Vol. 19, n. 4, novembre 2020

MONOGRAFIA

Medicina e Pedagogia speciale

La ricerca di un dialogo paritario

Patrizia Gaspari1

Sommario

Storicamente il rapporto dialettico esistente tra Medicina e Pedagogia speciale risulta cruciale e paradigmatico nel costante dibattito critico e nell’imprescindibile rivisitazione epistemologica della scienza dell’inclusione delle diversità. Tra cura educativa, declinata come intenzionale atto formativo e globale presa in carico di ogni persona, e cura medico-sanitaria, nell’accezione terapeutico-riabilitativa, è necessario promuovere un democratico confronto alla pari, di reciprocità interdisciplinare, evitando di cadere nel rischio della subordinazione deterministico-riduzionistica, tipica delle «arroganti», iperspecialistiche ed egemoni logiche della medicalizzazione. Si tratta di approcci disciplinari che, nelle loro necessarie contaminazioni e produttive sinergie, intendono far perseguire al soggetto con disabilità ottimali livelli di ben-essere esistenziale, soprattutto, nelle condizioni di fragilità-vulnerabilità caratterizzanti la complessità dell’umana esistenza, ancor più marcate dalla drammatica, emarginante, aggressiva sfida lanciata dall’inattesa pandemia del Covid-19. Diviene di fondamentale importanza riattivare un produttivo dialogo tra Medicina e Pedagogia speciale capace di rompere l’isolamento di una solitudine forzata dei più deboli, per ricostruire nuovi territori e sentieri di prossimità, progettando itinerari e gesti di cura rigenerativi di un nuovo umanesimo connotato da autentiche e significative relazioni socio-culturali nei principali contesti di vita.

Parole chiave

Pedagogia speciale, medicina, cura educativa, medicalizzazione, coronavirus.

MONOGRAPHY

Medicine and special pedagogy

The search for a dialogue between equals

Patrizia Gaspari2

Abstract

Historically, the dialectical relationship existing between medicine and special pedagogy has proved crucial and paradigmatic in the constant critical debate and the unavoidable new epistemological interpretation of the science of inclusion and diversity. A democratic debate on equal terms and with interdisciplinary reciprocity must be promoted between educational care, declined as an intentional educational act and the global care of every individual, and medical and health care, in its therapeutic and rehabilitative meaning. At the same time we must avoid falling into the trap of deterministic and reductionist subordination, typical of the «arrogant», hyper-specialised and dominant logics of medicalisation. We are talking about disciplinary approaches which, in their necessary contaminations and productive synergies, mean to see the individual with disabilities pursue optimal levels of existential well-being. This is especially important in conditions of fragility and vulnerability which characterise the complexity of the human existence, further pronounced by the dramatic, marginalising, aggressive challenges posed by the unexpected Covid-19 pandemic. The reactivation of a productive dialogue between medicine and special pedagogy has become of fundamental importance. One that is capable of breaking the isolation caused by the forced solitude of the weakest in society, in order to rebuild new territories and paths which encourage proximity, and to plan regenerative programmes and care actions belonging to a new kind of humanism, characterised by authentic and significant social and cultural relationships in the main life contexts.

Parole chiave

Special pedagogy, medicine, educational care, medicalisation, coronavirus.

