Vol. 24, n. 4, novembre 2025

Prospettive e modelli italiani

Analisi della concettualizzazione dell’inclusione nelle Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo

Un confronto fra le vecchie e le nuove Indicazioni

Heidrun Demo1

Sommario

Questo contributo analizza la rappresentazione del concetto di inclusione nella premessa delle nuove Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo, confrontandolo con le vecchie Indicazioni secondo quattro dimensioni: la definizione esplicita di inclusione, l’idea di inclusione come processo democratico, l’inclusione intesa come apprendimento e socializzazione di qualità per tutte e tutti, e l’attenzione a forme di marginalizzazione ed esclusione. L’analisi evidenzia tre sviluppi preoccupanti: (1) l’enfasi sull’autorealizzazione e sul talento individuale, che trascura la dimensione comunitaria e riproduce disuguaglianze attraverso una prospettiva innatista; (2) la riduzione dell’inclusione a dispositivo normativo-burocratico, circoscritto a categorie predefinite e depotenziato nella sua valenza trasformativa; (3) l’affermarsi di una pressione normalizzatrice e assimilazionista, che tende a standardizzare processi di apprendimento e socializzazione.

Parole chiave

Indicazioni Nazionali, Inclusione scolastica, Scuola dell’infanzia, Scuola primaria, Scuola secondaria di primo grado.

Italian perspectives and models

Analysis of the Conceptualization of Inclusion in the National Guidelines for the First Cycle

A Comparison between the Old and New Guidelines

Heidrun Demo2

Abstract

This contribution analyzes how the concept of inclusion is represented in the preface to the new National Guidelines for the First Cycle, comparing it with the old Guidelines across four dimensions: the explicit definition of inclusion, the idea of inclusion as a democratic process, inclusion understood as quality learning and socialization for all, and the attention paid to forms of marginalization and exclusion. The analysis highlights three concerning developments: (1) the emphasis on self-realization and individual talent, which neglects the community dimension and reproduces inequalities through an innatist perspective; (2) the reduction of inclusion to a normative-bureaucratic device, confined to predefined categories and weakened in its transformative potential; (3) the emergence of a normalizing and assimilationist pressure, which tends to standardize learning and socialization processes.

Keywords

National Guidelines, School Inclusion, Preschool, Primary School, Lower Secondary School.

Introduzione

La pubblicazione della versione definitiva delle nuove Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo3 rappresenta un’occasione significativa per la riflessione pedagogica poiché consente di interrogarsi su come venga oggi declinato il concetto di inclusione scolastica nelle politiche educative nazionali. Le Indicazioni rappresentano un documento potenzialmente capace di influenzare la quotidianità educativa di migliaia di scuole e di incidere sulla costruzione dell’identità professionale degli insegnanti e dunque la visione di inclusione esplicitamente o implicitamente veicolata dal documento può impattare profondamente sulle pratiche scolastiche.

In questo contributo propongo un’analisi critica che mette a confronto le premesse pedagogiche contenute nelle Indicazioni del 2012 e quelle appena pubblicate del 2025. L’obiettivo è duplice: da un lato, evidenziare continuità e discontinuità della nuova versione rispetto alla precedente; dall’altro, interrogarsi sul significato di tali scelte per il futuro della scuola italiana.

A orientare la riflessione sarà una definizione di inclusione che si sviluppa attorno ad alcuni riferimenti ampiamente condivisi nella letteratura internazionale. In primo luogo, l’inclusione è intesa come processo, non come risultato acquisito una volta per tutte. In questa prospettiva, una delle opere considerate fondamentali in campo internazionale, l’Index per l’inclusione (Booth e Ainscow, 2011), sottolinea come l’inclusione consista in un percorso continuo di miglioramento che richiede la costante revisione di pratiche, culture e politiche scolastiche. Questa visione di sviluppo inclusivo è strettamente legata all’idea di scuola democratica e di processi di sviluppo autenticamente partecipati, nell’ottica di un’inclusione che è al contempo obiettivo e metodo, traguardo da raggiungere e modus operandi.

In questa prospettiva, la definizione di scuola inclusiva che guiderà l’analisi delle Indicazioni in questo articolo non si limita all’idea di una scuola capace di garantire il diritto individuale di tutte e tutti gli alunni ad avere esperienze significative di socializzazione e partecipazione, ma implica un impegno costante nell’essere e divenire comunità scolastica che promuove il dialogo e la partecipazione attiva e democratica (Göransson e Nilholm, 2014).

