Vol. 19, n. 2, maggio 2020

Forum

Lasciar parlare l’altro da sé

La narrazione autobiografica del Sé degli studenti con disabilità dell’Università di Perugia

Laura Arcangeli1 e Moira Sannipoli2

Sommario

Il periodo universitario può essere visto come un punto di intersezione tra adolescenza ed età adulta: il giovane adulto è chiamato a confrontarsi con obiettivi, motivazioni, valori e interessi che orienteranno le sue scelte future. La presenza di fattori di disabilità può influenzare la costruzione del Sé con conseguenze sulla crescita e risultati adattivi. Secondo l’approccio narrativo su cui si fonda il progetto di ricerca qui presentato, la narrazione autobiografica può essere una chiave per lo sviluppo e la conservazione del senso di identità, permettendo alla persona di dare significato alle esperienze proprie di questa fase di transizione. La ricostruzione narrativa del Sé offre al soggetto l’opportunità di cercare un equilibrio e un focus più mirato sulla sua storia personale, in bilico tra aspetti di agency (legati a fattori motivazionali individuali) e aspetti di communion (legati a fattori motivazionali interpersonali). La ricerca che qui presentiamo vuole investigare sui bisogni evolutivi della popolazione esaminata attraverso una intervista semi-strutturata che rilevi l’identità narrativa, indagando il processo di costruzione del Sé nel giovane adulto con disabilità, con un focus specifico sul profilo di funzionamento in termini di autostima, ansia, auto-consapevolezza, resilienza e progettualità futura.

Parole chiave

Educazione superiore, disabilità, agency, communion, identità.

FORUM

Let the other talk

Self-narrative in students with disability at the University of Perugia

Laura Arcangeli3 and Moira Sannipoli4

Abstract

The university period can be analyzed as the intersection point between adolescence and the adulthood: the young adult is called out to confront with goals, motivations, values and interests that will orient future choices. The presence of disability can have an important influence on self construction, with consequences on growth and adaptive results. According to the narrative approach which this research project is based on, self-narrative can be a key for developing and maintaining the sense of identity, allowing the person to give meaning to his own experiences of transition. The narrative rebuilding of the Self allows the subject to seek balance and better focus on his/her story, in balance between agency aspects related to individual motivational factors and aspects of communion that relate to interpersonal motivational traits. Consistent with preconditions the following research project aims to investigate the evolutionary needs of the population examined through a semi-structured interview that detects narrative identity, investigating the process of building self into the young adult by evaluating the students’ profiles in terms of self-esteem, autonomy, self-awareness and resilience.

Keywords

Higher education, disability, agency, communion, identity.

Introduzione

Il tema dell’inclusione universitaria degli studenti con disabilità è ormai divenuto oggetto di indagine di numerose ricerche nazionali e internazionali (D’Amico e Arconzo, 2013; de Anna, 2016; Faggella-Luby et al., 2014; Leake e Stodden, 2014; Pace, Pavone e Petrini, 2018). Molteplici sono gli scenari di riflessione che toccano oggi l’orientamento, la didattica universitaria, i servizi agli studenti, le tecnologie a sostegno dello studio e dell’autonomia, l’inserimento professionale (Pavone, 2014; de Anna e Covelli, 2018; Giaconi et al., 2018).

