Vol. 22, n. 1, febbraio 2023
PROSPETTIVE E MODELLI INTERNAZIONALI
Quasi Adatti? Equità, Diversità, Inclusione e Resilienza
Approccio multisistemico, socio-ecologico nella ricerca nel campo della Pedagogia Speciale e Didattica Speciale
Elena Malaguti1
Sommario
Le ricerche che correlano il benessere degli adolescenti — la loro salute mentale — al successo formativo (resilienza in campo educativo), dimostrano che l’utilizzo di un approccio adattativo e compensativo o dispensativo per analizzare i fenomeni sottesi ai processi di resilienza e al successo formativo non è efficace (Theron, 2016; Ungar e Theron, 2020) se si opera in ambienti eterogeni dove sono presenti molteplici differenze. Il costrutto socio-ecologico e multisistemico (Ungar e Theron, 2020; Malaguti, 2020; Ungar, 2012; 2019; Rutter, 2006; 2012; Masten e Tellegen, 2012) considera l’interazione dei sistemi fra di loro, ovvero, le relazioni che si instaurano fra la persona e gli ambienti che frequenta e il modo in cui gli ambienti si organizzano e progettano percorsi educativi e formativi. Il presente contributo si pone l’obiettivo di stimolare la riflessione per la ricerca scientifica nel campo delle scienze dell’educazione ma, in particolare, in riferimento all’ambito della Pedagogia Speciale e della Didattica Speciale secondo la prospettiva dell’educazione inclusiva, nel tentativo di comprendere in che modo sia possibile costruire un disegno comune capace di rispondere, con azioni concrete, alle istanze di educabilità anche di coloro che vivono condizioni peculiari. L’attenzione ai processi, ai cambiamenti locali, nazionali ed internazionali è una dimensione che attraversa da sempre gli studi nel settore della Pedagogia Speciale e Didattica Speciale (Canevaro, 1985). Si ritiene, dunque, che un chiarimento sul piano concettuale e semantico sia fondamentale non solo per il profilo epistemologico degli studi nel settore della Pedagogia Speciale, ma anche per costruire contesti realmente equi, inclusivi, solidali e sostenibili.
Parole chiave
Ecosistemi, Contesti, Differenze, Processi educativi, Successo formativo, Inclusione.
INTERNATIONAL MODELS AND PERSPECTIVES
Almost Suited? Equity, Diversity, Inclusion and Resilience
A multisystemic, social-ecological approach in scientific research in the field of Special Pedagogy and Special Education
Elena Malaguti2
Abstract
Papers correlating adolescents’ well-being (their mental health) to educational success (resilience in education) show that an adaptive and compensatory approach to understand the phenomena underlying resilience processes and educational success is not effective (Theron, 2016; Ungar and Theron, 2020) when operating in heterogeneous environments where multiple differences are present. The social-ecological and multisystemic construct (Ungar and Theron, 2020; Malaguti, 2020; Ungar, 2012; 2019; Rutter, 2006; 2012; Masten e Tellegen, 2012) considers the interaction of systems with each other, i.e., the relationships that are established between the person and the environments he or she attends and the way the environments organize and design educational and training pathways.
The present article wants to stimulate reflection in the field of educational sciences but, in particular, with reference to the field of Special Pedagogy and Special Education, in an attempt to understand how it is possible to build a common design capable of responding, effectively, to the instances of education, even of those who experience peculiar conditions. Attention to processes, to local, national and international changes is a dimension that has always run through studies in the field of Special Pedagogy and Special Education (Canevaro, 1985). Therefore, it is believed that a clarification on the conceptual and semantic level is essential not only for the epistemological profile of studies in the field of Special Pedagogy, but also for building truly equitable, inclusive, supportive and sustainable contexts.
Keywords
Ecosystems, Contexts, Differences, Educational processes, Educational success, Inclusion.
Per me siete tutti uguali.
No. La diversità va celebrata e nominata bene.
Qualcuno potrebbe dire:
«ma c’è bisogno di nominare ogni cosa?».
Sì, perché noi esseri umani abbiamo bisogno
di nominare la realtà per poterla rendere
raccontabile, per poterne parlare.
(Gheno, 2022)
Introduzione
Il presente contributo si pone l’obiettivo di stimolare la riflessione per la ricerca scientifica nel campo delle scienze dell’educazione ma, in particolare, in riferimento all’ambito della Pedagogia Speciale e della Didattica Speciale, rispetto ai processi inclusivi secondo un approccio ecologico sociale e umano e una dinamica di reciprocità: tentando, quindi, di comprendere in che misura le prospettive internazionali possano offrire un contributo alla ricerca italiana e, anche, in che modo l’Italia si possa collocare come un attore significativo nel dibattito internazionale.
La parola «inclusione» è, attualmente, una costante nel linguaggio quotidiano. A voler osservare con cura ed essere precisi, è divenuta così popolare che può essere utile chiarire la struttura di senso che la caratterizza e le potenzialità che può esprimere.
Considerando gli eventi recenti, dalla pandemia sino al conflitto in corso in Ucraina, dalle crisi climatiche al recente terremoto avvenuto in Turchia e Siria, e i molti altri citabili si può affermare che essi mostrano, ancora una volta, quanto i fenomeni educativi, politici, sociali, culturali ed economici siano interconnessi. Tale condizione mette in evidenza l’impatto generalizzato (con gradienti e intensità differenti) che fenomeni apparentemente «distanti» esercitano sulla vita lavorativa e personale di popolazioni, anche fisicamente lontani dai luoghi dove i fenomeni in questione hanno luogo. Di fronte a questa rete di relazioni, sempre più ampia, è richiesta una capacità di orientamento che sappia attingere a conoscenze diverse, per comprendere evoluzioni di scenari impensabili anche soltanto un decennio fa e formulare proposte comuni.
L’attenzione ai processi, ai cambiamenti locali, nazionali e internazionali è una dimensione che attraversa da sempre gli studi nel settore della Pedagogia Speciale e Didattica Speciale (Canevaro, 1985). Si ritiene, dunque, che un chiarimento sul piano concettuale e semantico sia fondamentale non solo, per il profilo epistemologico degli studi nel settore della Pedagogia Speciale ma anche per tendere a costruire contesti equi, inclusivi, solidali e sostenibili.
Complessità non significa complicato: versus ecosistemi di qualità
Il libro dal titolo Adattarsi della scrittrice Clara Dupont-Monod ha un incipit molto interessante: «Un giorno in una famiglia, nacque un figlio inadatto. Nonostante la sua bruttezza un po’ umiliante, questa parola potrebbe tuttavia descrivere la realtà di un corpo molle, di uno sguardo mobile e vuoto. «Difettoso» sarebbe fuori luogo, «incompiuto» anche, perché queste categorie fanno pensare a un oggetto fuori uso, da buttare. «Inadatto» presuppone precisamente che il bambino esisteva al di fuori del quadro funzionale (una mano serve ad afferrare, delle gambe a camminare) e che stava comunque ai margini delle altre vite, non completamente integrato con queste, ma prendendovi nonostante tutto parte, come l’ombra all’angolo di un quadro, allo stesso tempo intrusa eppure voluta del pittore» (Dupont-Monod, p. 9). La vicenda narrata in questo libro riguarda la nascita di un bambino, bello e sorridente, che si scoprirà essere persona con una disabilità molto complessa. Questo evento scuote gli equilibri di una famiglia della montagna francese ridisegnando anche il destino dei due fratelli. A raccontare sono anche le pietre della corte, della piazza e del luogo della casa, che diventano voce narrante, depositarie della memoria e del tempo che trascorre. Un tempo che è segnato da spazi, relazioni, pensieri, emozioni, gesti, che guidano le vite e i destini. Il modo in cui l’autrice narra la vicenda è tale per cui il lettore riesce a percepire le differenze, la diversità che l’impatto nella nascita produce all’interno della famiglia e di permettere al lettore di leggere il contesto come un testo: il segno, la parola prende significato perché è inserita in un ambiente che interagisce e costruisce il tessuto narrativo all’interno del quale è possibile collocare l’esperienza. Nell’incipit del libro, si può notare come, nel disegno predisposto dall’artista, si ammette che colui che è al margine di altre vite possa rientrare a pieno titolo all’interno del quadro. Un’immagine questa che introduce l’intreccio fra i binomi esclusione/inclusione, diversità/differenza, disparità/equità che rispecchiano evoluzioni culturali e semantiche che caratterizzano la società contemporanea. Volendo domandarsi in che modo sia possibile sostenere il processo di insegnamento-apprendimento anche di colui che è pensato e considerato con pochi margini di autonomie e di possibilità, o di coloro che si ritirano e non partecipano, o di coloro che seppur con profili di funzionamento molto elevati si percepiscono inadatti, si potrebbe orientare l’agire educativo in modo intenzionale facendo ricorso alla storia, alle storie di vita, ai processi culturali, sociali, educativi che animano gli studi nel campo della Pedagogia Speciale da oltre 40 anni e non solo in Italia.
