Vol. 24, n. 1, febbraio 2025
PRECURSORI
L’attualissima inattualità di Adriano Olivetti, pioniere del comunitarismo inclusivo
Alessandra M. Straniero1
Sommario
Il contributo analizza la visione culturale, educativa e comunitaria di Adriano Olivetti. Il suo approccio integrato al lavoro, all’educazione e alla cultura ha promosso un’idea di progresso che guardava all’uomo come al centro del processo produttivo, sostenendo una visione che metteva in relazione la crescita economica con il miglioramento della qualità della vita. L’autrice si focalizza in particolare sul concetto di comunità, su come Olivetti l’abbia declinato in termini spirituali e concreti e sulle intersezioni che esso ha con il concetto di comunità educante. Il contributo sottolinea come Adriano Olivetti rappresenti una figura cruciale per gli studi pedagogici, poiché la sua visione integrata di lavoro, cultura e educazione offre spunti innovativi per riflettere sul ruolo dell’educazione nel contesto sociale e produttivo. La sua convinzione che l’ambiente di lavoro dovesse essere anche un luogo di crescita culturale e umana sfida le tradizionali separazioni tra formazione scolastica e formazione professionale, ponendo le basi per un’educazione che valorizzi l’interconnessione tra sapere, lavoro e cittadinanza.
Parole chiave
Adriano Olivetti, Comunità educante, Educazione, Inclusione.
PIONEERS
The modernity of being outdates: Adriano Olivetti, pioneer of inclusive communitarianism
Alessandra M. Straniero2
Abstract
This article analyzes the vision of Adriano Olivetti about education, culture, and communities. His integrated approach to work, education, and culture promoted an idea of progress that placed the human being at the center of the production process, advocating for a vision that connected economic growth with the improvement of quality of life. The author focuses specifically on the concept of community, describing how Olivetti interpreted it both in spiritual and concrete terms, and depicts the intersections between Olivetti’s ideas and the concept of «community education». The article highlights how Adriano Olivetti represents a key figure in pedagogical studies, since his integrated vision of work, culture, and education provides innovative insights into the role of education in the social and business context. Olivetti’s belief that the workplace should also be a space for cultural and human growth challenges the traditional separation between school-based education and vocational training, laying the foundations for an education that values the interconnection between knowledge, work, and citizenship.
Keywords
Adriano Olivetti, Educating community, Education, Inclusion.
Spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande.
Adriano Olivetti
Un’utopia concreta
Come scrive Umberto Serafini, la figura di Adriano Olivetti è stata scomoda, «prima ignorata o adulata per mediocri motivi o gratuitamente svillaneggiata, poi rivalutata con analisi o scopertamente strumentali o assai fumose» (Serafini, 1982, p. 9). È possibile che uno dei motivi di questa cattiva ricezione sia da ricercare nel fatto che Adriano Olivetti era troppo avanti rispetto al suo tempo. Le sue idee sul ruolo sociale dell’impresa e sull’integrazione tra lavoro, cultura e territorio erano spesso percepite come utopistiche o irrealistiche. Questo fece sì che molti lo considerassero un idealista più che un imprenditore pragmatico. Ne era consapevole, e non a caso, come vedremo, egli si sforzò di dimostrare come il suo discorso intorno alle forze spirituali fosse invece di ordine pratico, e come sia «empirico» quel mondo che non «accetti finalmente le indicazioni della scienza» (Olivetti, 2024, p. 30).
Negli ultimi anni la sua opera è oggetto di studio e di approfondimento, soprattutto da parte di studiosi di politica, di economia, di architettura, di sociologia. La riflessione pedagogica attorno alla valenza del progetto olivettiano dal punto di vista educativo è, invece, meno ampia (Fava, 2020, 2023; Romano, 2015, 2020, 2021). In un contributo che indagava la figura di Margherita Zoebeli, apparso proprio in questa rubrica, avevamo ripercorso le traiettorie che portarono Zoebeli a incrociarsi con Adriano Olivetti. Quest’ultimo contribuì economicamente al progetto di ampliamento dei CEIS di Rimini e fu determinante il suo intervento per ricevere sovvenzioni economiche da parte del UNRRA-CASAS, del cui consiglio di amministrazione Olivetti era membro (Straniero, 2021).