In secondo luogo, in coerenza con l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, proponiamo qui una visione di inclusione strettamente connessa alla garanzia di un’istruzione di qualità per tutte e tutti, che richiami la necessità di promuovere un’educazione equa lungo tutto l’arco della vita (ONU, 2015). Questa idea di qualità, per essere precisata, può essere declinata attorno a tre aspetti: l’accesso alla scuola (presence), la possibilità di apprendere (progress) e la piena partecipazione alla vita della comunità scolastica (participation) (Ainscow, 2005). Una scuola inclusiva di qualità dovrebbe quindi essere in grado di garantire che tutte le bambine e tutti i bambini in età scolare partecipino a un comune percorso formativo che permetta loro di imparare e socializzare in un modo significativo.

Infine, l’impegno per l’inclusione richiede anche il riconoscimento esplicito delle dinamiche di esclusione, disuguaglianza e marginalizzazione che attraversano i sistemi educativi e la società. Ignorarle significherebbe appiattire la complessità delle differenze individuali e sociali, trattandole come se avessero tutte lo stesso peso nelle biografie individuali (Norwich, 2013). Al contrario, è necessario riconoscere che alcune condizioni — di origine sociale, culturale, linguistica o legate a situazioni di disabilità — generano rischi molto più elevati di esclusione nella scuola e nella società di oggi e che una scuola realmente inclusiva deve essere capace di prevenirli o affrontarli in modo sistematico.

Il contributo è articolato come segue. In primo luogo, viene condotta un’analisi delle definizioni esplicite di inclusione presenti nelle Indicazioni Nazionali del ٢٠١٢ e del ٢٠٢٥, con l’obiettivo di mettere in evidenza somiglianze, differenze e priorità pedagogiche direttamente connesse con il termine inclusione nei due testi. Successivamente, l’analisi si concentra sulle premesse dei due documenti, mettendo a confronto il modo in cui esse declinano i diversi aspetti della definizione di inclusione proposta qui nell’introduzione: l’inclusione come processo democratico, come garanzia di presenza, apprendimento e partecipazione per tutte e tutti, e come attenzione ai processi di marginalizzazione ed esclusione. Infine, il contributo si conclude con alcune riflessioni critiche sulle possibili ripercussioni della nuova visione di inclusione sulla scuola italiana.

Le definizioni esplicite di inclusione

Entrambe le versioni delle Indicazioni dedicano esplicitamente una sezione al tema dell’inclusione. Nelle Indicazioni del 2012, il paragrafo dedicato è intitolato Una scuola di tutti e di ciascuno. Sin dalle prime righe, si accostano i concetti di inclusione e integrazione delle culture, delineando un’idea di scuola capace di accogliere e valorizzare le differenze in senso ampio e universale. In particolare, viene sottolineato il valore della diversità come risorsa educativa, con un’attenzione specifica ad alunne e alunni con cittadinanza non italiana. Viene inoltre richiamata la necessità di prevenire e contrastare la dispersione scolastica, insieme all’importanza del lavoro in rete con il territorio, fattori considerati essenziali per una scuola inclusiva. Successivamente, il testo si focalizza brevemente su alunne e alunni con disabilità e con Bisogni Educativi Speciali (BES). La sezione si chiude rapidamente, rinviando per approfondimenti a documenti già esistenti, come le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (MIUR, 2014), le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (MIUR, 2009) e le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni con DSA (MIUR, 2011).

Nelle nuove Indicazioni del 2025, il paragrafo esplicitamente dedicato all’inclusione è intitolato Scuola che sa essere inclusiva. Qui, l’apertura è centrata sulla disabilità, celebrando la lunga tradizione italiana di integrazione di alunne e alunni con disabilità, e solo successivamente l’attenzione si estende ad altri soggetti. Questo allargamento presenta una certa ambivalenza: se da un lato si parla di tutte e tutti, dall’altro l’universale è ancora collegato al concetto dei Bisogni Educativi Speciali, mantenendo dunque una distinzione categoriale che appare incoerente rispetto a una concezione realmente universale dell’inclusione. Al centro del discorso ci sono concetti come accoglienza, integrazione e rispetto delle differenze; è assente invece l’idea di una valorizzazione delle differenze. Il multilinguismo riceve un’attenzione particolare, con l’idea di potenziare figure dedicate all’insegnamento dell’italiano come seconda lingua e di valorizzare la convivenza con minoranze linguistiche storiche. Tuttavia, manca ogni riferimento al plurilinguismo delle bambine e dei bambini con storie migratorie più recenti, e quindi al valore delle loro lingue di origine.