Ecosistema e teoria socio-socioecologica della resilienza
Nell’enciclopedia Treccani (https://www.treccani.it/enciclopedia/ecosistema) alla voce ecosistema si legge: «Unità funzionale fondamentale in ecologia: è l’insieme degli organismi viventi e delle sostanze non viventi con le quali i primi stabiliscono uno scambio di materiali e di energia, in un’area delimitata, per es. un lago, un prato, un bosco ecc. Nell’ambito di un ecosistema, il complesso ecologico in cui vive una determinata specie animale o vegetale, o una particolare associazione di specie, viene definito biotopo; il complesso degli organismi (vegetali, animali, ecc.) che occupano un determinato spazio biota. In un ecosistema, o sistema ecologico, si distinguono i vari componenti: materiale abiotico (non vivo), costituito di sostanze inorganiche e organiche; produttori, organismi autotrofi (piante verdi e alcuni batteri) capaci di costruire sostanze organiche a spese di sostanze inorganiche; consumatori, organismi eterotrofi (animali, piante parassite e saprofite) che si nutrono di altri organismi o di sostanze organiche da questi prodotte; decompositori, organismi eterotrofi (batteri, funghi, altri organismi saprobi) che degradano le molecole organiche e liberano sostanze più semplici le quali sono utilizzate dai produttori. Quasi sempre gli ecosistemi sono sistemi aperti, che hanno scambi più o meno intensi di materiali e di energia con altri ecosistemi». Vi sono molteplici aspetti che collegano l’ecologia, con la resilienza, con le interconnessioni fra esseri umani e ambiente. L’approccio ecologico in campo educativo, si inserisce nel paradigma della complessità ed è inteso come un processo che considera, cerca di padroneggiare e di gestire i continui cambiamenti in atto e il flusso comunicativo discontinuo, disomogeneo a volte confuso. Tale prospettiva comporta lo spostamento da un’idea di stabilità, fissità, rigidità dei sistemi, a un’idea di mutamento, sottesa all’approccio ai sistemi complessi. Il nostro organismo ha bisogno di uno strumento regolatore del rapporto con l’ambiente. E questo strumento può essere in rapporto al contesto immediato, ossia a quello che Bronfenbrenner chiama microsistema (relazioni interpersonali, familiari, amicali) oppure rapportarsi a un contesto più complesso nel tempo e nello spazio, il mesosistema (la scuola, il quartiere, il mondo del lavoro) e l’esosistema (le città, i territori più o meno vicini) (Bronfenbrenner, 1986, p. 37), in cui eventi che condizionano un individuo non sono necessariamente quelli con cui entra in contatto. Questi strumenti regolatori del rapporto individuo-ambiente costituiscono la comunicazione e il linguaggio. Vi è una parentela e una continuità tra strumenti comunicativi e strumenti linguistici ma non vi è identità. Vi è una differenza fra linguaggi non verbali e comunicazione non verbale, ad esempio il sauvage de l’Aveyron ebbe buone capacità comunicative «agite» e scarsi risultati nell’assunzione di un linguaggio codificato, non verbale (Canevaro, Balzaretti e Rigon, 1996, p. 197). Questa distinzione è interessante per chi opera nel settore dell’educazione speciale ed è utile considerare la continuità fra comunicazione e linguaggio, sempre assunti come strumenti di regolazione nel rapporto con l’ambiente, o meglio con i differenti modi di considerare l’ambiente e le relazioni che al suo interno si instaurano. Il fisico teorico Carlo Rovelli (2020) in un volume dal titolo Helgoland spiega che quello che la teoria dei quanti descrive è il modo in cui una parte della natura si manifesta a un’altra parte della natura. Il cuore dell’interpretazione «relazionale» della teoria dei quanti (Rovelli, 2020, p. 84) è l’idea che la teoria non descriva il modo in cui gli oggetti quantistici si manifestano a noi (o a speciali entità che osservano). Essa descrive come qualunque oggetto fisico si manifesti a qualunque altro oggetto fisico. E come qualunque oggetto fisico agisca su qualunque altro oggetto fisico. Gli oggetti, che nel gergo fisico vengono chiamati «sistemi fisici», non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, gli oggetti (persone, paese, arcobaleno, albero, ammasso di galassie, ecc.) interagiscono uno sull’altro. Per comprendere la natura occorre guardare queste interazioni e non gli oggetti isolati. Provando a traslare dalla fisica si può affermare che la crescita degli esseri umani non può essere isolata dai contesti in cui sviluppa e non si riduce a un processo adattivo a un contesto precostituito, rigido e inflessibile. Le neuroscienze contemporanee permettono oggi di sostanziare tale affermazione. Lo sviluppo del cervello, infatti, è in gran parte un processo che dipende dall’esperienza, sia in termini positivi che negativi (Oliviero, 2017). Secondo il principio della plasticità neuronale, il cervello modifica la sua struttura sulla base degli stimoli ambientali: sono infatti le esperienze ambientali e interpersonali che modificano le nostre strutture cerebrali. In campo educativo, è quindi essenziale strutturare contesti e opportunità di apprendimento che generino interesse, curiosità e partecipazione, in ambienti eterogenei ma nel rispetto delle peculiarità di ciascuno. Questo significa non pensarsi monadi ma esseri in relazione e che solo all’interno di una trama comune e di un orizzonte di senso condiviso è possibile costruire un processo educativo. Volendo circostanziare tale affermazione, si prendano in esame tre scenari apparentemente distanti ma che possono aiutare a comprendere, da un punto di vista fenomenologico, tale affermazione.
I scenario
Un giovane sordo di origine ucraina, che ha studiato in una scuola specifica per persone sorde nel suo paese dove ha acquisito ottime competenze, a causa della guerra si ritrova improvvisamente in un paese straniero dove si parla un’altra lingua. Se non trova un luogo capace di accoglierlo, di riconoscere le sue competenze, di creargli attorno una rete di relazioni significative che l’accompagnino a trovare un progetto di vita sostenibile (amici, lavoro, perfezionamento degli studi, ecc.) rischia di ritrovarsi completamente solo e di non essere compreso anche a causa dell’incapacità di molte persone di comunicare e di comprenderlo. L’eventuale mancanza di un’organizzazione capace di fornire risposte rispetto alle peculiarità di chi è sordo, la mancanza di legami di vicinanza, la presenza di un contesto culturale dove sono presenti pregiudizi e stereotipi, spesso dovuti all’ignoranza (non conoscenza), la mancanza di intenzionalità nel voler comprendere la situazione, rischierà non solo di negare le sue identità plurimi (sono sordo ma anche molto altro in termini di autonomie e competenze) ma anche di inficiare un processo di resilienza.
Può accadere, dunque, che le circostanze sociali del dopo evento traumatico, inibiscano l’efficacia di ciò che può tutelare il processo di resilienza. Si può innescare una dinamica involutiva, di desilience, di disinvestimento là dove si sono persi la cornice di riferimento, l’orizzonte all’interno del quale situare la propria esistenza. Esiste anche una dimensione etica della resilienza. Quando si desidera accompagnare bambini e giovani durante la crescita, quando si esercitano professioni educative può essere utile fermarsi e riflettere.