Lo studente in situazione di disabilità che si affaccia al percorso universitario è però, in prima battuta, un giovane adulto che in maniera più o meno consapevole fa i conti con la propria identità (Arcangeli, 2018; Contardi, 2004; Dettori, 2011; Goussot, 2009; Medeghini, 2006; Mura, 2014; Pavone, 2009). L’esperienza universitaria rappresenta infatti una delle prime occasioni che consente di cogliere l’essenzialità di una identità che è fatta di componenti deficitarie, ma anche di possibilità, talenti, risorse. Molti soggetti con disabilità che hanno avuto una diagnosi in età infantile, se adeguatamente sostenuti e accompagnati in termini di opportunità e conferme, sono riusciti a riconoscersi dentro e fuori quella scrittura, cogliendo la portata narrativa della propria storia, oltre facili previsioni e categorizzazioni. Altri studenti, che non hanno avuto l’opportunità di percepirsi in termini di possibilità e di identità, non sono riusciti a ritrovare tracce di Sé dentro il quadro diagnostico e, conclusa l’esperienza scolastica, dove spesso tutto è nato o si è manifestato, vorrebbero «ripartire da zero», fingendo e convincendosi che quella storia e quella scoperta possa essere taciuta. L’esperienza accademica, chiusa la parentesi scolastica, può rappresentare una possibilità di partire daccapo, provando a risanare o, in alcuni casi, a rimuovere il peso della sofferenza e della disconferma toccate. Questo desiderare di sperimentarsi «da zero» può condizionare fortemente la scelta del corso di studi e della professione, non più selezionato solo per desiderio e opportunità ma perché meglio consente di occultare la difficoltà, di fingersi non più etichettato e visibile. Il nascondere a sé e agli altri la propria diversità significa però spesso essere disposti a pagare dei prezzi cognitivi ed emotivi spesso superiori a quanto già sperimentato e sentito.

Molti studenti che hanno raggiunto la maggiore età senza aver ricevuto una diagnosi in età evolutiva possono sentire il bisogno di accedere ad alcuni diritti garantiti dalla recente normativa nel momento in cui si trovano ad affrontare l’esame di stato, il test di ammissione all’università, gli esami universitari o il mondo del lavoro. Proprio perché il riconoscimento di tali diritti è subordinato alla presentazione di una certificazione, la richiesta di una valutazione diagnostica da parte di adulti è in costante aumento.

Una delle sfide che appartiene al mondo universitario è quello di accompagnare ogni studente verso il proprio personale progetto di vita, sostenendolo in prima battuta perché possa riconoscersi nella propria storia, qualunque essa sia, oltre alle attribuzioni altrui. A partire da questa nuova e continua ridefinizione di Sé, che cambia a mano a mano che i vissuti diventano esperienze e le tracce personali elementi di conoscenza, è possibile cimentarsi con la possibilità di scegliere. D’altronde il percorso che porta ogni persona a diventare consapevole dei propri punti di forza e dei propri limiti è già esso stesso esperienza di vita. Sbagliare, cambiare, riposizionarsi è già diventare adulti. Potrebbe esserci uno scarto considerevole tra l’idea e la possibilità, tra ciò che si pensa di voler scegliere ed essere in grado di realizzare e la realtà dei fatti. Aver cura del progetto di vita dell’altro non è solo «riparare le ferite, ma anche un far fiorire le possibilità dell’essere» (Mortari, 2015, p. 123) e scrivere i capitoli della propria esistenza significa allora aprirsi a tutte le dimensioni della propria cura, diventare attori delle proprie scelte, liberandosi dei retaggi e delle impossibilità sperimentate e diventate spesso una seconda maschera. Misurarsi con contesti che facilitano e altri che ostacolano consente di comprendere bene che non tutto dipende da sé: ogni progetto si dà in tempi e spazi definiti che possono essere anche disfunzionali, inadeguati, inaccessibili.

Il progetto di ricerca

Il progetto di ricerca «Studenti con Bisogni Educativi Speciali all’Università: la narrazione autobiografica e il funzionamento del Sé in una prospettiva inclusiva» è stato promosso dall’Università degli Studi di Perugia negli anni accademici 2016-2017 e 2017-2018 con lo scopo di:

  • indagare bisogni e orizzonti degli studenti con disabilità iscritti all’Università di Perugia;
  • leggere il processo di costruzione del Sé nel giovane adulto con disabilità, con un focus specifico sul profilo di funzionamento in termini di autostima, ansia, auto-consapevolezza, resilienza e progettualità futura (Arcangeli, Emili e Sannipoli, 2017).

Alla luce della complessità del tema del progetto di vita che intreccia il piano interpersonale e intrapersonale nella costruzione dell’identità nel giovane adulto, è stato scelto un impianto multi-method (Waszak e Sines, 2003) che coniuga uno studio quantitativo, attraverso strumenti self-report, a uno qualitativo mediante un’intervista, riconoscendo la centralità di un approccio Student’s Voice (Pavone e Bellacicco, 2016; Bellacicco, 2017; Mazzer e Covelli, 2018).