Le nuove Indicazioni introducono riferimenti a modelli consolidati della pedagogia dell’inclusione contemporanea, come l’ICF Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (OMS, 2004), l’UDL Universal Design for Learning (Rose e Meyer, 2002) e il concetto di Progetto di Vita. Viene confermata rispetto alle bozze circolate in primavera la scelta di utilizzare esclusivamente il termine personalizzazione, tralasciando quello di individualizzazione, nonostante le critiche ricevute da più parti.

Questa decisione suggerisce un orientamento teorico-didattico che privilegia traguardi differenziati per alunne e alunni con un PEI che richiede un discostamento dai traguardi previsti dal curriculum della classe, ma manca di esplicitare con il termine «individualizzazione» l’importanza di mettere a disposizione una pluralità di modalità per raggiungere gli stessi obiettivi formativi, entrando di fatto in contraddizione con i principi dell’UDL.

Le vecchie e le nuove Indicazioni hanno in comune l’ambiguità, tipica della normativa italiana, che da un lato proclama l’universalità dell’inclusione e dall’altro mantiene una distinzione tra categorie di alunne e alunni che hanno un «diritto individuale» a misure di inclusione. Al di là di questo, emergono però chiaramente anche alcune differenze significative fra i due testi.

In primo luogo, mentre nel 2012 il paragrafo dedicato all’inclusione si apriva con una prospettiva ampia, incentrata sulla valorizzazione delle differenze, nel 2025 l’attenzione iniziale è rivolta soprattutto alla tradizione italiana di integrazione di alunne e alunni con disabilità, indicando così un diverso ordine di priorità. In secondo luogo, se nel 2012 l’inclusione veniva declinata attraverso l’idea di valorizzare le differenze, nel 2025 si assiste a uno spostamento semantico verso il più cauto riferimento al rispetto delle differenze. Infine, mentre nel 2012 veniva sottolineata l’importanza di riconoscere e valorizzare i patrimoni culturali, linguistici e religiosi di alunne e alunni con storie migratorie, nel 2025 la trattazione delle lingue appare più selettiva, con una gerarchizzazione che privilegia le minoranze linguistiche storiche, ma trascura le nuove lingue portate dai bambini e ragazzi con background migratorio.

In sintesi, il confronto tra le due versioni mostra come la concezione di inclusione sia stata ridefinita nel 2025 con un ritorno a una versione più stretta di inclusione, che mette al centro categorie come la disabilità e i BES, che tende a gerarchizzare le differenze e che ribadisce il doppio binario di traguardi standardizzati contrapposti a percorsi personalizzati, pur mantenendo contraddittori riferimenti a strumenti e principi di differenziazione per tutte e tutti.

Inclusione come risultato di un processo di sviluppo partecipato e democratico

Definire l’inclusione come un processo significa riconoscerla come aspetto dinamico di una scuola di qualità, che richiede continui interventi, riflessione e miglioramento all’interno delle istituzioni scolastiche. Questo approccio sottolinea l’importanza di attivare meccanismi di autovalutazione e automiglioramento, che permettano alle comunità scolastiche di sviluppare una cultura della riflessività e della progettazione collegiale, orientata alla cura e allo sviluppo continuo dell’offerta formativa.

Nei testi delle Indicazioni del 2012, il riferimento a questi processi si colloca in un contesto storico preciso: gli anni dell’avvio dell’autonomia scolastica. In quegli anni, si riconosceva con forza alle singole scuole la possibilità e la responsabilità di dare forma a un’offerta formativa coerente con il proprio territorio, pur nel rispetto di linee guida generali valide a livello nazionale. Parallelamente, il sistema scolastico nazionale stava implementando strumenti di valutazione, sia interna che esterna, attraverso le prove INVALSI e l’avvio dei lavori intorno a documenti come il Rapporto di Autovalutazione, il Piano di Miglioramento e il Piano Annuale per l’Inclusione. Le Indicazioni del 2012 definivano quindi i traguardi essenziali, il minimo comune denominatore per tutte le scuole sul territorio nazionale, lasciando ampio spazio poi alle comunità scolastiche per sviluppare curricoli e progetti educativi in modo collegiale e partecipativo. La scuola veniva concepita come una comunità professionale attiva e democratica, in cui la valutazione non serviva solo a misurare i risultati degli studenti, ma anche a orientare gli apprendimenti e a migliorare la didattica, promuovendo una riflessività continua e la crescita collettiva dei docenti.