II scenario
Una bambina quasi adolescente che è cresciuta in una famiglia capace di offrirle molte opportunità affettive, relazionali, che vive in una città ricca di occasioni educative, sociali e culturali (scuola, associazioni sportive, culturali, ecc.) assiste, improvvisamente, alla morte di uno dei suoi due genitori. Nel giro di solo 40 giorni, per causa di forze maggiori, si traferisce con il genitore sopravvissuto in un’altra città, lascia il suo tessuto sociale e affettivo, non ha parenti o amici che la visitano o la chiamano, inizia una nuova scuola. Il comportamento manifesto è quello di una giovane apparentemente diligente, capace, attiva ma riservata e molto selettiva nelle relazioni. È sensibile e molto veloce negli apprendimenti. Frequenta di rado i social media, non è ancora interessata a trovare una relazione sentimentale, ascolta e suona musica ma non ama le discoteche e luoghi molto affollati. Lo shock traumatico che ha vissuto le ha causato alcuni sintomi psicosomatici (difficoltà di addormentamento, fatica a svolgere in modo continuativo un’attività sportiva, mal di testa frequenti, ansia per i luoghi e le situazioni improvvise e sconosciute). Nonostante la situazione sia stata descritta e condivisa con i genitori dei compagni e le insegnanti, nessuno mette in campo piccoli gesti per farla sentire accolta, ben voluta e compresa: è trattata esattamente come tutti gli altri. La giovane molto coraggiosa tenta, comunque, di inserirsi nel nuovo ambiente anche se fa molta fatica a condividere i suoi sentimenti ed emozioni. È accompagnata prima da uno specialista poi da un altro, ma non si sente compresa e, essendo molto diffidente, orgogliosa («riesco da sola») e incapace di raccontare il suo mondo interiore, non riesce a creare un legame stabile con nessuno. Il suo desiderio è solo quello di mettere in un angolo nascosto della sua mente l’esperienza dolorosa che ha vissuto e di andare avanti studiando per divenire una detective. Il suo medico di base sottovaluta la situazione, non le fornisce alcun rimedio e non ha tempo di dedicarle uno spazio specifico perché troppo oberato da altri pazienti. Nel frattempo, arriva la pandemia. Il mondo si ferma e i pochi legami che era riuscita a costruire con coetanei si interrompono. Il genitore che vive con lei non ha trovato adulti disponibili ad allearsi che svolgessero una funzione protettiva, nemmeno i familiari più stretti sono presenti. La giovane continua a studiare si convince che finirà presto la pandemia e che iniziando la scuola superiore troverà nuovi amici e una nuova scuola e tutto andrà bene. Inizia la nuova scuola, è contenta, riesce a trovare un gruppo di amici, ha buoni risultati scolastici. Durante il secondo semestre dello stesso anno, arriva il secondo lockdown. Le richieste scolastiche sono sempre le medesime e anzi sempre più elevate e non tengono conto non solo della condizione nella quale si trovano i giovani ma nemmeno che metà dell’anno precedente la formazione è stata solo a distanza e che probabilmente non sono state fornite le competenze di base per poter affrontare i compiti richiesti da un liceo. L’approccio didattico utilizzato è di tipo tradizionale, rispetto a molti contenuti disciplinari sono gli allievi a dover in autonomia comprendere senza spiegazioni. Il corpo docente non ha competenze relazionali, lo scambio comunicativo che passa agli allievi è di tipo univoco: la responsabilità del successo o insuccesso degli allievi è solo individuale e, quindi, chi non riesce è perché non si applica e di conseguenza deve essere respinto. Al termine dell’anno scolastico di 27 allievi (tutti entrati in I liceo con un punteggio di 9 e 10 ricevuto alla fine della terza media) 17 sono stati rimandati in almeno una materia e l’anno successivo sono rimasti in 23. Durante le vacanze estive oltre a dover recuperare la o le materie nella quale erano stati rimandati, tutti gli allievi hanno avuto un elevatissimo carico di studio. Il contesto scuola è molto rigido, si ritengono non adatti quegli allievi che non riescono a reggere le richieste del contesto che considerandosi molto performante, deve diplomare la futura intellighenzia, reggere livelli molto alti anche per raggiungere indici elevati nelle prove nazionali Invalsi e non intende occuparsi di quelli allievi che per varie ragioni non riescono a reggere le richieste. La giovane molto arrabbiata e delusa dal trattamento ingiusto e sfidante dei professori decide di cambiare scuola solo l’anno successivo e verso fine anno. Intraprende un nuovo percorso ma posta difronte alle medesime modalità didattiche, comincia ad accusare sintomi psicosomatici sempre più forti, si abbassa il livello di motivazione allo studio, comincia a credere di non essere all’altezza, di avere un problema serio, di soffrire di qualche disturbo che le impedisce di andare bene a scuola e si chiude sempre di più sentendosi inadatta. In questo momento ha deciso di smettere di andare a scuola, ha perso fiducia e speranza nei confronti del suo futuro; ha però intrapreso un percorso psicologico per capire che cosa non funziona nella sua persona. Le pressioni del contesto probabilmente sono state troppo forti. L’unico suggerimento ricevuto dal mondo della scuola è di inserirla in una scuola più facile. Tale invito stimola il collegamento con il romanzo scritto da Peter Høeg (1997) nel libro da lui intitolato I quasi adatti. Nell’analisi retrospettiva del proprio passato di «quasi adatto» in una scuola sperimentale di Copenaghen che si occupa di adolescenti difficili, si può cogliere la sofferenza dell’autore per l’emarginazione subita, per la fatica di dover sottostare a un ordine e a delle regole imposte e incomprensibili.
III scenario
Una bambina di quattro anni figlia unica, molto vivace, assetata di conoscenze, di stimoli, molto curiosa con un linguaggio molto fluido e molto veloce negli apprendimenti crea qualche sospetto alle insegnanti della scuola dell’infanzia perché finisce subito l’attività assegnata, ne richiede immediatamente altre, si relaziona preferibilmente con compagni più grandi e il suo comportamento, in generale non corrisponde a quello della media dei coetanei. Le insegnanti richiedono un colloquio con i genitori e suggeriscono la visita da uno specialista con l’intento di aiutarli a comprendere il profilo di funzionamento della bambina e per poter meglio intervenire. Lo specialista dopo un’attenta indagine comunica che la bambina ha un QI elevatissimo e rientra nella categoria dei bambini ad alto potenziale cognitivo. Il suggerimento dello specialista è quello di anticipare l’ingresso alla scuola elementare. Tale indicazione ha creato non poche difficoltà ai genitori e anche all’istituzione scolastica perché non è lecito anticipare l’ingresso in prima elementare. Maria Assunta Zanetti (2017) descrive la giftedness come uno speciale tipo di intelligenza caratterizzata non solo da alto QI e aumentate funzioni esecutive, ma anche da un’eccezionale creatività e alti livelli di motivazione in tratti specifici. Una delle principali caratteristiche dei bambini definiti gifted o che hanno un modo diverso di pensare (different thinkers) è una performance superiore rispetto ai pari in test cognitivi e misurazione della creatività. Tale caratteristica dimostra una maturazione cognitiva maggiore rispetto ai pari. L’intelligenza è dunque un costrutto sociale in cui la genetica propone, l’epigenetica dispone. È l’insieme di stimoli e di sollecitazioni adeguate ricevute dall’ambiente a fare la differenza. Non solo a casa e in famiglia, ma anzi soprattutto a scuola.
Questi scenari restituiscono situazioni molto specifiche e differenti le une dalle altre. Hanno in comune, però, la medesima richiesta: aiutatemi a crescere, a partecipare, a non fallire e a non sentirmi sempre inadeguato/a e solo/a difronte alle sfide che mi si pongono. Sia che la richiesta venga esplicitata direttamente dai bambini e dai giovani sia rimanga implicita, il desiderio di sentirsi riconosciuto, stimato, valorizzato e accompagnato a crescere non cambia.
Le richieste dei genitori sono le medesime. Cambiano però le loro risposte. Difronte alle difficoltà dei bambini e dei ragazzi le azioni messe in campo dagli insegnanti e dai genitori sono molteplici e non possono essere ricondotte a un’unica modalità anche perché non sono presenti esiti di ricerca su questo aspetto e si rischierebbero analisi non puntuali. L’aumento esponenziale delle diagnosi, come risulta dall’ufficio di statistica del Ministero dell’Istruzione (MIUR, 2022), sembrerebbe, però, indicare che difronte alle difficoltà si ricorre allo specialista per poter attestare, con un certificato, la condizione specifica e avviare misure dispensative, compensative o per assegnare ore di sostegno e di educatore. Le continue richieste di interventi formativi (soprattutto dopo la pandemia) mirati a gestire i bambini «difficili», anche molto piccoli, da parte degli insegnanti e dei coordinatori pedagogici, evidenziano sempre più spesso l’assunzione di un atteggiamento che delega, al solo insegnante di sostegno e allo specialista, la definizione del progetto e del percorso mirato di insegnamento-apprendimento e specifico per quell’allievo/a con forti elementi di disancoraggio dal contesto educativo allargato. Da un punto di vista empirico tale evidenza sembrerebbe indicare che il tessuto connettivo, ovvero, le relazioni fra insegnanti, tutti gli allievi, genitori e specialisti nei casi specifici, la comunità educante e i contesti informali, siano sempre meno collegati, in rete e orientati a un comune scopo. Questa realtà sta creando non poche difficoltà di gestione complessiva dei processi educativi e formativi anche rispetto alla sostenibilità sociale ed economica. Sempre con maggiore forza, molti genitori ritengono che il contesto educativo non sia in grado di rispondere con competenza alle istanze specifiche del proprio figlio e molti insegnanti di non possedere competenze utili a svolgere in modo soddisfacente il loro lavoro. Tale situazione può generare rotture e asimmetrie nelle relazioni fra adulti che, in fondo, dovrebbero condividere un medesimo obiettivo e interesse: accompagnare in modo positivo la crescita di bambini e giovani.
