Vol. 24, n. 4, novembre 2025

intersezioni

Vita indipendente come pratica pedagogica critica. Disabilità, emancipazione e trasformazione sociale nella prospettiva dei Crip Studies

Elisa Costantino,1Barbara Centrone2 e Fabio Bocci3

Sommario

L’intento del presente contributo4 è quello di esplorare le dimensioni pedagogiche e politiche della Vita indipendente, partendo da una lettura critica dei modelli dominanti e mettendo in luce le pratiche e le teorie che, in diversi contesti, stanno generando alternative possibili, come quella dell’approdo a una Crip Pedagogia orientata dallo sviluppo dei Crip Studies. L’obiettivo che ci si propone è, quindi, quello di fornire una rilettura in chiave di pedagogia critica che superi l’approccio medico-assistenzialista al fine di costruire un linguaggio e uno spazio di pensiero che sostengano la Vita indipendente come orizzonte condiviso verso cui tendere.

Parole chiave

Vita indipendente, Interdipendenza, Pedagogia critica, Crip Studies, Pedagogia Crip.

INTERSECTIONS

Independent Living as a Critical Pedagogical Practice: Disability, Emancipation, and Social Transformation from the Perspective of Crip Studies

Elisa Costantino,5Barbara Centrone,6 and Fabio Bocci7

Abstract

The aim of this paper is to explore the pedagogical and political dimensions of independent living, starting from a critical reading of the dominant models and highlighting the practices and theories that, in different contexts, are generating possible alternatives, such as that of arriving at a Crip Pedagogy oriented towards the development of Crip Studies. The objective is, therefore, to provide a reinterpretation in terms of critical pedagogy that goes beyond the medical-welfare approach in order to construct a language and a space for thought that support independent living as a shared goal to strive for.

Keywords

Independent living, Interdependence, Critical pedagogy, Crip Studies, Crip Pedagogy.

I solemnly swear that I am up to no good!

(Moony, Wormtail, Padfoot e Prongs, Harry Potter and the Prisoner of Azkaban, 1999)

Premessa, come sfondo problematico

Quando parliamo di Vita indipendente, autodeterminazione o empowerment in riferimento a persone disabili8 — o meglio, in linea con l’argomentazione qui sviluppata, disabilizzate9 — è possibile operare un rimando al costrutto di capacitazione. Com’è noto, questa locuzione rimanda alle riflessioni di Martha Nussbaum e Amartya Sen (1993) e a chi ne ha seguito le tracce cercando di svilupparle ulteriormente (ad esempio, Chiappero Martinetti, 2009; Biggeri e Bellanca, 2010; Alessandrini, 2014), anche — ovviamente non solo — in riferimento alla disabilità (Terzi, 2008; Ghedin, 2010; Harnacke, 2013).

Se, da un lato, Nussbaum (2010) ha identificato gli ambiti di capacità (vita; salute fisica; integrità fisica; sensi, immaginazione e pensiero; sentimenti; ragion pratica; appartenenza; altre specie, ossia vivere in relazione con il mondo della natura; gioco; controllo del proprio ambiente politico e materiale) sui quali soffermare l’attenzione ai fini di una riflessione che concerne il raggiungimento della giustizia sociale da parte di tutti, dall’altro Sen (2000), coniugando la giustizia con la libertà, evidenzia come siano le risorse che una persona possiede a determinare la sua possibilità di decidere come vivere. Per lo studioso, infatti, la capability di una persona è la risultante delle molteplici e alternative combinazioni di funzionamenti che essa è in grado di realizzare. Ha dunque a che vedere con la libertà dell’individuo di realizzare (e di realizzarsi in) più combinazioni alternative di funzionamenti; in altri termini, di essere nella possibilità di mettere in atto più stili di vita alternativi. E tutto questo dovrebbe essere garantito dalle risorse pubbliche.

Ora, benché Sen e Nussbaum prendano le distanze dai modelli utilitaristici tipici della società capitalista, risulta chiaro come le effettive possibilità di capacitazione delle differenti soggettività che abitano il Mondo nelle diverse latitudini e condizioni possibili e immaginabili siano direttamente proporzionali alle politiche economiche (quindi anche socioculturali) che gli Stati adottano nelle reali contingenze dell’epoca in cui viviamo, che sappiamo bene essere dominata da logiche neoliberiste, quindi produttivistiche, che tarano l’abilità (quindi la disabilità) sulla base di parametri performativi standardizzati sui corpi produttivi ritenuti normali (alla produzione e alla riproduzione).

In tal senso, l’impegno profuso da chi adotta la prospettiva della capacitazione si indirizza, spesso, verso la rivendicazione di una più equa ridistribuzione delle risorse a vantaggio delle fasce (o categorie) più deboli e vulnerabili. Non c’è nulla di male in questa postura. Tuttavia, è facile immaginare (ed è bene immaginarlo) come i sistemi neoliberisti possano sfruttarla a loro vantaggio assumendola come modalità per reiterare (al massimo, e con grande spolvero di umanità e attenzione verso il prossimo) pratiche assistenzialistiche, in cui la ridistribuzione, quando c’è e nella misura in cui c’è, viene assegnata in base a un approccio di tipo medico-individuale che richiede al soggetto di essere reificato in una determinata categoria per vedersi riconosciuto tale diritto.

Diversamente, è possibile legare l’idea valore di capacitazione ai processi di autodeterminazione delle persone disabilitate, in una prospettiva che va oltre il concetto socioeconomico di equa ridistribuzione, collocandola invece nell’alveo di un’azione dal basso che pone in primo piano e mette in discussione lo stesso assetto strutturale del sistema capitalistico che genera, determina e reitera le discriminazioni, le marginalizzazioni e le esclusioni di chi diverge, nutrendo, di contro, i privilegi della classe dominante e — cosa tra le più subdole di questo sistema — di chi anela a farne parte e pertanto la supporta e ne è connivente nella presunta convenienza di stare dalla parte del padrone.

Capacitazione come forma di coscientizzazione, come postura di consapevolezza che, per quanto possiamo essere condizionati (dal sistema), non siamo però soggettività predeterminate (Freire, 1996).

Non è dunque un caso che nell’America trumpiana — e non solo, si pensi all’Ungheria di Orban, all’Argentina di Milei e, purtroppo, anche all’Italia dell’attuale Governo Meloni — sia così sotto attacco tutto ciò che fa riferimento alle politiche orientate a promuovere la Diversità, l’Equità, l’Inclusione e l’Accessibilità. Al di là della strutturale avversione delle destre fasciste contro tutto ciò che non si conforma agli standard di cui è espressione (la supremazia bianca, il maschilismo patriarcale, l’eterosessualità, l’abilismo, l’agiatezza economica, ecc.), la reazione (negli States ormai a livelli parossistici) nei confronti di tutto ciò che attiene all’acronimo DEIA deriva proprio dalla percezione di minaccia alle proprie fondamenta strutturali e paradigmatiche che questa forma di potere avverte nei suoi confronti, portata avanti da chi immagina una società basata sull’inclusione e sul rispetto delle differenti diversità che, nella realtà delle cose, compongono le nostre società.

