Vol. 21, n. 1, febbraio 2022

PRECURSORI

La pedagogia impegnata di bell hooks1

Per una visione inedita dell’inclusione come processo trasformativo del pensiero e delle pratiche

Fabio Bocci2 e Martina De Castro2

Sommario

Uno degli aspetti salienti che caratterizza in modo peculiare i precursori e le precorritrici dell’inclusione è certamente la capacità di abitare, dialetticamente ma senza schisi, il pensare e l’agire, la teoria e la prassi. Si usa spesso — e oggi è sovente richiamato per designare un modo di essere nella e di pensare alla pedagogia — il termine «militanza», quale espressione non tanto di appartenenza a una certa organizzazione o a un determinato movimento, quanto come modo di essere, di porsi e di stare nelle cose, di partecipare alle dinamiche concrete del tessuto sociale, di abitare i contesti con autenticità, sporcandosi le mani. Ebbene, questa descrizione calza alla perfezione alla figura, al pensiero, all’opera e alle azioni di bell hooks, scomparsa nel novembre del 2021 all’età di 69 anni. bell hooks è stata molte cose: scrittrice, insegnante, accademica, saggista, attivista, divulgatrice, critica culturale e quant’altro. Ha saputo abitare tutte queste identità sociali plurime intrecciandole lungo un filo rosso caratterizzato da uno sguardo vigile, attento, mai scontato, anzi, sempre inedito e spiazzante, indirizzato a disvelare, assumendo una prospettiva intersezionale, i meccanismi di dominio-subalternità generati dalle logiche sessiste, razziste e classiste di cui è pervasa la nostra struttura sociale. L’autore e l’autrice, consapevoli dell’impossibilità anche solo di immaginare di poter essenzializzare il portato scientifico e socio-culturale di bell hooks, cercano qui di restituirne almeno un breve profilo biografico, esistenziale e intellettuale, con la speranza di rispettare chi già conosce e apprezza questa figura unica e con l’augurio di stimolare chi invece ancora non ha avuto modo di «incontrarla» a fare tesoro della sua straordinaria eredità.

Parole chiave

bell hooks, Inclusione, Razzismo, Femminismo, Studi intersezionali.

PIONEERS

bell hooks militant pedagogy

An original idea of inclusion as a process for mind and practice’s change

Fabio Bocci3 and Martina De Castro1

Abstract

One of the salient aspects that characterizes in a peculiar way the precursors of inclusion is certainly the ability to inhabit — dialectically but without schism — the thinking and the acting, the theory and the praxis. The term «militancy» is often used — and today it is often recalled to designate a way of being in the pedagogy and to thinking about it — as an expression not so much of belonging to a certain organization or a certain movement, but as a way of being, of posing and being in things, of participating in the concrete dynamics of the social fabric, of living in contexts with authenticity, getting one’s hands dirty. Well, this description perfectly fits to the figure, thought, work and actions of bell hooks, who passed away in November 2021 at the age of 69. bell hooks was many things: writer, teacher, academic, essayist, activist, popularizer, cultural critic and more. She was able to inhabit all these multiple social identities, interweaving them along a red thread characterized by a vigilant, attentive, never predictable, indeed, always new and disorienting look, aimed at unveiling, taking an intersectional perspective, the mechanisms of domination-subordination generated by the sexist, racist and classist logic that pervades our social structure. The authors, aware of the impossibility of even imagining to essentialise the scientific and socio-cultural contribution of bell hooks, try here to give back at least a brief biographical, existential and intellectual profile, with the hope of respecting those who already know and appreciate this unique figure and with the hope of stimulating those who have not yet had the opportunity to «meet» her to treasure her extraordinary legacy.

Keywords

bell hooks, Inclusion, Racism, Feminism, Intersectional studies.

Being both feminine and strong represents no conflict / African women have always been powerful, decisive and strong.

(Sister Souljah, 360 Degrees of Power)

Celebro l’insegnamento che rende possibili le trasgressioni — un movimento contro e oltre i confini — per poter pensare, ripensare e creare nuove visioni. È quel movimento che rende l’educazione la pratica della libertà.

(bell hooks, Insegnare a trasgredire)

Premessa

«Come insegnante, so bene che gli studenti dei gruppi emarginati si trovano a far lezione all’interno di istituzioni in cui la loro voce non è mai stata né ascoltata né accolta, sia che questi studenti discutano di avvenimenti esterni che chiunque conosce, sia che discutano di esperienze personali. Ho modellato la mia pedagogia in risposta a questa realtà. Se non desidero che questi studenti usino “l’autorità dell’esperienza” come mezzo per affermare la propria voce, posso eludere questo possibile abuso di potere utilizzando in classe strategie pedagogiche che affermino in modi diversi la loro presenza, il loro diritto di parlare su svariati argomenti. Questa strategia pedagogica è radicata nel presupposto che tutti portiamo in classe una conoscenza esperienziale, e che questa conoscenza può davvero migliorare la nostra esperienza di apprendimento. Se l’esperienza è ammessa in classe come modalità di conoscenza che coesiste con altre in modo non gerarchico, la possibilità che possa essere usata per zittire le altre persone diminuisce. Quando insegno The Bluest Eye di Toni Morrison nei corsi introduttivi sulle scrittrici nere, chiedo agli studenti di scrivere un paragrafo autobiografico su un ricordo razziale precoce. Ogni persona legge quel paragrafo ad alta voce per la classe. L’ascolto collettivo reciproco conferma il valore e l’unicità di ogni voce. Questo esercizio mette in primo piano l’esperienza, senza privilegiare le voci degli studenti di un particolare gruppo. Aiuta a creare una consapevolezza comune della diversità delle nostre esperienze, e limita la centralità delle esperienze che informano quanto pensiamo e diciamo. Poiché questo esercizio rende l’aula uno spazio in cui l’esperienza viene valorizzata, invece che negata o ritenuta insignificante, gli studenti sembrano meno inclini a partire dall’esperienza come posizionamento dal quale lottare per far sentire la propria voce. Nelle nostre classi, gli studenti di solito non sentono il bisogno di competere, perché il concetto di voce privilegiata dell’autorità viene decostruito dalla nostra pratica critica collettiva» (hooks, 2020a, pp. 118-119).

