Vol. 19, n. 4, novembre 2020

CANTIERE APERTO

Le ragioni invalicabili?

Vincenzo Biancalana1

Sommario

Quali sono le ragioni che ci pongono ancora in una posizione di diffidenza nei confronti della disabilità? E quali le difese che si offrono a sua giustificazione? In questo contributo si riportano commenti e riflessioni scaturite a seguito di un’indagine conoscitiva condotta su mille studenti universitari ai quali l’argomento disabilità dichiaratamente «non piace». Luoghi comuni, preconcetti e altre ingenue motivazioni vengono, così, apertamente in superficie e addotte quali motivi di una spesso inconsapevole ritrosia.

Parole chiave

Studenti, indagine, disabilità, preconcetto.

OPEN PROJECT

The impassable reasons?

Vincenzo Biancalana2

Abstract

Which are the reasons that still put us in a position of mistrust towards disability? And which, the defences that are offered to his justification? In this contribution are reported comments and reflections from a cognitive survey conducted on a thousand university students to whom don’t like the topic of disability admittedly. Common places, preconceptions and other ingenuous motivations come to the surface, so openly, and adduced as reasons for an often unconscious reluctance.

Keywords

Students, investigation, disability, preconception.

L’indagine

In un lavoro in corso di pubblicazione si è riportato l’esito di un’indagine conoscitiva condotta su 1000 studenti universitari all’inizio di un corso di studio inerente alle attività motorie adattate: si è chiesto loro in quanti, tra cinque seminari proposti, avrebbero scelto di seguire quello relativo al mondo della disabilità.

Il risultato si è attestato, mediamente, intorno al 2-3%, cioè neanche 30 studenti su mille! Ora, se si considera che la platea a cui ci si è rivolti era composta da giovani provenienti da, pressoché, tutte le regioni d’Italia, non è azzardato affermare che ai nostri giovani la «questione» disabilità non interessa. Qualsiasi altro argomento è preferibile ad essa.

È interessante comparare questo dato a un altro prodotto alcuni anni addietro dal Censis (2010), relativo all’approccio emotivo della popolazione italiana di fronte a un disabile. Da tale rapporto si evince che il 66% degli intervistati ritiene che le persone con disabilità intellettiva siano accettate socialmente solo a parole, ma che nella realtà dei fatti si tratti, invece, di persone spesso emarginate.

Nei fatti sembrerebbe che la situazione non sia affatto migliorata!

Questi dati sconcertanti non sono da sottovalutare e impongono riflessioni e domande alle quali tenteremo di dare una risposta. Prima fra tutte: perché? Perché la disabilità è vista come una cosa lontana dalla quale rifuggire? Nel tentativo di un’ulteriore conferma, agli stessi studenti è stato poi chiesto in quanti avrebbero avuto interesse a partecipare a un seminario circa la rieducazione funzionale post-trauma. Risposta: oltre l’80%! È vero che il corso non aveva come tema specifico la disabilità ed era rivolto a chi ha scelto un corso sull’attività motoria. Ma in una prospettiva inclusiva, di fronte a un dato così bizzarro ci siamo chiesti che differenza passasse, nella loro testa, tra la prospettiva di un intervento professionale su un soggetto con disabilità acquisita stabilmente e un altro su un soggetto con disabilità evolutiva transitoria, dal momento che la rieducazione funzionale è da intendersi come elemento integrabile nella quotidianità.

Parole

A seguito dell’indagine si è aperto con gli studenti un confronto molto interessante che merita una testimonianza concreta, giacché da esso sono emerse complesse considerazioni e l’inequivocabile convinzione che sia la stessa parola «disabilità», laddove adottata, a erigere automaticamente un muro invalicabile. Tenteremo di inquadrarle e giustificarle in un ventaglio di almeno cinque plausibili ragioni: il preconcetto; l’ignoranza; la pre-frustrazione verso il compito; la delega paradossa (Canevaro) e il tempo.