L’esigenza di mantenere produttive e dialettiche contaminazioni

La drammatica realtà pandemica del Covid-19 ha costretto a ripensare e a rivedere le consuete abitudini di vita (Galimberti, 2020) personali e sociali in ogni ambito dell’esistenza (dal contesto economico-lavorativo, agli ambiti socio-aggregativo, ecologico-sistemico, ludico-ricreativo, turistico, ecc.) di tutte le persone, mettendo in discussione i paradigmi formativi, sia sul piano organizzativo dei processi educativi in generale, sia nello specifico campo della Pedagogia speciale, direttamente coinvolta nell’incessante e conflittuale relazione dialettica con la scienza medica. Il superamento, in primis, di natura epistemologica delle prospettive diagnostico-medicalistiche che approda in una dinamica e più flessibile concezione antropologico-sociale e educativa della diversità, produce modelli di interpretazione di nuove categorie esistenziali e formative più rispondenti e funzionali rispetto ai concreti bisogni del singolo soggetto. La nuova visione politico-culturale accoglie la persona con disabilità, riconoscendola e valorizzandola nella sua globalità, unicità e identità integrale e integrata. L’individuo, nella prospettiva evidenziata dalle più avanzate democrazie, non è certamente riducibile alle semplici, frammentate e pseudoscientifiche dimensioni anatomo-funzionali, ma va compreso e valorizzato nella complessità del suo ben-essere socio-esistenziale e nella qualità della vita, sempre più focalizzati nel raggiungimento della cultura della piena partecipazione, come massima espressione del riconoscimento del diritto alla cittadinanza, della comune appartenenza e dell’indiscutibile valore esercitato dall’inclusione scolastica e sociale. «Il dialogo tra pedagogia e sapere medico — espresso attraverso le connessioni epistemologiche e metodologiche tra le due discipline — è intrinsecamente richiamato dalla loro identità scientifica, in quanto entrambe si occupano — sia pure da punti di vista diversi — dell’uomo e delle sue modalità di essere nel mondo, tra le quali l’educazione è esperienza essenziale» (Pavone, 2016, p. 44). Le logiche iperspecialistiche predeterminate rischiano di generare dannosi processi di frammentazione e di disorientamento: l’illusione riduzionista rende impossibile l’interpretazione oggettiva e totale dell’esistenza, compresa quella dei soggetti con bisogni educativi speciali, clinicamente «letti» per difetto, piuttosto che nell’ottica antropologico-sociale, di natura emancipativa. La medicina si è contraddistinta, fin dalle origini, come «scienza-arte» che, nella sua complessità, incontra molteplici settori e ambiti della conoscenza intrattenendo, con altri linguaggi e alfabeti culturali, produttive connessioni e dialettiche di reciproco confronto. Ogni scienza, intesa come indiscutibile risorsa a servizio della comunità civile e democratica, è chiamata a creare osmotici ponti di negoziazione e di mediazione tra linguaggi disciplinari apparentemente lontani, per abbattere muri di narcisistico isolamento e costruire nuovi mondi sorretti da costruttive e sinergiche pratiche di inclusiva alleanza. La storia della dialettica sempre esistita tra Medicina e Pedagogia speciale e delle loro pratiche terapeutiche e di cura educativa è contrassegnata da sguardi differenti, punti di reciproco contatto, conflitti, distanze e vicinanze a seconda della lettura interpretativa, sicuramente complessa, che privilegiamo. Nel corso del tempo si è giunti a sostenere tenacemente il bisogno di attivare processi di complementarità dei rispettivi linguaggi disciplinari, anche se, di fatto, un dialogo paritario e rispettoso dell’autonomia epistemologica delle due scienze, si rivela evento più apparente che sostanziale. La Pedagogia speciale, nel suo essere disciplina di frontiera (Gaspari, 2012), capace di interconnettere produttivamente e sinergicamente processi di negoziazione e mediazione tra sentieri, confini (Canevaro, 2006) e linguaggi scientifici differenti, è chiamata ad accogliere, interpretare e a riconoscere la condizione di disabilità come quaestio di natura interdisciplinare (Crispiani, 2016; Zurru, 2017) per favorire autentici percorsi inclusivi ed emancipativi di ogni persona. Compito dei docenti e degli educatori è di promuovere una politica e una cultura inclusive capaci di superare stereotipi, pregiudizi e degeneri processi di categorizzazione e stigmatizzazione delle diversità tutte, oltrepassando i limiti imposti dall’utilizzazione quasi esclusiva dello sguardo clinico-diagnostico e terapeutico (Goussot, 2015). La separazione tra Medicina e Pedagogia speciale ha significato e tuttora significa che i due diversi linguaggi di riflessione e di azione non comunicano in modo convincente ed efficace. Sarebbe auspicabile seguire una nuova direzione di senso individuando nel conflitto interpretativo un’effettiva occasione-risorsa per promuovere una dialettica realmente costruttiva. «Si delinea la natura sistemica dello statuto epistemologico della Pedagogia speciale, in cui la riflessione teoretica interagisce con i contesti in modo complesso, utilizzando una pluralità di modelli, delineando processi e relazioni, regole scritte e non scritte, vincoli e possibilità nella direzione dell’educazione speciale fondata sulla relazione di cura e di aiuto» (Gaspari, 2016, p. 423; Mura, Rodrigues de Freitas, Zurru e Tatulli, 2019; Palmieri, 2014). La Pedagogia speciale non può non trovare efficaci risposte nei confronti degli impellenti interrogativi posti dal variegato panorama delle diversità, mantenendo la propria autonomia nel confronto dialettico con le altre scienze: i bisogni educativi di ogni persona vanno «letti» utilizzando una pluralità di quadri interpretativi connotati dal dinamismo e dalla evolutività delle conoscenze e delle competenze, sia in ambito scolastico che sociale, superando i rischi di una concezione meccanicistico-deterministica della Pedagogia speciale stessa e dei suoi prioritari oggetti d’indagine e di ricerca.