E non è altresì un caso che in questa sede, nei paragrafi che seguono, l’argomentazione adottata per parlare di Vita indipendente, autodeterminazione, empowerment faccia riferimento proprio a questa idea di capacitazione. Un’idea che, in verità e come vedremo, affonda le sue radici nei movimenti che, già a partire dagli anni Sessanta del Novecento, hanno legato le questioni che riguardano la disabilità a quelle che riguardano il sesso, il genere, la razza, l’orientamento sessuale, la condizione economica, nella convinzione che le forme di discriminazione sono molteplici ma la matrice che genera la disabilitazione è la medesima.

Introduzione al significato di Vita indipendente

Parlare oggi di Vita indipendente significa dare avvio a una complessa riflessione che tocca i nodi più profondi dell’idea di soggetto, cittadinanza, autosufficienza e convivenza democratica. Il termine, nato in seno al Movimento per i diritti delle persone disabilizzate, si arricchisce progressivamente di significato travalicando de facto la sola dimensione assistenziale per farsi terreno di interrogazione politica e pedagogica. Alla base del Movimento e della filosofia per la Vita Indipendente vi è il diritto delle persone a scegliere come e con chi vivere, a partecipare pienamente alla vita sociale, senza essere costrette a forme di segregazione più o meno visibili (Ravaud e Stiker, 2001; Shakespeare, 2006; Costantino, 2024, 2025).

L’importanza di affrontare oggi questo tema risiede in una duplice urgenza. Da un lato, si assiste ancora a una persistente marginalizzazione delle soggettività considerate non autonome, secondo la logica abilista (Campbell, 2009; Goodley, 2014; Bellacicco et al., 2022), che continua a permeare le politiche sociali, le pratiche educative e l’immaginario collettivo. Dall’altro lato, si sta affermando nel contesto italiano, in modo sempre più consapevole, la necessità di ripensare alla «questione disabile» nell’ottica dei diritti umani (D’Alessio, 2011a, 2011b; Degener, 2016), assecondando, pertanto, i principi di uguaglianza sanciti dalla Convenzione ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità (2006).

In questo contesto, risulta determinante la recente Legge Delega italiana in materia di disabilità (LD 227/2021), approvata in attuazione del PNRR e ispirata ai principi della suddetta Convenzione. Tale documento rappresenta, almeno sulla carta, un cambiamento culturale e normativo profondo poiché, per la prima volta, lo Stato italiano si impegna a costruire una cornice unitaria per superare l’approccio meramente assistenzialista e medicalizzante, promuovendo un modello fondato sui diritti umani, sull’autodeterminazione e sulla piena partecipazione alla vita sociale, lavorativa, educativa e affettiva.

Uno dei cardini di questo cambiamento è rappresentato proprio dal riconoscimento del diritto alla Vita indipendente: in linea con l’articolo 19 della Convenzione gli Stati firmatari sono impegnati a garantire l’accesso ai servizi di assistenza personale, all’abitare, alla mobilità, all’istruzione e al lavoro. Nel testo della Legge Delega, la Vita indipendente è riconosciuta come diritto fondamentale e viene finalmente separata dalle mere politiche di assistenza domiciliare puntando alla costruzione di progetti personalizzati, co-progettati e partecipati basati sulla valutazione multidimensionale e sulla piena partecipazione della persona disabile stessa, tenendo conto dei desideri, degli obiettivi di vita e del contesto sociale in cui si è inserita. Pertanto, la LD apre moltissime possibilità alle persone disabilizzate che, finalmente, possono vedersi riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e alla de-istituzionalizzazione.10

Inquadrare la Vita indipendente come atto pedagogico implica, pertanto, un cambiamento di paradigma: non si tratta semplicemente di erogare servizi o di fornire supporti ma di creare le condizioni educative per mezzo delle quali le persone possano apprendere e riappropriarsi del potere di definire la propria esistenza. Questo approccio pedagogico si nutre di una visione emancipativa che rifiuta la riduzione della disabilità a una condizione medica e ne riconosce, invece, il valore trasformativo.

Allo stesso tempo, la Vita indipendente si configura anche e soprattutto come un atto politico di rivendicazione e di occupazione degli spazi, un concetto volto a rompere l’ordine normativo che stabilisce chi ha diritto di parola, di scelta e di visibilità. È una lotta quotidiana contro le pratiche istituzionali che ancora oggi regolano le possibilità di vivere secondo criteri economici, morali e produttivistici. In questa prospettiva, ogni esperienza di Vita indipendente si configura come una pratica di resistenza e come un atto collettivo di ricostruzione dei legami su base di giustizia sociale (Morris, 1993; Oliver, 1996; Barnes e Mercer, 2006).

Vita indipendente: tra diritto, desiderio e pedagogia

Il Movimento per la Vita Indipendente ha origine negli anni Settanta a Berkeley (California), per mano di un collettivo studentesco di persone con disabilità motoria, i Rolling Quads, sotto la guida di Edward Roberts, come forma di rivendicazione dello spazio pubblico. Da sempre istituzionalizzate in luoghi deputati all’assistenza, Ed Roberts e le Rolling hanno iniziato a rivendicare, all’interno del contesto universitario, la propria esistenza e il diritto a vivere in maniera autodeterminata nel mondo di tutte e tutti. Per raggiungere tale obiettivo, oltre a rivendicare l’accessibilità degli spazi universitari, hanno dato vita a un progetto di assistenza personale autogestita fondata sul diritto di ogni persona disabilizzata a decidere dove, come e con chi vivere. Con Roberts va ricordata anche Judy Heumann che si è resa protagonista di importanti battaglie per i diritti delle persone disabilitate, come l’organizzazione a San Francisco del celeberrimo sit-in 504, nonché di esperienze controculturali come quelle di Camp Jened, noto come Crip Camp (Bocci, 2023).