Gli studenti sono stati invitati a partecipare alla ricerca tramite comunicazione scritta personale; a questo è seguito un incontro di presentazione dell’iniziativa per sensibilizzare e incoraggiare la partecipazione.

Coloro che hanno deciso di partecipare sono stati accolti presso il servizio Focus Pedagogico-Didattico che rappresenta uno spazio di ascolto e sostegno per tutti gli studenti dell’Ateneo. Durante il primo incontro di accesso, previa lettura e accettazione del consenso informato, sono stati compilati il questionario anagrafico, la Rosenberg Self-Esteem Scale (RSER) per valutare i livelli di autostima, il Questionario Ansia e Resilienza (QAR), la Self-Consciousness Scale (SCS-R) per cogliere le differenze individuali nella consapevolezza di sé, l’Identity Stile Inventory-5 (ISI-5) (Berzonsky, 1992) per valutare lo stile di identità e infine il Questionario sulle Strategie di Studio (QSS). Il questionario anagrafico, composto da una serie di domande a risposta chiusa, semi/chiusa e aperta, volte a raccogliere informazioni su genere, età, provenienza geografica, status familiare, prevede anche una riflessione sulla carriera scolastica per ricostruire la storia diagnostica e le forme di sostegno ricevute.

Negli incontri successivi della durata di circa un’ora ciascuno è stata condotta la Life Interview (McAdams, 2001; 2013), un’intervista semi-strutturata che rileva la narrative identity (o narrative self) ovvero una ricostruzione interiorizzata della storia passata che anticipa il futuro immaginato della persona. L’intervista, dopo aver individuato i capitoli principali della vita della persona, si sviluppa intorno a dei temi specifici che riguardano i momenti migliori, i peggiori, i punti di svolta, i ricordi passati e le prospettive future, le sfide importanti per la persona, i valori e gli ideali (religiosi e politici) fino a far emergere un possibile tema centrale di vita.5 La Life Interview incoraggia a guardarsi dentro e parlare di sé in modo libero e autentico, promuovendo un processo di auto-esplorazione e di riflessione su motivazioni più profonde che sottendono ai propri comportamenti, idee e decisioni, motivazioni intrinseche. Ogni intervista, concessa in utilizzo alla Prof.ssa Claudia Mazzeschi dall’autore, è stata audio-registrata e trascritta verbatim, codificata attraverso il sistema sviluppato da McAdams (2001), che riprende i concetti di agency e communion proposti da Bakan (1966). L’autore scrive: «I have adopted the terms agency and communion to characterize two fundamental modalities in the existence of living forms, agency for the existence of an organism as an individual, and communion for the participation of the individual in some larger organism of which the individual is a part. Agency manifests itself in self-protection, self-assertion, and self-expansion; communion manifests itself in the sense of being at one with other organisms. Agency manifests itself in the formation of separations; communion in the lack of separations. Agency manifests itself in isolation, alienation, and aloneness; communion in contact, openness, and union. Agency manifests itself in the urge to master; communion in noncontractual cooperation» (Bakan, 1966, pp. 14-15).

L’agency rappresenta quella modalità esistenziale di tipo individuale, caratterizzata dalla auto-affermazione e dall’auto-espansione, dalla spinta a padroneggiare e comprende i concetti di forza, potere, espansione, padronanza, controllo, gestione, autonomia, separazione e indipendenza.

I temi/contenuti di agency sono in particolare la padronanza di sé, lo status victory, la realizzazione, la responsabilità e l’empowerment.

La communion comprende quelle idee psicologiche e motivazionali che hanno maggiormente un carattere interpersonale e i temi riguardano l’amore, l’amicizia, l’intimità, la condivisione, l’appartenenza, l’affiliazione, la fusione, l’unione, il nutrimento.