È stato evidenziato come esistano almeno tre motivi per cui il pensiero di Adriano Olivetti dovrebbe essere di interesse da parte della pedagogia. In questa sede ne riprendiamo e ne articoliamo uno, e cioè «il nuovo bisogno di comunità come risposta all’individualismo imperante che accresce la diffidenza nei confronti del diverso e di ogni altro» (Romano, 2015, p. 787; Romano e Schirripa, 2019; Romano, 2022). Come si cercherà di evidenziare nelle prossime pagine, il concetto di comunità è trasversale e interessa in diversi modi il discorso pedagogico. Nell’ottica olivettiana la comunità (anche se non è esplicitamente caratterizzata dall’aggettivo «educante») è il luogo dove si realizza una grande pedagogia i cui fini sono l’elevazione della persona, lo sviluppo della società e il miglioramento delle condizioni di lavoro, tutti obiettivi che possono essere raggiunti solo perseguendo un progetto coordinato e continuo di educazione (Renzi, 2008).
L’«attualissima inattualità»3 del suo progetto culturale e la sua visione comunitaria della vita e della società possono essere un’occasione per pensare in modo tutt’altro che utopistico la centralità che dovrebbero avere le relazioni umane.
L’utopia a cui spesso Olivetti viene accostato è tuttavia una traccia interessante, forse più per il lavoro si direbbe abbia fatto per prenderne le distanze, come evidenziato dalle seguenti riflessioni: «Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande».
Egli scrive Città dell’Uomo (Olivetti, 2024). Un titolo che certamente possiede un carattere programmatico, un’idealità in certa misura, ma allo stesso tempo esprime la necessità di accostarsi all’umanità, come se l’uomo fosse l’elemento di realtà che àncora la sua tesi alla concretezza.
Di «Città» nella tradizione filosofica e artistica ve ne sono diverse, connotate di utopia a vari gradi e dunque un’associazione mentale fra città e ordine, fra città e buon governo è evidentemente viva nell’inconscio collettivo e affiora non appena la città viene nominata in una nuova produzione critica o saggistica.
Per prima viene in mente la Veduta della città ideale, il noto dipinto della seconda metà del Quattrocento conservato a Urbino e poi occorre prendere in considerazione i due dipinti successivi, che ne riprendono il tema, conservati a Berlino e a Baltimora. L’ardire architettonico quale massima espressione dell’intervento trasformativo della natura da parte dell’uomo, la prospettiva, la ricchezza dei materiali che rivestono gli edifici, le piazze, i loggiati, frutto evidente di un’economia che ha raggiunto il massimo splendore e dunque espressione del buon governo, e poi la pulizia, la solarità che invade la prospettiva, segni di un ordine morale realizzato e simboleggiato dalle simmetrie, sembrano il punto più alto raggiunto dall’idealità, giacché due sono prive di figure umane e in una, pur essendo presenti, paiono separate, non intente in attività tali da mettersi in relazione.
Diverso è il caso di Leonardo, che in quegli stessi anni abbozza il progetto della sua città ideale sulla base di concrete necessità umane. Lavora su commissione; a chiedergli di progettare un luogo adatto alla collettività fu Ludovico il Moro, quando l’artista risiedeva presso la sua corte a Milano, principalmente a seguito del terrore scaturito dall’epidemia di peste.
La città pensata da Leonardo era quindi mossa, al contrario dei riferimenti che qui indichiamo, da ragioni meramente pratiche e materiali, per cui ogni osservazione sulla gestione degli spazi comuni, ad esempio, doveva esaudire la richiesta di maggiore igiene, di garantire quello che oggi, dopo la pandemia di Covid-19, chiamiamo distanziamento sociale. Dai bozzetti conservati nel cosiddetto Manoscritto B esce fuori un complesso architettonico e urbanistico imponente, la cui realizzazione avrebbe richiesto una quantità di risorse tanto ingente da non ritenerla fattibile, dunque ideale per forza.
Non possiamo non pensare alla Città del Sole di Tommaso Campanella, una città di forma circolare, posta sopra un colle e dunque sollevata rispetto ai comuni mortali. La città è descritta però come un corpo unico senza spazi per la specificità dei singoli; vi erano, ad esempio, ferree limitazioni delle attività praticabili in base all’età, quasi a teorizzare la necessità di immobilizzare l’umanità entro schemi che ne attutiscano la forza perturbante.