Il brano che abbiamo appena proposto è contenuto in un libro che sta avendo in Italia un sempre più ampio riscontro: Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà. L’autrice è bell hooks, poetessa, scrittrice, saggista, docente, attivista e molto altro ancora, in altre parole una delle figure più interessanti del panorama culturale, scientifico e politico del nostro tempo, scomparsa nel dicembre del 2021 all’età di 69 anni. Abbiamo pensato fosse giusto e doveroso dedicare, in questa sezione dei precursori, un contributo a bell hooks, in quanto a lei dobbiamo molto sul piano della riconfigurazione dei criteri di analisi e dei modi di elaborare i discorsi intorno a questioni che hanno come soggetto la marginalizzazione, la razzializzazione e il femminismo.

bell hooks ha avuto il merito di abitare l’intersezionalità4 e di elaborarne una visione che ha influito e continuerà a influire su diverse generazioni di intellettuali ma, anche (soprattutto) di attiviste/i, che, attraverso il suo impegno — anzi la sua pedagogia impegnata come espressione di attivismo politico —, hanno appreso da lei a superare una visione parcellizzata dei dispositivi che determinano i meccanismi di dominio/subalternità e compreso come, in realtà, le dinamiche legate al razzismo, al sessismo, al classismo, all’abilismo siano tra loro strettamente interconnesse e non interpellino singole individualità (tra loro disconnesse) ma soggettività che devono interpretarsi come collettività. In altri termini, comprendere che il problema del razzismo, così come quello del sessismo, dell’abilismo e così via, non riguarda — come vorrebbe una certa narrazione mainstream — il razzista o il maschilista, ma il razzismo, il maschilismo (così come l’abilismo e il classismo) quali condizioni strutturali del sistema socio-economico-politico-culturale. Potremmo dire, riprendendo qui una riflessione di Umberto Eco (2018) sull’Ur-Fascismo o fascismo eterno, che siamo in presenza di un Ur-Razzismo, un Ur-Maschilismo e un Ur-Abilismo e Classismo (che peraltro dell’Ur-Fascismo sono declinazioni ed espressioni) la cui sussistenza e pervasività deve essere disvelata e smascherata, soprattutto nel/per il loro essere interconnessi: «oggi mentre osservo l’ascesa della supremazia bianca, il crescente apartheid sociale ed economico che separa bianchi e neri, ricchi e non abbienti, uomini e donne, oltre alla lotta per porre fine al razzismo voglio impegnarmi a porre fine al sessismo e all’oppressione sessista, e a sradicare i sistemi di sfruttamento di classe» (hooks, 2020a, pp. 58-59).

In questa dichiarazione emerge nitida la dimensione dell’impegno come pratica emancipatrice (propria e altrui) e di libertà (propria e altrui). Un lavoro di definizione di sé, di una identità generativa in continuo divenire mai disgiunta da quella delle altre e degli altri, ossia di coscientizzazione (richiamando/si a Paulo Freire, naturalmente), che si traduce in bell hooks in una chiara concezione di pedagogia impegnata. Una concezione che ci interpella — soprattutto in qualità di insegnanti (a scuola come all’università), di educatori, di studiosi dell’educazione — poiché si «esplicita attraverso atti che chiamano all’azione: non mira a produrre esclusivamente riflessività, bensì a tradursi in movimento individuale e collettivo quotidiano. Questo non può accadere se i saperi da noi promossi non parlano al quotidiano di chi vogliamo si unisca a questo movimento [e] per tale ragione è fondamentale, per chiunque decida di praticare una pedagogia libertaria impegnata, comprendere che la trasformazione che si vuole innescare è anzitutto indirizzata all’esterno dell’aula. L’obiettivo è quello di utilizzare la conoscenza teorica per cambiare il rapporto di subalternità interiorizzato, ed è perciò — e per sempre — un lavoro militante» (Ghebremariam Tesfau, 2020, pp. 24-25).

Questi presupposti ci sembrano davvero rilevanti per desiderare di approfondire, pur nell’essenzialità che questo spazio esige, la figura di bell hooks.5 Dopo la presentazione di un profilo biografico mediante il quale, nel dipanare alcune delle tappe fondamentali del suo percorso esistenziale, cerchiamo di entrare nel vivo del suo pensiero militante, approfondiremo alcune questioni che ci sembrano di particolare significatività sul piano della riflessione intorno ai temi dell’inclusione.

bell hooks: stralci di una biografia militante

bell hooks, volutamente da scriversi con le iniziali minuscole, è lo pseudonimo militante, acquisito negli anni Settanta, di Gloria Jean Watkins. Il nome, bell, si riconduce alla madre, Rosa Bell Watkins; il cognome, hooks, recupera quello della nonna materna, Bell Blair Hooks. Scrive la hooks in proposito: «mi capita spesso di pensare come si tenda a dimenticare che, al suo apice, il movimento femminista si è posto con forza la questione dell’anonimato, e della necessità di rendere omaggio alle donne che ci hanno precedute. Allora eravamo in molte a usare uno pseudonimo. Parlo dei tardi anni Sessanta e dei primi anni Settanta. All’epoca si criticava la nozione di “star” femminista. L’importante era ciò che pensava e diceva ciascuna di noi. Nel mio caso, intendevo semplicemente affermare che in me non c’era nulla di inusuale, perché alle mie spalle c’era una lunga discendenza di donne schiette e volitive, di cui volevo onorare l’immagine […] Volevo soltanto dire che provenivo da quel continuum femminile» (hooks, 2020b, p. 147).

La sostituzione del nome anagrafico ha, dunque, una triplice funzione: «affermare con forza la valenza politica di un atto di ri-nominazione che è un gesto fondativo di una soggettività inedita; ancorare quel nuovo sé femminista, battezzato con nomi materni, a un continuum femminile che solo ora, alla luce di una pratica politica collettiva che sa dirsi tale, può riscattarsi da una silenziosa, secolare, apparente passività; sfidare il “proprietario” — e per le donne “espropriativo” — sistema dei nomi, che lungo l’asse maschile incensa non contraddittoriamente individualità e continuità, negandole entrambe lungo quello femminile» (Nadotti, 2020b, p. 19).

Seguendone l’itinerario biografico che, come abbiamo potuto immediatamente constatare, non può essere in alcun modo disgiunto dalla pratica di una costante e continua presa di coscienza e autodeterminazione, sappiamo che Gloria Jean Watkins nasce il 25 settembre 1952 a Hopkinsville, cittadina segregata del Kentucky, nel profondo Sud rurale degli Stati Uniti. Figlia quartogenita di una numerosa (in tutto sette figli/e) e umile famiglia — il padre, Veodis Watkins, lavora come custode, la madre, Rosa Bell Watkins, è casalinga — Gloria cresce «lontana dai bianchi», ma in un contesto in cui sperimenta in prima persona (sulla propria pelle) i meccanismi, razziali e sessisti — frutto di quei rapporti di potere che, per sua stessa definizione, danno vita a una sorta di ingegneria delle disuguaglianze —, che diverranno il fulcro delle sue opere più note. Frequenta inizialmente una scuola segregata, esperienza questa che le consente di comprendere come — nel periodo delle leggi «Jim Crow»6 — per i neri, l’insegnamento e l’educazione siano «fondamentalmente un atto politico, perché radicato nella lotta antirazzista» (hooks, 2020a, p. 32). Questo, infatti, è il modello pedagogico al quale le insegnanti delle scuole segregate si inspirano, tentando di creare nelle bambine e nei bambini una coscienza di sé finalizzata all’autodeterminazione: «Quasi tutte le nostre insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire il nostro intelletto, per darci la possibilità di diventare studiosi, pensatrici e operatori culturali — persone nere capaci di usare la “testa”. Comprendemmo presto che la nostra devozione verso l’apprendimento e la vita della mente era un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista e bianca. Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia rivoluzionaria della resistenza, profondamente anticoloniale» (hooks, 2020a, p. 32). Ciò avviene, peraltro, attraverso una approfondita conoscenza dell’allieva/o anche in termini di contesto familiare, socio-relazionale, religioso e così via.

