Vol. 24, n. 4, novembre 2025 — pp. 132-134

Corrispondenza: Moira Sannipoli — e-mail: moira.sannipoli@unipg.it

Rubrica

Recensione

Vanolo A. (2024), La città autistica, Torino, Einaudi

La città autistica (Einaudi, 2024) di Alberto Vanolo è un volume che può interrogare in maniera molto significativa chi, per motivi di ricerca, professionali o personali, ha a cuore la costruzione di contesti che mettano al centro l’orizzonte dell’equità, della giustizia sociale e delle capacitazioni.

Il testo nasce da un doppio osservatorio dichiarato e tenuto in dialogo per tutta la scrittura, con un’alternanza intenzionale di registri diversi che coinvolge il lettore, qualunque sia la sua esperienza o motivazione nell’avvicinarsi al tema. Vanolo intreccia infatti lo sguardo teorico di professore di geografia politica ed economica — che da anni studia lo spazio urbano come contesto universale — con quello di padre. È grazie al figlio Teo che l’autore si è avvicinato al mondo della comunità autistica, maturando uno sguardo partecipe e coinvolto, senza mai assumere il punto di vista dell’esperto, né pretendere di darne una rappresentazione definitiva.

L’autore ha sentito il desiderio di ribaltare alcuni immaginari radicati, sia sulla città sia sull’autismo, allo scopo di configurare una nuova morfologia di spazi e di vita comune, senza alcuna ambizione di sistematizzazione, ma con l’intento di portare l’attenzione su alcune questioni non sempre ritenute rilevanti dagli addetti ai lavori e dalle famiglie stesse. La prima parte del volume si snoda attorno al potere delle categorie. Si presentano le trappole di un pensiero deterministico che ha l’arroganza di inquadrare il funzionamento autistico esclusivamente a partire da cornici medico-individuali, spesso sostenute da narrazioni pietistiche e improntate alla sofferenza come unico orizzonte possibile. Il bisogno di sfidare queste dimensioni riduzionistiche non è una forma di negazionismo per tutto quello che può derivare da una prospettiva diagnostica, ma l’invito ad alimentare punteggiature che sappiano tenere insieme punti di vista differenti, mettendo al centro l’autonarrazione e il lavoro combinato sui contesti. Il tema dell’identità al plurale delle persone in situazione di disabilità è sollecitato più volte, anche come invito ad ampliare l’idea degli ambienti — fisici, relazionali e culturali — che andrebbero riconfigurati in funzione dei molteplici ruoli che ciascuna persona può essere chiamata a svolgere, in una prospettiva di crescente riconoscimento e partecipazione.

Il primo capitolo si chiude con una domanda che presenta la nuova centratura sul tema: «in che modo città diverse da quelle che conosciamo oggi potrebbero mutare il modo stesso di intendere e vivere l’autismo?» (p. 26).

Il racconto delle «passeggiate situazioniste» con il figlio Teo sollecita importanti riflessioni sulle opportunità che la città può offrire in termini di percorsi, abilitanti e non abilisti, di autonomia, autodeterminazione, esplorazione. Vanolo racconta così questa esperienza: «Concretamente, Teo e io prendiamo un mezzo pubblico casuale in una direzione qualsiasi. Scendiamo a una fermata a caso. Inventiamo (più precisamente, invento) un obiettivo specifico che dichiaro con molta serietà, come se fosse qualcosa di importante: dobbiamo trovare un gelato. Comprare dei bottoni rossi. Fotografare una casa viola. Procediamo in una direzione qualsiasi. Ci concediamo ogni deviazione alla ricerca di elementi di interesse o piacere imprevisti: mettere i piedi in una fontana, mangiare un trancio di pizza, dondolare su un’altalena, sdraiarsi su una panchina. In genere, documento fotograficamente le nostre performance. Cerchiamo di portare a termine l’obiettivo primario. Troviamo un modo di tornare a casa, a piedi o con altri mezzi pubblici» (pp. 28-29).

La bellezza di queste esperienze comuni, abitate con senso, ha delle profonde ricadute in termini di qualità dell’esistenza: sposta l’attenzione dall’efficacia di interventi e proposte strutturate e dentro contesti protetti e chiusi, all’occasione di imparare a vivere mentre si vive, facendo i conti progressivamente con tutto quello è che fuori misura da sé e che può cambiare forma anche grazie a questi attraversamenti.

A seguire l’autore presenta i fenomeni del meltdown (e il relativo nascondimento generato dall’imbarazzo e dalla vergogna delle figure di riferimento) e del masking e analizza le possibili configurazioni che il contesto urbano potrebbe assumere per contenerne l’insorgenza. In questo tentativo di ripensare la città senza stravolgerne la forma culturalmente e socialmente più riconoscibile, Vanolo invita a immaginare una riduzione dell’intensità e della varietà degli stimoli sensoriali, per permetterne una migliore prevedibilità, leggibilità e coerenza, l’utilizzo di comunicazioni visuali, un maggior impiego di tecnologie a supporto dell’orientamento e della mobilità. Non si tratta di stravolgere gli spazi della città, ma di pensarli in maniera nuova o di progettare contesti e tempi ad hoc, come «bolle temporanee» dove poter imparare a sperimentare la propria vita autistica nella sfera pubblica.

Il volume si sposta allora su un piano di riflessione politica, allargando l’attenzione oltre il funzionamento autistico: il centro non sono solo persone con disabilità ma tutta quella umanità che, per motivi di funzionamento e/o di svantaggio, è relegata a posizioni «scomode, sgradevoli o subalterne» (p. 53). In questa parte sono presentate delle strategie di sopravvivenza chiamate «tattiche queer» (p. 68) che in molti hanno faticosamente trovato e azionato per vivere serenamente anche in spazi cittadini e comunitari spesso ostili, invalidanti, scarsamente accessibili.

L’autore chiude questo approfondimento regalando al lettore dei principi generali per una città autistica, che richiamino interventi in termini di accessibilità fisica e sensoriale, aperture verso la neurodiversità: una città chiamata a diventare un laboratorio di sperimentazione, trasformazione, immaginazione, accoglienza, contenitore di vita e apprendimento. La sfida di progettare una nuova città come realmente pubblica non indica solo la possibilità di farne parte, ma anche la necessità di assumersi la responsabilità civile e sociale di pensiero e ideazione per chi al momento ne è escluso.

Diventare «comuni» (mai normali) negli spazi presenti è un invito che il volume consegna a chiunque abbia il desiderio di sognare e progettare contesti capaci di riconoscere la diversità e promuovere le differenze: la direzione non è quella di trasformare in ordinario quello che per molti è eccentrico, ma permettere allo sguardo, che culturalmente definisce i confini della normalità, di ripensarsi, offrendo alle geografie dell’«intorno» di cambiare, sovvertire, liberare.

Alessandro Monchietto e Moira Sannipoli

 

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