Viene in mente altresì la Città di Dio di Agostino d’Ippona, che, sebbene abbia in comune con la Città di Olivetti l’ispirazione cristiana e un’utilità nel risolvere questioni all’epoca cocenti per la vita concreta dei fedeli, ha assunto nel tempo le caratteristiche di un’opera pratica sul mero piano religioso e, ancora una volta, ideale ai fini dell’individuazione di criteri per la realizzazione di un modello sociale vero e proprio.
Venendo alla Città di Olivetti, l’elemento umano è guidato dalle quattro forze dello spirito: Verità, Giustizia, Bellezza e Amore. Parole vuote e retoriche per la maggioranza, per lui lumi che rischiarano il da farsi. Per lui «Verità in una società umana significa cultura libera, indipendenza di ricerche e conoscenze scientifiche».
Sembra riconoscere lo spirito di Verità contenuto nelle opere d’arte a cui abbiamo accennato quando scrive che «lo spirito di Verità ha lavorato in silenzio per lunghi secoli, perché un’umanità più felice fosse resa un giorno possibile». Sembra riconoscere alle piazze e alle strade vuote del dipinto di Urbino la preparazione di un mondo in cui l’umanità avrebbe dovuto prima o poi riversarsi. La Giustizia, afferma Olivetti, scaturisce direttamente dalla Verità. Similmente ai palazzi raffigurati nei dipinti, che simboleggiano i luoghi del potere, Olivetti non riteneva che la giustizia fosse da implementare nelle istituzioni, e conseguentemente non riteneva che le istituzioni avrebbero potuto fornire, da sole, l’inquadramento di rapporti umani più giusti ed equi.
Se per lui «lo Stato sarà dunque un mezzo perché la città si esprima liberamente», gli equilibri pedagogici devono essere ricercati lì dove l’uomo esercita le sue relazioni. Il buon governo scaturisce dalla buona comunità e non il contrario. Forse non è un caso che, dovendo elencare chi a suo parere dovrebbe comporre il Parlamento, abbia posto per primi gli educatori e solo dopo gli economisti, gli urbanisti, gli igienisti e via dicendo.
Per una comunità educante
Tutte le iniziative di Olivetti sono state animate da una spinta ideale rappresentata dalla cultura e dall’educazione quali aspetti strategici di trasformazione della società in direzione comunitaria. Questi due elementi nel pensiero di Olivetti sono il motore che anima la speranza in un «ordine nuovo» (nel senso gramsciano dell’espressione) capace di arrivare a una maturazione morale e intellettuale della società, funzionale allo sviluppo comunitario.
Si potrebbe parlare di uno sforzo verso la costruzione di una «comunità educante», sebbene Santamaita evidenzi come la comunità di Olivetti si spinga oltre l’aspetto educativo (Santamaita, 1987, p. 8).
Il concetto di comunità educante (Perruca, 1998) si riferisce a un insieme di soggetti — genitori, insegnanti, educatori, istituzioni, associazioni, e la comunità territoriale nel suo complesso — che collaborano per favorire il benessere, l’apprendimento e la crescita dei bambini e dei giovani. Questa rete condivisa riconosce che l’educazione non si limita alla scuola, ma coinvolge una pluralità di contesti, risorse e attori sociali. Nel Rapporto Faure (1973) si fa esplicito riferimento alla cité éducative, nella quale si riconosce il carattere ubiquo dei processi educativi sia in termini temporali (l’intera esistenza di una persona), sia rispetto ai luoghi (non solo nei contesti scolastici), «orientando l’azione pedagogica verso la costruzione di una polis educativa consapevole e responsabile, promossa dalle diverse componenti sociali» (Zamengo e Valenzano, 2018, p. 351).
Secondo Paulo Freire, l’educazione è un atto collettivo e trasformativo, dove la collaborazione tra le diverse parti della società può contrastare le disuguaglianze e promuovere una cittadinanza attiva (Freire, 2018). La comunità educante si fonda su valori come l’inclusione, la partecipazione e la corresponsabilità, mirando a creare un ambiente educativo integrato che valorizzi le diverse prospettive e culture. Questo approccio è cruciale soprattutto nei contesti fragili, dove le sinergie tra scuola, famiglia e territorio possono prevenire la dispersione scolastica e offrire un supporto più completo ai giovani (Tramma, 2019).