Nelle Indicazioni del 2025 si ribadisce la necessità di un impegno da parte delle scuole a un costante miglioramento dell’inclusione e, nel descrivere L’organizzazione del curricolo di scuola, viene esplicitato che «la logica di progettazione suggerita dalle Indicazioni è rispettosa delle autonomie delle scuole e dei raccordi possibili con i rispettivi territori» (p. 21). Queste esplicitazioni appaiono però poco sostanziali, essendo in contraddizione con quello che si esplicita all’inizio della sezione poco più in alto: «Nel rispetto e nella valorizzazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, le Indicazioni Nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo propongono un cambio di paradigma rimettendo al centro la valorizzazione delle conoscenze che sono la base fondamentale per lo sviluppo delle competenze identificate nel Profilo dello studente. Per questo le Indicazioni Nazionali reintegrano pienamente la dimensione delle conoscenze offrendosi come un chiaro quadro di riferimento per la progettazione del curricolo verticale delle scuole» (p. 21).

Questa scelta implica anche una volontà di maggiore standardizzazione dei contenuti da proporre a scuola. Questo, a sua volta, veicola un’impostazione della relazione fra ministero e scuole più direttiva e prescrittiva: nonostante una diversa dichiarazione di intenti generali, le nuove Indicazioni non si limitano all’esplicitazione di traguardi essenziali formulati a maglie larghe per ciascuna disciplina, ma — in realtà per alcune discipline più che per altre — si articolano anche in una dettagliata definizione delle conoscenze che ciascun/a insegnante avrebbe poi il compito di trasmettere.

Coerentemente con questa impostazione, anche la sezione dedicata alla valutazione limita le riflessioni al senso della valutazione per alunne e alunni, mancando di renderne visibile la funzione orientativa per l’agire educativo delle e degli insegnanti. Questo suggerisce l’idea di una/un docente che esegue, più che una/un insegnante che progetta collegialmente.

In sintesi, mentre le Indicazioni del 2012 delineavano l’idea di una scuola dinamica e partecipativa, capace di coniugare autonomia scolastica, valutazione riflessiva, attenzione alle differenze e impegno per i processi democratici, le Indicazioni del 2025 mettono l’accento su un approccio più prescrittivo, nell’ottica della trasmissione e del controllo. Questo rischia di ridurre anche la realizzazione dell’inclusione a un adempimento formale, depotenziandone il carattere trasformativo e la capacità di promuovere reale partecipazione, equità e pluralità all’interno della comunità scolastica.

Inclusione come presenza, apprendimento e socializzazione per tutte e tutti

Un’inclusione scolastica che funziona si manifesta concretamente in tre risultati fondamentali: la presenza, l’apprendimento e la partecipazione sociale, concetti che costituiscono un utile schema interpretativo per valutare non solo l’accesso formale alla scuola, ma anche la qualità dell’esperienza educativa e il grado di coinvolgimento attivo nella vita della comunità scolastica.

Per quanto riguarda la presenza, entrambe le versioni delle Indicazioni assumono che la frequenza di tutte e tutti gli studenti sia garantita da altri riferimenti legislativi, per cui il tema non è esplicitamente trattato nel dettaglio. Tuttavia, è interessante notare come sia le Indicazioni del 2012 sia quelle del 2025 diano scarso spazio ai temi dell’orientamento e della prevenzione della dispersione, pur essendo elementi determinanti per combattere il rischio di esclusione o abbandono di ragazze e ragazzi maggiormente «a rischio».

Nel modo in cui è concepita l’idea di apprendimento di qualità, i due documenti delle Indicazioni mostrano differenze sostanziali. Nel 2012 si affermava con chiarezza che «trasmissioni standardizzate e normative della conoscenza, pensate per individui medi, non sono più adeguate» (p. 5), riconoscendo l’urgenza di una scuola capace di promuovere un apprendimento attivo e differenziato, attento alle inclinazioni individuali e in grado di rispondere alla complessità del mondo contemporaneo. E questo avveniva alla luce del riconoscimento della complessità che il processo formativo assume. La scuola era vista come il luogo che può aiutare a coordinare e dare significato compiuto alle molte e variegate esperienze formative che bambini e ragazzi fanno in tanti contesti differenti, formali e informali.