Il sistema di codifica prevede l’identificazione degli episodi in ogni scena dell’intervista e l’attribuzione di un punteggio per la presenza/assenza di agency e communion con la relativa specificazione del tema.

L’intervista tenta quindi di fotografare la sfida del Sé che ha il compito di «integrare il forte bisogno di sentirsi accettati nel gruppo sociale di riferimento, nonché approvati da parte dei coetanei (istanze di communion; Bakan, 1966; McAdams, 1996), con l’altrettanto forte bisogno di trovare soluzioni originali e creative in problemi evolutivi che consentono loro di conservare e consolidare la stima di sé (istanze di agency, McAdams, 1996)» (Sica, Nasti e Aleni Sestito, 2012, p. 84).

Hanno partecipato alla ricerca 98 studenti in corso. Il 68% degli intervistati è stato di genere femminile e il restante di genere maschile. Il 71% era iscritto a una laurea triennale. Solo la metà degli intervistati ha usufruito nel corso degli studi di un tutor. L’età media è di 21,5 anni. Gli studenti avevano tutti un’invalidità riconosciuta superiore al 66%, in aree differenti (motoria, linguistica, sensoriale, relazionale) legata a situazioni di disabilità e/o a malattie (tra cui anche quelle oncologiche).

I self-report hanno evidenziato livelli di autostima (globale, self-competent e self-living), ansia e resilienza inferiori rispetto a quelli del campione normativo di riferimento, ma non in maniera significativa (Prezza, Trombaccia e Armento, 1997; Schmitt e Allik, 2005). In termini di Identity Style Inventory lo stile prevalente è quello evitante negativamente associato all’impegno, all’esplorazione in profondità e all’autostima personale e collettiva, mentre positivamente associato alla riconsiderazione dell’impegno (Crocetti, Fermani e Pojaghi, 2009).

Vista la ricchezza delle narrazioni raccolte, il presente contributo si focalizza maggiormente su quanto raccontato direttamente dagli studenti tramite l’intervista, con la consapevolezza che questa scelta, necessaria per la brevità di questo scritto, impoverisce molto la profondità e la significatività delle parole ascoltate, tutte degne in realtà di essere donate senza tagli.

Agency tra autonomia ed empowerment

Nel 67% dei casi gli studenti hanno riportato un’agency in più della metà delle esperienze di vita narrate nelle Life Interview.

Gli episodi di vita in cui gli studenti hanno narrato un senso di maggior agency sono stati i punti di svolta, le esperienze più attuali e spesso all’interno del contesto scolastico, universitario e affettivo nonché le esperienze di saggezza.

In molti hanno letto l’esperienza universitaria come punto di svolta in termini di autodeterminazione. Queste le parole di uno studente: «Sono sulla sedia a rotelle da sempre praticamente. Ricordo che prima di iscrivermi andai con i miei genitori presso il mio attuale dipartimento: mia madre anche quel giorno parlò più di me e il docente ci rassicurò dicendo che non mi sarebbe successo niente. Io ho deciso che invece avrei voluto che qualcosa succedesse, qualunque cosa. Ho chiesto spazi, tempi in cui potermi sperimentare. Sono caduto quattro volte, mi sono sporcato a mensa, ho aspettato un autobus per ben tre ore. Ho imparato a conoscere i miei limiti davvero, ho imparato a vivere di più» (intervista n. 48).