Gli scenari presentati hanno in comune un’altra caratteristica riscontrabile sempre più frequentemente. Difronte a una difficoltà di apprendimento — adattamento — al contesto educativo o scolastico la risposta è sempre centrata sul singolo a cui si attribuiscono le responsabilità (fragilità emotiva, disturbo specifico di apprendimento, condizione di disabilità, problemi familiari, ecc.) del non adattamento. La risposta fino ad oggi individuata è quella di introdurre una figura specializzata (insegnante o educatore) o, in presenza di disturbi specifici di apprendimento, si suggeriscono strategie compensative o dispensative riferite, a volte, anche a quadri non specificati che vengono inseriti all’interno di coloro che presentano bisogni educativi speciali (BES). Ad esempio, il 3 aprile del 2019 la nota n. 562, iscrive una nuova categoria di bambini e adolescenti che rientrano nei BES. Si tratta di coloro di coloro che hanno un potenziale cognitivo elevato, i gifted. La nota sottolinea la prospettiva della personalizzazione degli insegnamenti, la valorizzazione degli stili di apprendimento e il principio di responsabilità educativa, da realizzare attraverso la stesura del Piano Didattico Personalizzato (PDP) per la promozione di un’ottica pienamente inclusiva. L’introduzione di un modello bio-psico-sociale alla lettura del profilo di funzionamento individuale a cui deve conseguire un Progetto Educativo Individualizzato (PEI) o Piano Didattico Personalizzato (PDP) è sicuramente una strategia fondamentale nel tentativo di sottolineare l’importanza di un approccio che tenga conto degli elementi di contesto in termini di barriere e facilitatori cercando di connettere, quindi, fattori individuali con quelli contestuali. Rispondere in modo individuale senza una conseguente riorganizzazione dell’intera comunità scolastica attraverso una riforma completa espone però a seri rischi.
Fedeli e collaboratori (2022, p. 49) sottolineano che il focus su facilitatori e barriere, anche e soprattutto ai fini dell’elaborazione del Piano Educativo Individualizzato, è sicuramente un’opportunità ma anche un possibile rischio: da un lato, infatti, consente di effettuare una progettazione mirata proprio su quei fattori individuali e contestuali che possono agire da mediatori tra l’intervento educativo e gli esiti attesi. In tal senso, si supera un approccio centrato sul singolo, ampliandosi alla complessa rete di relazioni tra lo stesso e il contesto in cui opera, predisponendo le basi per la realizzazione di un ambiente di apprendimento realmente inclusivo. Al contempo, però, un approccio di questo tipo rischia di essere riduttivo, nel momento in cui si limitasse a un elenco di barriere e facilitatori, intesi quali fattori rigidi, fissi e precostituiti, oppure nel momento in cui si considerasse un’unica dimensione (la più evidente è quella dei facilitatori e delle barriere fisiche e architettoniche), senza ampliare l’analisi ai molteplici fattori individuali, relazionali, ecc. (Purdue, 2009; Kraus de Camargo et al., 2019).
I dati relativi ai risultati dell’Invalsi 2022 indicano che la dispersione scolastica totale è aumentata notevolmente. Se si analizzano complessivamente i dati emerge che il 23% dei giovani della fascia d’età 18-24 anni ha lasciato la scuola prima di effettuare l’esame di Stato, oppure l’ha terminata senza acquisire competenze di base minime. La dispersione scolastica con diversi gradi di incidenza investe tutto il panorama europeo rappresenta un fenomeno, serio, attraverso cui analizzare e comprendere il grado di efficacia dei sistemi educativi scolastici. Fanno parte di tale fenomeno gli studenti che formalmente abbandonano la scuola, coloro che non sono stati ammessi all’anno scolastico successivo e gli alunni regolarmente iscritti ma non frequentanti. L’andamento nel tempo sulla dispersione implicita nelle regioni del Nord Italia in un arco temporale compreso fra il 2019 e il 2021 è aumentata. La media italiana dal 7% si è alzata al 9,5%. In Emilia-Romagna, ad esempio, si eleva dal 2,4 % al 4,2%. Crescono anche le differenze territoriali della percentuale di dispersione implicita, con un valore che parte da 2,6% per il Nord, raggiunge l’8,8% al Centro fino ad arrivare al 14,8% nel Mezzogiorno, 12,2 punti in più rispetto alle regioni del Nord Italia (https://www.invalsiopen.it/risultati/risultati-prove-invalsi-2021/dispersione-scolastica-italia/).
La parola «indicatore» si riferisce a un modo di segnalare qualche cosa. In che modo interrogare i dati? Che cosa pensare dei circa 100.000 giovani che non frequentano la scuola seppur iscritti? Come gestire le continue richieste di intervento specialistico e il ricorso alle diagnosi quale strumento di tutela del diritto all’educabilità del proprio figlio/a? Come sostenere i genitori di bambini ancora piccoli che cercano risposte e non sanno dove orientarsi? Le evidenze basate sull’esperienza forse svelano che l’organizzazione fa fatica a trasformarsi perché questi principi non sono stati recepiti o non sono effettivamente condivisi? Non sono messi in pratica perché predomina l’era del singolo (Rigotti, 2021)? Forse i dati indicano che sono ancora molto presenti proposte educative dove i bambini e i giovani sono chiamati a rispondere non solo alla stessa proposta ma anche nello stesso modo e secondo la logica del migliore e peggiore, sano/malato, disabile/abile, BES e non secondo una prospettiva di senso, comune, di gruppo, di squadra, che innalzi il livello di motivazione, di passione, di curiosità, di partecipazione anche di coloro che vivono condizioni peculiari? Forse noi adulti non siamo capaci di fornire proposte che permettano a ciascuno, proprio così come è — con le sue differenze e diversità — di impegnarsi con responsabilità all’interno di un contesto che si assume il compito e li coinvolge attivamente per costruire processi di formazione di qualità?
Volendo comprendere meglio la natura del fenomeno in corso, può essere utile accostare alcune analisi riferite al benessere dei giovani. Le ricerche che correlano la loro salute mentale con il successo formativo dimostrano che l’utilizzo di un approccio adattativo e compensativo o dispensativo per analizzare i fenomeni sottesi ai processi di resilienza e al successo formativo non è efficace (Theron, 2016; Ungar e Theron, 2020). Lo studio di Höltge, Theron e Ungar (2022)dimostra che un buon supporto famigliare e amicale migliora la resilienza in adolescenti che vivono condizioni di forti avversità che comportano stati di depressione in tempi medio brevi ma, nel corso del tempo, è fondamentale il supporto scolastico.Secondo un approccio multisistemico alla resilienza (Masten, 2014; Scheffer et al., 2018; Ungar e Theron, 2020) le risorse individuali, psicologiche, culturali, educative, sociali si influenzano reciprocamente e giocano un ruolo fondamentale nella promozione della salute mentale. Molti adolescenti, soprattutto dopo aver vissuto la chiusura delle relazioni dovute alla pandemia riportano molti segni di fragilità che non sempre possono essere inquadrati all’interno di un quadro clinico definito, anche perché in età evolutiva non è detto che esso possa essere circoscritto. Gli studi nel campo della salute mentale dimostrano, in modo inequivocabile, che il processo di resilienza dipende da influenze multisistemiche e multifattoriali. Masten e Cicchetti (2016) in un lavoro di revisione completo indicano che la resilienza di un bambino e adolescente, è correlata con le interazioni fra sistemi (individuali, famigliari, sociali, culturali, educativi) all’interno dei quali si trova inserito. Inoltre, sostengono che anche rispetto all’età adulta e senile il processo di resilienza dipende da come i sistemi si influenzano e si connettono fra di loro. Questi recenti studi confutano la definizione di resilienza quale capacità di adattamento. Recenti studi concordano nel definirla come un processo interdipendente fra molteplici fattori e in chiave socio-ecologica. Il successo formativo non corrisponde solo alla possibilità di osservare il particolare profilo di funzionamento del bambino nei contesti (approccio bio-psico-sociale) al fine di comprendere quali facilitatori introdurre per migliorare il suo adattamento al contesto. Il costrutto socio-ecologico e multisistemico (Theron, 2016; Ungar e Theron, 2020; Malaguti, 2020; Ungar, 2019; Rutter, 2006; 2012; Masten e Tellegen, 2012), considera l’interazione dei sistemi fra di loro, ovvero, le relazioni che si instaurano fra la persona e gli ambienti che frequenta e il modo in cui vengono organizzati e progettati i percorsi educativi e formativi. L’analisi delle ricerche in corso, dunque, mostrano che la resilienza corrisponde a un processo dinamico e interconnesso fra molteplici sistemi: biologici, psicologici, sociali ed ecologici che interagiscono positivamente fra di loro al fine di aiutare, accompagnare le persone a riconquistare, sostenere o migliorare, il proprio benessere mentale quando sono stati messi alla prova da uno o più fattori di rischio. Studi in campi diversi come la genetica, la psicologia, le scienze politiche, l’architettura e l’ecologia umana stanno dimostrando che la resilienza dipende tanto dalle risorse culturalmente rilevanti disponibili che fra loro interagiscono con obiettivi