Altrettanto centrale è la figura di Adolf Ratzka, il quale ha contribuito all’esportazione del paradigma della Vita indipendente in Europa. Nel 1989, egli definisce così la Vita indipendente:

È una filosofia e un movimento di persone con disabilità che opera per avere pari opportunità, autodeterminazione e rispetto di se stesse. Vita indipendente significa che vogliamo avere le stesse opportunità di controllo e di scelta nella vita quotidiana che i nostri fratelli e sorelle senza disabilità, vicini di casa e amici danno per scontate. Vogliamo crescere nelle nostre famiglie, frequentare la scuola vicino a casa nostra, usare lo stesso autobus che usano i nostri vicini, svolgere lavori secondo la nostra istruzione e i nostri interessi, crearci la nostra famiglia. Poiché nessuno meglio di noi conosce le nostre esigenze, abbiamo bisogno di indicare le soluzioni che desideriamo, essere responsabili della nostra vita, pensare e parlare a nome nostro, proprio come chiunque altro. A questo scopo dobbiamo sostenerci e imparare gli uni dagli altri, organizzarci e operare per cambiamenti politici che portino alla tutela legale dei nostri diritti umani e civili. [...] Finché guardiamo alle nostre disabilità come a delle tragedie, saremo compatiti. Finché ci vergogniamo di chi siamo, le nostre vite saranno considerate inutili. Finché tacciamo gli altri ci diranno cosa fare (Ratzka, 1997).11

Tale movimento si è poi diffuso progressivamente in tutta Europa e, nel 1989, è stata fondata l’European Network on Independent Living (ENIL) presso il Parlamento Europeo con Ratzka come primo presidente. Attualmente l’ENIL è una rete guidata da persone disabilizzate, impegnata a livello europeo nella promozione dei diritti umani, della deistituzionalizzazione e dell’autodeterminazione, secondo i principi della Vita indipendente, rappresentando un punto di riferimento privilegiato per il movimento europeo per la Vita indipendente.

In tal senso, il movimento ha ottenuto il suo massimo riconoscimento all’interno della Convenzione e, all’articolo 19 (Vita indipendente e inclusione nella società, lettera a), sottolinea come «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione».

Per quanto concerne il contesto italiano, la Convenzione è stata ratificata con la Legge 18/2009. In tal senso è necessario evidenziare un aspetto che merita una riflessione approfondita a riguardo della sua traduzione italiana e, in particolare, dell’articolo 19. Nella sua formulazione originale si parla di living independently, tradotto con Vita indipendente. Tuttavia, tale sfumatura semantica può generare un equivoco: la versione inglese pone l’accento sul diritto delle persone disabilizzate di vivere secondo i propri desideri e aspirazioni indipendentemente dalle limitazioni funzionali. Secondo tale prospettiva, le persone disabilizzate devono essere messe nelle condizioni di poter partecipare attivamente alla vita della propria comunità con sostegni personalizzati e partecipati. Al contrario, la traduzione italiana di Vita indipendente è associata alla possibilità di condurre una vita autonoma, dunque, facendo tutto da sé. Dal punto di vista operativo, tale sfumatura semantica genera confusione tra le operatrici sociali poiché, se a rigor di logica le persone disabilizzate non sono nelle condizioni di essere autonome (Zamengo e Valenzano, 2022, p. 116), come è possibile allora garantire il diritto alla Vita indipendente?

Questo porta a comprendere meglio la situazione italiana attuale, la quale rimane caratterizzata da un’insufficienza e una frammentarietà dei servizi rivolti alle persone disabilizzate. In linea con il modello medico della disabilità, infatti, tali servizi rimangono preposti alla cura e alla custodia, violando de facto il diritto all’autodeterminazione (Marchisio, 2019).

Per intravedere un reale cambiamento di paradigma sulla disabilità, è necessario guardare al DL 62 del 3 maggio 2024, all’interno del quale l’Italia compie un passo decisivo verso una piena attuazione della Convenzione e il riconoscimento delle barriere sociali disabilitanti che impediscono la cittadinanza attiva alle persone disabilizzate (Tarantino, 2024). Il fulcro della riforma è costituito dal Progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato, che non si limita a una mera risposta assistenziale ma si configura come uno strumento concreto di autodeterminazione e di promozione della piena cittadinanza delle persone disabilizzate. Tale strumento ha origine da una valutazione multidimensionale, che non si limita alla rilevazione delle limitazioni funzionali, ma si estende anche all’analisi dei desideri, degli obiettivi di vita e dei contesti abitati dalla persona disabilizzata (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2021). Questo concetto implica il passaggio da una posizione di passività a una condizione di persona dotata di agency protagonista e artefice delle proprie decisioni esistenziali.

In questo contesto, il coinvolgimento diretto della persona disabilizzata nel processo di definizione del progetto di vita rappresenta una concreta attuazione del principio di partecipazione attiva, garantendo la personalizzazione dello stesso. In tal modo, il progetto di vita si fonda sul diritto di costruire in modo indipendente e consapevole il proprio itinerario esistenziale, con il supporto della comunità, delle istituzioni e dei servizi. Ciononostante, si segnala la recente decisione politica di posticipare l’attuazione del Decreto Legislativo 62/2024, parte integrante della riforma sulla disabilità avviata nel 2021, che introduce il progetto di vita menzionato poco sopra. Tale rinvio ha suscitato l’indignazione e le critiche delle persone disabilizzate e delle associazioni che, ancora una volta, si vedono negare il diritto alla Vita indipendente.12

Riprendendo il concetto di Vita indipendente, è possibile approfondirne ulteriormente il significato e i principi fondamentali che lo caratterizzano.

Nel concreto, la Vita indipendente assume come principi fondanti le scelte della persona disabilizzata nonché il diritto all’autodeterminazione. Diviene così rilevante la dimensione di accrescimento dell’empowerment della persona disabilizzata che si autodetermina. È, inoltre, importante sottolineare che, secondo il Movimento per la Vita Indipendente, autonomia è diverso da indipendenza poiché essere autonomi non coincide con il fare le cose da soli, ma si concretizza piuttosto nella possibilità di scegliere per se stessi. Vi è chi (Canevaro, 2006; Medeghini e Valtellina, 2006) fa riferimento all’autonomia dipendente, ossia un’autonomia che si genera sulla relazionalità e non sull’autosufficienza, la qual cosa richiede la consapevolezza delle interdipendenze che occorrono tra persone e contesti. In questa prospettiva, risulta chiaro che nessuna di noi è del tutto autonoma: abbiamo bisogno sempre di qualcuno che, ad esempio, ci aiuti nella gestione del denaro o delle figlie, nella sfera affettiva o nel portare a termine semplici azioni quotidiane. Chi, nel corso della propria vita, non ha mai avuto bisogno di consigli o aiuto?