Il concetto di comunità educante trova un forte parallelismo con la visione di comunità promossa da Adriano Olivetti. La «comunità di Olivetti» era un modello integrato basato su una visione olistica della società, dove l’impresa non era solo un luogo di produzione economica, ma anche uno spazio per la crescita culturale, educativa e sociale dei lavoratori e delle loro famiglie. La comunità olivettiana, come la comunità educante, si fonda su principi di corresponsabilità, inclusione e partecipazione. Olivetti promuoveva la creazione di un ambiente che offrisse opportunità di formazione continua e valorizzazione personale, sostenendo scuole, biblioteche, centri culturali e altre istituzioni educative. Questo approccio riflette l’idea che l’educazione non sia un processo isolato, ma una funzione collettiva che coinvolge tutti i membri della società.
Olivetti credeva, inoltre, nella centralità del territorio e nell’importanza di costruire reti di relazioni tra individui e istituzioni, un principio che si ritrova nel concetto contemporaneo di comunità educante. In Olivetti, infatti, la comunità si realizza proprio a partire dalla realtà territoriale, locale. Entrambi i modelli vedono l’educazione come un processo trasformativo che supera i confini fisici della scuola o dell’impresa, contribuendo al progresso collettivo. Come sostenuto da Adriano Olivetti: «La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia» (Olivetti, 2012, p. 11).
La comunità educa perché al suo interno si concretizza uno spazio di partecipazione, perché abilita il soggetto all’esercizio di valori condivisi. La dimensione sociale dell’educazione e della pedagogia può essere pensata come «ordine educante» (Colonna, 1978, 1979a, 1979b), nel quale la pedagogia è pedagogia di/delle comunità sociali, che opera nel mondo, in esso si rinnova e che prova a tenere sempre ben saldo il collegamento con il reale. In questo quadro il lavoro pedagogico è quello di ripensare il sistema dell’educazione formale nel senso di un modello generativo nel quale formale, informale e non formale4 operino sinergicamente e in modo responsabile nella realizzazione del compito educativo.
L’approccio educativo di Olivetti si è primariamente rivolto alla formazione dei propri dipendenti. Al fianco di figure assolutamente inedite nell’organizzazione aziendale dell’epoca, come l’architetto, l’urbanista, il sociologo, lo psicologo, l’assistente sociale, Olivetti assume e supera l’approccio taylorista alla fabbrica e organizza un sistema di partecipazione alla vita produttiva che ha il proprio centro propulsore nella formazione dell’operaio.
Nel 1948 viene istituito alla Olivetti il Consiglio di Gestione, proprio quando esperienze simili in altre realtà venivano spazzate via. Al primo punto dello Statuto, tra le finalità vi è quella di «rendere i lavoratori coscientemente partecipi all’indirizzo generale dell’azienda». Il rimando evidente è alla doppia dimensione della partecipazione e collaborazione e della presa di coscienza della classe operaia, che va formata sui problemi tecnici e gestionali, produttivi e commerciali. Questo intento educativo travalicava le mura della fabbrica e si spingeva in una cogestione del territorio, luogo di vita dell’azienda e delle persone che dentro vi operano.
Nell’impegno pedagogico di Olivetti rientrano le molteplici iniziative culturali, artistiche, architettoniche che l’imprenditore intraprende lungo tutto l’arco della sua attività. Non si tratta, come evidenza Santamaita (1987, p. 74) di una captatio benevolentiae di una classe operaia che ha origini contadine, né di una forma di mecenatismo neorinascimentale. Queste iniziative vanno piuttosto inquadrate nella centralità della fabbrica e nella connessa ideologia del lavoro: il modo in cui si svolge il lavoro produttivo, il prodotto stesso che ne scaturisce, i luoghi in cui avviene la produzione e i luoghi di vita degli operai devono tutti manifestare razionalità e compostezza, e riflettere ideali estetici e artistici.
La creazione del Centro Formazione Meccanici (CFM) nel 1936 e dell’Istituto Postuniversitario per lo Studio dell’Organizzazione Aziendale (IPSOA) nel 1952 rappresentano i due esempi di punta dell’idea di formazione e educazione sistematica presenti nel progetto olivettiano.
Il CFM era un corso triennale di formazione degli operai comuni a cui seguiva un corso biennale di qualificazione rivolto a operai specializzati. Il percorso «prevedeva quarantacinque ore settimanali delle quali diciotto teoriche nell’ambito tecnico, economico, artistico e politico, ventiquattro ore di esercitazioni pratiche e tre ore di attività sportivo-ricreative» (Fava, 2023, p. 101). L’IPSOA era finalizzato alla formazione dei dirigenti d’azienda, dove spiccavano l’utilizzo di metodologie didattiche innovative per l’epoca, come l’uso sistematico del problem solving e lo studio di casi come situazioni sfidanti (Fava, 2023, p. 103).