Paradossalmente, invece, con l’avvento dell’integrazione razziale questo sfondo di senso si dissolve: «la scuola cambiò completamente. Lo zelo messianico, teso a trasformarci e a plasmare le nostre menti — che aveva caratterizzato le nostre insegnanti e le loro pratiche pedagogiche nelle scuole per neri — era finito. Improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo in cui una persona viveva e si comportava. Non era più collegata alla lotta antirazzista. Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci si aspettava da noi era l’obbedienza, e non la volontà zelante di imparare. La passione eccessiva per l’apprendimento veniva facilmente interpretata come una minaccia all’autorità bianca […] Passare dalle amatissime scuole per neri alle scuole bianche — in cui gli studenti neri erano sempre considerati intrusi, mai membri effettivi a tutti gli effetti — mi ha insegnato la differenza tra l’educazione come pratica della libertà e l’educazione che si sforza semplicemente di rafforzare il dominio» (hooks, 2020a, pp. 33-34).

Una consapevolezza, questa, che prosegue anche durante gli studi universitari, contesto nel quale sperimenta la dialettica tra la richiesta esterna di portare obbedienza all’autorità e l’istanza interiore di preservare integro il diritto a essere una pensatrice indipendente: «l’università e l’aula iniziarono a somigliare più a un carcere, a un luogo di punizione e prigionia, piuttosto che a un luogo di promesse e possibilità […] alla stragrande maggioranza dei nostri professori mancavano le competenze di base della comunicazione, non si sentivano realizzati e spesso utilizzavano la classe per inscenare rituali di controllo che riguardavano il dominio e l’esercizio ingiusto del potere. In questi contesti ho imparato molto sul tipo di insegnante che non volevo diventare» (hooks, 2020a, pp. 34-35). Nonostante questo, anzi, forse proprio come risposta a tutto questo, Gloria ottiene nel 1973 il Bachelor of Arts in Inglese alla Standford University, nel 1976 un Master presso l’Università del Wisconsin e, nel 1983, il PhD presso l’Università della California, Santa Cruz. Gli anni universitari le consentono di entrare in contatto con innumerevoli movimenti libertari, quali quelli contrari alla guerra del Vietnam, quelli legati al Black Power e al Black Panther Party ma, anche, con i primi collettivi femministi e i primi gruppi di autocoscienza. Per la propria esperienza, sessismo e razzismo sono indissolubilmente legati, interdipendenti e, in quanto tali, vanno interpretati e combattuti guardando alle intersezioni causali che li determinano e li definiscono. Appena diciassettenne, partecipa a Stanford ai primi Women’s Study e inizia a riflettere sulle categorie del femminile e sulle molteplici identità che caratterizzano ciascun essere umano: «Per decifrare le complicità, le collusioni, le identificazioni che hanno finito per macchiare e incrostare di sessismo anche il “femminile”, è indispensabile non trascurare quegli altri livelli di individuazione personale che passano dall’appartenenza razziale e dalla collocazione di classe. […] In ogni donna […] c’è una frizione tra due o più identità incompatibili eppure conniventi. La soluzione non sta nell’assumere una a scapito delle altre tentando l’avventura della non contraddizione, bensì nel praticare la virtù acrobatica del non coincidere mai sino in fondo con una posizione monodimensionale e unitaria» (Nadotti, 2020b, p. 23). È questo, peraltro, che emerge con forza inedita nella raccolta di saggi elaborati da Gloria, ormai divenuta bell, tra il 1972 e il 1973 e che vedono la luce nel 1981 (a causa delle resistenze del mercato dell’editoria) con il titolo di Ain’t I a Woman: Black Woman and Feminism.

bell hooks, in effetti, non solo teorizza ma pratica fattivamente (questa è la sua cifra distintiva) questa virtù acrobatica. In lei convivono la militante, la show-woman (compare numerose volte in televisione e in vari documentari al fine di ampliare la platea alla quale parlare), la Distinguished Professor di inglese presso il City College di Brooklyn. Un modo questo, peraltro, di agire in prima persona, come donna e come anima nera, l’azione di interconnessione tra la cultura alta (o presunta tale) e quella bassa (o ritenuta tale), spaziando dai Black Studies ai Feminist Studies, per giungere al Creative Writing.

All’interno, e dall’intreccio, di queste prospettive di studio, bell hooks tesse le trame della sua analisi. Così, nel saggio Casa: un sito di resistenza, contenuto nel già citato Elogio del margine, sempre attingendo dalla propria e altrui esperienza, spiega come il focolare domestico abbia rappresentato per le donne nere un sito di resistenza al dominio bianco, uno spazio in cui riappropriarsi, sovversivamente, del valore delle relazioni che vi prendono corpo, mostrando al contempo come la perdita di questo portato sovversivo sia stata favorita proprio dalle logiche del suprematismo bianco-capitalista che ne ha disarticolato il senso. Nel corso della storia, scrive bell hooks in merito, gli afroamericani «hanno riconosciuto il valore sovversivo del focolare domestico, di uno spazio privato non direttamente esposto alla violenza razzista dei bianchi. Quali che siano la forma e la direzione della lotta di liberazione nera (riforma per i diritti civili o movimento per il potere nero), lo spazio domestico è stato un sito cruciale per organizzare, formare, la solidarietà politica. La casa è stata un sito di resistenza. La sua struttura è stata definita più dalla nostra lotta per resistere al dominio e all’oppressione razzisti, che dal fatto che donne e uomini neri si conformassero alle regole di comportamento sessiste. La lotta di liberazione è stata seriamente danneggiata dal concomitante tentativo di trasformare il sovversivo focolare domestico nero in sito di dominio patriarcale degli uomini sulle donne, in luogo dove gli uni abusano delle altre se non si conformano alle norme sessiste. Questo mutamento di prospettiva, che impedisce di vedere la casa come sito politico, ha avuto un impatto negativo sulla costruzione dell’identità e della coscienza politica delle nere. Masse di donne, molte delle quali prive di qualsiasi forma di educazione, erano riuscite in passato ad avere un ruolo vitale nella lotta di liberazione nera. Ora che nella vita dei neri i paradigmi della domesticità riflettono le norme borghesi bianche (dove la casa viene concettualizzata come spazio politicamente neutro), i neri cominciano a dimenticare e a svalutare l’importanza del lavoro delle donne, la loro capacità di insegnare una coscienza critica nello spazio domestico. Molte nere, a prescindere dal loro status sociale, hanno reagito a questa crisi di significato adottando le nozioni sessiste che le classi superiori associano al ruolo femminile e hanno messo al centro delle loro esistenze un consumismo dissennato e compulsivo» (hooks e Nadotti, 2020, pp. 38-39).