In ambito pedagogico, il concetto di interdipendenza assume un significato centrale e costitutivo. L’essere umano, infatti, non è concepito come un individuo isolato ma come una persona-in-relazione, il cui sviluppo integrale è possibile solo all’interno di dinamiche relazionali significative. Pertanto, l’interdipendenza non rappresenta un limite da superare ma un dato ontologico e una risorsa educativa e sociale fondamentale. Dal punto di vista pedagogico, l’interdipendenza si manifesta sin dalle prime fasi della vita, momento in cui la bambina cresce all’interno di un sistema relazionale che la sostiene, l’accompagna e ne favorisce la crescita.

Come sottolineato da Winnicott (1960, 1971), il passaggio dalla dipendenza primaria della neonata all’autonomia non si verifica attraverso la rottura dei legami, ma mediante la costruzione di un’interdipendenza sana, in cui la fiducia nell’altro diventa leva per lo sviluppo dell’identità personale. Questa visione trova conferma anche nella pedagogia relazionale contemporanea, che vede la relazione educativa non come un mezzo, ma come il luogo generativo dell’apprendimento e della crescita. L’educazione, intesa come processo co-costruito, è fondata su reciprocità, ascolto, empatia e responsabilità. In questa prospettiva, l’interdipendenza non è una debolezza, ma la condizione necessaria per l’emergere del soggetto capace di agire con consapevolezza e apertura verso l’altro. L’interdipendenza, letta in chiave pedagogica e di cura,13 rappresenta non solo una categoria descrittiva ma anche una proposta etica e formativa. Essa interpella la società nel suo complesso a promuovere politiche e contesti che abilitino le persone disabilizzate a vivere nel mondo di tutte, in una logica di reciprocità e corresponsabilità.

Da tale visione discende un compito pedagogico centrale e un cambio di paradigma sulla disabilità: non bisogna assistere e custodire in luoghi istituzionalizzanti le persone disabilizzate, ma accompagnarle nella costruzione di un progetto di vita autentico, desiderato e partecipato. Vita indipendente, dunque, non significa vivere senza aiuto ma poter scegliere dove e con chi vivere, avere accesso ai servizi di supporto necessari per partecipare pienamente alla vita comunitaria e poter esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione. Questa re-visione ha un carattere profondamente pedagogico. È, infatti, attraverso l’interdipendenza e le relazioni educative che si possono accompagnare le persone tutte verso l’autodeterminazione. La Vita indipendente, dunque, non è solo un obiettivo sociale o giuridico ma diventa un vero e proprio progetto pedagogico.

Nel quadro di una pedagogia critica, il richiamo all’autonomia richiede l’essere messi nella condizione di poter scegliere consapevolmente, all’interno di relazioni di sostegno che non sostituiscono ma abilitano. In questa logica, il supporto diventa uno strumento relazionale e dialogico, non un dispositivo di controllo. Come afferma Paulo Freire (1971), l’educazione autentica è sempre dialogica e liberante: non si educa la persona, ma con la persona. Il ruolo dell’educatrice e, più in generale, quello della società nel suo complesso non è quello di guidare dall’alto, ma di camminare accanto, aprendo spazi per l’espressione del desiderio e per la costruzione di un progetto di vita che nasca dall’autodeterminazione del soggetto stesso. Il desiderio rappresenta, in questa visione, una dimensione fondamentale. Spesso, nei percorsi educativi destinati alle persone disabilizzate, si lavora per obiettivi funzionali o comportamentali in linea con il modello medico, trascurando il fatto che ogni persona possa avere propri bisogni simbolici, affettivi ed esistenziali. Questo significa riconoscere che anche chi ha elevata necessità di supporto ha diritto a una vita piena all’interno della propria comunità. Inoltre, una pedagogia della Vita indipendente implica anche un accompagnamento verso orizzonti di scelta, di rischio e di un certo margine di errore.

Molti servizi, animati da intenzioni protettive e custodiali, tendono a costruire spazi di azione dove tutto è programmato, l’imprevisto è evitato e l’errore considerato un pericolo. Ma l’educazione autentica — come ricorda anche Gert Biesta (2006) — deve restituire all’altro la possibilità di autodeterminarsi, di sbagliare e, perché no, di prendere strade diverse da quelle previste. In questa prospettiva, educare alla Vita indipendente significa educare a vivere nella complessità, non al riparo da essa (Thomas e Loxley, 2007), con il chiaro obiettivo di restituire spazio alla soggettività, all’incertezza e alla possibilità di imparare anche dagli errori. Il supporto educativo, a questo punto, ha la necessità di risignificarsi in quanto non deve più assumere lo strumento di tutela ma di leva per l’autonomia. Ciò implica una riflessione critica sui ruoli delle educatrici, delle insegnanti e delle operatrici sociali, non più considerate esclusivamente come tecnici che applicano protocolli predefiniti quanto piuttosto come facilitatrici capaci di offrire un ambiente accogliente, attento all’ascolto, alla co-costruzione e alla promozione di alleanze educative.

Come affermato in precedenza, tali princìpi trovano oggi un’importante applicazione all’interno del DL 62/2024, attuativo della LD 227/2021, che introduce formalmente il Progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato come strumento centrale per garantire i diritti civili e la deistituzionalizzazione delle persone disabilizzate. Esso si configura, dunque, come un dispositivo pedagogico e politico che chiama in causa l’intera comunità. Perché sia efficace, tuttavia, deve nascere da un ascolto autentico della persona disabilizzata, da un lavoro di autonarrazione, dalla costruzione di relazioni significative che permettano di immaginarsi nel futuro. In questa direzione, la pedagogia della Vita indipendente si configura come orientata a un futuro non predefinito ma dalle molte possibilità.

Riconoscere la Vita indipendente come progetto pedagogico significa, pertanto, affermare che l’educazione ha il compito non solo di trasmettere saperi o competenze ma anche di rendere possibile l’accesso a una vita piena, libera e desiderata. Non è, quindi, solo questione di assistenza ma di giustizia sociale.

Vita indipendente e Pedagogia Crip: tempo, corpo, relazione come atti di resistenza

Alla luce di quanto fin qui delineato, nel dibattito contemporaneo attorno alla Vita indipendente delle persone disabilitate è quantomai necessario adottare sguardi teorici capaci di decostruire i presupposti abilisti e neoliberali sottesi alle nozioni tradizionali di autonomia, indipendenza e capacità. I Crip Studies (Centrone, 2025) offrono, in tal senso, un paradigma interpretativo utile a sovvertire i regimi normativi che plasmano le aspettative sociali intorno alla corporeità, alla produttività e alla relazionalità.