Un comportamento autodeterminato si traduce nella possibilità di sperimentare autonomia comportamentale, autoregolazione, empowerment psicologico e autorganizzazione (Wehmeyer, et al., 2003; Cottini, 2016) ma è sempre collocato all’interno di vincoli, ostacoli, barriere. Saper padroneggiare le proprie dipendenze, i propri limiti, è la vita più autentica per potersi sperimentare agenti delle proprie azioni. Ogni forma di libertà è sempre legata a un grado di partecipazione, all’avere legami con il contesto in cui si vive. Se infatti l’autonomia non si identifica con l’indipendenza, a dover essere modificato è nuovamente un immaginario che spesso pretende dalle persone con disabilità compiti che difficilmente appartengono all’umanità tout court. Non esiste progetto di autodeterminazione che sia totalmente autoreferenziale perché ciascuno nasce, cresce e si evolve dentro continue transizioni con il contesto, con evoluzioni continue nei livelli di intenzione e partecipazione (D’Alonzo, 2014). Il tema della scelta è strettamente connesso all’opportunità di poter ampliare l’orizzonte del proprio progetto di vita, anche contro le possibili «prigionie» degli stereotipi, delle attese, delle credenze e delle convenzioni, che troppo spesso, nonostante le buone intenzioni, oggettivizzano ciò che per sua essenza non può esserlo. «Ne consegue che la qualità della vita non è semplicemente uno standard che coincide con l’idea di dignità: non va fatta l’equazione esistenziale qualità della vita/dignità della vita. Ogni persona (anche quella con disabilità) è alla ricerca della sua strada in questa direzione» (Cairo, 2019, p. 330).

Il racconto di questo studente è a questo proposito illuminante.

«A scuola purtroppo sono andato sempre male. Ho un ritardo cognitivo lieve che non mi ha aiutato. Ho deciso però che volevo venire all’Università. Voglio provare a vedere se qui riesco a vivere nuove amicizie, nuove occasioni di incontro. Gli esami vedremo. Quando ho detto queste parole, mia madre e mio padre sono scoppiati a piangere. Forse hanno capito che questo posto per me può essere tante cose» (intervista n. 26).

Nelle narrazioni la diagnosi ha assunto un ruolo centrale: da una parte è stata presentata come ferita ancora innominabile e dolorosa, con resoconti di situazioni di medicalizzazione e disconferma che hanno contribuito a una immagine di sé sempre mancante e deficitaria. In altri casi questa comunicazione ha permesso l’attivazione di percorsi di autonomia ed empowerment che hanno consentito di non cadere in forme di vittimismo, dipendenza, richiesta nascosta di risarcimento (Canevaro, 2015). Di seguito il racconto di due studentesse: «Purtroppo a causa della mia malattia non cammino bene e il primo anno all’Università cercavo di arrivare molto prima a lezione. Mi sedevo ed evitavo di alzarmi. Aspettavo che tutti i miei compagni uscissero per lasciare l’aula. Tentai di farmi conoscere oltre questa difficoltà. Poi un giorno decisi che questo gioco doveva finire: ero stanca. Ho avuto la sensazione che nessuno si accorgesse che camminassi male; ero libera di essere come sono» (intervista n. 11). «Se oggi arrivasse qualcuno che mi potesse dare la possibilità di vedere, vorrei continuare ad essere cieca. Io amo vivere così, sentendo le voci e i rumori, gli odori, il caldo e il freddo, il liscio e il ruvido delle superfici» (intervista n. 42).

Il restante 37% degli studenti ha prodotto narrazioni in cui non sono comparsi temi di padronanza, forza, potere, espansione, controllo, autonomia rispetto alle proprie esperienze autobiografiche. L’infanzia è spesso ricordata come il tempo prevalente della riabilitazione o dell’iperprotezione, che sembra essere stata caratterizzata da pochi momenti di «normalità», «ordinarietà». Il vissuto scolastico è spesso riportato alla memoria in termini negativi e come elemento di restrizione di iniziativa personale, anche solo in termini di immaginario. Riporta a questo riguardo una studentessa: «Ho incontrato poco tempo fa una mia maestra delle elementari. Le ho detto che frequentavo l’università (…), che mi sono trasferita a Perugia. Mi ha sorriso ma subito dopo mi ha ricordato quando in classe spiegava e io non riuscivo a seguire… insomma io volevo raccontare il mio progetto, ma purtroppo quelle parole di allora sono tornate come nubi nel mio orizzonte e mi sono nuovamente sentita incapace» (intervista n. 15).