comuni, quanto dalle emozioni, pensieri, sentimenti e comportamenti individuali. La definizione di resilienza come indicata da alcuni autori (Martin e Marsh, 2009; Zolkoski e Bullock, 2012) quale capacità di adattarsi a un contesto reagendo con successo a circostanze avverse, riuscendo a ottenere buoni risultati nonostante la situazione sfavorevole di partenza (provenienza culturale, sociale, economica, familiare) in riferimento agli studi sui bambini e adolescenti che vivono condizioni avverse (transitorie o permanenti) è quindi, ampiamente disconfermata da ricerche e studi contemporanei. Le ricerche dimostrano che i programmi che intendono operare per la promozione della resilienza in riferimento a condizioni di disabilità, disturbi del neurosviluppo, atipiche e/o di vulnerabilità individuale, ottengono maggiori risultati, anche in termini di traduzione operativa e concreta, assumendo un quadro concettuale di riferimento socio-ecologico. Non si tratta, quindi, solo di riconoscere le condizioni svantaggiate in partenza per poi analizzare gli stili e le strategie didattiche utilizzate dai docenti o i livelli individuali di self-efficacy, per comprendere in che modo studenti svantaggiati sono riusciti a ottenere il successo scolastico. In ambito educativo e formativo se si vuole indagare il successo formativo sarebbe opportuno correlare (almeno dal punto di vista di coloro che operano nel settore della Pedagogia Speciale e Didattica Speciale o che si occupano di salute mentale e benessere dei bambini e degli adolescenti e intendono promuovere un progetto di vita) cinque piani interconnessi: il benessere, la salute mentale individuale e del gruppo; la partecipazione al processo educativo e formativo (motivazioni, interessi, preferenze, scelte, livelli di agency, di advocacy, autodeterminazione); le conoscenze culturali che possono trasformarsi in competenze; gli adulti di riferimento (competenze emotivo-relazionali, metodologiche didattiche, culturali, livelli di motivazione e di partecipazione al processo educativo, le relazioni che si instaurano fra docenti e educatori); flessibilità del curriculo e l’intreccio con i percorsi di orientamento e formazione al lavoro (figura 1).
Figura 1
Dimensioni di intervento.
Processo di resilienza socio-ecologico: versus il progetto di vita e contesti equi e partecipati
In ambito internazionale sono già attivi programmi di ricerca e di promozione della resilienza secondo un approccio socio-ecologico che intrecciano i fattori sopra menzionati. Il progetto RISE, ad esempio, indirizzato alla comunità scolastica e educativa opera anche all’interno delle scuole in sinergia con i docenti per migliorare il benessere sociale ed emotivo in tutti gli aspetti della vita scolastica sia in riferimento agli adulti che ai bambini e a giovani. Sono molti gli istituti comprensivi in Europa e fuori da essa che hanno avviato programmi integrati per la promozione del benessere e del successo formativo (resilienza) in relazione ai processi di inclusione e all’equità.
Visto il diffuso interesse per studi anche italiani del concetto di resilienza in campo educativo, come attestato da alcune ricerche (Malaguti, 2012; 2016; 2019; 2020; 2021; Alivernini, Manganelli e Lucidi, 2016; Alivernini et al., 2017; Garista, 2018; Benvenuto et al., 2021) in riferimento al successo formativo o scolastico potrebbe essere interessante promuovere un approccio socio-ecologico per comprendere come rispondere con maggior efficacia anche a quella popolazione di persone, allievi con disabilità, disturbi specifici di apprendimento, condizioni di vulnerabilità e che rischiano, più di altri, di essere esclusi dai processi educativi e formativi o di non trovare percorsi che accompagnino con serietà verso un progetto e una buona qualità di vita.
Sarebbe anche interessante utilizzare un approccio ampio (Cottini, 2020, p. 100), riferito non soltanto a indagini classiche sui gruppi, ma in grado di considerare anche altre metodologie — comprese quelle di tipo qualitativo — qualora il quesito della ricerca lo richieda. La scelta di fondo, secondo Cottini (2020) è quella di utilizzare procedure integrate mixed-methods quali possibili vie all’accesso al reale da utilizzare in modo interscambiabile o combinato a seconda dell’obiettivo che ci si pone. Analisi quali-quantitative per comprendere meglio, anche da un punto di vista fenomenologico, la realtà che concerne i processi di inclusione contemporanea, ad esempio in riferimento alle tematiche della disabilità, non risultano. In ogni progetto di ricerca secondo Cottini e Morganti (2015) elementi centrali da considerare sono: le finalità del ricercatore e il contesto di conduzione del piano sperimentale; gli individui coinvolti nel processo di indagine; le caratteristiche di chi concretamente conduce il lavoro previsto nel progetto; la descrizione del piano sperimentale/disegno di ricerca; le procedure di analisi dei risultati. Per ognuno di questi elementi occorre descrivere i criteri di qualità comuni a tutte le metodologie di ricerca e quelli eventualmente specifici di ognuno. Un progetto di ricerca per poter definire l’obiettivo dell’indagine necessita anche di un quadro teorico concettuale fondato su basi solide e un’ipotesi che dovrà o meno essere confermata. Occuparsi di indagare i contesti, come ad esempio, quello scolastico in riferimento agli allievi con disabilità, disturbi specifici di apprendimento, del neurosviluppo o condizioni di vulnerabilità non ascrivibili a categorie nosografiche specifiche (BES) in relazione al successo formativo comporta il dover assumere una postura capace di considerare questi allievi in relazione al loro profilo di funzionamento globale e in riferimento alle relazioni che si instaurano nei contesti, alla qualità degli aiuti forniti e al modello di inserimento, integrazione o inclusione praticato. Intendere la resilienza come una capacità di adattamento del singolo al contesto generale, comporta il serio rischio di non poter comprendere, quindi di escludere, dal campione della ricerca tutti quei soggetti, quelle persone con un profilo di funzionamento (stabile o temporaneo) peculiare. Tali esiti di ricerca permettono di affermare che intendendo promuovere un positivo processo di apprendimento per tutti, da un punto di vista operativo, è opportuno tenere in mente che la riuscita del percorso non dipende solo dalle strategie metodologiche e didattiche utilizzate dagli insegnanti ma anche dall’organizzazione del contesto e di come esso è progettato: ovvero, dalle pratiche di inclusione o di integrazione o di inserimento che vengono o meno realmente agite. Infine, ragionare in termini di successo formativo, di resilienza e di processi di inclusione comporta necessariamente assumere un impianto concettuale e operativo che tenga conto del rispetto delle differenze e dei diversi profili di funzionamento non in termini adattativi (di migliore o peggiore) ma in termini di equità e pari opportunità.
L’azione di centrare il focus, l’oggetto epistemologico, sul processo di sviluppo degli apprendimenti, sulle relazioni che si instaurano fra persona e contesti di riferimento, ha costituito uno degli elementi fondanti della corrente umanistica della Pedagogia Speciale orientata a comprendere i processi evolutivi e il loro dispiegarsi nella vita delle persone, in quella delle famiglie, nella società e nella scuola nonostante la presenza di condizioni di vita complesse con margini di autonomia individuale, anche minimi. Questo posizionamento dello sguardo sulle potenzialità del soggetto, interconnesso con le relazioni che si instaurano nei contesti di vita, pensato come attore-autore nel processo di apprendimento e di sviluppo, si è costruito progressivamente, e continua a costruirsi, negli ultimi due secoli. Si tratta di quello che la ricerca contemporanea definisce resilienza su base socio-ecologica in campo educativo (Cyrulnik e Malaguti, 2005; Rutter, 2012; Goussot, 2013; Ungar, 2012; 2019). L’attenzione alle relazioni e ai processi che si dispiegano fra la persona e il suo ambiente, costituisce un elemento fondante sia della Pedagogia Speciale sia della resilienza secondo un modello ecologico e sociale allo sviluppo umano (Malaguti, 2020). Tale intreccio si declina su un continuum interconnesso che vede, da un lato, analisi mirate in riferimento alle persone e agli interventi specifici, dall’altro, riflessioni che spostano l’attenzione sui contesti, sulle relazioni che si creano, e sulla dimensione organizzativa sociale e culturale che la caratterizzano (pratiche di inserimento, di integrazione, di inclusione). Il concetto di resilienza, quale costrutto plastico, è uno degli organizzatori chiave, insieme a quelli di qualità di vita e benessere per costruire un disegno comune volto a promuovere equità umana, sociale, economica e ambientale. I sistemi umani (intra-individuali, famigliari, sociali) vivono in stretta correlazione e non sono separabili dai sistemi ecologici poiché sono connessi da una reciproca interdipendenza. Essi, come quelli territoriali o socio-ecologici, sono dinamici e non è, dunque, possibile, raggiungere un punto zero di stato ottimale o di benessere assoluto. I sistemi e la loro evoluzione sono caratterizzati da flussi di comunicazione, secondo il principio dell’omeostasi.