I Crip Studies (CS) si stanno progressivamente configurando come un campo interdisciplinare e critico che, pur partendo dalle elaborazioni della Crip Theory (McRuer, 2006), ne espandono l’orizzonte adottando una lente intersezionale, multiprospettica e multidimensionale. Lo sguardo crip agisce come forza epistemologica e politica, interrogando le categorie di normalità e devianza non solo all’interno dei dispositivi sociosanitari, ma anche nelle strutture pedagogiche, nei sistemi relazionali e nei regimi temporali dominanti. Non si tratta di una semplice estensione dei Disability Studies (DS), ma di una cornice analitica radicale capace di disarticolare i presupposti normativi che condizionano l’accesso alla piena cittadinanza nei termini di abilità, autonomia funzionale, produttività e conformità relazionale (Centrone e Costantino, 2025).

Come scrive McRuer (2006), il sistema di abilità obbligatoria, e l’ideale abilista del corpo capace, produttivo, indipendente e pienamente autonomo, è coestensivo al sistema di eterosessualità obbligatoria (Rich, 1980). La Teoria Crip svela la costruzione sociopolitica dell’abilità come norma imposta, che opera in modo analogo all’eteronormatività: non come descrizione di una condizione individuale ma come comando performativo che definisce chi può essere considerato normale, desiderabile, incluso (Bocci e Straniero, 2020). L’abilità non è solo un attributo biologico, ma una richiesta incessante di conformità, che produce esclusione e subalternità per chi non vi si adegua (Centrone, 2025).

Per questo, nelle grassroots14 statunitensi il termine crip, oltre che aggettivo identitario, è diventato anche un verbo, to crip, che indica un atto performativo, critico e politico attraverso cui si destabilizzano norme abiliste, temporali, spaziali e relazionali. To crip, o crippare in italiano, significa disorganizzare le aspettative su come debba funzionare un corpo, su come si debba apprendere, relazionarsi, amare o abitare il mondo.

Tale prospettiva mette in discussione la costruzione normativa dell’autonomia come autosufficienza individuale e dell’indipendenza come assenza di dipendenza. Tali concetti, apparentemente neutri, sono in realtà profondamente intrisi di logiche abiliste, neoliberali e produttiviste (Kafer, 2013; McRuer, 2006). I CS propongono una ridefinizione di autonomia come capacità relazionale, situata e negoziata, e una visione dell’indipendenza concepita non come isolamento funzionale e performativo bensì come la possibilità di definire le proprie relazioni di supporto, di costruire reti di cura e di essere parte attiva nella co-produzione del proprio ambiente di vita. In questa prospettiva, la dipendenza non è una condizione da evitare o da superare, ma un elemento costitutivo dell’esistenza umana, che richiede assetti sociali ed etici fondati sull’interconnessione, la solidarietà e la responsabilità collettiva (Mingus, 2017).

Nel contesto italiano, le recenti innovazioni normative, in particolare il richiamato DL 62/2024, rappresentano un passo significativo verso una concezione della Vita indipendente come diritto soggettivo. Il Decreto riconosce formalmente la persona con disabilità titolare del proprio progetto, ma una lettura crip invita a interrogarsi su come tale principio si traduca nella pratica e come rifuggire dal rischio di riprodurre un modello individualista, neoliberale e normativo di soggettività disabile emancipata (Goodley e RunswickCole, 2015).

Nonostante gli aggiornamenti normativi, l’istituzionalizzazione (residenzialità, residenze, strutture residenziali) resta una delle opzioni prevalenti per chi non ha accesso a servizi domiciliari adeguati o progetti di vita personalizzati (Curto, 2024). La mancanza di dati sistematici sulla percezione soggettiva delle persone con disabilità rispetto alla propria agency, al grado di partecipazione reale e alla libertà di scelta rappresenta una lacuna politica e scientifica. Uno sguardo crip invita a leggere questa assenza come una forma di epistemicidio, ossia l’esclusione strutturale della voce disabile dai processi di produzione della conoscenza.

L’approccio crip ci invita a rifiutare una visione rigida dell’istituzionalizzazione, intesa come semplice collocazione in una struttura. L’istituzione, infatti, è un dispositivo di controllo che può assumere molteplici forme: ospedale, scuola, famiglia, relazione. Secondo Goffman (1968) è istituzionalizzante ogni contesto che limita la libertà, ostacola l’autodeterminazione e produce una soggettività passiva. In questo senso, anche la famiglia nucleare tradizionale può divenire un dispositivo istituzionalizzante, soprattutto quando la persona con disabilità vi è collocata per mancanza di alternative senza possibilità di scelta, autodeterminazione, privacy, affetti. Tali dinamiche si aggravano ulteriormente per chi, oltre a vivere una situazione di disabilità, ha un’identità che rientra in quelle dell’ombrello LGBTQIA+. L’intersezione tra disabilità, orientamento sessuale o identità di genere non conforme può comportare una maggiore invisibilità affettiva, stigma, minori spazi di autorappresentazione e una famiglia protettiva che, spesso pur con intenzioni di cura, impone limiti alla sessualità, all’espressione dell’identità e alla possibilità di costruire legami affettivi e intimi (Centrone e Costantino, 2025). Sebbene manchino ancora studi italiani che mettano a tema l’impatto della doppia marginalità disabilità e identità LGBTQIA+ sulla coabitazione familiare obbligata, il lavoro pionieristico di Mara Pieri (2023) mette in luce come questa popolazione sovente veda la casa familiare come luogo di sorveglianza, negazione della privacy e limitazione delle possibilità relazionali.

Quando anche la famiglia diventa uno spazio di controllo e invisibilizzazione, soprattutto per chi vive intersezioni marginalizzanti, lo sguardo crip restituisce alla Vita indipendente la sua natura radicale e politica, non di emancipazione individuale, ma di resistenza condivisa alla compulsory able-bodiedness (McRuer, 2006), cioè alla presunzione sociale secondo cui essere abili, sani, autonomi e performanti costituisce lo standard auspicabile e desiderabile per ogni corpo. Lungi dal saper fare da sé l’indipendenza diviene possibilità di costruire alleanze, interdipendenze e reti di sostegno che rendano abitabili e desiderabili anche quelle esistenze che si pongono al di fuori dei confini della normatività funzionale. In tal senso, l’interdipendenza non va intesa come fallimento dell’indipendenza, ma come un dispositivo attraverso cui l’indipendenza stessa può essere esercitata: un atto di resistenza contro un ordine sociale che privilegia l’individualismo, la produttività, la normazione dei legami.