Il preconcetto

Erving Goffman (1969) è l’autore di uno studio ormai classico, e forse per questo non più letto. Il suo studio, il cui titolo italiano è La vita quotidiana come rappresentazione, utilizza la prospettiva della rappresentazione teatrale, derivandone principi di tipo drammaturgico. Ad esempio, la drammatizzazione del proprio lavoro è più facile per chi, lavorando in ospedale nel reparto di chirurgia, può avere sul camice qualche traccia del suo lavoro, cosa improbabile per chi lavora nel reparto di medicina dello stesso ospedale. La rappresentazione che gli altri hanno di noi è un elemento importante per la nostra rappresentazione di noi stessi e del mondo. L’immagine sociale che vogliamo assumere è accompagnata da attese, pretese, e, quasi inevitabilmente, da stereotipi e pregiudizi. Il preconcetto è un sostantivo e aggettivo qualificativo. In quanto sostantivo il termine esprime «l’opinione che, non essendo sostenuta dall’esperienza, può costituire un serio ostacolo alla formulazione di un giudizio appropriato», mentre come aggettivo rispecchia «una presa di posizione eccessivamente affrettata e spesso priva di qualsiasi fondamento».

«Lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende» (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006, p. 3).

Il discorso in questione, quindi, concerne un’idea che si concepisce a priori. Prima che di quell’idea o argomento ci sia stata da parte dell’individuo una conoscenza diretta. È, come detto, un giudizio non obbiettivo, avventato, che abbiamo elaborato su un’immagine, una persona, un Paese, un’etnia e/o su qualsiasi altra cosa, magari semplicemente per un generico «sentito dire».3 Pur nella sua semplicità di enunciazione il preconcetto, che quando viene associato a uno stato emozionale induce a guardare gli altri in un certo modo e sfocia in pregiudizio, ha un peso specifico impressionante e una ricaduta nei rapporti sociali e educativi, altrettanto significativa. È da ciò di cui si parla che è sorto il razzismo, tanto per dirne una, e il suo significato apparirà ulteriormente chiaro facendo riferimento al concetto contrario, quello di «libertà».

Conosciamo il preconcetto anche sotto un’altra forma espositiva: l’effetto Pigmalione noto, altresì, con il nome di profezia autoavverante o effetto Rosenthal (Rosenthal e Jacobson, 1968), quale fenomeno di una forma di condizionamento psicologico per cui le persone tendono a conformarsi all’immagine che altri individui hanno di loro, sia essa un’immagine positiva che negativa. Ed è proprio in tale prospettiva che dobbiamo considerare le conseguenze che possono derivarne. Se preconcettualmente si pensa, infatti, di avere a che fare con soggetti di serie B, le aspettative nei loro confronti saranno minori, come minore sarà l’impegno profuso per il loro successo formativo. Ma, a loro volta, anch’essi saranno indotti a pensarsi come soggetti dai quali è lecito attendersi risultati di scarso rilievo.

Siamo immersi in una storia che ha connotati marcati dai pregiudizi nei confronti del comportamento sessuale che non sia conforme all’impostazione ritenuta standard. Il maschilismo domina.

Come afferma Canevaro (2006), in questa accezione l’identità del disabile viene intesa come assoluta, cioè unicamente legata alla categoria determinata dal deficit. È il pregiudizio. Che cova negli insegnanti, nei bidelli, nei compagni… e costringe il disabile a sopportare e supportare oltre la propria disabilità, anche quella che gli è aggiunta e vomitata addosso dal pregiudizio.

È chiaro, a questo punto, che pregiudizio ed effetto pigmalione sono in stretto rapporto. Se io insegnante, educatore o istruttore che sia, parto con la pregiudiziale che una persona ha qualcosa in meno rispetto agli altri, se la considero per le sue mancanze e non per ciò che possiede, quella persona ha già perso gran parte della sua battaglia.