Le Indicazioni del 2025, al contrario, pongono nuovamente al centro — come già evidenziato nella sezione precedente — la trasmissione delle conoscenze ritenute fondamentali. L’apprendimento viene così concepito in termini prevalentemente trasmissivi: non a caso, si sottolinea che la scuola è «sede principale per la trasmissione di conoscenze» (p. 6). A questa impostazione si lega il richiamo a un rinnovato ruolo dell’insegnante, la cui autorevolezza viene ribadita come condizione necessaria per garantire la qualità del processo formativo. Esperienze e preconoscenze di alunne e alunni perdono di considerazione e si torna a un’idea di insegnamento che mette al centro la riproduzione delle conoscenze proposte dall’insegnante. Questo cambiamento di prospettiva mette in discussione le fondamenta stesse della didattica inclusiva, che affonda le proprie radici nell’apertura all’eterogeneità e nella valorizzazione dei saperi complessi. La sfida principale di una progettazione didattica inclusiva consiste infatti nel costruire occasioni di incontro tra gli interessi e le preconoscenze, inevitabilmente diversificate, di alunne e alunni e i saperi disciplinari ritenuti essenziali. Essenziale, in questo contesto, non equivale a «semplificato», bensì a «centrale» e «intrinsecamente complesso». È proprio nella complessità, intesa come capacità di concepire i saperi in rapporto con la realtà, ancorati a problemi autentici e a situazioni vere o verosimili, che si apre per ciascun bambino e ciascuna bambina la possibilità di trovare una propria via di accesso e di partecipazione. Affinché ciò avvenga, è però indispensabile che le insegnanti e gli insegnanti riconoscano e legittimino la pluralità delle vie di accesso, assumendo la diversità dei percorsi non come ostacolo, ma come risorsa per la crescita individuale e collettiva — aspetto questo, come si è visto in precedenza, controverso nelle nuove Indicazioni.

Infine, nella dimensione della partecipazione sociale, le Indicazioni del 2012 enfatizzavano la costruzione della classe come comunità, con attenzione alla cooperazione, alla gestione dei conflitti e alla promozione di legami sociali solidi. L’educazione al vivere insieme e alla cittadinanza attiva era concepita come parte integrante dell’inclusione, valorizzando il contributo di ciascuno e promuovendo un equilibrio tra interessi individuali e collettivi. Le Indicazioni del 2025 pongono invece al centro l’autorealizzazione individuale, affermando che «una scuola che stimola i talenti non si limita a rendere performative le conoscenze, ma espande le opportunità di emancipazione personale affinché gli studenti, grazie alla scuola, possano trovare la loro realizzazione» (p. 7).

In questa prospettiva prevale un’impostazione marcatamente individualista, in cui la dimensione sociale si riduce alla garanzia di un ordine fondato sul rispetto delle regole e sul riconoscimento dei limiti. La comunità non appare più come lo spazio per l’esercizio di cittadinanza in un contesto eterogeneo, connesso tanto alle radici locali quanto agli orizzonti globali che nelle bambine e nei bambini di un gruppo convivono, ma piuttosto come un ambiente da mantenere ordinato affinché ciascuno possa perseguire la propria crescita personale.

Un simile approccio risulta fortemente problematico in termini di inclusione, poiché finisce per negare il potenziale trasformativo che gli ostacoli e le sfide di certi percorsi individuali possono offrire alla scuola e, in senso più ampio, alla società. Le conseguenze sono almeno due: da un lato, la mancata evoluzione dei contesti educativi verso forme sempre più accoglienti; dall’altro, il rischio che per molti alunne e alunni la realizzazione personale resti ostacolata dalle condizioni di partenza, riproducendo e legittimando all’interno della scuola le disuguaglianze già presenti nel mondo esterno.

Attenzione ai processi di marginalizzazione ed esclusione

Il terzo aspetto che analizzo riguarda il modo in cui vecchie e nuove Indicazioni affrontano il tema della scuola come luogo che riconosce il rischio di marginalizzazione ed esclusione di cui alcuni bambini e alcuni ragazzi fanno più esperienza rispetto ad altri.

Come già evidenziato nella sezione dedicata alle definizioni esplicite di inclusione, sia le Indicazioni nazionali del 2012 sia quelle del 2025 fanno riferimento alle categorie previste dalla normativa vigente per identificare alcuni gruppi riconosciuti come a rischio di esclusione: gli alunni e le alunne con disabilità, quelli con disturbi specifici dell’apprendimento e, più in generale, coloro che rientrano nella vasta e dibattuta area dei BES che, com’è noto, comprende anche lo svantaggio socioculturale.

Questo riferimento esclude alcune forme di marginalizzazione e rischi di esclusione che sono più legati al riconoscimento del ruolo della scuola nella riproduzione di ingiustizie e disuguaglianze e che chiama in causa processi di stigmatizzazione e insuccesso connessi con i pregiudizi del corpo docente e l’unilateralità di curriculum e metodologie.

Nonostante questa impostazione comune, proveniente dall’impostazione dell’impianto legislativo delle misure di inclusione nel nostro Paese, le due versioni delle Indicazioni si differenziano in modo marcato anche su questa questione.

Nel testo del 2012, nella sezione significativamente intitolata Scuola e famiglia in un nuovo patto di alleanza, emerge chiaramente il riconoscimento della diversità come risorsa formativa. Le differenze portate da alunni e alunne non sono considerate soltanto come elementi da sostenere, ma come ricchezze capaci di arricchire l’esperienza educativa di tutte e tutti. Allo stesso tempo, viene sottolineata la necessità di vigilare attentamente sulle vecchie e nuove forme di emarginazione culturale e di analfabetismo.