Queste riflessioni sulle alleanze e sull’interdipendenza trovano una risonanza ulteriore se osserviamo il concetto di tempo attraverso una lente crip, che mette in discussione l’organizzazione lineare, funzionale e produttiva del vivere. Uno dei contributi più significativi alla rielaborazione teorica della Vita indipendente in ottica crip è rappresentato dal concetto di crip time, introdotto e sviluppato da Alison Kafer (2013) e successivamente approfondito da Ellen Samuels (Samuels e Freeman, 2021). Il tempo crip è disallineato, non lineare, imprevedibile e si struttura sulle fluttuazioni del corpo, sulla fatica, sul dolore, ma anche sul piacere, sul desiderio e sull’attesa. Secondo Samuels, il tempo crip è un modo di esperire la temporalità che sovverte le metriche capitalistiche della produttività e del progresso, aprendo a forme di esistenza che si sottraggono ai criteri dell’efficienza e dell’utilità. Il tempo della Vita indipendente, se letto in chiave crip, non è quello dell’emancipazione lineare, della crescita continua, dell’adattamento al sistema, bensì quello denso, ritmato, relazionale, che valorizza la lentezza, l’interruzione, la cura e mira a far sì che persone e contesti siano sistemi erranti in continua trasformazione ed evoluzione (Bocci, 2025).

In chiave crip anche lo spazio assume una valenza trasformativa. Margaret Price (2024) propone di sostituire alla temporalità e alla spazialità normative una configurazione crip spacetime. L’autrice invita a pensare l’accessibilità non come semplice adeguamento architettonico o funzionale, ma come ripensamento radicale del modo in cui si costruiscono spazi e tempi di convivenza, anche a priori. La Vita indipendente non può dunque essere realizzata entro le coordinate spazio-temporali imposte dalla cultura maggioritaria, ma deve dare luogo a nuovi mondi, costruiti a partire dai bisogni, dai desideri e dai ritmi dei corpi disabilizzati. Tale visione si pone in tensione anche con l’Universal Design (Mace, 1998) e l’Universal Design for Learning (CAST, 2024) i quali, pur nascendo con l’obiettivo di rendere accessibili gli ambienti e i processi di apprendimento a una pluralità di corpi, spesso perpetuano una nozione di accessibilità funzionale e prestazionale ancorata a standard normativi. Al contrario, l’approccio crip invita a un UD/UDL radicali, capaci di disallinearsi dalla normatività per generare spazi flessibili, aperti all’imprevisto e alla coesistenza di molteplici ritmi e modalità di esistenza.

Per comprendere la portata trasformativa di una prospettiva crip è necessario interrogarne anche le implicazioni in relazione alle norme biopolitiche e sessuali che governano la soggettività contemporanea (Haraway, 2018). La disabilità, come altre forme di non conformità, costituisce una minaccia all’ordine simbolico neoliberale, fondato su produttività, normalizzazione e performatività regolata (Centrone, 2024; Pausé, Wykes e Murray, 2016).

In questo senso, le vite disabilizzate non rappresentano uno scarto sociale — quale categoria che riflette una visione biomedica abilista ampiamente diffusa nel sistema economico neoliberale, in cui il valore dei corpi è misurato sulla base della loro produttività, autonomia funzionale e capacità di rispondere alle esigenze del mercato (Puar, 2017) — ma un potenziale critico, una possibilità di rottura epistemologica, affettiva, temporale e relazionale con le strutture dominanti.

È in questa ridefinizione radicale della soggettività e della relazionalità che si possono accogliere e integrare criticamente le riflessioni che, pur non parlando esplicitamente di disabilità o di CT, offrono strumenti concettuali fondamentali per decostruire le logiche di performatività capitalista, cis-etero-patriarcale, abilista e mono-amato-allo normata15 che regolano i corpi e i desideri. Superare la CT in senso stretto e accedere al campo più ampio dei CS significa, infatti, esplorare un orizzonte teorico capace di mettere in relazione la disabilità con altre forme di marginalizzazione e insubordinazione corporea e relazionale. In quanto campo critico e in continua evoluzione, si nutrono anche delle riflessioni di autrici/ori che non si collocano esplicitamente all’interno dei DS ma le cui analisi, come nel caso di Preciado (2022) o Vasallo (2022), risultano profondamente affini per tensione politica, decostruzione delle norme dominanti e apertura a forme di soggettività e relazionalità non conformi.

È in questa capacità di contaminazione e dialogo che lo sguardo crip si consolida come approccio multi (dimensionale-prospettico), in grado di arricchirsi continuamente attraverso alleanze teoriche e pratiche che eccedono i confini disciplinari. Preciado, ad esempio, interviene criticamente sulla costruzione del corpo e delle relazioni nei sistemi neoliberali, mostrando come l’apparato biopolitico contemporaneo organizzi la vita intorno a una performatività obbligata, che riguarda tanto la conformazione del corpo quanto le modalità di relazione. In tale quadro, la disabilità e la non conformità di genere o relazionale sono lette come forme di insubordinazione alla norma. La critica di Vasallo alla mononormatività gerarchizzante si inserisce nello stesso orizzonte di decostruzione: l’idea che esista un unico modo legittimo di amare, relazionarsi e costruire legami (monogamo, romantico, riproduttivo, coabitativo) è funzionale al mantenimento di un ordine sociale fondato sulla proprietà, sulla stabilità e sul controllo dei corpi.

Le persone disabili, in quanto soggetti considerati non desiderabili o non produttivi, sono spesso escluse da questi modelli, ma proprio per questo possono rappresentare un punto di partenza per immaginare relazioni alternative, più fluide, più interdipendenti, più aperte alla vulnerabilità (Centrone e Costantino, 2025).

I contributi sulla disabilità e l’anarchia relazionale di autori come Piepzna-Samarasinha (2019) e Taylor (2024) evidenziano il potenziale trasformativo delle reti di cura non gerarchiche, fondate sull’interdipendenza, sulla flessibilità e sulla responsabilità collettiva. In particolare, il concetto di care webs proposto da Piepzna-Samarasinha indica sistemi di sostegno decentrati e affettivi, che sfidano la logica prestazionale e mettono al centro la sopravvivenza condivisa. Anche le riflessioni di Nikki Lane (2019) sulle relazioni queer e non mononormate evidenziano come la cura possa costituire atti di insubordinazione rispetto ai codici dominanti dell’efficienza relazionale, del possesso e del controllo. Le relazioni, in quest’ottica, non servono a completare soggetti individuali autosufficienti, ma diventano territori comuni di creazione di senso e co-dipendenza consapevole.

All’interno di questo orizzonte teorico e politico, la Vita indipendente non equivale più a un ideale di autosufficienza individuale (self-made person), ma si trasforma in un progetto collettivo e situato che implica l’accettazione della dipendenza come condizione umana universale e la sua politicizzazione come spazio di alleanza. Una Vita indipendente, in chiave crip, è dunque una vita interdipendente e desiderante, che si costruisce attraverso relazioni multiple e solidali che accolgono lentezza, imperfezione e reciprocità, in netto contrasto con le logiche abiliste e neoliberali della prestazione e dell’isolamento funzionale.