Purtroppo, il pregiudizio è difficile da combattere. Anche perché non esiste solo quello che origina da luoghi comuni e ignoranza; ne esiste un altro che scaturisce da noi stessi e che, inconsciamente, ci porta a costruire un’immagine degli altri e a giudicarli in base a descrittori del tutto personali e difficili da contraddire. Ognuno di noi si fa «un’idea» del prossimo affidandosi a interpretazioni di segnali che potrebbero essere portatori di significati anche molto diversi da come noi li abbiamo intesi. Ci lasciamo, cioè, influenzare dal modo di vestire, di parlare, di tacere, di muoversi di qualcuno al punto da costruirci una idea di lui che non sempre è quella reale. E il punto sostanzialmente pericoloso è che tale convinzione è difficile da demolire, poiché ognuno di noi raramente è disposto a contraddire se stesso e le proprie convinzioni; anzi, laddove la realtà dei fatti tende a negarle, faremo in modo che esse siano comunque confermate, e per farlo non indugeremo a ricorrere a espedienti artificiosamente costruiti.

La presenza di una disabilità è una condizione che spesso induce a pregiudizi negativi circa la potenzialità di un risultato in senso lato e, soprattutto, di un lavoro complesso e poco soddisfacente. E tornando all’iniziale domanda, circa la difficile accettazione di un impegno professionale rivolto alla disabilità espressa dai nostri studenti, questa potrebbe essere la prima ragione della loro ritrosia.

L’ignoranza

La seconda, invece, è ascrivibile all’ignoranza. Sono ancora poche, invero, le persone che realmente conoscono confini e reali specificità della disabilità, anche se la incontrano molte volte nella loro stessa famiglia. Pensano che debba essere una malattia incurabile; una situazione di implicita inferiorità, di acclarata difficoltà di apprendimento, socialità, auto-sostentamento e autonomia, solo per dirne alcune. Pochi sono coloro che escono dalla considerazione di una dimensione pietistica e, per contro, i più, quelli che vedono il disabile come colui che è, in primis, un soggetto da compatire. Il solito discorso: il disabile è considerato per ciò che non ha piuttosto che per ciò che realmente è e possiede, evitando la regola che tutti, disabili e non, abbiamo competenze, potenzialità e mancanze diverse in base alle nostre caratteristiche personali. Questo atteggiamento è il più esplicito frutto dell’ignoranza che porta, ovviamente, a conclusioni sbagliate. Non solo ignoranza del singolo soggetto, ma di una complessa situazione culturale che genera ignoranza che potremmo chiamare «sociale». Al soggetto con la sua disabilità non è riconosciuta la specificità di «persona» quale portatrice di caratteristiche proprie, ma solo le sue peculiarità «negative». Non si considera, per esempio, che esistono persone autistiche ad alto funzionamento, come tante altre con sindrome di Down di spiccata adattabilità. Tutti sono «automaticamente» relegati a un ruolo di second’ordine e di fragilità tout court, che non permetterebbe un intervento affrontabile con successo e soddisfazione.

Molti coniugano tale ottusità con una semplice ammissione di non adeguata preparazione o, peggio, predisposizione psicologica e professionale!

A rafforzare questa tendenza all’ignoranza circa il mondo della disabilità c’è un’altra realtà, espressa nel rapporto ISTAT 2017, il quale evidenzia come in Italia manchi un’anagrafe concreta delle persone con disabilità. Di esse non si percepisce il tasso di disoccupazione, non si hanno dati aggiornati sull’incidenza della povertà e della deprivazione materiale nelle famiglie con all’interno un disabile e neppure quanti siano i giovani disabili NEET (non impegnati nello studio, né nel lavoro, né nella formazione). Raro, allarmante e rivelatore dato di cui si dispone è che solo il 3% dei disabili frequenta corsi universitari, laddove il possesso di una laurea, è ormai acclarato, rappresenta una potenzialità di autonomia sociale ed economica di prim’ordine.

L’ignoranza, come si vede, non ha consistenza solamente nei nostri giovani universitari, ma dilaga e avvolge ogni strato della società alimentando se stessa di una corrotta negligenza.