È in questo quadro che la scuola viene descritta come pienamente realizzatrice della propria funzione pubblica quando si impegna per il successo formativo di tutte e tutti, con particolare attenzione a prevenire che le differenze si trasformino in disuguaglianze strutturali.

Il documento del 2025, invece, adotta un registro diverso. Pur menzionando concetti cruciali come l’equità dell’offerta formativa e la lotta alla dispersione scolastica, tali aspetti vengono presentati nelle premesse del documento in stretta connessione con il richiamo agli obblighi costituzionali della scuola e degli insegnanti. Questa scelta contribuisce a trasmettere una visione ancorata e potenzialmente limitata al piano normativo e regolativo.

È certamente condivisibile vedere questa attenzione ai processi di marginalizzazione ed esclusione anche come mandato costituzionale alla scuola, ma trattare la questione solo sotto questo punto di vista rischia di declinarla in termini più burocratici che pedagogici, con la conseguenza di ridurre la riflessione critica e l’azione educativa a un mero adempimento di quanto richiesto dalla legge. In tal modo, si affievolisce la possibilità di riconoscere l’inclusione come leva di trasformazione culturale e sociale, riducendola a un obbligo istituzionale da rispettare.

Conclusioni

L’analisi comparativa tra le Indicazioni nazionali del 2012 e quelle del 2025 ha messo in luce un cambiamento significativo, una scelta di discontinuità e rottura nella visione culturale che fa da cornice alla scuola e al lavoro pedagogico-didattico (Fiorin, 2025), peraltro rivendicata sia dal ministro Valditara che dalla Prof.ssa Perla, capogruppo di autrici e autori del documento con alcune interviste uscite ad anticipare le linee guida (Baldacci, 2025). Non sono quindi modifiche dettate dalla necessità di aggiornamento, come era stato fatto nel 2018 alla luce, ad esempio, della pubblicazione dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile. In queste conclusioni, verranno tratteggiate le ripercussioni che questo strappo con il passato possono avere sul modo di intendere l’inclusione nella scuola italiana.

Nonostante il richiamo ad alcune parole e ad alcuni concetti chiave per il dibattito attuale sulla scuola inclusiva, la definizione esplicita di inclusione proposta nelle nuove Indicazioni:

  • si apre con un focus ristretto sull’eterogeneità basato sulle categorie giuridicamente tutelate, rimettendo al centro un’idea di inclusione «stretta» e internazionalmente in larga misura superata (Meijer e Watkins, 2016);
  • promuove una cultura del rispetto delle differenze, ma non mette esplicitamente al centro la loro valorizzazione e ne veicola una rappresentazione gerarchizzata, come emerge nella diversa valorizzazione di diverse lingue minoritarie proponendo supporto per l’apprendimento della lingua italiana, ma non per le molte e diverse lingue delle biografie di alunne e alunni con storie di migrazione, sostenendo di fatto un’impostazione assimilazionista di plurilinguismo a scuola (Gross, 2021; Matucci, 2025);
  • scegliendo il termine «personalizzazione» senza accostarlo a quello di «individualizzazione», dà legittimo riconoscimento a percorsi differenziati negli obiettivi da raggiungere (come nel caso di alcuni PEI), ma sembra — pur in contraddizione con l’ULD citato nella stessa sezione — escludere una reale trasformazione delle pratiche nell’ottica della pluralizzazione dei percorsi possibili per tutte e tutti, messi invece al centro delle riflessioni attuali sulla progettazione didattica inclusiva (Dell’Anna e Marsili, 2025).

Successivamente, l’analisi rispetto alla concezione di inclusione intesa come processo democratico fa emergere il carattere velatamente prescrittivo delle Indicazioni del 2025. Per definizione, esse non possono esserlo pienamente visto il contesto della scuola dell’autonomia in cui nascono e ancora esistono, ma in più parti il testo sembra disegnare una postura del corpo docente più orientata all’esecuzione di indicazioni e compiti definiti dall’alto, piuttosto che come membri attivi di una comunità democratica che dà forma alle proprie scelte con processi partecipati di autovalutazione e automiglioramento. Per l’inclusione questo implica il rischio forte di essere interpretata in prospettiva normativo-burocratica (Cottini, 2017), privata della vitalità progettuale trasformativa che il processo di continuo miglioramento condiviso e partecipato può portare con sé (Bianquin, 2018; Corsini, 2015; Damiani e Demo, 2016).