L’intreccio di elementi personali e contestuali ha fatto la differenza: le storie di vita in termini di agency invitano a riconoscere vincoli e possibilità di alcune condizioni e di certe situazioni, che di fatto tessono le trame di ogni esistenza (Santi e Di Masi, 2014). Abbandonata la logica del destino, a intrecciarsi sono sempre dinamiche auto ed etero-determinate e la consapevolezza di questa interazione è opportunità per sperimentare maturità, per diventare adulti. Riferisce uno studente: «Il mio progetto di vita oggi è legato a questo percorso universitario che spero mi apra una possibilità di lavoro. Una cosa però che adesso mi è chiara, e prima meno, è che non tutto dipende dalla mia condizione. Molto è nelle mani delle situazioni che mi troverò a vivere. Nelle situazioni però c’è la responsabilità e la volontà anche delle altre persone, delle istituzioni, delle politiche, con i quali farò i conti per sempre» (intervista n. 68).

Communion tra relazioni significative e forme di cura

Nel 53% dei casi gli studenti hanno riferito un’esperienza di communion nella metà delle esperienze di vita narrate nelle Life Interview. Gli episodi di vita in cui gli studenti hanno narrato un senso di maggior communion sono stati i ricordi infantili, i ricordi di adulti e le scene future.

In questo senso è emersa la centralità delle famiglie nella costruzione della dimensione sociale. Si evidenziano descrizioni dicotomiche nei confronti delle cure genitoriali, con una centralità nelle narrazioni delle madri e dei nonni (Pavone e Farinella, 2013). Si delinea un codice paterno assunto spesso dalle mamme (Iori, 2005; Contini, 2010), vissute come «cattive» in età infantile e rivalutate in età adulta. «Ricordo che mia madre mi comprava sempre le scarpe con i laccetti. Io le odiavo perché stavo lì delle ore a capire come intrecciare quei fili. Lei era lì e non mi aiutava. Da piccolo la odiavo. Ora che vivo da solo ho capito perché lo ha fatto. Recentemente mi ha raccontato anche quanto ha faticato a farlo: ho insieme a lei riletto quei comportamenti» (intervista n. 92). In altri casi questo percorso non è maturato e i genitori sono rimasti, nei vissuti, i bersagli e responsabili principali di certe condizioni di difficoltà. Il «liberarmi dai miei» è anche riflessione progettuale perché a voler essere allentati non sono i legami ma alcune pratiche di cura spesso eccessivamente anticipatorie e iperprotettive, in cui spesso le famiglie inconsapevolmente cadono, non essendo accompagnate in questo compito genitoriale, sicuramente inedito e non facilmente gestibile (Sen e Yurtsever, 2007; Caldin e Serra, 2011; Heller, Gibbons e Fisher, 2015).

In molti casi si sente il peso della sofferenza inflitta ai propri cari. Raccontano questi studenti: «Non lo so se dico bene ma a un certo punto mi era chiarissimo che la mia disabilità era dentro la storia della mia famiglia, di mio padre, mia madre, dei miei fratelli e delle mie sorelle. Insomma, la nostra vita era intrecciata» (intervista n. 34). «Ho odiato tutte le visite di controllo da piccola. Mi faceva male il dolore e la paura dei miei genitori che ogni volta temevano che la mia malattia peggiorasse. Non riesco a dimenticare i pianti nascosti di mia madre» (intervista n. 44).

La difficoltà a vivere esperienze affettive e significative oltre quelle familiari è sicuramente uno degli ostacoli a una communion autentica.

L’aspetto dell’amicizia è citato in molti casi come esperienza significativa dell’età adulta, ma è al tempo stesso anche ripresa come momento peggiore quando si è tradotta in «tradimento». Una studentessa riferisce: «Ciò che mi ha fatto più soffrire è stato l’aver perso la mia amica. Mi dispiace che dopo la scuola non ci siamo più viste. Mi sono sentita tradita perché era per me una di famiglia» (intervista n. 78). Se è vero che «chi tradisce non viene da un’altra casa, ma abita la nostra stessa casa» (Recalcati, 2019, p. 34), un’esperienza negativa in termini amicali non è solo la fine di una relazione ma spesso è la convinzione generalizzata che sia bene non fidarsi e aprirsi alle relazioni perché poco affidabili e quasi certamente dolorose.