Crippare la Vita indipendente significa liberarla dai vincoli della logica meritocratica su base performativa (Sandel, 2021), dall’ideologia della capacità e dall’isolamento autoimposto ed eteroimposto come requisito di autonomia per restituirla alla dimensione collettiva, affettiva e radicalmente interdipendente dell’esistenza. Significa sovvertire l’idea secondo cui l’indipendenza consiste nel fare da sé, per aprire invece a una visione che valorizza, quale fondamento etico e politico della convivenza rispettosa delle differenze (Acanfora, 2021), l’interdipendenza positiva. Questa può essere vista come una pratica critica, etica e pedagogica che consente di decostruire le retoriche della capacità individuale, dell’efficienza e della monogamia affettiva intesa come dispositivo di controllo e normalizzazione dei legami. In una prospettiva crip, l’interdipendenza positiva assume diverse dimensioni: quella corporea (i supporti fisici, la cura quotidiana), quella affettiva e sessuale (relazioni, espressione di desiderio, intimità), quella temporale (tempi crip, ritardi, pause, incertezze), quella spaziale (spazi accessibili, abitazioni non normate, coabitazioni non convenzionali), quella identitaria (genere, orientamento sessuale, etnia, classe) e quella normativa (leggi, servizi, pratiche istituzionali).

Con questi presupposti, crippare la Vita indipendente implica un gesto radicale di disallineamento dai modelli normativi e una rielaborazione del concetto stesso di autonomia neoliberista come possibilità di scegliere, desiderare, costruire reti di sostegno e abitare il mondo con e attraverso gli altri, attraverso la rete di relazioni fondate sulla cura reciproca (Jamal-Eddine, 2021). In questa direzione, diventa essenziale approfondire come le pratiche quotidiane di cura, alleanza e co-abitazione possano risignificare radicalmente il concetto di relazionalità nella Vita indipendente spostandolo da un modello funzionalista e assistenziale verso una visione etica e politica della dipendenza condivisa.

Conseguentemente, il Progetto di vita individuale e partecipato è concepito come spazio di apertura al possibile, laboratorio di autodeterminazione situata e collettiva. Il desiderio, che in molti percorsi educativi viene ignorato o patologizzato (Morselli e Ellerani, 2021), assume qui una funzione centrale poiché è desiderando altrimenti che si può sovvertire l’ordine delle cose, immaginare mondi abitabili per tutti i corpi, costruire spazi e tempi che non chiedano più di essere performanti, autosufficienti, addestrati alla solitudine dell’autonomia.

Ciò implica che sistemi educativi, servizi sociali, sanitari e politiche abitative riconoscano e strutturino supporti che rendano possibile il tempo, gli affetti, le identità e le relazioni queer. Implica garantire desideri sessuali e spazi per la cura reciproca e creare le condizioni affinché ciascuno abbia potere reale nelle decisioni riguardanti il proprio abitare, le proprie relazioni, il proprio progetto di vita. Che le alternative abitative non solo siano accessibili, ma anche spazi affettivamente sicuri, rispettosi delle identità e delle relazioni non normate. Inevitabilmente, questo possibile paradigma attraverso cui avviare un cambiamento culturale comporta il ripensamento radicale delle risorse: budget, formazione, infrastrutture, tecnologie assistive, politiche abitative comunitarie e queer, sostegno peerled, assistenza alla pari, normativa che ascolti pratiche e voci marginali. In questo modo l’interdipendenza positiva, anziché compromesso, diverrebbe una resistenza attiva alla normatività oppressiva in grado di immaginare forme di Vita indipendente che siano radicalmente interdipendenti, profondamente incarnate, politicamente situate e affettivamente generative.

Conclusioni: verso una Pedagogia Crip

Come afferma Piepzna-Samarasinha (2019), care is a collective and political act: la cura reciproca non è soltanto una dimensione affettiva, ma un gesto collettivo di resistenza e un dispositivo strutturale di giustizia sociale. Ripensare l’educazione alla luce di questa affermazione significa riconoscere che non esiste neutralità nei processi pedagogici: ogni atto educativo produce inclusioni ed esclusioni, legittima saperi e corpi, costruisce (o disgrega) immaginari collettivi. È qui che si inserisce la Pedagogia Crip, come sguardo decostruttivo e generativo, capace di minare le fondamenta abiliste, neoliberali e colonizzanti che organizzano l’educazione tradizionale.

Crippare la pedagogia, specie nella scuola, significa smettere di correggere le differenze per cominciare a interrogarle; smettere di riparare i corpi non conformi per cominciare a valorizzarne la potenza trasformativa (Arbeláez-Maldonado e Ortiz Salazar, 2023). È un gesto che destabilizza le architetture educative centrate sulla produttività, sulla valutazione e sulla normazione, per costruire al loro posto luoghi di alleanza, lentezza, disallineamento, desiderio. In questa chiave, la Pedagogia Crip si configura come una pratica di contronarrazione radicale: non si limita a includere ciò che eccede la norma, ma ne sovverte attivamente i presupposti.

Come ci insegna bell hooks (2020), educare è un atto di libertà. Una libertà incarnata, relazionale, situata. La Pedagogia Crip assume questo orizzonte e lo estende, rendendo la fragilità una risorsa epistemica, l’errore una via di apprendimento, la vulnerabilità una possibilità di cura condivisa. L’aula, allora, non è più lo spazio della misurazione e del merito, ma un laboratorio fluido e accessibile dove le soggettività marginalizzate possono trovare riconoscimento e agire trasformazione. Kafer (2013) e Price (2024) hanno mostrato con chiarezza come tempi e spazi educativi debbano essere ripensati a partire dalle temporalità crip, che non è lineare né funzionale, ma segnata da pause, fluttuazioni, imprevisti, desideri, affetti.

Da qui nasce l’urgenza di una pedagogia che non si limiti a parlare di disabilità, ma che parta proprio dalla disabilità per costruire un altro modo di pensare la scuola, la cittadinanza, la convivenza. Woolley (2023) propone una scuola in cui la vulnerabilità non sia contenuta, ma condivisa e valorizzata; Fox (2010) mostra come performance e pedagogia possano allearsi per crippare l’università, rendendola più accessibile e interdipendente. Pié-Balaguer e Planella-Ribera (2020) rilanciano, infine, una pedagogia sociale queer e crip che si opponga a ogni logica di addomesticamento e sappia generare mondi condivisi radicalmente alternativi.