Si tratta di una analisi puntuale di quei meccanismi pervasivi di dominio razzista e classista — tipici del suprematismo bianco — che, intessendosi con le logiche sessiste, producono una disarticolazione (ed è questa una azione tipica dei sistemi di potere) dell’agire politico di chi è subalterno, generando nuove forme di subalternità spacciate per emancipazione. Rispetto al sessismo, questo meccanismo — grazie ancora all’analisi inedita di bell hooks — si ammanta di ulteriori elementi che ci aiutano a comprenderne la perniciosità: «nello stato di oppressione in cui vivono, neri e nere hanno di rado sfidato l’uso delle metafore di genere per descrivere l’impatto del dominio razzista e/o della lotta di liberazione nera. Il discorso della resistenza nera ha quasi sempre identificato libertà e virilità, dominio economico e materiale sui maschi neri e castrazione, evirazione. Accettare tali metafore sessuali ha creato un vincolo tra i maschi neri oppressi e i loro oppressori bianchi. I due gruppi condividono la credenza patriarcale che la lotta rivoluzionaria abbia come proprio vero oggetto l’erezione fallica, la capacità maschile di stabilire un dominio politico equivalente al dominio sessuale […] Molti di noi non hanno più dimenticato le pagine di Anima di Ghiaccio in cui Eldrige Cleaver, parlando del bisogno di “redimere la mia virilità soggiogata”, descrive lo stupro di donne nere come addestramento pratico al futuro stupro di donne bianche […] Cleaver riuscì a stornare l’attenzione dal sessismo misogino delle sue dichiarazioni sostenendo con aggressività che tali atti erano una risposta “naturale” al dominio razziale […] Il sessismo è stato sempre un utile atteggiamento politico di mediazione del dominio razziale: grazie a esso maschi bianchi e maschi neri hanno potuto condividere un’identica sensibilità rispetto ai ruoli sessuali e all’importanza del dominio maschile. Evidentemente entrambi i gruppi hanno identificato libertà e virilità, virilità e diritto degli uomini di avere accesso indiscriminato al corpo delle donne. Entrambi i gruppi sono stati socializzati a fare proprio il dogma patriarcale che lo stupro è un modo accettabile di mantenere il dominio maschile. All’interno del patriarcato è questo confondersi di sessualità e dominio maschile a informare la costruzione della maschilità per i maschi di tutte le razze e di tutte le classi» (hooks e Nadotti, 2020, pp. 45-46).7

Dal nostro punto di vista, la potente analisi intersezionale di bell hooks getta una luce (per chi ha davvero intenzione di rifletterci sopra) sulla nostra contemporaneità, sui molteplici fatti di cronaca che vedono l’attuarsi e il perpetrarsi di questo dispositivo da parte di maschi di qualsiasi provenienza culturale e status sociale che continuano a praticare lo stupro e l’abuso sulle donne per affermare il loro dominio. E, peraltro, si configura anche come un forte invito a non «banalizzare» i discorsi sui processi inclusivi, neutralizzandone (con le retoriche che spesso li pervadono) tutti quegli aspetti di complessità e di asperità che li abitano.

In tal senso si configurano anche le altre tematiche che caratterizzano il suo pensiero militante, come ad esempio quello dell’analisi delle rappresentazioni sociali dell’intersezione sesso, razza, classe e quello dell’educazione come pratica della libertà, temi sui quali ci soffermeremo nel prossimo paragrafo.

Proseguendo nella sua biografia, un altro aspetto di grande rilievo è certamente quello della complessità di creare una sinergia, nell’alveo del femminismo, tra donne bianche e nere: «il richiamo femminista contemporaneo alla sorellanza, l’appello radicale della donna bianca alle donne nere e a tutte le donne di colore di unirsi al movimento femminista, è considerato da molte donne nere come l’ennesima espressione della negazione bianca della realtà del dominio razzista, della complicità nello sfruttamento e nell’oppressione delle donne e delle persone nere. Sebbene la richiesta di sorellanza sia spesso motivata da un sincero desiderio di trasformare il presente, il desiderio femminile bianco di forgiare un nuovo contesto e di creare un legame non ha ancora compiuto lo sforzo di riconoscere il passato e le barriere che rendono difficile, se non impossibile, tale legame. Quando le donne nere, in risposta all’appello di sorellanza sulla base di una esperienza condivisa, hanno richiamato l’attenzione sia sul passato del dominio razziale che sulle sue manifestazioni attuali nell’ambito della teoria femminista e del movimento femminista, la reazione iniziale delle donne bianche è stata di resistere a tale analisi, assumendo una postura di innocenza e diniego […] Ironia della sorte, molte donne nere attivamente impegnate nel movimento femminista parlavano di razzismo nel tentativo sincero di creare un movimento inclusivo, che avrebbe unito donne bianche e nere. Eravamo convinte che la vera sorellanza non sarebbe potuta esistere senza uno scontro radicale, senza l’esplorazione femminista e il confronto sul razzismo femminile bianco e sulla risposta femminile nera» (hooks, 2020a, pp. 136-137).

Come possiamo apprezzare, quello di bell hooks è, dunque, un pensiero scomodo, interpellante, come del resto è stata la sua testimonianza nel corso della sua vita (e ben oltre). Ne sono un esempio emblematico le polemiche seguite al discorso tenuto nel 2002 all’inaugurazione dell’anno accademico alla Southwestern University, dove — in barba al tradizionale bon ton tipico di queste occasioni — la hooks ha svolto una relazione sulla violenza e sull’oppressione del sistema governativo, rivolgendosi direttamente agli/alle studenti/esse per invitarli/e a essere consapevoli del loro posizionamento e ammonendo quelli/e di loro che, a suo avviso, erano d’accordo con tali pratiche. Oppure, gli innumerevoli articoli e saggi, così come gli interventi televisivi, in cui polemizza con molti artisti (registi, musicisti, scrittori) neri, mantenendo sempre alta l’attenzione sul rischio dell’introiezione (spesso inconsapevole) dei dispositivi rappresentativi del suprematismo razzista, sessista e classista bianco (ne parleremo a breve).

Un’azione intellettuale sempre fusa con l’attivismo sul campo. Mentre continua a scrivere, fonda il Berea College. The bell hooks center, dove nella home page del sito internet si legge: «Il Bell Hooks Center è uno spazio inclusivo in cui gli studenti storicamente sottorappresentati possono diventare come sono, al di fuori dei copioni sociali che ne circoscrivono la vita. Curiamo programmi, collaborazioni ed eventi che affermano il senso di sé e di appartenenza di questi studenti, nel campus e nel mondo. Il nostro lavoro è motivato dalle famose intuizioni di Bell Hooks secondo cui il patriarcato non ha genere e che, quindi, il femminismo è per tutti».8

bell hooks è morta proprio a Berea (Ohio) il 15 dicembre 2021 e come ha scritto Giusi Palomba: «il coraggio di nominare le questioni più conflittuali, senza cadere nella trappola neoliberale della competizione, la passione e la compassione di bell hooks ci mancheranno moltissimo. Ma se è vero che ha piantato in noi semi profondi, è il momento di prendersene cura e impegnarsi a farli crescere» (Palomba, 2021).

bell hooks: suggestioni di un pensiero militante in prospettiva inclusiva

Abbiamo assaporato la ricchezza e la fecondità del pensiero e dell’impegno intellettuale di bell hooks. Ora, proseguendo su questa via, intendiamo soffermare ancora e ulteriormente l’attenzione su alcuni aspetti della sua azione a tutto campo in modo da comprenderne meglio (nei limiti in cui saremo in grado di farlo) la sua funzione di precursora dell’inclusione, almeno di come la stiamo cercando di inquadrare e interpretare oggi.