Le standardizzanti logiche riduzionistiche di natura medicalistica e psicologistica che tentano di «risolvere» banalizzando il paradigma della complessità e della diversità e la sua valenza in ambito educativo, generano frequenti fenomeni di frammentazione e disorientamento nel più vasto orizzonte formativo […]. La persona con deficit o con BES non va etichettata nella categoria della anormalità, ma considerata come sistema vivente che ha modificato le sue capacità adattive […] nei differenti contesti di vita (Gaspari, 2016, p. 424).

La Pedagogia speciale declinata verso l’inclusive education non può non focalizzare un costante sguardo pedagogico e educativo attento a individuare nuovi territori di conoscenza, sentieri e confini che, in relazioni dialettiche di complementarità, la potenzino, offrendole nuove direzioni di senso, eliminando o riducendo degeneri sbilanciamenti verso logiche classificatorio-standardizzanti, sostanzialmente disumanizzanti. La tendenza a frammentare le personali esperienze formative, rendendole facilmente misurabili ed etichettabili, si rivela operazione pericolosa, perché privilegia l’agire strumentale sull’agire comunicativo. La relazione educativa, invece, si fonda, come afferma Habermas (2017; 2013), sull’agire comunicativo, ovvero sul criterio del reciproco riconoscimento. Mai come oggi, nell’insecuritas del tempo provocata dal Covid-19, si evince la fragilità e la limitatezza dell’approccio medicalistico-riduzionista che restringe il campo teorico-operativo dell’agire medico alla linearità esistente tra diagnosi-terapia-guarigione, senza prendere nella debita considerazione l’importanza della cura educativa (Gaspari, 2002; Palmieri, 2018a; Fadda, 2018; Mortari, 2015; 2019a) della persona, che non può essere avulsa dall’evolutività trasformativa caratterizzante le umane relazioni. Contro la parcellizzazione e la settorializzazione dei saperi disciplinari e delle competenze chiamate in causa per accogliere la sfida dell’inclusione delle persone con bisogni educativi speciali, è necessario compiere una radicale trasformazione degli itinerari formativi utilizzando paradigmi interpretativi pluralistici, dinamici ed evolutivi, a salvaguardia di una lettura squisitamente pedagogico-didattica dei soggetti con bisogni educativi speciali, disabili compresi, mai unilateralmente focalizzata su approcci meccanicistico-riduzionistici strettamente collegati alle derive dell’iperspecialismo. I linguaggi disciplinari tradizionalmente dominanti, come quelli della medicina e della psicologia, hanno svolto un ruolo «intrusivo» nei confronti del riconoscimento delle «nuove» diversità finendo nel cadere nell’errore di classificare, chiudere in tipologie emarginanti le diversità stesse. Non si tratta di «riparare e curare», ma di rifondare l’intervento educativo in termini di progettualità e autonomia, per non ricadere in soluzioni didattiche preconfezionate, modulistico-standardizzate, parziali rispetto alla complessità della persona. «Parlare di diagnosi e di certificazione, significa adottare uno sguardo clinico, medicalistico e psicologistico anche dove non ce n’è bisogno, perché lo statuto epistemologico delle scienze dell’educazione, compreso quello della Pedagogia speciale, non è orientato a stabilire limiti e categorie delle differenze, delle diversità e dei personali bisogni, ma è declinato all’inclusione, all’interazione interpersonale, all’accoglienza, alla valorizzazione di potenzialità e risorse» (Gaspari, 2014, p. 42). Secondo M.A. Galanti i rischi sottesi all’acritica adesione a illusorie seduzioni specialistico-tecnicistiche sono ancora presenti nell’ambito di ricerche e di modelli normativi, persino attuali: «i modelli, anche scientifici, che ci vengono proposti, coniugano la specializzazione, lo specialismo inteso come mero approfondimento del frammento, con la separazione dall’insieme e dalle altre discipline. È in questo caso sottointesa l’idea che si è tanto più scientifici quanto più ci si occupa di un frammento piccolissimo della realtà» (Galanti, 2012, p. 191), dimenticando che la diversità implica l’adesione a un approccio interpretativo antropologico-sociale e educativo, di natura ecologico-sistemica e olistico-dinamica. Si rivela ancora forte la prospettiva di collegare l’interpretazione della disabilità alle logiche delle certificazioni mediche e clinico-diagnostiche (DLgs 66/2017), non valorizzando la presa in carico dei bisogni formativi ed esistenziali di ogni alunno inteso come entità complessa, integrale e integrata. La «rivoluzione» etico-culturale del tradizionale modo di intendere la Medicina come scienza asettica, rigorosamente e tecnicamente predeterminata, conduce alle più recenti interpretazioni della scienza medica (Mortari e Zannini, 2017) maggiormente centrata sull’individuo e sulle concrete possibilità di accogliere la sua narrazione-storia (Gaspari, 2008; Gaspari, 2011; Salis, 2016; Demetrio, 2012): la persona non va riduttivamente valutata in sintomi, evidenze e anomalie, ma va compresa nella globalità delle dimensioni esistenziali, perché non si può «curare» qualcuno senza sapere chi è e, soprattutto, senza aver cura della ridefinizione del personale Progetto di vita. Ogni persona va riconosciuta nell’unicità della originale soggettività «letta» non solo esclusivamente come paziente da curare, ma come capacità di ricomporre l’esistenza, assumendo importanti decisioni, cambiando abitudini, conoscenze e stili di vita.