Nel panorama italiano, Marianna Piccioli (2024) offre un contributo prezioso proponendo una pedagogia del relativo e del dipende, capace di accogliere l’incertezza come fondamento educativo e politico, e non come difetto da correggere. Una pedagogia che, pur non dichiarandosi esplicitamente crip, ne condivide i presupposti: rifiuto dell’universalismo astratto, riconoscimento del valore situato delle esperienze, apertura all’imprevedibile. È proprio questa flessibilità radicale — educativa, etica e politica — a rendere la Pedagogia Crip uno strumento trasformativo per ogni contesto educativo.

Anche Migliarini e Annamma (2018), applicando la Disability Critical Race Theory (DisCrit) alla formazione docente, mostrano quanto sia essenziale pensare l’educazione come pratica intersezionale, strutturalmente situata nei rapporti di potere. La Pedagogia Crip, da questo punto di vista, non è una proposta per alcune soggettività, ma una lente collettiva attraverso cui ripensare la scuola come spazio queer, antiabilista, antirazzista e decoloniale.

In questo orizzonte, la Vita indipendente si riconnette al suo significato radicale. Non emancipazione individuale, ma progetto collettivo, desiderante, disallineato, relazionale. Non conquista solitaria, ma diritto situato e condiviso. Crippare la Vita indipendente, in definitiva, significa rifiutare l’idea che valga solo chi può bastare a sé, e affermare invece che ogni vita merita supporti, alleanze, connessioni, lentezze, affetti. Significa riconoscere l’interdipendenza come fondamento, non come eccezione.

La Pedagogia Crip ci fornisce strumenti per dare forma a questa visione: per educare alla vulnerabilità condivisa, alla pluralità dei desideri, alla legittimità delle relazioni non mono-allo-eteronormate. Per riconoscere che ogni corpo ha bisogno di reti e spazi che lo accolgano senza domandare adattamenti unilaterali, senza pretendere la maschera della normalità. La scuola, così ripensata, non è semplicemente più inclusiva: è lo spazio in cui possiamo cominciare a costruire una società crip.

Una società dove la dipendenza non è stigmatizzata, ma condivisa. Dove la cura non è delegata, ma redistribuita. Dove il tempo non è una corsa, ma un’esperienza incarnata. Dove l’abitare è diritto, non concessione. Dove il desiderio non è sorvegliato, ma liberato. Dove la pedagogia smette di essere un vettore di normalizzazione e torna a essere un atto politico, affettivo, rivoluzionario.

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  1. 1 Dottoranda di ricerca presso l’Università degli Studi di Genova.

  2. 2 Dottoranda di ricerca presso l’Università degli Studi Roma Tre.

  3. 3 Professore ordinario presso l’Università degli Studi Roma Tre.

  4. 4 Il presente contributo è frutto di una riflessione e di un lavoro comune. Nello specifico è da attribuire a Fabio Bocci la Premessa, a Elisa Costantino i paragrafi Introduzione al significato di Vita indipendente e Vita indipendente: Tra diritto, desiderio e pedagogia, a Barbara Centrone il paragrafo Vita indipendente e Pedagogia Crip: Tempo, corpo, relazione come atti di resistenza, a Barbara Centrone e a Fabio Bocci il paragrafo Conclusioni: Verso una Pedagogia Crip. Di comune accordo si è deciso di avvalersi prevalentemente del sovraesteso femminile.

  5. 5 PhD Candidate at the University of Genoa.

  6. 6 PhD Candidate at Roma Tre University.

  7. 7 Full Professor at Roma Tre University.

  8. 8 L’uso dell’espressione persone disabili è voluto: si tratta, infatti, di una scelta in linea con i movimenti per la Vita indipendente ed è in sintonia con la posizione di autrici e autore. In particolare delle due autrici che, nel loro processo di autodeterminanazione, utilizzano un linguaggio identity first e non person first.

  9. 9 In accordo con i principi fondanti del Social Model of Disability (Oliver, 1990) e con l’idea che la disabilità sia un costrutto socio-politico-economico-culturale, adottiamo qui il termine disabilizzato/a rimarcando appunto come siano le strutture sociali, economiche e politiche a produrre disabilità, operando una marginalizzazione dei corpi-mente considerati non conformi agli standard normativi.

  10. 10 A oggi la situazione italiana è molto diversa da quella descritta, come emerge dal recente lavoro di Ines Guerini (2020).

  11. 11 Su Ratzka si veda anche Giraldo (2024).

  12. 12 Torna alla memoria la mancata approvazione negli Stati Uniti della Sezione 504 dell’allora Rehabilitation Act del 1973, decisione protrattasi fino al 1977 che ha scatenato le vibranti proteste della comunità disabile guidata, come già ricordato, da Judy Heumann (Bocci, 2023). Per un approfondimento sulla situazione italiana: https://informareunh.it/adesso-basta-senza-riforma-sulla-disabilita-non-ce-futuro/; https://informareunh.it/chi-ha-paura-dei-progetti-personalizzati/; https://informareunh.it/il-rinvio-della-riforma-sulla-disabilita-e-lesistente-da-salvaguardare/ (consultati il 18 settembre 2025).

  13. 13 Il termine cura è qui adottato nell’accezione femminista di care, come pratica relazionale, affettiva e politica che mette al centro la reciprocità e l’interdipendenza caratterizzanti il genere umano. La care si distingue nettamente dalle cure associate al paradigma medico e alla normalizzazione dei corpi-mente. Seguendo le elaborazioni femministe di Gilligan (1982) e Tronto (1993), la cura è riconosciuta come un’attività etica e trasformativa che rappresenta un sapere e un agire fondamentali per ripensare le relazioni sociali in chiave non gerarchica e antiabilista.

  14. 14 Locuzione che fa riferimento a ciò che muove dal basso, dalla base.

  15. 15 Con l’espressione «mono-amato-allo-eteronormata» si intende un impianto normativo e culturale che subordina il valore e la legittimità delle relazioni alla loro conformità a un modello dominante: quello della coppia eterosessuale, formalmente monogama, romantica, sessualmente attiva e socialmente riconosciuta. Tale modello — fondato su mononormatività, amatonormatività, allonormatività ed eteronormatività (Vasallo, 2022) — istituisce una gerarchia affettiva che marginalizza e discredita le relazioni non monogame, non romantiche, non sessuali o non eterosessuali. In questo schema, la coppia «giusta» e «valida» è non solo l’unica considerata pienamente adulta, matura e realizzata, ma anche l’unica degna di tutele giuridiche, visibilità sociale e riconoscimento affettivo.

Vol. 24, Issue 4, November 2025

doi: 10.14605/ISS2442505 — ISSN: 2724-2242 — pp. 98-119

 

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