Il primo di questi aspetti ha certamente a che vedere con la sua straordinaria capacità, frutto di un preciso atto di volontà, di legare indissolubilmente pensiero e azione, ricucendo la dialettica (spesso una vera e propria schisi) tra pensiero intellettuale e pensiero dell’esperienza. In questo atto di volontà culturale, ma ancor di più politica («la mia dedizione verso la pedagogia impegnata è un’espressione di attivismo politico», afferma), certamente si rintracciano gli influssi di una figura molto cara a bell hooks, ossia Paulo Freire, ma la studiosa, pensatrice e attivista, vi porta una cifra che è tutta sua, frutto della propria storia e anche di una lacerazione profonda che per lei, donna e nera, è decisamente differente da quella del pedagogista brasiliano, maschio e bianco. Donna, nera, di umili origini, bell hooks «ci offre uno sguardo sul processo pedagogico che ci informa della necessità di dare voce e di riconoscere “l’autorevolezza dell’esperienza”, non perché la condivisione della propria esperienza diventi l’unico strumento di conoscenza, ma perché crei consapevolezza: “una pratica semplice come l’inclusione dell’esperienza personale può essere una sfida più costruttiva rispetto alla semplice modifica del programma” perché i momenti narrativi rappresentano il momento in cui viene decostruita l’idea implicita secondo cui condividiamo un’origine e una prospettiva comuni» (Sereke, 2020, p. 9).

All’interno delle istituzioni che abita umanamente e professionalmente, a partire da quella accademica, bell hooks introduce un modo di agire finalizzato da un lato a «rompere le gabbie disciplinari» e a «superare l’ormai muta dicotomia tra cultura “alta” e cultura “bassa”» (Nadotti, 2020b, p. 25) e, dall’altro, a creare comunità, a creare aperture, varchi, spiragli in cui indirizzare i processi di umanizzazione insiti nelle relazioni umane (nelle loro dialettiche e complessità), quali risposta possibile ai processi di disumanizzazione che invece caratterizzano il nostro sistema socio-politico-culturale, permeato da logiche razziste, sessiste e classiste.

bell hooks è consapevole che l’educazione non è, e non può mai e in alcun modo essere, politicamente neutra, così come è altrettanto conscia che l’agire politico all’interno dei contesti educativi possa generare fastidio, nell’establishment, e sofferenza, nelle studentesse e negli studenti. Ciò implica un duplice posizionamento per così dire di filosofia dell’educazione. Accanto alla coscientizzazione di matrice freiriana — il legame tra conoscenza e pratica consapevole — bell hooks, richiamandosi agli insegnamenti del monaco buddista vietnamita Thích Nhât Hanh, cura anche la dimensione di un approccio pedagogico olistico, capace di tenere conto non soltanto della mente, ma anche del corpo e dello spirito di allieve e allievi, al fine di abitare la sofferenza per generare benessere. Così, mentre indaga in profondità le interconnessioni tra le differenze di genere, razza, classe, orientamento sessuale, nazionalità, abilità/disabilità e così via, è attenta all’insegnamento quale atto performativo reciproco, capace di far emergere le peculiarità uniche di tutti/e e di ciascuno/a. Le lezioni devono essere divertenti, l’aula si deve trasformare in un luogo eccitante: «questo approccio non solo richiedeva di superare i confini fissati, ma l’eccitazione non si poteva generare senza il pieno riconoscimento del fatto che non poteva esistere un’agenda immutabile, capace di regolare le pratiche di insegnamento. I programmi dovevano essere flessibili, consentire cambi di direzione spontanei. Gli studenti dovevano essere considerati nelle loro peculiarità di individui […] e l’interazione doveva necessariamente partire dalle loro esigenze (in questo caso l’utilità del pensiero di Freire era palese)» (hooks, 2020a, p. 37).

Questa pratica — ci teniamo in modo particolare a evidenziarlo, onde evitare i rischi di facili letture — apparentemente di semplice applicazione, abbisogna invece di una profonda autoanalisi da parte di tutti i protagonisti. Il coinvolgimento reale nel processo di insegnamento-apprendimento, infatti, scarnifica le incrostazioni, smuove le sedimentazioni, e quando ciò accade non è mai un’azione scevra da implicazioni. Non a caso bell hooks utilizza l’espressione «la passione dell’esperienza» riferendosi soprattutto alla sofferenza, quel modo di sapere che, come detto, viene espresso sostanzialmente attraverso il corpo. Quello che il corpo sa, ci dice hooks, «viene scolpito profondamente in esso dall’esperienza» (hooks, 2020a, p. 126). Ciò vale tanto per chi insegna quanto per chi apprende: «come docente, ho dovuto rinunciare al bisogno della conferma istantanea del successo del mio insegnamento […] L’aspetto eccitante della creazione di una comunità di studenti che rispetta le singole voci è il riscontro decisamente maggiore, perché gli studenti si sentono liberi di parlare e di rispondere. E, sì, spesso questo riscontro è fondamentale. Per la mia crescita come insegnante, prendere le distanze dalla necessità di una conferma immediata è stato cruciale. Ho imparato a rispettare la sfida posta dai paradigmi mutevoli o dalla condivisione inedita di conoscenze; ci vuole tempo prima che gli studenti vivano questa sfida come positiva. Gli studenti mi hanno anche insegnato che in questi nuovi contesti di apprendimento è necessario praticare la compassione. Non ho mai dimenticato il giorno in cui uno studente è entrato in classe e mi ha detto: “seguiamo il suo corso. Impariamo a guardare il mondo da un punto di vista critico, che prende in considerazione razza, sesso e classe. E non riusciamo più a goderci la vita”. Scrutando la classe, indipendentemente da razza, preferenze sessuali ed etnia, ho visto molti studenti annuire con la testa. E per la prima volta ho compreso che rinunciare ai vecchi modi di pensare e di conoscere, così come apprendere nuovi approcci può implicare, e di solito implica, un certo grado di sofferenza» (hooks, 2020a, pp. 74-75).

Vi è qui un richiamo al confrontarsi con l’altro in modo autentico, rispettando anche la sua irriducibilità a noi, la sua resistenza, la sua incompiutezza. Anzi, richiamandoci a Lapassade (1971) così come a Meirieu (2007), ci sia consentita questa incursione, potremmo addirittura affermare che è proprio questa non coincidenza con noi a suggerirci che, forse, abbiamo svolto egregiamente il nostro lavoro di educatori.