L’approccio ecologico sociale e umano, o ecosistemico, si pone al crocevia fra un modello individuale e uno sociale, promuove resilienza e, attraverso l’analisi delle interazioni fra diverse dimensioni, propone di leggere la condizione delle persone non solo secondo l’ottica della salute, ma anche dell’educazione, sociale, culturale e contestuale. Esso contempla precisamente l’aspetto relazionale, quello legato al profilo di funzionamento individuale, alle modalità secondo le quali la persona interagisce con l’ambiente, al modo in cui il contesto è progettato e i suoi attori si interfacciano con le persone con disabilità o peculiarità.
Il contributo delle neuroscienze contemporanee, il costrutto di resilienza secondo un approccio ecologico sociale (Malaguti, 2020), permette, oggi, di incarnare l’idea di un essere umano complesso. Le relazioni e i mediatori che vengono utilizzati sono segnali che se inseriti in un contesto, che è capace di orientare, possono permettere l’avvio di un processo coevolutivo. Ciò può stimolare l’apparato percettivo e sostenere lo sviluppo dell’identità e la relazione tra simili (intersoggettività). Canevaro (2006) definisce coevoluzione un processo che determina la qualità reciproca degli apprendimenti e dell’integrazione. Diviene necessario aiutare e aiutarsi a co-evolvere, a crescere insieme nelle situazioni, per attivare un processo di trasformazione e di rispetto. La coevoluzione necessita di riconoscimento e di fiducia; di adulti capaci di essere credibili e di allearsi anche qual ora le circostanze facessero intravvedere minimi margini di cambiamento.
Esclusione – Inclusione – Equità
Il mondo è profondamente cambiato e insieme a lui anche le persone che vi abitano e gli ambienti naturali. Questo è il primo aspetto che occorre tenere presente quando si predispongono azioni di ricerca, programmi di prevenzione, educativi, formativi o di promozione della qualità di vita. Secondo gli studi di Andrea Canevaro (2013, p. 183): «la Pedagogia Speciale deve tener conto che è nella storia. In questa storia. Pedagogia Speciale non può chiudersi alla storia cercando di riferirsi unicamente alle caratteristiche delle disabilità che incontra; e neppure può ritenere di dover riferirsi unicamente alle disposizioni legislative istituzionali con cui le persone con disabilità devono fare i conti. Pedagogia Speciale deve essere attuale nella storicità in cui è immersa, per guardare al futuro». Alain Goussot (2013, p. 12), fine studioso recentemente e prematuramente scomparso, sostiene che: «un chiarimento sul piano concettuale e semantico è fondamentale per il profilo epistemologico della Pedagogia Speciale, in una prospettiva rinnovata e innovativa, che deve tener conto dell’evoluzione sociale, culturale e scientifica di questi ultimi anni. Ma senza capire quale sono i fondamentali, diventa anche difficile proiettarsi nel futuro e si rischia di non avere l’autonomia epistemologica, necessaria per confrontarsi in modo produttivo con le altre discipline nel campo delle scienze umane. Un approfondimento sulla semantica concettuale, quindi sulle terminologie, diventa strategico sul piano scientifico poiché costituisce la mappa con la quale funzionano tutte le discipline che contribuiscono sia alla conoscenza che all’evoluzione della condizione umana». Secondo gli studi di Piero Crispiani, la Pedagogia Speciale dovrebbe riuscire a costruire un’interpretazione del suo presente che tenga conto del proprio sviluppo storico-scientifico per stabilire un confronto della scienza con il proprio progresso. Tale confronto si genera da un’analisi in grado di cogliere le evoluzioni semantiche e culturali che caratterizzano negli ultimi anni i costrutti-chiave con i quali la Pedagogia Speciale si è confrontata quali marginalità, inserimento, integrazione, inclusione e contesti, identità, deficit-handicap, disabilità, bisogni educativi speciali che oggi trovano riscontro in un panorama globale profondamente mutato. Tale constatazione richiede una rivisitazione del quadro concettuale di riferimento per evitare il rischio, che si corre in Italia, di circoscrivere e categorizzare un processo e delle pratiche, pensando di avere già compiuto tutto e di non avere bisogno di attualizzare, di innovare e migliorare il proprio agire educativo.
Pare opportuno individuare, dunque, alcune piste di ricerca che possono divenire anche proposte per lo sviluppo futuro della riflessione scientifica sulle metodologie nell’ambito dei sistemi educativi, della formazione, dell’orientamento, del progetto di vita rivolto a persone con disabilità, disturbi del neurosviluppo, condizioni di vulnerabilità e delle loro famiglie nella prospettiva del miglioramento della qualità di vita, della partecipazione attiva nella società.
Il ruolo dell’educazione, quale atto intenzionale e rispettoso, nei confronti di sé stessi e degli altri, diviene fondamentale e può essere inteso come uno degli anelli di congiunzione fra i sistemi umani e ambientali per promuovere sviluppo. La Pedagogia Speciale e la promozione della resilienza secondo un modello ecologico e sociale intrecciano le dimensioni della pedagogia generale e della didattica generale in modo intenzionale. La qualità dell’educazione e dell’organizzazione dei contesti educativi e scolastici, l’innovazione dei dispositivi pedagogici e didattici è strettamente correlata con la possibilità di promuovere resilienza. Offrire dimensioni ordinarie, qualitativamente ricche di significato, nella vita quotidiana (frequentare la scuola, avere amici, andare a lavorare, partecipare a eventi culturali, imparare a progettare il futuro, acquisire competenze e conoscenze, vivere esperienze anche semplici ma soddisfacenti insieme agli altri, costruire momenti intimi ecc.) permette a chi ha subito eventi di natura traumatica, chi vive condizioni di vulnerabilità, di disabilità, di essere accompagnato/a ad assumere un ruolo attivo per non circoscriversi solo nella condizione di vittima o di ferito, ma di poter sperimentare altre dimensioni della sua personalità provando ad autodeterminarsi. Nel medesimo tempo l’educazione inclusiva interviene anche in modo puntuale e mirato, in presenza di condizioni peculiari, per rispondere con competenza, attraverso l’ausilio di mediatori specifici che si muovono nella logica della progettazione universale dell’apprendimento (Universal Design for Learning) quale azione per promuovere processi di reale partecipazione e apprendimento. Questo approccio, olistico, globale e ancora innovativo, almeno da un punto di vista operativo, costituisce una sfida creativa ed etica a ogni designer, progettista, imprenditore, amministratore pubblico e leader politico che intenda rispettare le indicazioni internazionali. A tale fine si deve porre l’obiettivo di consentire la fruizione di ambienti, prodotti e servizi alla più ampia pluralità di soggetti, diversi fra loro per capacità percettive, motorie e cognitive. Essa rappresenta un orientamento di pensiero e, in parte, una risposta concreta e specialistica alla realizzazione di ambienti accessibili (Maltinti, 2013). L’eterogeneità di situazioni presente nei contesti, ad esempio in quello scolastico, deve contemplare una pianificazione preventiva e lo sviluppo di soluzioni progettuali flessibili (Clark, 2002). La progettazione universale non esclude dispositivi di ausilio per particolari gruppi di persone con disabilità, ove siano necessari, ma propone un paradigma che deriva dall’incrocio tra un design accessibile, l’abbattimento delle barriere e l’utilizzo di tecnologie assistive. Il concetto di progettazione accessibile che ha caratterizzato il secolo scorso, e in molti luoghi lo caratterizza ancora oggi, si è basato sul costrutto di integrazione e sul diritto di accessibilità per le persone con disabilità. Secondo le indicazioni contemporanee, dovrebbe orientarsi a una progettazione estesa, non adattata ad hoc solo per alcuni soggetti, ma concepita fin dall’inizio per essere accessibile a tutti, comprese le persone con disabilità complessa. La differenza può sembrare sottile, in realtà si riferisce al concetto secondo cui le persone con disabilità hanno il diritto di trovare ambienti comuni, fruibili dove poter partecipare. Un orientamento questo che difficilmente sul piano teorico potrebbe trovare ostacoli essendo mirato a trovare le migliori opportunità per raggiungere una buona qualità di vita e, in riferimento all’ambito scolastico, il successo formativo. Nel momento in cui però si deve procedere con azioni concrete pare che i principi enunciati vengano disconfermati difronte a un’organizzazione che fa fatica a modificarsi anche perché non è così chiaro come in realtà si possa procedere per centrare l’obiettivo (Cottini, 2022).
