EDITORIALE

Prendete un circolo, accarezzatelo: diventerà vizioso

Per il titolo, il nostro editoriale ruba una battuta a Eugène Ionesco (1909-1994), drammaturgo e saggista rumeno, che la inserì ne La cantatrice calva, nel 1950. Potrà sembrare una bizzarria, servirsi di uno dei maestri del teatro dell’assurdo per accompagnare un numero di questa rivista. Ma il tempo della pandemia è anche un po’ assurdo. Rischia di chiudere il cerchio attorno al singolo, e l’uscita dall’isolamento non è così semplice anche se invocata. Nello specifico della prospettiva inclusiva, ogni circolo chiuso su se stesso diventa autoreferenziale e danno per l’inclusione.

Siamo disposti a cambiare le nostre abitudini, specialmente mentali?

Sappiamo puntare su un sistema aperto? O siamo prigionieri di un sistema chiuso?

Far posto agli altri. Accoglienza. Con due possibilità:

  1. Accogliere per sottomettere. In questo caso, chi accoglie pretende: sottomissione, adeguamento passivo, appiattimento e invisibilità… Può farlo con le migliori intenzioni. Come, ad esempio, creare nuove regole, per quelle persone ritenute speciali, e che rimarranno tali.
  2. Accogliere per fare partecipare a un progetto. In questo caso, chi accoglie chiede partecipazione attiva, e, per renderla possibile, cerca di rendere esplicite e comprensibili le regole su cui si regge il progetto che c’era già e che diventa accogliente.

Giorgio Gaber ci invitava a cantare:

L’appartenenza

Non è lo sforzo di un civile stare insieme

Non è il conforto di un normale voler bene

L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé

[...]

Sarei certo di cambiare la mia vita

Se potessi cominciare a dire «noi»

Aggiungiamo che nel «noi» c’è l’incontro e l’intreccio fra leggi e accoglienza, scoprendo, insieme, i vincoli dell’appartenenza. La fraternità è un progetto culturale che va oltre l’esperienza che stiamo vivendo. E le difficoltà che oggi incontriamo, nelle nostre culture, derivano in gran parte dalla trasformazione del lavoro, e dalla sua perdita di centralità nelle dinamiche di solidarietà e di fraternità. Se un tempo il vincolo di solidarietà nasceva dalla fabbrica, oggi questa situazione è rara e marginale. E questo rende più difficile realizzare, in termini di realtà storica e quindi di esperienza che cresce, ciò che leggiamo e che potrebbe essere alla base del progetto. Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde «razza umana», non ignora le differenze, le immette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera. Un progetto riapre l’attenzione al linguaggio parlato senza trascurare l’aspetto di quella che è stata chiamata adeguatezza morale: cosa fa ritenere a un medico di comportarsi come ci si aspetta si comporti un medico? Che parole deve pronunciare e quali decisioni deve prendere? «Produrre identità istituzionali collettive. […] è il modo in cui gli specialisti possono contare in determinate circostanze, su una identità collettiva, parlando di se stessi come parte di una categoria professionale o di un ente».1

Tempo fa, ci siamo trovati con un gruppo di bambini, e le loro insegnanti. Avevamo accanto l’insegnante Arianna. Un bambino ha chiesto cosa facessi. Per spiegare, a un certo punto abbiamo detto che accanto a un uomo — chi scrive —, c’era Arianna, che è una donna. A questa parola il bambino Gianluca si è messo a ridere in maniera incontenibile. Si copriva la bocca con le mani, e si rotolava per terra. Avrebbe riso allo stesso modo dicendo che Arianna è una ragazza? Forse non avrebbe riso. La parola donna lo faceva sbellicare, perché in casa quella parola non si diceva. Sentirla dire a scuola gli sembrava una birichinata da far ridere a crepapelle.