L’inclusione dunque, per bell hooks, è un processo trasformativo in cui le biografie del Sé, proprie di ciascuna/o delle attrici e degli attori coinvolte/i, vanno vissute e lette come un atto profondamente politico. Un atto politico che richiede, nell’atto costituente della propria crescita umana, di guardare e di andare oltre, assumendo una posizione inedita non solo verso gli altri (essere scomodi) ma anche per se stessi (abitare la scomodità come una opportunità a non lasciarsi irretire dagli schematismi e dai dispositivi di accomodamento propri del sistema).

Una posizione, questa, poco consueta e che bell hooks incarna invece in modo evidente: «troppo militante e compromessa da un lato con la politica delle donne e dall’altro con quella degli afroamericani, troppo trasversale e in-disciplinata, troppo appassionata alla grande questione della democrazia e della “comunicazione” extra istituzionale, hooks — che pure è Distinguished Professor di inglese presso il City College di Brooklyn, NY — ha scelto di non esaurire la sua funzione pedagogica in ambito universitario» (Nadotti, 2020b, p. 24).

Questa tensione, questa insofferenza, la porta a valicare i confini degli ambiti predefiniti del proprio settore istituzionale di studi, così come dei luoghi altrettanto predefiniti della divulgazione scientifico-accademica, per incunearsi negli spazi della comunicazione e dell’arte. Lo scopo è sempre quello di essere dentro a situazioni in grado di innescare possibilità di confronto, anche serratissimo, di analisi e di discussione, come dimostrano, tra i tanti esempi possibili, il volume Outlaw Culture Resisting Representations (1994), nel quale afferma che lasciarsi interpellare dalla cultura popolare costituisce un potente ambito di intervento, sfida e cambiamento, o la partecipazione all’opera collettanea Black Genius: African-American Solutions to African-American Problems (2000) — ideata dallo scrittore Walter Mosley e promossa dal New York University Africana Studies Program e dall’Institute of African American Affairs — dove autori e autrici, definiti visionari con soluzioni, dibattono di economia, potere politico, lavoro, autorità, cultura, ecc.

Si delinea così un altro tema che la appassiona e che ritiene cruciale, ossia quello dell’analisi, sempre nella prospettiva intersezionale, della decostruzione dei meccanismi di potere che si ingenerano, si sviluppano e si consolidano mediante le rappresentazioni sociali: «sessismo e razzismo, i due sistemi che convogliano l’odio contro l’alterità incarnata da donne e non-bianchi, hanno infatti un loro subdolo terreno di applicazione a tutto campo proprio nelle cosiddette — più o meno commerciali — produzioni culturali: cinema, letteratura, musica popolare, televisione. Ecco perché, alla sua prolifica attività teorica e critica, hooks affianca — dentro e fuori le aule scolastiche — una vivace e versatile attività di commentatrice culturale» (Nadotti, 2020b, p. 24). Si tratta di un campo di azione che ci è particolarmente familiare e caro, anche nell’ottica intersezionale (Bocci, 2020; De Castro, 2020; Zona, De castro e Bocci, 2021) e che, con la medesima passione di hooks, consideriamo cruciale.

Ma tornando, e giustamente, a lei, ecco come nel saggio del 2004 Selling hot pussy: representations of Black female sexuality in the cultural marketplace analizza il tipo di rappresentazione che i media tradizionali propongono della donna nera: un’oscillazione tra la mammy, che si prende cura del proprio uomo ed è sottomessa alla logica serva/padrone, e la prostituta, colei che distoglie il maschio bianco dalle sue imprese di dominio attraverso il proprio corpo. Un corpo provocantemente agghindato, in modo da ricalcare i canoni di bellezza bianchi (i capelli sono stirati, i capi di abbigliamento indossati molto costosi). Una rappresentazione che, apparentemente, viene stravolta con la cosiddetta blaxploitation, ma che in realtà — una volta superata la fase iniziale di militanza — è ri-fagocitata nel meccanismo della stereotipizzazione dei ruoli in base ai canoni razzisti, sessisti e classisti tipici delle narrazioni mainstream (ne parleremo a brevissimo).

L’importanza di dare forma a un’analisi serrata sui prodotti culturali, soprattutto cinematografici per il loro impatto, grazie ai trucchi magici che gli sono propri (Morin, 1962) sui meccanismi di proiezione e identificazione, emerge con chiarezza anche in Reel to real: race, sex, and class at the movies (2008), volume nel quale bell hooks evidenzia come i film abbiano una grande rilevanza nella nostra vita, giungendo addirittura a segnarne alcune tappe fondamentali. Per tale ragione non possiamo, e non dobbiamo, esimerci dal confrontarci con questi prodotti artistico-culturali avendo bene in mente che non offrono mai e poi mai una narrazione neutra. In altri termini, la massima hollywoodiana That’s Entertainment! (non a caso scelta nel 1974 per titolare un film compilation dedicato al cinquantesimo anniversario della Metro-Goldwyn-Mayer) non ha mai corrisposto alla verità. I film, anche se si presentano sotto le spoglie dell’intrattenimento, sono vettori di rappresentazioni sociali che veicolano immagini e producono immaginario collettivo relativamente a questioni che attengono al sesso, alla razza, alla classe e così via. Allo stesso modo, in quanto spettatori/spettatrici, non siamo affatto neutri/neutrali nel nostro modo di assistere a ciò che ci viene mostrato, e qui bell hooks apre un duplice fronte di discussione. Da un lato con il femminismo, dall’altro con i registi, anche/soprattutto, neri, che scrivono e dirigono film su queste tematiche.

Rispetto al movimento femminista, bell hooks afferma che: «la critica cinematografica femminista che va per la maggiore non riconosce in alcun modo la spettacolarità cinematografica femminile nera. Non considera neppure la possibilità che le donne possano costruire uno sguardo oppositivo attraverso la comprensione e la consapevolezza delle politiche di razza e razzismo. La teoria femminista del cinema, fondata su un’astorica struttura psicoanalitica, che privilegia la differenza sessuale, sopprime attivamente il riconoscimento della razza, ristabilendo e riflettendo la cancellazione della femminilità nera a cui si assiste nel cinema, silenziando ogni discussone sulla differenza razziale — sulla differenza sessuale razzializzata» (hooks e Nadotti, 2020, p. 90).

A riguardo di registi, autori e operatori culturali del cinema, bell hooks non «risparmia» da critiche neppure i «mostri sacri» che si presentano come (e sono anche percepiti tali) antagonisti del sistema. In tale direzione si configura la polemica con Spike Lee sul film Lola Darling (She’s Gotta Have It, 1986): «non è un caso che io abbia cominciato a scrivere di cinema in risposta al primo film di Spike Lee, Lola Darling, per denunciare il fatto che Lee aveva riprodotto le pratiche filmiche patriarcali dominanti, che rappresentano esplicitamente la donna (in questo caso la donna di colore) come oggetto dello sguardo fallocentrico. L’investimento di Lee in pratiche filmiche patriarcali che riflettono i modelli dominanti ne fa il perfetto candidato nero all’entrata nel canone hollywoodiano. Il suo lavoro, attenendosi alla costruzione filmica della femminilità in quanto oggetto, si limita a rimpiazzare il corpo bianco — il testo su cui scrivere il desiderio maschile — con il corpo femminile nero. Si tratta di un trasferimento senza trasformazione. Entrando nel discorso della critica cinematografica dalla posizione politicizzata e oppositiva di chi non vuole — come mi ha detto una lavoratrice nera — “vedere le donne nere in una posizione che nel cinema le bianche occupano da sempre”, ho cominciato a pensare in modo critico alla spettacolarità femminile nera» (hooks e Nadotti, 2020, p. 96).