Quando si propone la cornice concettuale dell’inclusione si sta dicendo che tutti compresi bambini e giovani con disabilità, con disturbi del neurosviluppo, con condizioni di vulnerabilità (sociale, economica, culturale) hanno diritto a un’educazione di qualità e di poter avere pari opportunità di apprendimento. I contesti educativi dovrebbero corrispondere a contesti organizzati all’interno dei quali le differenze e le diversità non vengano solo riconosciute, ma sono comprese, accettate e rispettate. L’educazione ha lo scopo di valorizzare questa unicità e, in una prospettiva inclusiva, di prendere in considerazione tutti gli alunni, sottolineando l’equità della natura dei loro bisogni educativi. In questo nuovo quadro, dove la diversità è vista come un’unicità dell’individuo, l’approccio internazionale dell’Universal Design for Learning (CAST, 2011) ci aiuta ad assumere una postura professionale e personale capace di considerare gli esseri umani come persone con i propri bisogni educativi con desideri, interessi, preferenze che se coordinate e inserite all’interno di un disegno comune, permette di progettare contesti educativi e di apprendimento di qualità. La logica inclusiva implica cambiamenti radicali nella struttura organizzativa, didattica e educativa della scuola, in modo che ogni studente abbia accesso alla vita scolastica, sociale, culturale e lavorativa per realizzare un progetto di vita adeguato.
L’inclusione è un diritto fondamentale ed è legata all’idea di appartenenza e a un’educazione che conferisce alla scuola elementi di qualità, come il rispetto dei tempi di apprendimento, una maggiore sensibilità verso ogni forma di diversità che viene intesa e percepita come arricchimento personale (Canevaro, 2007). La cornice dell’inclusione comporta l’assunzione di una prospettiva ampia ed ecosistemica che intreccia una dinamica interazionista fra gli individui e i contesti di appartenenza. Non si tratta di operare per adattare la persona con disabilità unicamente al contesto ma anche di trasformare i contesti utilizzando mediatori specifici che permettano alla pluralità di soggetti e ai differenti sviluppi di partecipare e migliorare i propri apprendimenti (Canevaro e Malaguti, 2014).
Questo modo di rappresentare l’inclusione porta a una nuova visione del curricolo, che non è più descritto a livello «speciale» ma comune. L’obiettivo dell’inclusione è che tutti gli studenti condividano esperienze comuni, invece di costruire curricoli speciali; ciò significa che è necessario lavorare e modificare il curricolo generale, diffondendolo e differenziandolo il più possibile (Dovigo, 2014). Questo è possibile a livello di macroprogettazione, pensando fin dall’inizio a strategie inclusive e metodologie didattiche da attuare nella vita quotidiana (per promuovere l’apprendimento cognitivo, affettivo e sociale). La riflessione si sposta sulla microprogettazione, dove insegnanti curricolari e specializzati dovrebbero lavorare fianco a fianco per contribuire, ognuno con le proprie capacità, a predisporre percorsi ricchi e articolati, in modo che ogni studente possa partecipare. Come affermano Rouse (2008) e Tremblay (2012), anche metodi molto efficaci con una prospettiva inclusiva (ad esempio l’apprendimento cooperativo, l’approccio metacognitivo e gli adattamenti, il debate, la narrazione) potrebbero non produrre i risultati attesi, se non inseriti in un quadro teorico che supporti lo sviluppo di una scuola inclusiva.
Sul piano dell’affermazione dei principi occorre anche trovare modalità di attivazione di relazioni che rispondano alle istanze e al bisogno reale dei bambini e dei giovani risvegliando il sogno, la creatività, l’immaginazione, la speranza per un futuro in cui si possa sentirsi accettati. Ogni giorno si assistono a manifestazioni di fastidio nei confronti dello stato sociale. Il costrutto di inclusione in ambito educativo, per coloro che operano secondo il punto di vista della Pedagogia Speciale, necessita di essere collegato con quello di diversità, differenza e di equità. Inclusione è pluralità e rispetto delle differenze. Corrisponde a una strada che mira a trovare strategie e azioni per ridurre le disparità e promuovere pari opportunità. A tal fine intendendo rispettare i peculiari funzionamenti umani si tratta di comprendere a livello di progettazione globale e secondo una prospettiva ecologica quali aiuti, sostegni, mediatori, strumenti possano permettere a tutti di poter partecipare con le proprie caratteristiche al processo di insegnamento-apprendimento.
Nonostante 25 anni di dibattito internazionale, il consenso sull’educazione inclusiva rimane sfuggente (Ainscow, 2020). A livello internazionale, è sempre più visto come un principio che sostiene e accoglie con favore la diversità fra tutti i cittadini e non è solo riferito a categorie specifiche (UNESCO, 2017). L’obiettivo è quello di eliminare l’esclusione sociale derivante da atteggiamenti discriminatori nei confronti di razza, classe sociale, etnia, religione, genere e abilità. A tal fine il principio che sottende il processo di inclusione sottolinea il riconoscimento dei diritti e del principio di educabilità quale fondamento di una società equa che corrisponde a un assunto di base: ogni persona, ovvero tutti e ciascuno, non ha solo diritti e doveri ma ha un valore. Tale enfasi sull’equità è stata recentemente introdotta dal Quadro Istruzione 2030 per Action (UNESCO, 2015), che implica una preoccupazione per l’equità. Se da un lato, a livello internazionale, i principi e i valori risultano ampiamente riconosciuti, come testimonia la ratifica della Convenzione per i diritti delle persone con disabilità (UN, 2006) da parte di quasi tutte le nazioni, dall’altro la loro attuazione si realizza in un clima di dibattito e contrasti anche accesi, che sfociano talvolta in un aperto inclusio-scetticismo che però non trova adeguate risposte a livello empirico (Ianes e Augello, 2019; Imray e Colley, 2017; Ianes e Dell’Anna, 2020).
Misurarsi con la parola «inclusione», decontestualizzata e dissociata dalle parti in causa, sganciata quindi dalla realtà che vivono le persone con disabilità, le loro famiglie e le relazioni che si instaurano all’interno dei contesti educativi, formativi, scolastici, sociali, comporta due rischi. Il primo è quello di banalizzarla, di generalizzarla, di svuotarla di significato (almeno rispetto al punto di vista degli studi che hanno caratterizzano la Pedagogia Speciale e la Didattica Speciale nel corso della sua storia fino ad oggi), scollegandola, dunque, dalla realtà e ponendo la ricerca e gli studi su di un binario parallelo rispetto a quello che le persone (bambin*, giovan*, famiglie, caregiver, insegnanti, educatori) vivono all’interno del contesto educativo, quindi destoricizzandola. Il secondo è quello di non riuscire a rispondere con competenza alle sfide che la società contemporanea impone e alle istanze che i territori pongono in termini di diritti, equità, opportunità e partecipazione. Si è passati da un estremo in cui il suo studio riguardava solo pochi professionisti a un altro in cui il costrutto e analizzato da molti settori scientifici disciplinari ed è divenuto un termine utilizzato anche in ambito organizzativo, economico, politico, sociale, ambientale. La proposta è quella di costruire un quadro teorico secondo il quale il concetto di inclusione intrecci la dimensione del Progetto di Vita, del modello della qualità di vita, del benessere e della resilienza e non si riferisca, dunque solo all’ambito della scuola. Occorre costruire un’azione che permetta ai cittadini, di orientarsi rispetto ai cambiamenti in atto.