In una parola, nella prospettiva inclusiva, possono confluire storie, e significati, diversi. È un bene. È anche un impegno: esige compromesso, che viene vissuto spesso dai giovani idealisti in senso negativo. Come se fosse qualcosa di disonesto, di vischioso. È un sinonimo di vita del mondo. Dove c’è vita ci dovrebbero essere dei compromessi. L’opposto del compromesso non è integrità e onestà, ma è fanatismo e morte. L’inclusione è il mondo dentro di noi, e noi dentro il mondo. È apertura reciproca. Ogni apertura — benedetta! — comporta una percentuale di rischio. Anche l’alternanza scuola/lavoro. Un bambino, che ha un educatore perfetto, ha un’educazione povera; un bambino che ha un educatore che commette degli sbagli e che si corregge, ha un’educazione più ricca e impara che ci sono non solo gli errori possibili, ma anche gli errori impossibili. Ciò che differenzia gli errori possibili da quelli impossibili è la loro conseguenza. Non è necessario fare esperienza di tutti gli errori per capire che sono dannosi, tuttavia sperimentandone alcuni, si può comprendere quali sono quelli che è meglio non sperimentare. Se si ha la pretesa di impedire ogni errore, ogni rischio, anche il più piccolo, o se si considera ogni proprio errore come una catastrofe, probabilmente si diminuisce la capacità di fare distinguere gli errori possibili da quelli impossibili.

L’alternanza scuola/lavoro esige la sicurezza dei luoghi di lavoro, e non solo. Non possiamo manifestare perché venga abolita ogni apertura. Dobbiamo farci include e includere rischi, sicurezza, regole. Don Milani aveva tanto rispetto per le regole, da preferire, agli accomodamenti mascherati, il rischio dell’obbiezione di coscienza. Che è prendere davvero sul serio le leggi. Assumendosi delle responsabilità. L’assunzione di responsabilità è un educarci a vivere nella dimensione dell’accoglienza delle parole dell’altro, nelle situazioni diverse, per scoprirne gli elementi inquietanti ma anche di crescita. Ed è quindi un elemento fondamentalmente educativo e inclusivo. Crescita che non si ferma solo alla crescita di una certa fase e una certa fascia anagrafica ma che può continuare tutta la vita. Don Milani era stato educato, grazie alle parole, all’empatia intransigente. Come educatore, viveva l’empatia intransigente. Che non è l’empatia frettolosa. Lo scenario dell’emergenza detta i tempi. Non mancano gli studi sui rischi che le decisioni prese sotto l’imperativo dell’emergenza portino a conseguenze infelici. Ma è interessante soffermarsi brevemente a come si arrivi al dominio dell’emergenza. Rimandando ogni decisione. Che in questo modo diventa urgenza, emergenza, e impone decisioni paradossalmente frettolose, improvvisate. Il continuo rinvio prepara l’apparizione del decisionismo. Rinvio ed emergenza sono buoni alleati. Improvvisamente, un problema da cui ci siamo tenuti lontani diventa incombente. Questo ci impedisce di avere una valutazione prospettica. Che non guarda tanto al passato per darne un giudizio ma cerca di sviluppare futuro. Per questo accetta il rischio dell’incertezza delle previsioni. Don Milani riteneva che fosse ingiustizia far parti uguali fra diversi. E i ragazzi di Barbiana ci ricordano che davanti a un problema è bene, evitando l’avarizia del ciascuno per sé, «sortirne insieme». È la politica. Le sfide educative del nostro tempo sembrano eclissate dalla sfida della pandemia. Rimandiamo il loro incontro. Il rischio è che le sfide, diciamo così, abituali e normali, si facciano ritrovare più aggressive e incattivite di come le avevamo lasciate. Sembra che i venti di guerra non ci riguardino, e che vorremmo evitare ogni rischio chiudendoci in un circolo, vizioso, che escluda ogni alternanza scuola/lavoro.

Andrea Canevaro


1 Taylor C. e White S. (2005), Ragionare i casi. La pratica della riflessività nei servizi sociali e sanitari, Trento, Erickson, p. 127.

 

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