Risulta prioritario individuare gli elementi concettuali di un dialogo che permetta di riequilibrare gli sbilanciamenti culturali e di potere nella relazione fra discipline scientifiche, così come tra i professionisti della cura; relazione che, in una dinamica di piena integrazione, pur rispettosa dei ruoli e delle specificità, non scinde le azioni di cure da quelle di care. […] Se la disabilità non può essere ridotta alla mera menomazione fisio-patologica e nemmeno a una questione di mancato riconoscimento di diritti, le azioni di cura e di supporto nei confronti della persona disabile devono poter essere orientate all’emancipazione dell’individuo, focalizzando l’attenzione sullo sviluppo identitario del soggetto. La valutazione degli aspetti e dei fattori che connotano la dimensione esperienziale del singolo diventa significativa per la costruzione di contesti autenticamente inclusivi nell’ambito dei processi di cura e accompagnamento della persona, di quelli educativi, come di quelli sanitari (Mura e Zurru, 2018, pp. 18-19; Mura e Polato, 2019).

Le professioni di aiuto rivelano la loro identità aperta, complessa, «plurale», che si legittima nelle logiche di contaminazione, nel pluralismo delle conoscenze, nel riconoscimento del valore delle storie individuali e collettive che hanno contraddistinto il difficile cammino verso le attuali prospettive inclusive. In tal senso, si coglie pienamente il significativo contributo offerto dall’approccio narrativo-autobiografico inteso come linguaggio di mediazione e di negoziazione di conoscenze, alfabeti e ambiti disciplinari differenti, chiamati a costruire un fertile terreno di dialogo e di incontro per raggiungere il fondamentale traguardo dell’inclusione scolastica e sociale. La narrazione è cura educativa del soggetto con disabilità nel contesto e attiva luoghi, tempi e risorse interdisciplinari in grado di riconoscere la ricchezza delle persone, tutte, riattivando significative trasformazioni delle condizioni esistenziali del diversamente abile, sorrette da consapevole autodeterminazione e autentico e resiliente spirito partecipativo: «la narrazione è esercizio di cura molto impegnativo all’interno di relazioni in costante evoluzione finalizzata alla co-costruzione di un progetto educativo che oltrepassi i limiti del terapeutico per farsi autenticamente umano, formativo ed esistenziale» (Gaspari, 2017, p. 154). Ne deriva l’esigenza di rivisitare e valutare le competenze professionali, per estendere la relazione comunicativa dal didattico verso l’educativo, dal monodisciplinare al trasversale, dallo specifico individuale alla progettualità collegiale, dall’iperspecialismo riduzionistico, allo sguardo ecosistemico, pluridimensionale, evolutivo e prospettico. La stessa rivendicazione dell’autonomia epistemologica della Pedagogia speciale rispetto alla Medicina implica il bisogno di rileggere le professionalità e le competenze nella direzione delle categorie dell’aiuto e della cura educativa, necessarie a diversi livelli istituzionali e in differenti luoghi formativi, per affrontare con flessibilità metodologico-didattica, rigore scientifico e creatività progettuale la prospettiva dell’inclusione del diversamente abile. L’illusione riduzionista porta con sé l’impossibilità di una misurazione oggettiva dell’esistenza e dell’esistente mediante il tentativo di semplificazione della complessità stessa, in modo da rendere giustizia al rispetto dell’ipotetica, utopistica scientificità dell’interpretazione dei fatti e delle umane vicende. La tendenza a frammentare le personali esperienze formative, rendendole facilmente misurabili ed etichettabili, se «lette» con lenti miopi, in modo sbilanciato, mediante abuso di linguaggi disciplinari, come quello medico e psicologico, si rivela pericolosa, in quanto rischia di espropriare l’identità-storia della persona con disabilità dalla cura sui (Mortari, 2017; 2019b; Mortari e Saiani, 2013). «Da sempre considero l’esistenza della persona del paziente come un romanzo. Compito del terapeuta non è dirigere, interpretare, spiegare, chiarire. Ma ascoltare, leggere, comprendere. Offrire dubbi, non certezze. Aiutare l’altro a impugnare da solo la penna. Fornirgli la carta e l’inchiostro, per scriversi. Per provare a vivere un po› meglio. Ognuno è letteratura. Ognuno è il proprio racconto. Everybody is own Tale» (Mazzacurati, 2018, p. 372). Il linguaggio scientifico della medicina ufficiale tende a separare soggetto da oggetto, riducendo l’altro, il diverso a elemento di analisi quantitativa, a mera evidenza empirica (Cottini, 2015; Mitchell, 2018) che, in qualche modo, lo spersonalizza non comprendendolo mai completamente. Salute e malattia sono denominazioni dialetticamente correlate, da intendersi dinamicamente, ben oltre le tradizionali categorizzazioni scientifiche: quel che conta è la persona, il suo particolare modo di «essere nel mondo». Mentre il linguaggio clinico, gli approcci medicalistico-terapeutici finiscono per isolare la malattia, il deficit, per poterlo attaccare terapeuticamente, lo sguardo antropologico-sociale e educativo indaga lo svolgersi delle categorie spazio-temporali della vita della persona con disabilità, valorizzando la storia del soggetto, al fine di ridurre lo stato di disagio e di handicap mediante la ricostruzione di un innovativo Progetto di vita. I professionisti della cura educativa e dell’aiuto non sono operatori socio-sanitari a caccia di anomalie e disfunzionalità, ma rappresentano agenti facilitatori e mediatori di logiche di rete dialetticamente individuate e promosse: «lo sguardo pedagogico deve rilevare le potenzialità, senza ignorare le difficoltà e i problemi, e non andare a caccia di sintomi e disturbi» (Goussot, 2014, p. 162). Per superare l’impasse delle logiche medicalistiche è indispensabile recuperare quello sguardo educativo, antropologico-sociale e culturale inclusivo, in grado di riconoscere pienamente i diritti di cittadinanza, di appartenenza e partecipazione socio-culturale delle diversità. Il soggetto con «bisogni educativi speciali» non è interpretabile utilizzando acronimi e vocaboli stigmatizzanti che finiscono per spostare l’attenzione sulla staticità del deficit, piuttosto che sulle potenzialità/capacità della persona con disabilità, interrogata nelle quotidiane situazioni di vita in cui sono presenti agenti facilitanti, ostacoli/barriere e risorse.