Alla base vi era una pedagogia che poneva l’accento sul primato della ragione pratica rispetto a quella teoretica, un’idea in sintonia con alcuni pensieri dell’epoca contemporanea, in particolare con le teorie di John Dewey, a cui Olivetti è stato talvolta paragonato per il suo approccio pragmatista (Santamaita, 1987; Condemi, 2006). Nelle prime pagine di Democrazia e educazione Dewey scrive: «Vi è un legame più che verbale fra le parole comune, comunità e comunicazione» e questa affermazione sembra proprio rispecchiare il pensiero olivettiano, dove vi è una tensione costante tra contributi tecnico-scientifici e istanze etiche. Ad esempio, l’impegno di Olivetti nelle Edizioni di Comunità rispecchia quella necessità — molto sentita anche da Dewey — di rigenerare la cultura e di creare una cultura pratica che superasse la tradizionale separazione fra saperi umanistici e saperi tecnico-scientifici, favorendo la possibilità per tutti e tutte di contribuire al rinnovamento e alla trasformazione della società. La formazione del lavoratore, infatti, non si limitava all’insegnamento di un mestiere ma era tesa a una più generale crescita personale, nella quale occasioni culturali, biblioteca di fabbrica, proiezioni cinematografiche, dibattiti, teatro, asili e colonie ne rappresentavano un esempio concreto (Romano, 2021, p. 1243).
Il sistema di buone pratiche ideate da Olivetti è stato non a caso definito da Luciano Gallino «un imponente “stato sociale”» (Gallino, 2014, p. 90). L’asilo e la scuola materna per i figli dei dipendenti (che erano aperti anche a bambini di persone non lavoratrici delle aziende di Olivetti) erano stati concepiti in conformità con i principi delle più moderne teorie pedagogiche, probabilmente ispirate a quelle steineriane e montessoriane, e prestando particolare attenzione all’architettura e agli spazi, progettati per essere perfettamente adatti alle esigenze dei bambini (Romano, 2015). Le colonie estive della Olivetti furono un’esperienza straordinaria, nelle quali si offrivano ai bambini, qualunque fosse l’origine familiare, la possibilità di vivere un’esperienza collettiva, coniugata con una forte spinta all’autonomia individuale: «Questo era infatti sollecitato non solo a richiedere ai bambini “un atteggiamento passivo” fondato su silenzio e disciplina formale, ma anche a stimolare lo sviluppo e l’espressione del singolo grazie alla creazione di uno spirito comunitario e alle attività svolte, tra cui si citano il disegno, il modellare, la costruzione di marionette per spettacoli interni, la preparazione di giornali delle colonie, danza, ecc.» (Neri, 2021, p. 38). Tale progetto fu reso possibile anche grazie all’impiego di personale preparato non solo sotto l’aspetto della vigilanza. Nella loro formazione furono coinvolti noti pedagogisti provenienti dal CEIS di Rimini e dai CEMEA.