Questa analisi/riflessione, ci sia consentito, è un invito al nostro decentramento culturale: mentre ci coglie con le mani nel sacco in molti nostri discorsi politicamente corretti (ormai sempre meno anche sul piano teorico, figuriamoci nelle prassi), ci offre anche l’opportunità di comprendere al meglio cosa significhi analizzare eventi, storie, relazioni, posizioni, artefatti culturali, dinamiche socio-politiche e così via, assumendo una prospettiva realmente intersezionale.

Ed è quello che proviamo a fare, infine e come anticipato, richiamando l’attenzione anche sulla disamina che bell hooks fa della blaxploitation, di cui peraltro ci siamo occupati recentemente (Bocci, 2020).

Il termine blaxploitation (missaggio di black, nero, e exploitation, sfruttamento) in ambito cinematografico fa riferimento a produzioni a basso budget, caratterizzate da tematiche forti, con la messa in scena di sesso e di violenza. Stilisticamente la peculiarità di questo genere è data dal montaggio estremamente rapido, con molti tagli, e dalla centralità assegnata alla colonna sonora (Funky, R&B, Soul e Pop). Le riprese sono prevalentemente in esterno (nelle strade) e la fotografia è sostanzialmente «sporca». La pellicola che, secondo molti studiosi e critici cinematografici (James, 2002; Minganti, 2006) ha aperto la stagione della blaxploitation è Sweet Sweetback’s Baadasssss Song (Melvin Van Peebles, 1971). Se dal punto di vista del cinelinguaggio, Van Peebles (che ne è anche l’autore e l’interprete principale) sembra essersi ispirato alla Nouvelle vague, il film ha una chiara matrice di denuncia socio-politica: rappresentare i corpi degli afroamericani — che la narrazione mainstream bianca descrive come dediti alla perversione e al degrado — brutalizzati in modo del tutto ingiustificato dalla polizia (in mano a potere dei bianchi). L’intento politico della pellicola emerge, oltre che per i contenuti, anche per la scelta dell’autore-regista di non indicare nei titoli di coda i nomi del cast ma di comprenderli tutti nella locuzione The Black Community. Non a caso, mentre viene censurata dalla Motion Picture Association of America (l’associazione nata per salvaguardare gli interessi delle principali majors americane) è esaltata dalle Pantere Nere, che ne suggeriscono la visione, trattandosi di un film-guerriglia (James, 2002), dove un afroamericano resiste e si ribella allo strapotere razzista dei bianchi. Vi sono poi altri film che, in modo più o meno diretto, possono essere inglobati nel fenomeno della blaxploitation, quali Shaft (Gordon Parks, 1971, con la celebre colonna sonora di Isaac Hayes), The Harder They Come (Perry Henzell, 1972, che vede come protagonista il cantante Jimmy Cliff), Super Fly (Gordon Parks Jr., 1972), Cleopatra Jones: licenza di uccidere (Cleopatra Jones, Jack Starrett, 1973), Coffy (Jack Hill, 1973) e Foxy Brown (Jack Hill, 1974). Questi ultimi due film sono stati interpretati da Pam Grier e, insieme a Cleopatra Jones (il cui ruolo è affidato a Tamara Dobson), danno vita a un altro filone della blaxploitation: quello che vede per protagoniste donne afroamericane molto forti e decise che si ribellano ai maschi (bianchi o neri che siano) sfruttatori e spacciatori.9

Questi film riconducibili alla blaxploitation hanno aperto anche un aspro dibattito nella comunità nera in merito alla loro validità, sia per la causa di emancipazione degli afroamericani, sia per la modalità con le quali sono state rappresentate le donne nere all’interno dei meccanismi narrativi dominati, comunque, da temi che hanno a che fare con il razzismo, il sessismo e il classismo.10

In effetti, come rileva Melissa DeAnn Seifert (2012) proprio riallacciandosi a un’analisi di bell hooks, le eroine nere della blaxploitation, quali Coffy, Foxy Brown, Cleopatra Jones e altre, sono state di fatto oggetto della duplice dinamica di sfruttamento e prevaricazione all’interno della stessa comunità nera maschile. I leader maschi neri, oggettualizzando le donne nere di colore, hanno di fatto limitato la formazione della solidarietà femminile nei media popolari: «riducendo al minimo l’identificazione delle donne con altre donne in questi film, le eroine d’azione sono diventate simboli del potere nero, non della liberazione delle donne. Pertanto, le donne nere all’interno della struttura del Black Power sono state vittime di razzismo e patriarcato, sia esternamente che internamente, nonostante i rapporti ufficiali affermassero il contrario» (DeAnn Seifert, 2012, p. 7).

In effetti, se il film di Melvin Van Peebles — dove comunque non mancano possibili analisi critiche in merito alla presenza e al ruolo assegnato alle donne nere — assume una connotazione politica ed emancipativa ben definita, la blaxploitation assorbita dal circuito mainstream diviene un genere che dà vita a una mercificazione che non ha nulla a che vedere con le narrazioni controculturali che avevano caratterizzano il cinema periferico (Bocci, 2020).11 Ne sono peraltro emblematica testimonianza il proliferare di questo tipo di pellicole che raggiungono il loro apice con titoli quali Blacula (William Crain, 1972) e Blackenstein (o Black Frankenstein, William A. Levey, 1973).

Se la finalità dei primordi, dunque, era quella di aumentare la rappresentazione/tività e la presenza di afroamericani/e sugli schermi (Minganti, 2006), con l’incorporazione di queste istanze nel meccanismo produttivo e distributivo hollywoodiano si viene a tutti gli effetti a delineare una retorica discorsiva dell’uguaglianza (bianchi-neri, uomini-donne, uomini bianchi-uomini neri, donne bianche-donne nere, ecc.) che ha il compito di annullare qualsiasi tensione dialettica e di azzerare qualsiasi azione realmente finalizzata a trasformare il sistema sociale.

bell hooks ha ben chiaro tutto questo e, infatti, ci rammenta di non abboccare ai trabocchetti insiti in questi dispositivi di immunizzazione, che negli anni Sessanta e Settanta hanno ruotato intorno alla blaxploitation e che oggi si manifestano «nella bizzarra rivendicazione di una nerezza/africanità/alterità ricalcata sui cliché razziali e sessuali più classici» (Nadotti, 2020a, p. 13).