Medicina e cura educativa nell’emergenza del Covid-19

Sta emergendo con evidenza, nel tempo del Coronavirus, che il nodo cruciale dell’esistenza non può più essere la sola presenza di infrastrutture tecnologiche nella scuola, ma la qualità dell’interrelazione all’interno della società: le tecnologie vanno intese come mezzo (e non fine) e la scuola deve rivedere il ruolo assegnatogli per riconoscere tutti gli esseri umani come cittadini attivi, nel rispetto della vasta gamma di differenze e diversità. La competenza digitale in sé, svuotata dai contenuti e dalla consapevolezza critica, non dice nulla, anche quando è necessaria. Nessun contenuto culturale può essere considerato elemento neutrale perché veicolato da un computer o trasferito in una piattaforma. La relazione va considerata come imprescindibile luogo e strumento di cura e di umana emancipazione per tutti noi. È linguaggio di vita autentica (Glasziou, Moynihan, Richards e Godlee, 2013), ossigeno per la mente e per il cuore, crescita illimitata di possibilità e speranza. La condivisone, sorretta dalle logiche di aiuto e dalla dialettica danza della reciprocità è il must del nostro auspicabile futuro. La didattica a distanza nell’emergenza è stata di fondamentale aiuto, anche se non può sostituire l’indiscusso valore del confronto socializzato delle conoscenze e degli apprendimenti significativi costruiti nell’ottica della relazione e nella comune crescita di apprendimenti individuali e collettivi. Il rientro a scuola è un momento certamente complesso e difficile, caratterizzato da tante incognite (Doninelli, 2020; Corsi, 2020) a causa delle procedure di distanziamento da seguire che richiedono costanti operazioni di adattamento dell’assetto strutturale e didattico-organizzativo del contesto scuola per garantire il raggiungimento di essenziali obiettivi formativi e l’acquisizione di conoscenze e competenze disciplinari, anche di natura trasversale. La riapertura in sicurezza implica l’adozione di un nuovo, produttivo approccio strutturale in grado di assicurare la crescita delle giovani generazioni costruendo un innovativo modello di scuola caratterizzato da una didattica più dinamica, flessibile, creativa e cooperativa, declinata in prospettiva interdisciplinare. «Se il virus Sars-Cov-2, come tutti i virus ha una sua forma di intelligenza nel suo cercare di adattarsi e di sopravvivere nel sistema biologico cui chiede (pretende) di essere ospitato, noi abbiamo un’arma in più (che lui non ha), mediante la quale aumentiamo le possibilità di batterlo: l’immaginazione» (Bocci, 2020) che ci permette di tutelare gli imprescindibili diritti di ogni alunno alla salute e all’istruzione-formazione, garantendo il rispetto dell’uguaglianza di opportunità educativo-formative soprattutto nei confronti degli alunni con «bisogni educativi speciali», affinché le differenze non si trasformino in disuguaglianze. «Il virus colpisce i nostri servizi e le nostre organizzazioni almeno tre volte: individualmente, aggredendo il nostro corpo e la nostra salute; socialmente, obbligandoci all’isolamento, a separarci e a isolarci; strutturalmente, aggredendo le nostre progettazioni inclusive che orientano i servizi a promuovere il benessere e la qualità della vita» (Bollani, 2020). La Pedagogia speciale è storicamente disciplina sensibile e attenta alle emergenze educative e a reperire modalità e risorse finalizzate a trasformare le situazioni di marginalità e di esclusione in occasioni di crescita comune e condivisa. La crisi che stiamo vivendo manifesta una natura sempre più sistemica, in quanto investe dimensioni e aspetti, come quelli socio-sanitari, politico-amministrativi, economico-culturali, educativo-formativi, complementari e interdipendenti: convivenza, salute, istruzione, cittadinanza, piena partecipazione alle principali dimensioni della società civile e democratica implicano la promozione di politiche di convergenza, connotate da buone pratiche inclusivo-collaborative. La categoria che meglio definisce l’epoca attuale è il rischio che caratterizza l’unicità e la significatività della vita stessa, in quanto è al centro dell’esistenza di ogni persona. Nel delineato orizzonte della comunità dell’incertezza del vivere quotidiano è necessario attivare, in modo più responsabile e forte, culture, politiche e buone prassi incentrate sull’investimento-potenziamento di processi inclusivi altamente collaborativi e cooperativi: una volta usciti dall’emergenza sarà necessario riconnettere tra loro tutto ciò che si è frammentato e disgregato, tessendo nuove reti di sostegno e di aiuto in grado di permettere, soprattutto ai soggetti con disabilità, di rivivere il senso più autentico del partecipare in spazi e tempi comunemente condivisi e declinati sotto il segno dell’appartenenza. La «speciale» richiesta del momento, legata alle logiche d’emergenza, contiene rischi spesso elevati di settorialismo e di arido tecnicismo, se all’interno del contesto sociale e culturale d’appartenenza non è presente una stabile e ben distribuita rete di funzionali sostegni e aiuti (Canevaro e Chieregatti, 2003; Covelli, 2015). L’improvvisa, inquietante, sfida lanciata dal coronavirus (Gobber, 2020; Saraceno 2020) rappresenta un surplus di svantaggio che si aggiunge alla precarietà tipica della presa in carico delle persone con «bisogni educativi speciali» nell’attuale scenario storico-sociale e culturale. È evidente che i soggetti in condizione di disabilità, marginalità, disagio, isolamento, ecc., si trovano a vivere la pesantezza di una situazione ancor più sofferta ed emarginante, visto il loro oggettivo status limitante di salute e di scarsa autonomia nelle prioritarie e quotidiane attività personali. La condizione di isolamento causata dalle necessarie chiusure dei principali spazi e luoghi di vita (assembramenti sociali, fruizione di servizi di accoglienza, centri socio-ricreativi, luoghi aggregativi, scuole e risorse del territorio) ha generato limiti di contatto fisico-corporeo ma, soprattutto, ha ristretto le dimensioni di prossimità e vicinanza relazionali con gli altri esseri umani, che solitamente dovrebbero rappresentare la linfa vitale della qualità dell’esistenza, basata sull’ascolto, sulla reciprocità, sulla cooperazione, sulla condivisione delle esperienze formative. Ne emerge il bisogno di assumere una nuova responsabilità etico-educativa e didattica che induce a non distrarre l’attenzione rispetto alle ineludibili questioni della salute, dell’educazione, dell’istruzione e del più vasto campo della formazione stessa. «[…] le contingenze economiche (per altro dettate da una visione abilista, competitiva e individualistica della società) non possono, non debbono e non dovranno più avere un impatto drammatico sul diritto di ciascuno e di tutti ad essere educato/i, istruito/i, formato/i e di avere accesso gratuito alla sanità […] l’educazione, l’istruzione, la formazione e la sanità per essere di qualità e garantire il massimo del benessere esistenziale a/di tutti e a/di ciascuno devono tornare a occupare le prime pagine delle agende dei decisori politici» (Bocci, Caldin e d’Alonzo, 2020, p. 9). La Pedagogia speciale, nell’attuale scenario socio-culturale, va ancor più legittimata come scienza della cura educativa e della relazione di aiuto delle persone con disabilità e con bisogni educativi speciali, disagi, devianze, umane fragilità e svantaggi di molteplice natura. Le competenze pedagogico-didattiche declinate in prospettiva inclusiva