Vol. 24, n. 3, settembre 2025 — pp. 77-79
Corrispondenza: Alessandro Monchietto — e-mail:
Rubrica
Recensione
Carletti V. (2023), A oltranza. (Dis)avventure di una vecchia groupie, Torino, Miraggi
Fanucci T. (2024), Scomodo. Il mio percorso a ostacoli, Pisa, Felici
Ci sono libri che nascono in dialogo tra loro: non lo sanno ma chi avrà modo di incontrarli saprà trovare assonanze, rimandi, risonanze, consegne.
I volumi A oltranza. (Dis)avventure di una vecchia groupie di Valeria Carletti e Scomodo. Il mio percorso a ostacoli di Tommaso Fanucci sono due testi che, pur molto diversi per stile e tono, condividono una forza analitica rara: quella di far emergere, dall’esperienza vissuta, le contraddizioni di un sistema che celebra retoricamente la diversità, ma che spesso evita accuratamente di affrontarne la complessità concreta.
Entrambi i volumi si sottraggono alla trappola dell’esemplarità o della «storia edificante», mostrando con chiarezza come adottare una lente biografica non sia un esercizio autoreferenziale, ma un vero e proprio strumento di analisi e di critica politica. Tradurre in parole la propria esperienza significa infatti rendere visibili i dispositivi sociali e istituzionali che condizionano le possibilità di partecipazione, di apprendimento, di realizzazione personale.
Diventano di fatto due narrazioni che sfidano quanti, nelle dimensioni di ricerca e professionali, sembrano anestetizzare le dimensioni narrative tanto personali che contestuali, a favore di ricorrenze, evidenze, maggioranze.
La vicenda di Fanucci mostra con chiarezza come l’inclusione rischi di rimanere una formula vuota, quando si traduce semplicemente nella coabitazione degli studenti all’interno dello stesso spazio fisico. Nel suo racconto, il sistema scolastico — che dovrebbe rappresentare il primo laboratorio di convivenza democratica — si mostra impreparato a valorizzare le differenze: se la presenza in aula non si accompagna a relazioni educative significative, a una didattica accessibile e all’accoglienza della soggettività dell’alunno, si generano nuove discriminazioni, ancor più insidiose proprio perché camuffate da normalità. Il flusso della narrazione, nelle diverse dimensioni di vita, ha il merito di mettere il lettore di fronte all’equilibrio costante tra il desiderare e l’esistere reale, tra un pensiero caldo e uno freddo, tra i vincoli e le crescenti, inedite, sorprendenti possibilità che si aprono oltre ogni presunta aspettativa e previsione. Sollecita l’esercizio di un pensiero che non ha paura di sporcarsi con «attesi imprevisti», sia quando ostacolano che quando consentono.
Carletti, dal canto suo, mette a nudo con ironia e disincanto le forme sottili di marginalizzazione che persistono anche in contesti ritenuti progressisti. Attraverso un costante dialogo con la scena musicale italiana, scandito da una selezione di brani che introducono ciascun capitolo e che costituiscono una sorta di colonna sonora del suo percorso narrativo, l’autrice denuncia con lucidità le forme di esclusione che attraversano gli ambienti e le relazioni quotidiane.
Il suo libro disinnesca con sarcasmo ogni residuo di pietismo, mostrando come la disabilità, anche quando si fa voce pubblica e consapevole, continui a scontrarsi con norme implicite, gerarchie simboliche e una costante invisibilizzazione.
La scrittura percorre le pieghe e le ferite del quotidiano, soffermandosi su quei punti in cui ad avere la meglio sono mappe che falsificano le intenzioni e denunciano il bisogno di ribaltamenti culturali. Ne emerge un tono lucido e stratificato, capace di tenere insieme registri diversi — l’ironia, la commozione, la fatica e il desiderio — senza mai cedere alla retorica. Il risultato è una storia che sorprende, che restituisce una dimensione complessa della vita, non minore, non da aggiustare, mai da riparare.
In entrambi i testi il corpo non rappresenta un tabù, ma nemmeno l’unico protagonista. Le difficoltà, le barriere architettoniche e sensoriali, il dolore e la fatica non vengono negati, ma nemmeno disgiunti dalla complessità delle esperienze in cui si inscrivono. È un approccio che risuona con le posizioni di alcune pensatrici femministe della disabilità — come Jenny Morris o Susan Wendell — che rivendicano il riconoscimento delle esperienze corporee senza rinunciare a un’analisi critica del contesto sociale e culturale.
Queste storie non reclamano compassione, né si prestano a rafforzare l’immagine dell’eroe o eroina resiliente. Propongono, piuttosto, una sfida: mettere in discussione l’idea stessa di inclusione quando questa si riduce a un approccio cosmetico non accompagnato da diritti sostanziali, opportunità reali e relazioni significative. Un’inclusione che non interroga le proprie premesse rischia di trasformarsi in una narrazione autoassolutoria, che cela le disuguaglianze piuttosto che affrontarle, le rafforza perché agisce silenziosamente nel convincimento che si stia facendo tutto quello che è noto ed è dovuto, dall’osservatorio privilegiato (e a volte un po’ arrogante) della letteratura scientifica e della normativa.
Invece queste due storie, raccontate con onestà, coraggio e sapienza, ricordano ai professionisti della ricerca e del fare educativo che non esiste equità se non nel rispetto delle differenze e nella costante denuncia e messa in gioco di tutto ciò che «da fuori» limita le giuste fioriture. Non si tratta allora di allestire contesti di illusione e utopia, ma di imparare a diventare tessitori di speranza, intesa come capacità crescente delle persone, delle comunità, dei pensieri di sporcarsi con la responsabilità di farsi ciascuno competenti in ordine al possibile.
Sono volumi che non cercano conferme, ma crepe: spazi in cui si dà forma a un pensiero che non rifugge il confronto con i dilemmi, e a una prospettiva culturale che prova a restituire voce, visibilità e legittimità a soggettività che troppo spesso restano fuori campo.
Alessandro Monchietto e Moira Sannipoli