La dimensione della prescrittività riemerge poi anche nell’analisi relativa al modo in cui sono concettualizzati apprendimento e socializzazione, intesi come risultati attesi di un sistema formativo di qualità. La visione trasmissiva dell’apprendimento e quella fortemente regolativa e sanzionatoria con cui è costruito il discorso intorno alla vita sociale di alunne e alunni a scuola riportano a una visione fortemente insegnante-centrica del setting educativo, un «ritorno alla scuola dell’insegnamento» (Fiorin, 2025, p. 83). Per l’inclusione questo implica una forte pressione verso una standardizzazione sia dei processi di apprendimento che delle relazioni sociali. Il riferimento forte all’insegnante modello di comportamenti da tenere e detentore dei saperi da trasmettere si pone in aperto contrasto con una visione attiva e situata dei processi di apprendimento che sono alla base di molte concettualizzazioni di didattica inclusiva (Rose e Meyer, 2002; Demo, 2017; Tomlinson, 2001) e della partecipazione come base della vita comunitaria di una scuola democratica e inclusiva (Roghi, 2023).

Infine, l’analisi del modo in cui viene data attenzione ai processi di marginalizzazione ed esclusione ha mostrato un approccio prevalentemente normativo, con il rischio che venga sminuito, in modo simile a quel che si è esposto per i processi di autovalutazione e automiglioramento, a un compito burocratico da eseguire, piuttosto che a un’occasione per una trasformazione profonda delle pratiche educative.

Ampliando ora la riflessione, dando una lettura trasversale dei diversi cambiamenti che l’analisi articolata nelle sue diverse sezioni ha rivelato, sembrano farsi strada alcune direzioni di sviluppo, più o meno esplicite.

Primo, la scuola tratteggiata nelle premesse delle nuove Indicazioni dà forte rilievo all’autorealizzazione, mettendo libertà e talento al centro, depotenziando però lo sviluppo di comunità e solidarietà e rischiando di alimentare un modello competitivo in cui il talento e il successo sono valutati come esiti di un processo individuale su cui i singoli hanno responsabilità (Fiorin, 2025). Manca qui di considerare il punto di vista più sociologico sull’educazione legata al capitale sociale di partenza di alunne e alunni che crescono in contesti diversi e con storie diverse e si lascia che abbia spazio una rappresentazione «innatista-naturalista» del talento (Baldacci, 2025, p. 6). Insomma: quanto è la scuola a far emergere alcuni talenti e a non vederne altri? Quanto le pratiche, i valori impliciti, le regole non scritte e le modalità di funzionamento che si riproducono nel tempo e che orientano i comportamenti di docenti e alunne e alunni danno vantaggio a quei bambini e ragazzi capaci di allinearsi? Per dirla in modo più tecnico: quanto l’habitus scolastico mette in condizione privilegiata alunne e alunni con un habitus individuale costruito su valori, abitudini e orientamenti simili? Non riconoscere la forza di questi meccanismi significa di fatto aderire a una visione di scuola che si colloca in una cornice restauratrice, dove le gerarchie dell’oggi sono più o meno consapevolmente riprodotte.

Secondo, l’inclusione rischia di essere ridotta a un atto normativo-burocratico. Il rischio è già altamente presente nel modo in cui la nostra legislazione scolastica vincola l’assegnazione di risorse all’appartenenza ad alcune categorie di Bisogni Educativi Speciali (Bocci, 2024; Ianes, Demo e Dell’Anna, 2020), ma le nuove Indicazioni sembrano accentuarlo. Primo, viene rimessa al centro un’idea di inclusione «stretta» e timida nell’aprirsi alle differenze tutte. Secondo, lo svilimento della dimensione comunitaria, che rischia di ridurre autonomia e collegialità a «vuota retorica» (MCE, 2025), rappresenta un forte freno a un atteggiamento propositivo, progettuale e di ricerca anche per le questioni poste dall’inclusione (oltre che per molte altre, naturalmente).

L’inclusione rischia di restare questione di alcune alunne e alcuni alunni che rientrano in certe categorie e del personale specializzato assegnato alla scuola sulla base della presenza di quei bambini e ragazzi «speciali». Può essere ridotta a ottemperanza agli atti formali loro dovuti (PEI puntuali, PDP formalmente in ordine, misure compensative e strumenti dispensativi garantiti, ecc.) per cui è riconosciuto il diritto di singoli soggetti alle misure di inclusione, ma si tradisce quell’idea di inclusione come processo che, grazie al riconoscimento di ostacoli e barriere visibili nei percorsi di alcune e alcuni, mette in moto cambiamenti profondi che interrogano le pratiche di tutte e tutti nel nome di una migliore accoglienza, una maggiore valorizzazione delle differenze e un supporto di successo e significatività per tutte e tutti (Bocci, 2021). In questo risiede il potenziale trasformativo della prospettiva inclusiva sull’educazione che rischia con questo documento programmatico di andare persa.