devono permettere ai professionisti della cura e dell’aiuto di trovare il giusto equilibrio tra elementi apparentemente dicotomici, o di difficile armonizzazione, per evitare il rischio di cadere nel settorialismo, nello specialismo, nel didattismo, nell’organizzazione enciclopedica, nella dannosa azione di parcellizzazione degli interventi e delle competenze. E ciò, al fine di promuovere, senza riduzionismi e tecnicismi, la globalità della persona con disabilità, predisponendo relazioni di aiuto e di cura educativa autentiche, non intrusive, caratterizzate dal desiderio di emancipare l’altro, per favorirne i personali processi di autonomia, sotto il segno della gratuità e della continuità delle esperienze formative. I professionisti della cura e dell’aiuto intervengono nelle situazioni di emergenza (Nuti, 2019; Palmieri, 2018b; 2018c) educativo-formativa lavorando con flessibilità e polivalenza, frequentemente sotto il segno della necessità e dell’urgenza, destreggiandosi tra le seducenti attrattive dello specialismo tecnicistico e il più ampio respiro della mission educativa che recupera le valenze formative del cambiamento da garantire alle persone più deboli, progettando con e per loro l’esistenza di possibili e ulteriori «campi d’esperienza» (Bertolini e Caronia, 2015) di umano riscatto e resilienza nella drammatica situazione di vita contrassegnata dalla pandemia del Covid-19. L’emergenza, che stiamo toccando con mano, richiede la costante ridefinizione delle consuete abitudini e degli stili di vita all’interno dei micro e macro contesti sociali e culturali, economici, lavorativi, caratterizzati da logiche di civile e democratica convivenza: l’«altro», pur necessario per la crescita dell’intera collettività, è, allo stesso tempo, risorsa imprescindibile e fonte di rischio, «problema» e unica possibile soluzione. La cooperazione, le logiche di rete, la condivisione di decisioni, comportamenti, buone pratiche di cura e di aiuto, non possono realizzarsi nelle soggettive e, spesso, irresponsabili nicchie autoreferenziali di storie di vita e di resilienza individuali, in quanto la delicata situazione richiede la distribuzione del peso di atti responsabili che investono ogni singolo individuo chiamandolo a cooperare per prevenire/arginare i rischi del contagio con competenza e desiderio ri-costruire nuove organizzazioni e progettazioni di vita, intese come capacità di agire per il bene comune e condiviso. Ciò è possibile ricercando una nuova visione di se stessi nel mondo con l’altro e per l’altro, specie se in condizioni di estrema fragilità (Canevaro, 2015; Borgna, 2014), limitando i danni provocati dall’enfasi dell’imperante specialismo e dalla rassicurante esigenza di ricorrere a specifiche classificazioni e a soluzioni tecnico-specialistiche, spesso così pressanti, quando si interroga il vissuto della persona con disabilità. Si tratta di mobilitare e potenziare risorse ed energie educativo-formative capaci di leggere la complessa realtà, superando l’eterno dilemma esistente tra educativo e assistenziale, tra cura e terapia. Difficile, in questi tempi di pandemia, non riconoscere il fondamentale ruolo svolto dalle scienze mediche e dagli esperti socio-sanitari, che operano con competenza, estremo impegno, offrendo un imprescindibile contributo per salvare vite, che tuttavia, dovrebbe avere lo stesso valore indipendentemente dallo status, dall’età, dalla razza, dalle condizioni di disabilità di parte della popolazione che, purtroppo, nell’emergenza, ha rischiato, ingiustamente, di essere considerata come figlia di un Dio minore. È necessario, difendere gli imprescindibili diritti delle persone diversamente abili, agendo, al tempo stesso, dentro e contro il sistema sociale che