Rispetto alla dimensione affettiva di coppia, le narrazioni sono più sbiadite. C’è chi riferisce di aver costruito qualche legame importante, chi ancora lo sogna, chi crede proprio di non meritarlo. Solo uno studente su tre pone la sfera affettiva come elemento di investimento per il proprio progetto di vita, legittimando purtroppo tutte le evidenze di ricerca sulle difficoltà di accompagnare lo sviluppo in termini relazionali (Castelli, 2013; Lascioli, 2016). In questo senso ritorna la stretta connessione tra autonomia personale e affettiva e il sapere vivere la reciprocità. «Non penso a una relazione oggi. Prima devo imparare a volermi bene» riferisce una delle intervistate (intervista n. 54). Il tema dell’affettività si lega anche alla possibilità di immaginarsi decentrati rispetto alle pratiche di cura, che in una relazione, implicano anche impegno, maturità verso qualcun altro. «Il percorso/processo di costruzione dell’identità, individuale prima e di coppia poi, passa attraverso il riconoscimento dei bisogni, dei desideri e delle pulsioni per giungere, dunque, alla necessità di agirli» (Bocci e Corsi, 2013, p. 116). Dentro queste sfide emerge con forza tutto il tema dei pregiudizi e degli stereotipi che sembrano già in partenza limitare e impregnare gli scenari, contenendone la bontà visionaria. Uno studente racconta: «Sogno un lavoro e una casa. Non credo che riuscirò mai ad avere una fidanzata; mi hanno fatto capire che è praticamente impossibile. Neanche l’aspetto più» (intervista n. 79).

La possibilità di considerarsi come parti integranti di una comunità è allora molto legata alla necessità di ribaltare alcuni immaginari, troppo spesso ingabbiati in convinzioni culturali che limitano le possibilità e le configurazioni, anche in termini esistenziali. Le persone con disabilità finiscono così per essere «destinate a non avere un posto in cui stare, a essere in un «altrove», o in nessun luogo, in una sfera sociale indefinita in cui si giocano relazioni ambigue, in uno spazio di vagabondaggio, di taglio dei legami, di dubbio, di disillusione e in una zona in cui la loro accettazione e il loro riconoscimento restano equivoci» (Gardou, 2006, pp. 57-58).

L’elemento della communion reclama in termini pedagogici la necessità di mettere in campo interventi e progettazioni che abbiano maggiormente in considerazione la prospettiva sociale del Sé. In questo senso va recuperata una dimensione coevolutiva del progetto di vita che, come afferma Canevaro (2018, pp. 158-159):

  • Permette di proiettare nel futuro diverso dal passato e dal presente.
  • Porta al confronto con la resistenza delle cose.
  • Permette di accedere a un fondamento della vita collettiva (la competenza è una forma legittima di autorità).
  • Permette a ciascuno, progressivamente, di trovare il proprio posto.
  • Permette di imparare a elaborare il bene comune.
  • Può creare un nuovo senso di appartenenza.

Il tema della vita: la speranza

L’intervista di McAdams si conclude con una domanda che chiede, a partire da un’analisi di tutti i capitoli della propria vita passati e quelli che si ipotizzano per il futuro, di identificare un tema centrale, un messaggio o un’idea che percorre tutta la propria storia.

Le parole che ricorrono con maggiore frequenza tra gli studenti intervistati sono speranza e possibilità: due termini di fatto strettamente connessi tra loro. Speranza è aprirsi al futuro con cognizione e responsabilità. La sua origine etimologica richiama infatti al tendere verso una meta, con la consapevolezza che ogni speranza si nutre di opportunità, dentro un tempo e uno spazio che è quello di poter avere e poter essere un progetto.

«La speranza è fame di nascere del tutto, di portare a compimento ciò che portiamo dentro di noi solo abbozzato. In questo senso la speranza è la sostanza della nostra vita, il suo fondo ultimo; grazie ad essa siamo figli dei nostri sogni, di ciò che non vediamo e non possiamo verificare. Affidiamo così il compimento della nostra vita a qualcosa che non è ancora, a un’incertezza. Per questo abbiamo tempo, siamo nel tempo» (Zambrano, 1996, p. 90).