Infine, sembra imporsi in modo implicito una pressione normalizzatrice e assimilazionista. Nell’ambito degli apprendimenti, da un lato vi è il discorso intorno alla centralità di conoscenze che veicolano un’idea di insegnamento inteso come trasmissione di alcuni contenuti essenziali necessari per tutte e tutti e che dunque implicano anche una standardizzazione di ciò che si apprende. Accanto a questo, colpisce la scelta di mantenere, per quel che riguarda la sezione sull’inclusione, l’attenzione al solo processo di personalizzazione e non a quello di individualizzazione, scelta che sembrerebbe suggerire — anche se in contraddizione con il riferimento all’UDL — un mancato riconoscimento dell’importanza di flessibilizzare e pluralizzare le modalità di apprendimento per tutte e tutti.

Nell’ambito della dimensione sociale della vita scolastica, la linea del dialogo aperto all’eterogeneità delle esperienze di alunne e alunni per lavorare su una cittadinanza con radici contemporaneamente locali e globali delle vecchie Indicazioni è sostituita da un’attenzione all’apprendimento di regole e all’incorporazione di limiti. In entrambe le dimensioni dell’esperienza scolastica, quella dell’apprendimento e quella della socializzazione, sembra dunque farsi strada la richiesta di rientrare in uno standard definito dalle e dagli insegnanti, limitando lo spazio per alunne e alunni di autodeterminazione individuale e collettiva. Accanto a questo, nell’ambito del discorso che tratteggia intercultura e plurilinguismo a scuola, le diverse lingue sono rappresentate in modo chiaramente gerarchico e non a tutti i patrimoni linguistici familiari sono riconosciuti uguale valore e attenzione. È ribadito un forte investimento per l’apprendimento dell’italiano come L2; nessuna parola invece è spesa rispetto alla cura delle diverse cosiddette lingue madri. In linea con la pressione normalizzatrice già illustrata, si vede in questa scelta un’implicita volontà assimilazionista (Gross, 2021; Matucci, 2025), che ancora spinge verso forme di standardizzazione necessariamente escludenti.

Concludendo, la sfida che le nuove Indicazioni pongono a chi crede in una scuola realmente inclusiva riguarda oggi la capacità di trovare e difendere spazi di pensiero e di azione che, pur legittimi in una scuola dell’autonomia, si configurano inevitabilmente come forme di resistenza alla cornice culturale tracciata dal documento ministeriale. Questo impegno può articolarsi in almeno tre direzioni.

Primo, costruire spazi e istituzioni democratiche dentro la scuola, capaci di fare da contrappunto alla centralità attribuita all’autorealizzazione individuale, e di ricollocare i percorsi personali in una cornice collettiva, in cui il successo del singolo si intrecci con quello della comunità.

Secondo, sostanziare gli adempimenti normativi legati alle misure di inclusione con pratiche che non si limitino a rispettare la forma, ma mettano in discussione le abitudini consolidate della didattica e dell’organizzazione scolastica, aprendo possibilità reali di cambiamento.

Terzo, investire in approcci e metodi che facilitino la pluralizzazione dei percorsi di alunne e alunni all’interno di contesti comuni, così che l’idea della pluralità sia contrapposta a quella di normalizzazione e assimilazione, riconoscendo le differenze come leve per rendere l’apprendimento più ricco, complesso e significativo per tutte e tutti.

Su questi terreni, dal basso, credo ci sia uno spazio di possibilità per continuare a coltivare un’idea di inclusione che non si riduca a un atto burocratico o a un principio nominato in astratto, ma che rimanga un progetto educativo e politico capace di trasformare i contesti scolastici.

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  1. 1 Professoressa Ordinaria di Pedagogia dell’Inclusione della Facoltà di Scienze della Formazione Primaria della Libera Università di Bozen-Bolzano.

  2. 2 Full Professor of Inclusive Pedagogy at the Faculty of Primary Education Sciences, Free University of Bozen-Bolzano.

  3. 3 Al momento della consegna di questo articolo per la pubblicazione, l’iter di adozione delle nuove Indicazioni è stato dichiarato concluso sul sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito. Il testo definitivo è in attesa di parere formale del Consiglio di Stato ed entrerà prevedibilmente in vigore nell’a.s. 2026/2027.

Vol. 24, Issue 4, November 2025

 

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