discrimina, emargina, disabilita chi è più esposto e vulnerabile: occorre recuperare l’idea che l’essere umano nella sua originalità è imprevedibile, e che questo è un valore assoluto. Occorre superare il concetto-disvalore dell’individuo come esito della sua misurazione e andare oltre i confini imposti da qualsiasi standard valutativo che categorizza e predice: quello della diagnosi, quello del voto, quello delle tante, troppe agenzie preposte a quantificare (con la scuola di qualificare) (Bocci, 2019, p. 31),

etichettare, discriminare ciò che non è assolutamente facile da testare, monitorare, oggettivare. Non si tratta di assumere una visione dicotomica e di totale rifiuto delle prospettive di sanitarizzazione-medicalizzazione (Meirieu, 2013; Goussot, 2015; Guerini, 2019), ma di cogliere il senso più profondo della natura dell’intervento educativo che non può esimersi dall’oltrepassare i limiti oggettivi di una valutazione diagnostica terapeutico-stigmatizzante della fragilità-vulnerabilità (Galanti, 2007) della persona «diversa». Il rischio consiste nel possibile smarrimento dell’autonoma identità pedagogico-didattica della Pedagogia speciale, da sempre impegnata a mettere in campo idonee competenze progettuali finalizzate alla necessaria rivisitazione del personale Progetto di vita del soggetto con disabilità e in situazioni di esclusione, marginalità socio-culturale, nell’attuale periodo di estrema emergenza provocata dal Covid-19. L’attenta analisi del complesso concetto di «bisogno educativo speciale» presuppone l’utilizzazione di un quadro pluralistico di comprensione delle categorie di differenza e diversità e l’adozione di paradigmi interdisciplinari delle conoscenze implicanti l’apertura al dialogo e al confronto tra le scienze umane e le scienze mediche, all’interno del quale la Pedagogia e la Didattica speciali, declinate in ottica inclusiva, sono tenute a garantire efficaci risposte educativo-didattiche. La stretta interdipendenza esistente tra Medicina e Pedagogia speciale (Besio e Caldin, 2019) non deve prefiggersi l’obiettivo di individuare meccanicistiche e riduzionistiche soluzioni più o meno predefinite, ma deve condurre alla valorizzazione dello sguardo educativo che tenga nella debita considerazione il ruolo esercitato dagli approcci fenomenologico-ermeneutico, ecologico-sistemico e umanistico-esistenziale. «Il dialogo tra Pedagogia Speciale e Medicina si dipana su terreni plurimi, ma oggi esso si configura come sempre più improcrastinabile anche all’interno dei contesti educativi, scolastici e di cura nella costante e durevole direzione della comprensione olistica delle persone che presentano qualsiasi forma di disabilità, disagio, oppure bisogno. Tutto questo attraverso sguardi interroganti carichi di umanità da parte di entrambe le discipline, affinché i bisogni individuali siano compresi e affrontati in modo sistemico e condiviso, evitando il rischio di promuovere interrelazioni dialettiche sbilanciate o processi di impoverimento epistemologico» (Bianquin e Cinotti, 2020). Diviene di fondamentale importanza, pur mantenendo l’autonomia epistemologica necessaria a ridurre pericolosi fenomeni di subordinazione di una disciplina rispetto all’altra, ricercare pertinenze e significative alleanze tra sapere medico e pedagogico-didattico speciale in quanto, entrambe le scienze, pur con le loro specificità, si prendono cura della persona in condizioni di disabilità, per valorizzarne potenzialità e risorse promuovendo un approccio integrato volto alla riprogettazione delle esistenze più vulnerabili.

Se il termine «cura» ha un legame etimologico con la parola «mano» (cheir), allora la buona pratica di cura non può nutrirsi soltanto di una tecnica impersonale incapace di vedere nel paziente altro che un corpo-oggetto da curare, bensì di una disponibilità a entrare «in contatto» (dal lat. cum tangere, toccarsi) con un corpo-esistenza, fatto di intenzionalità, progetti, aspettative, desideri, sentimenti di cui prendersi cura (Bruzzone, 2007, p. 149).

Il paradigma scientifico «forte» della clinica lascia spazio a un sapere «debole» non fondato sull’universale, ma orientato alla comprensione dell’umana singolarità, all’ermeneutica della storia di ogni soggetto che vive in prima persona l’esperienza irripetibile del prendersi cura di sé nel mondo. La relazione esistente tra il professionista della cura e dell’aiuto e la persona in difficoltà non può evolversi nella direzione di un rapporto contrattualistico, basato sulla logica della prestazione, seguendo i principi economici e funzionalistici dello scambio consumistico, perché il soggetto con «bisogni educativi speciali» non è oggetto neutrale e passivo, ma va riconosciuto come attivo protagonista della sua storia e del suo ri-prendersi cura di sé nel mondo.

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1 Professore ordinario di Pedagogia speciale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Urbino.

2 Università degli studi di Urbino.

Vol. 19, Issue 4, November 2020

 

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