Per realizzare le colonie fu tuttavia necessario, ancora prima di un personale altamente qualificato, uno sforzo di immaginazione progettuale anche dal punto di vista architettonico. Proprio l’aspetto della progettazione degli spazi rappresenta un altro punto centrale del pensiero olivettiano che lo rende funzionale a un discorso culturale più ampio. Nel pensiero di Adriano Olivetti non solo qualità del lavoro e qualità della vita risultavano complementari: la qualità architettonica era parte integrante di questa equazione, specie in ambito sociale (Olmo, 2001). L’intersezione fra pedagogia, architettura e urbanistica rintracciabile nel progetto comunitario di Olivetti è oggetto di un dibattito scientifico molto vasto e complesso, sul quale in questa sede non è possibile soffermarsi. Basti qui richiamare il concetto di educazione diffusa (Mottana e Campagnoli, 2022) e incidentale (Ward, 2021), un’educazione che si fonda sull’esperienza (Dewey, 2014) e «che attraversa fisicamente e simbolicamente i molteplici contesti dell’esistenza» (Petrini, 2024, p. 198; Iori, 1996). Le ricerche condotte in questo ambito di studio transdisciplinare si sono focalizzate su una serie di temi, come, ad esempio, il ruolo degli ambienti di apprendimento sul processo formativo-educativo; il rapporto che intercorre tra gli edifici scolastici e il contesto urbano; i modi in cui l’organizzazione dell’ambiente urbano può influenzare l’azione umana; l’impatto della compenetrazione tra spazi fisici e spazi virtuali sulle dimensioni relazionale e educativa (Moscato e Tosi, 2022; Serreli e Calidoni, 2017; Weyland, 2018; Vanacore e Gomez Paloma, 2020). L’idea che la «spazialità» possa «dare forma» alle relazioni sociali implica che l’ambiente in cui le persone interagiscono non è solo un contenitore neutro, ma anche una parte attiva e determinante nei processi di comunicazione, aggregazione e collaborazione. In un contesto educativo, il modo in cui gli spazi sono progettati può influire profondamente sul tipo di interazioni che si sviluppano tra gli individui, sulla facilità con cui si favoriscono incontri e scambi e sul grado di cooperazione che si instaura tra i membri di una comunità. Gli spazi non sono semplicemente da concepire come luoghi funzionali, ma come «attivatori» di esperienze, pensieri e azioni. La progettazione di spazi, quindi, diventa cruciale per orientare e stimolare pratiche educative che favoriscano l’apprendimento attivo, la partecipazione e lo sviluppo di competenze sociali.
Inoltre, l’integrazione di una prospettiva interdisciplinare, che include anche lo «sguardo pedagogico», amplifica la visione della spazialità come strumento di crescita a livello individuale e collettivo. Gli spazi educativi, progettati in modo consapevole e strategico, diventano un «attivatore di processi di crescita», promuovendo una visione olistica dell’educazione che riconosce nella comunità la dimensione relazionale e collaborativa come fondamentale per la formazione di cittadini responsabili e consapevoli (Striano, 2020).
L’impegno comunitario come prospettiva
Quanto si è andato ricostruendo rispetto all’opera culturale di Olivetti e al suo progetto educativo potrebbe essere funzionale ad affrontare il momento di crisi attuale.
La crisi della comunità educante (Zamengo e Valenzano, 2018) si manifesta non solo a livello sociale, ma soprattutto tra i «corpi intermedi» (scuola, famiglia, associazioni), ossia tra soggetti, strumenti e mezzi che concretizzano l’intervento educativo. Una comunità educante si realizza quando questi elementi sono integrati nella pratica educativa. Nella comunità educativa contemporanea è essenziale mantenere un equilibrio tra l’individuo e la collettività, riconoscendo la tensione tra l’autodeterminazione personale e il valore di una comunità che supporta la crescita individuale e la partecipazione al bene comune. Si tratta di preservare un equilibrio dinamico, aperto al confronto.
Un passo fondamentale è restituire all’educazione una dimensione pubblica, coinvolgendo attivamente i vari attori locali, superando visioni ristrette e favorendo una visione comune. Questo approccio richiede di valorizzare il pluralismo dei «corpi intermedi» non in isolamento, ma in forme di collaborazione pedagogica che contribuiscano alla costruzione di una coscienza educativa condivisa, promuovendo una democrazia sostanziale e non solo formale (Agazzi, 1965; Dalle Fratte, 1991).5
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1 Ricercatrice in Didattica e Pedagogia speciale, Università della Calabria.
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2 Researcher in Didactics and Special Pedagogy, University of Calabria.
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3 Dall’espressione «attualissimamente inattuale» usata da Bonomi, Revelli e Magnaghi (2015, p. 13).
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4 Per una ricostruzione critica della distinzione fra apprendimento formale, non formale e informale si veda Salatin (2012).
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5 La collaborazione pedagogica andrebbe riattivata anche in seno allo stesso sistema scolastico-universitario. Finita la stagione del grande dialogo fra il mondo della scuola e quello dell’università, particolarmente vivace fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso, in Italia si assiste da tempo a uno scontro fra insegnanti e docenti universitari, in particolare di area pedagogica. L’accusa rivolta ai secondi è quella di restare arroccati in posizioni teoriche, prive di ricadute sul mondo reale della scuola. Risulta quantomai urgente ricondurre il discorso su un piano politico, trasformativo e progressista (Bocci, 2024), dove l’azione si generi dalla comunità e nella comunità e dove si ricompattino tutti i membri in un’ottica solidaristica e fiduciaria.
Vol. 24, Issue 1, February 2025