e lo Zaire dell’ordine dei Frères Joséphites. Nell’episodio della prigione, non è possibile stabilire se la sua capacità sia derivata dall’avere uno sfondo più ampio di altri, o se lo sfondo si sia aperto grazie alla sua capacità di inventarsi il ruolo di lettura della mano. Ma è evidente, ascoltando Jean Damascène, che in lui è ben presente il rischio di rimanere prigionieri di uno spazio culturale e mentale molto angusto, e quindi l’impegno, che in lui è scienza, conoscenza, autoironia, a stare in uno sfondo ampio e tale da consentire di agire. Questo sembra evidente anche nelle piccole frasi a commento di conversazioni che riguardano la tragedia rwandese. Come quando, in evocazioni a conflitti etnici che si riflettono su comportamenti quotidiani, a mezza voce commenta: «L’identité... c’est de la misère!». E in effetti: l’identità può davvero essere miseria e miserevole, vissuta come può essere nella continua minaccia da parte di altri. Vivere l’altro come eterna minaccia significa precludersi di scoprirlo come fonte di nuove conoscenze, come allargamento dello sfondo che permette di agire.

Un esempio, bello, di pedagogia istituzionale, che, grazie a una dinamica diacronica, apre orizzonti.

 

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