Siamo così sicuri che in Italia il processo di integrazione sia stato compreso e attuato? Ovvero che sia in grado di fornire competenze reali anche a chi vive per ragioni transitorie o permanenti delle condizioni di disabilità, eventi di natura traumatica, condizioni di fragilità emotiva e relazionale, o disturbi del neurosviluppo? Siamo sicuri di aver compreso di cosa stiamo parlando quando utilizziamo le parole «inclusione educativa», progetto di vita? Siamo sicuri di essere in grado di padroneggiare i cambiamenti costruendo un disegno comune che permetta a coloro che per varie ragioni vivono condizioni di difficoltà di sentirsi parte di un progetto comune che orienti il loro presente e futuro? Nell’ambito della ricerca, la retorica dell’inclusione come bene assoluto diviene barriera alla conoscenza e consente al sistema di costruire meccanismi di tutela da qualunque tentativo di studio, analisi e valutazione (Ianes e Dell’Anna, 2020). In Italia la cecità prodotta da questa retorica emerge anche dall’esigua disponibilità di dati di ricerca (Begeny e Martens, 2007; Cottini e Morganti, 2015) che, come conseguenza, riduce la credibilità del modello italiano a livello internazionale.
Il passaggio dall’idea di integrazione a quella di inclusione non è solo un cambiamento di termini, ma una modifica culturale. Infatti, l’idea di inclusione si basa sul riconoscimento dell’importanza della partecipazione totale alla vita scolastica di ogni singolo studente, sulla valorizzazione delle differenze, sul cambiamento dei contesti e sulla trasformazione della risposta didattica, che deve diventare ordinaria anziché specialistica (Dovigo, 2008). Di conseguenza, c’è anche una differenza nelle pratiche di integrazione e inclusione. Riguardo all’integrazione, vi sono indicatori che permettono di segnalare un possibile danno quando, ad esempio, l’intero svolgimento dell’attività didattica di un soggetto disabile è disancorato, sia come spazio fisico sia come modalità di intreccio di programmi e del lavoro di apprendimento e insegnamento, dal gruppo classe a cui fa riferimento il soggetto disabile stesso (Canevaro e Ianes, 2015, p. 168). Secondo Ravaud e Stiker (2000), l’inclusione si manifesta quando la scuola è in grado di compensare le debolezze di alcuni studenti, offrendo risposte adeguate ai loro bisogni in un ambiente comune. In questa prospettiva, l’inclusione è, sia a livello pratico che teorico, più ampia dell’integrazione. Inoltre, richiede non solo un’organizzazione scolastica accogliente, ma anche capace di affrontare i diversi tipi di bisogni speciali (Ianes, 2005; Pennazio, 2017). D’Alessio (2011) afferma che l’inclusione è riferita all’ambiente scolastico, sociale e politico: tuttavia, il focus è sulla scuola e sul modo in cui è strutturata (pedagogia, validazione, curriculum, organizzazione), come reazione alla diversità della popolazione scolastica.
L’educazione inclusiva, secondo Zundans-Fraser e Auhl (2013), corrisponde a una tensione continua fra esclusione dai contesti e inclusione in essi. Comporta un impegno a creare le condizioni per aumentare le opportunità di apprendere e partecipare a programmi educativi di qualità, anche per le persone con disabilita. Il riconoscimento reale del valore positivo delle differenze, inoltre, si deve riflettere, concretamente, nell’organizzazione dei contesti, dei contenuti pedagogici, delle metodologie e degli strumenti, anche di verifica e di valutazione. Infine, è indispensabile ripensare le organizzazioni, affinché i gruppi, storicamente a rischio di marginalità e di discriminazione, possano rappresentarsi nei processi decisionali. Il costrutto di inclusione educativa viene definito da Kozleski, Artiles e Waitoller (2014) anche attraverso il concetto di giustizia ed equità sociale. Essi affermano che i processi relativi all’educazione inclusiva corrispondono a una lotta continua che riflette la nozione di un’umanità che nasce, cresce e si sviluppa in contesti dinamici.
Identità – Differenze – Diversità
Da un punto di vista storico, l’oggetto di studio della Pedagogia Speciale sono le differenze, le disparità, le diseguaglianze esistenti fra gli esseri umani in relazione ai loro contesti di appartenenza. Nello specifico della disciplina, storicamente, sono quelle dovute alla condizione di disabilità e di vulnerabilità, nell’interazione con i sistemi di riferimento, affettivi, relazionali, famigliari, sociali e culturali. Indagare le differenze, significa anche andare alla radice di esse. Una Pedagogia Speciale che abbia come finalità l’inclusione di tutti e di ciascuno è una Pedagogia che si fonda sul riconoscimento delle differenze come valore ed elemento ontologico costitutivo dell’essere umano (De Anna, Gaspari e Mura, 2015). Secondo D’Alonzo una Pedagogia Speciale che opera per la promozione di processi di inclusione si sviluppa dalla necessità di rispondere ai vari aspetti e bisogni dell’educabilità umana (D’Alonzo, 2018). In tale prospettiva, sarebbe errato, secondo De Anna e Covelli (2021), ridurre la Pedagogia Speciale a un’unica visione identitaria. La direzione da intraprendere è quella di assumere una prospettiva antropologico-culturale (Remotti, 2011) che permetta di riconoscere la diversità umana quale elemento positivo. Da questo punto di vista sarebbe opportuno sviluppare una riflessione legata all’importanza di considerare l’identità come entità plurale e in divenire. Come sottolineato dagli studi di Consiglio, Guarnera, Magnano (2015), i bambini che hanno esperienza di contatto in gruppi dove sono presenti altri con disabilità, esprimono un’opinione e una rappresentazione sociale positiva di quest’ultimi. Pensare differentemente le condizioni di disabilità e di vulnerabilità richiede un’analisi degli approcci culturali alla base dei linguaggi e delle rappresentazioni che riflettono e una progettazione in tal senso. In tale prospettiva, i sistemi educativi e formativi hanno un impatto significativo nel favorire processi co-evolutivi di conoscenza e un decentramento cognitivo necessari allo sviluppo di un adeguato riconoscimento delle differenze umane.
Se si intende dare voce a chi rischia processi di esclusione educativa sociale e culturale, progettare rispettando le differenze e le condizioni peculiari, anche in presenza di bassi margini di autonomia individuale, occorre che la ricerca si impegni ad avviare sperimentazioni con i territori, insieme agli attori (insegnanti, educatori, genitori, ecc.) con il fine di restituire approcci in grado di orientare l’agire concreto nel rispetto di ciascuno ma all’interno di un disegno comune. Esso comporta un’assunzione di responsabilità da parte degli adulti di oggi, e di orientare l’agire su alcune direzioni intenzionali fondamentali.
- Promozione di programmi che intreccino il benessere, la resilienza su base ecologica e la progettazione universale per l’apprendimento (UDL) attraverso la definizione di un curriculum inclusivo, non solo riferite a singole unità di apprendimento ma di ripensamento della scuola e delle università in termini di equità, diversità, partecipazione.
- Riorganizzazione dei centri per l’impiego, della formazione professionale in sinergia con le università e il mondo del lavoro secondo una prospettiva di sostenibilità economica e sociale.
- Promozione di percorsi interconnessi fra scuola e territori per la creazione di contesti di prossimità, di miglioramento della qualità delle relazioni sociali e l’avvio di programmi di partecipazione e di cittadinanza attiva anche con i giovani.
- Azioni di promozione del progetto di vita e di un abitare sociale.
- Ripensamento delle professioni in campo educativo e formativo anche in termini di valorizzazione del ruolo da un punto di vista sociale, culturale ed economico.
Marisa Pavone (2014, p. 162), indica che la Pedagogia Speciale persegue l’inclusione come modo di vivere insieme, basato sulla convinzione che ogni individuo ha valore e appartiene alla comunità e, «[…] per generale consenso, viene oggi riconosciuta alla prospettiva dell’inclusione la potenzialità di indicare la rotta — in ambito educativo e formativo — in due direzioni strettamente collegate: la promozione del successo scolastico di ogni studente, indipendentemente dalle caratteristiche individuali e sociali; una sempre maggiore coesione socio-culturale fra le tante eterogeneità che popolano le diverse società. L’inclusione, secondo una prospettiva ecologica, comporta infine di orientare gli sguardi verso una comunità di persone che insieme cooperi per un medesimo obiettivo; che si impegni a creare basi solide per un futuro sostenibile, promuovendo la riorganizzazione dell’esperienza di vita difronte a eventi e condizioni difficili, la resilienza secondo un approccio socio-ecologico non solo individuale ma anche sociale, culturale, scolastica e di gruppo per sviluppare welfare di prossimità.
Il nodo centrale, nonostante i cambiamenti in atto, concerne sempre e però un’unica dimensione: la possibilità di vivere insieme nel rispetto e nel riconoscimento delle differenze all’interno di uno sfondo comune. Don Milani diceva che «la scuola ha un solo problema, i ragazzi che perde». Gianni Rodari (1973) che «occorre una grande fantasia, una forte immaginazione per essere un grande scienziato, per immaginare cose che non esistono ancora, per immaginare un mondo migliore di quello in cui viviamo e mettersi a lavorare per costruirlo!».
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