Ecco, possiamo congedarci da questo nostro breve contributo apprendendo da questa straordinaria pensatrice e attivista, scrittrice e accademica, insegnante e operatrice culturale, a porci dinanzi alle questioni che ci interpellano con una postura intellettualmente irrequieta, volitiva, al tempo stesso ferma e tenera, attenta e curiosa, radicata e inedita, ma, soprattutto, benevola, assegnando a questo aggettivo un valore a dir poco rivoluzionario. Possiamo congedarci con queste parole e — accorgendoci anche della difficoltà di trovare quelle che sentiamo più adeguate e di apporre, infine, il punto — lo facciamo però con la consapevolezza di non poterci congedare da lei. È questo è davvero un bene prezioso, un dono da serbare e nutrire.

Selezione di opere di bell hooks

hooks b. (1981), Ain’t I a woman?: Black women and feminism, Boston, South End Press.

hooks b. (1984), Feminist theory: from margin to center, Boston, South End Press.

bell hooks (1989), Talking back: Thinking feminist, thinking Black, Toronto, Between the Lines.

hooks b. (1994a), Outlaw Culture. Resisting Representations, New York, Routledge.

hooks b. (1994b), Teaching to transgress education as the practice of freedom, New York, Routledge. Trad. It., Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Milano, Meltemi, 2020.

hooks b. (2000a). All about love: new visions. New York: HarperCollins. Trad. It., Tutto sull’amore. Nuove visioni, Milano, Feltrinelli, 2000.

hooks b. (2000b), Feminism is for everybody: passionate politics, London, Pluto Press. Trad. It., Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, Napoli, Tamu, 2021.

hooks b. (2003), Teaching community: a pedagogy of hope, New York, Routledge.

hooks b. (2004), Selling hot pussy: representations of Black female sexuality in the cultural marketplace. In L. Richardson, V.A. Taylor e N. Whittier (a cura di), Feminist frontiers. Boston, McGraw-Hill.

hooks b. (2008), Reel to Real: Race, class and sex at the movies, New York, Routledge.

hooks b. (2012), Writing beyond race: living theory and practice, New York, Routledge.

Bibliografia

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Crenshaw K. (1989), Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, «The University of Chicago Legal Forum», vol. 140, pp. 139-167.

Davis A. (1983), Women, Race & Class, New York, Knopf Doubleday Publishing Group.

DeAnn Seifert M. (2012), Who’s Got the «Reel» Power? The Problem of Female Antagonisms in Blaxploitation Cinema, «Alphaville: Journal of Film and Screen Media», vol. 4, pp. 1-17.

De Castro M. (2020), Rete, sesso, razza. In U. Zona e M. De Castro, Edusfera. Processi di apprendimento e macchine culturali nell’era social, Lecce, Pensa Multimedia.

Eco U. (2018), Il fascismo eterno, Milano, La Nave di Teseo.

Ghebremariam Tesfau M. (2020), Aspettando Gloria. In b. hooks (2020a), Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Milano, Meltemi.

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hooks b. (2020b), Nel nome dell’altra. In b. hooks e M. Nadotti, Elogio del margine. Scrivere al buio, Napoli, Tamu.

hooks b. e Nadotti M. (2020), Elogio del margine. Scrivere al buio, Napoli, Tamu.

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Palomba G. (2021), Femminismo nero, classe lavoratrice e pensiero critico: l’imponente eredità di bell hooks, https://www.valigiablu.it/bell-hooks-femminismo/ (consultato il 14 febbraio 2022).

Sereke R. (2020), Luoghi di possibilità. In b. hooks (2020a), Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Milano, Meltemi.

Zona U., De Castro M. e Bocci F. (2021), Female Hip Hop Activist. Un incrocio intersezionale, «MeTis. Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni», vol. 11, n. 1, pp. 227-258.


1 Il presente contributo è frutto di un lavoro congiunto da parte dell’autore e dell’autrice. Ai soli fini dell’identificazione delle parti, laddove è richiesto, si precisa che sono da attribuire a Fabio Bocci la «Premessa» e il paragrafo «bell hooks: suggestioni di un pensiero militante in prospettiva inclusiva», mentre è da attribuire a Martina De Castro il paragrafo «bell hooks: stralci di una biografia militante».

2 Università degli Studi Roma Tre.

3 Università degli Studi Roma Tre.

4 Si attribuisce alla giurista e attivista afroamericana Kimberlé Crenshaw la primogenitura del termine intersezionale (Crenshaw, 1989). Naturalmente si vedano anche Sex, Race and Class di Selma James (1975) e Women, Race & Class di Angela Davis (1983).

5 Gli autori ci tengono a ringraziare, per le sollecitazioni e per il costante confronto, il Dott. Umberto Zona e il Prof. Cristiano Corsini.

6 Le leggi «Jim Crow» (la cui locuzione non è di chiara origine) sono state un corpus normativo applicato nei singoli Stati degli Stati Uniti d’America a partire dal 1877 fino al 1964. Si tratta di leggi che hanno introdotto e mantenuto, finché sono state in auge, la segregazione razziale per i neri americani e per tutti gli appartenenti a gruppi razziali non bianchi. Ne sono un esempio la separazione tra bianchi e neri nelle scuole pubbliche e sui mezzi di trasporto, così come per l’accesso ai bagni, nei ristoranti o in altri luoghi del sociale. Solo nel 1954 (per l’esattezza il 17 maggio) con la famosa sentenza della Corte Suprema nota come Brown contro Board of Education, la segregazione razziale organizzata dagli Stati nelle scuole è stata dichiarata incostituzionale. Le leggi «Jim Crow» rimanenti sono state poi progressivamente abrogate dalla legge sui diritti civili del 1964 (Civil Rights Act of 1964: CRA, Title VII, Equal Employment Opportunities) e dalla Voting Rights Act del 1965.

7 Eldrige Cleaver, citato da bell hooks in questo passo, è stato un attivista, membro del Black Panther Party. Il libro richiamato dall’autrice è stato pubblicato in Italia nel 1969 da Rizzoli con il titolo Anima in Ghiaccio.

8 https://www.berea.edu/bhc/ (consultato il 10 febbraio 2022).

9 Quentin Tarantino, nella sua capacità di rivisitare, miscelare e reinventare molti dei generi cinematografici, ha voluto omaggiare questo tipo di pellicole realizzando nel 1997 Jackie Brown che, e non a caso, ha per protagonista proprio Pam Grier.

10 Un dibattito che, naturalmente, ha visto la partecipazione attiva di bell hooks. Si veda in tal senso il documentario di Isaac Julien del 2002 Baadasssss Cinema in cui sono raccolte moltissime interviste ai/alle protagonisti/e del tempo e ad altre/i esperte/i e critici/che. Tra questi/e, oltre a bell hooks, Larry Cohen, Ron Finley, Pam Grier, Ed Guerrero, Gloria Hendry, Samuel L. Jackson, Elvis Mitchell, Afeni Shakur, Quentin Tarantino, Melvin Van Peebles, Armond White, Fred Williamson.

11 Si veda il documentario Midnight Movies: From the Margin to the Mainstream (Stuart Samuels, 2005).

Vol. 21, Issue 1, February 2022

 

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