Si evidenzia allora con forza che questi giovani adulti chiedono pratiche e parole di cura che possono dischiudere possibilità, aprire mondi, veicolare fiducia, ma al tempo stesso essere realistiche, franche, delicate, sostenibili per l’altro, dentro e fuori la propria condizione e la propria situazione.

«Se il tempo è di buona qualità, può contenere speranza, il che significa che chi vive un’emergenza continua, per carenze, povertà, oppressione, ha molte difficoltà a vivere la speranza, non ha davanti il tempo (…). La speranza è il tempo e l’attesa. Ma se è attesa di qualcosa di impossibile, cresce la disperazione (…). Si può imparare a vivere attese possibili» (Canevaro, 2015, p. 35).

Anche in questo caso vanno ripensati alcuni facili sbilanciamenti che portano in maniera illusoria a negare o annullare il peso del deficit o assolutizzarlo in termini negativi: ogni identità si costruisce invece sempre dentro al proprio funzionamento in termini di capacitazioni (Sen, 2005), che, consapevoli o no, comprendono anche le proprie zone di difficoltà, di fragilità. Anche in questo caso vanno evitate derive deterministiche che vorrebbero definire gli orizzonti del progetto di vita a un certo punto, come se non fossero possibili transizioni, evoluzioni, contaminazioni, come se ci fosse un tempo in cui un progetto di vita si fossilizza e diventa immobile.

«Educare alla speranza e attraverso di essa significa custodire e mantenere sempre aperta la possibilità di rinascere e ri-educarsi, complice la consapevolezza che ogni trasformazione significativa dell’umano, guidata dal passo pedagogico, non ha che mete relative» (Martino, 2019, p. 470).

La speranza come tema di vita è allora un’occasione per tutta la comunità scientifica e professionale per imparare ad avvicinarsi a queste storie con reverenza, con autentica volontà di lasciare uno spazio di partecipazione. «Chi ha cura si trova in una condizione di potere rispetto a chi non è autonomo. Proprio perché chi è dipendente è anche massimamente vulnerabile, l’asimmetria di potere è propria della relazione di cura. (…) Avere rispetto è la condizione necessaria per prevenire il rischio sempre incombente di inumanità, che accade ogni volta che all’altro viene negata la possibilità di esserci secondo il suo desiderio» (Mortari, 2015, pp. 158-159).

Nuovamente la sfida è nel posizionamento di chi ha compiti educativi, invitato ad assumere un «orecchio acerbo» (Rodari, 1979) che sappia accogliere spaesamenti, riconsiderazioni, nuovi adattamenti che lasciano un segno profondo nell’auto-comprensione prima e nei possibili modi di stare con l’altro poi. A questo si aggiunge il bisogno di poter imparare a vivere la portata caotica di una relazione educativa autentica che non decide tutto prima con presunzione ma sa esercitare silenzio e umiltà, spazio di creatività anche oltre i nostri limiti. «Umanamente siamo portati a inseguire l’assenza di confusione ma, sapientemente, la vita ce la rimanda di continuo. Per ricordarci la nostra misura. Per sottrarci alla dismisura che ci conferiamo. Ecco, perché, graziatamente, non esiste una vita senza caos» (Scardicchio, 2019, p. 74).

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1 Professore Associato, Università di Perugia.

2 Ricercatrice, Università di Perugia.

3 Associate Professor, Università di Perugia.

4 Researcher, Università di Perugia.

5 L’intervista si divide in queste sezioni: scene chiavi di vita (momento migliore, momento peggiore, punti di svolta, ricordo infantile positivo, ricordo infantile negativo, ricordo adulto significativo, momento di saggezza, esperienza religiosa, spirituale o mistica), scene future (prossimo capitolo, sogni, speranze, progetti per il futuro, progetto di vita), sfide (sfide della vita, salute, perdita, fallimento, rimpianto), ideologie e tema di vita.

Vol. 19, Issue 2, May 2020

 

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