La pre-frustrazione verso il compito

Da quanto detto, è facile giungere alla terza possibile ragione che determina un così palese rigetto della disabilità. Questa, altro non è che una combinazione delle due prima esposte: più esattamente, il preconcetto insieme all’ignoranza determinano un sentimento aprioristico di timore e frustrazione.

Ci «limitiamo» a estendere il significato psicologico più generico di frustrazione, indicandolo come quello stato psichico che prova chi ritiene che la propria azione compiuta o da compiere sia o possa essere vana e inutile, con la conseguenza che chi ne è soggiogato prova un senso di delusione, di insoddisfazione che porta, a sua volta, a una condizione di provato sconforto e spesso di rinuncia. La frustrazione, come inibizione di un desiderio, è, quindi, ciò che si frappone tra me e il desiderio/volontà di fare, avere o riuscire in qualcosa.

Spesso essa origina durante l’esercizio di una qualsiasi attività a causa di ragioni diverse, indicate in ambientali, sociali ed endogene. Quelle ambientali sono rappresentate dagli ostacoli presenti nello spazio fisico in cui ci troviamo: l’impossibilità di accedere a un luogo causa una distanza eccessiva, un rumore assordante sul luogo di lavoro, degrado o quant’altro. Contrariamente a queste, che hanno un’origine non dipendente dall’intenzione di alcuno, quelle sociali hanno su di noi un peso maggiore, poiché nascono dalla presenza e dall’azione e dall’interazione con altri individui. Esse si manifestano soprattutto in ambienti nei quali siamo a diretto e forzato contatto con altre persone, esempio la classe, i condòmini o il gruppo dei pari. Imposizioni dei superiori, impossibilità di carriera, di autonomia, di esercizio gratificante della propria professionalità o insegnanti e compagni insensibili ne sono un esempio noto a tutti. In ultimo, le frustrazioni endogene. In queste si è soliti includere quelle familiari: genitori autoritari o ansiosi in rapporto alle proprie necessità di autonomia, aspettative, la nascita di un fratello; personali, come la presenza di una disabilità, un «semplice» difetto fisico o una struttura corporea non adeguata ai canoni estetici ritenuti dominanti.

Come detto, queste molteplici situazioni frustranti insorgono «durante». Nel nostro caso, cioè quello relativo alla disabilità, esse nascono invece ancor prima che la situazione divenga in essere; una sorta, insomma, di prevenzione verso la frustrazione che si è convinti ci assalirebbe nel momento in cui ci affidassimo a un compito nei suoi riguardi.

Con estrema chiarezza gli intervistati ammettono il timore che, ancor prima di iniziare, perderanno, che non riusciranno nel compito adeguatamente e che i loro sforzi saranno vani e poco gratificanti sia per loro, sia per chi dovrebbe, loro tramite, trarre dei giovamenti. Tutto ciò li porta a una preventiva presa di distanza. Questa la ragione maggiormente dichiarata dagli studenti per non scegliere di frequentare il seminario sulla disabilità.

Altra motivazione riscontrata, e peraltro già rivelata dal prof. Canevaro, è compresa nel concetto di delega paradossa.

La delega paradossa

La delega è un atto che si ufficializza laddove qualcuno attribuisce ad altri un compito che sarebbe proprio ma che, per ragioni varie, non si vuole o non si è in grado di portare avanti. Si potrebbe addurre a tal proposito di non avere adeguate competenze, disponibilità temporale, emotiva o, semplicemente, l’umiltà di riconoscere che altri riuscirebbero meglio in quell’incarico specifico. Così, la risoluzione di un problema della nostra auto sarà delegata al meccanico, come la cura del mal di denti al dentista. Il fatto, però, che l’automobile, come i denti, sia del delegante, comporta che egli, comunque, desideri riportare a sé il «risultato», quindi l’azione delegante vive in una prospettiva di allontanamento esclusivamente temporaneo.

Si tratta dunque di un «allontanare per riavvicinare», «consegnare e riportare a sé» e da qui nasce l’espressione «paradossa (paradosso)»: l’intendimento originario, infatti, è che l’intervento sia solo temporaneo.

Quando, invece, il tempo si prolunga troppo o diventa quasi infinito, con un’impossibile e prevedibile ritorno, l’accezione di azione delegante si trasforma in una vera e propria forma di alienazione (Canevaro, 2006). Tale situazione è quella in cui ipotizza di venirsi a trovare, per esempio, l’insegnante di sostegno al quale è delegato, in una sorta di de-responsabilizzazione, l’alunno in difficoltà. L’esasperazione dello specialismo ha portato come conseguenza la convinzione che ci sia l’insegnante di classe per gli alunni «normali» e l’insegnante specializzato, di sostegno, «solo» per quelli speciali e la delega che gli viene consegnata è priva della sua peculiarità, condivisa, del «ritorno». Molti studenti testimoniano, a tal proposito, realtà scolastiche nelle quali i compagni in difficoltà rappresentavano spesso la ragione del malumore professionale, e affatto nascosto, dell’insegnante di sostegno o di altri curriculari, in assenza del primo.

Il tempo

In ultimo, vorremmo avanzare una riflessione sul tempo e come questo possa essere coniugato e interpretato in un eventuale rapporto con la disabilità. «Cos’è dunque il tempo?», si chiede Sant’Agostino. Egli scrive che «in quanto ai due tempi passato e futuro, in qual modo essi sono, quando il passato, da una parte, più non è, e il futuro, dall’altra, ancora non è? In quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non più sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità». Dunque, sembra affermare Agostino, il tempo non esiste se non come luogo e dimensione dell’anima, dove «il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa». Ora, trovarsi in una situazione che non ammette futuro, che non lascia prevedere possibilità di uscita è come vivere in un tempo che è, di per sé, già passato, un presente del passato fatto di sola memoria. Eugenio Borgna (2015) scrive: «Le pazienti [in manicomio], murate in giornate sempre uguali e sempre vuote, vivevano immerse in un tempo pietrificato. […] Non solo nelle pazienti, ma anche in chi le curava e le assisteva, il tempo tendeva a ripetersi inaridendosi, e svuotandosi di senso».

Questa «perdita di senso» della propria azione, come relegata a un’esistenza senza prospettiva, è la stessa che affligge, preconcettualmente, chi pensa e si proietta in un rapporto con la disabilità. Il timore, cioè, di sprofondare in un tempo finito, chiuso, com’è il tempo passato.

Conclusioni

Le considerazioni riportate rimandano a un profondo senso di sconforto, paradossalmente confermato dal fatto che, alla medesima domanda «In quanti partecipereste a un seminario sulla disabilità?», riproposta a ogni fine di corso, l’adesione salga mediamente dal 2-3% a ben oltre il 60-70% dei presenti. Aver rotto le catene dell’ignoranza, e con esse i vincoli del preconcetto, è servito come primo passo a maturare una convinzione che la disabilità può e deve essere un «argomento» interessante e meritevole di attenzione sotto ogni punto di vista, compreso quello professionale.

Bibliografia

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Canevaro A. (2006), Le logiche del confine e del sentiero. Una pedagogia dell’inclusione (per tutti, disabili inclusi), Trento, Erickson.

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Goffman E. (1969), La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino.

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Rosenthal R. e Jacobson L. (1968), Pygmalion in the Classroom, «The Urban review», vol. 3, pp. 16-20.


1 Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo».

2 Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo».

3 I classici pregiudizi o preconcetti nei confronti dei popoli sono, ad esempio: gli zingari sono tutti ladri, i siciliani tutti mafiosi, i genovesi avari, i negri puzzano, gli ebrei sono ricchi e usurai… Gordon Willard Allport, in The Nature of Prejudice (1954), definisce il pregiudizio etnico «un’antipatia basata su una generalizzazione irreversibile e in mala fede».

Vol. 19, Issue 4, November 2020

 

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